Tre modelli a confronto
Breve relazione sulle forme storiche
della regolazione socialista dell’economia
di Gianmarco Pisa, Federazione Prc Napoli
(ringraziamo l'autore per avere messo il testo a disposizione)
1. Sull’economia socialista di piano
All’interno di un sistema socialista a direzione pianificata centrale,
il piano si pone innanzitutto come “metodo”, criterio generale di
determinazione politica delle linee generali della produzione,
orientato all'individuazione delle produzioni strategiche, mediante un
sistema di controllo e direzione, che si articola in due momenti: il
primo quello della definizione politica degli obiettivi generali della
produzione, il secondo quello della partecipazione all'elaborazione del
piano da parte dei singoli responsabili della produzione.
Il piano punta alla determinazione degli obiettivi generali della
crescita economica, della produzione settoriale, e degli assetti
strategici della produzione, secondo una definizione contenuta nel
piano (tipicamente quinquennale, più raramente settennale) definito
appunto ‘prospettico’, in quanto finalizzato a stabilire l'obiettivo
generale di produzione di medio-periodo; e definisce le ricadute
effettive del piano prospettico, che diventa operativo nella forma
di‘piano annuale’ (con i suoi articolati trimestrali o semestrali),
atto a fornire le linee guida delle operazioni economiche da compiere,
le direttive della produzione, le forme dell'interazione tra i vari
comparti produttivi. Qui si inserisce un terzo tipo di piano, che va
sotto il nome di ‘piano degli investimenti’, che fissa gli orientamenti
rispetto alla destinazione degli investimenti produttivi, in ordine
alla quota di pil da destinare all'investimento generale, alla quota di
capitale preventivato da destinare tra i vari settori produttivi, e
infine alla quota di investimento all'interno di ciascun settore. Il
primo orientamento spetta alla dirigenza politica e attiene
strettamente agli obiettivi fissati nel piano prospettico, il secondo
viene preso dai ministeri ed uffici preposti (l'Ufficio Centrale della
Pianificazione stabilisce le coordinate generali del piano e attraverso
i suoi dipartimenti, uffici e ministeri economici le ricadute
particolari) sulla base delle indicazioni emergenti dai dati raccolti
dalla base aziendale, mentre il terzo consta delle decisioni operative
sulla base di un calcolo generale del tasso di interesse e dei tempi di
ammortamento, in un quadro complessivo di gestione a più livelli
dell’intero sistema produttivo.
In questo panorama generale emerge il problema storico dell’economia
sovietica, quello del mantenimento di una forma di mercato ‘socialista’
sotto forma di mantenimento della forma monetaria dello scambio, dovuto
alla permanenza della contraddizione città-campagna e,
conseguentemente, del problema degli approvvigionamenti. Questo
problema determinò la consapevolezza della inopportunità di spingere la
lotta di classe nelle campagne fino alle sue estreme conseguenze
cosicché la collettivizzazione delle campagne non fu resa integrale, ed
accanto al sistema dei sovchoz (le aziende agricole statali, in cui i
contadini lavoravano alle dirette dipendenze dello Stato su una terra
integralmente statalizzata), si affermò quello della cooperazione
contadina nei kolchoz (aziende cooperative non statali, in cui i
contadini cooperatori lavoravano direttamente la terra collettivizzata
con strumenti di produzione di proprietà dello Stato al quale dovevano
poi vendere i loro prodotti).
Il sistema sovietico corrisponde, quindi, alla formulazione socialista
di un sistema economico mediato tra forme statali e cooperative, il che
non traduce in effetti il programma di socializzazione integrale dei
mezzi di produzione (anche in virtù del limite della statalizzazione),
ma risponde alla campagna antikulaki e di conseguenza alla necessità di
assicurare all'egemonia operaia una base salda di collaborazione con il
mondo delle campagne e le fonti di approvvigionamento. Rimaneva
pertanto, di conseguenza, all'interno della pianificazione sovietica,
la validità della legge del valore e la formalizzazione del valore nei
prezzi dei beni, sulla base del lavoro astratto oggettivato contenuto
in essi.
Tale contraddizione all'interno del sistema generale dell'economia di
piano non valse comunque ad inficiare l'impianto generale, appunto per
il carattere non autoregolativo della forma monetaria dello scambio
introdotto nell'Unione e nel sistema delle relazioni tra macrostrutture
distinte (agricoltura, industria, servizi). Se è vero che i prodotti si
scambiano su base mercantile, è anche vero che i prezzi che esprimono
il rapporto di valore all'interno di quella forma di scambio non
esprimono alcun valore aggiunto al bene-merce, come accade nelle
economie capitalistiche, ma semplicemente il valore in sé del
bene-merce sulla base del lavoro sociale oggettivato in esso contenuto
sotto forma di costi diretti della produzione, senza alcuna eccedenza
di valore diversamente capitalizzabile (per esempio sotto forma di
acquisto della forza-lavoro o dei mezzi della produzione, forma
dell’accumulazione capitalistica).
Dal punto di vista strutturale, si può dire che nel sistema economico
sovietico la pianificazione si pone come criterio generale di
regolazione dell’applicazione della legge del valore, in virtù del
quale quest'ultima, pur permanendo come dato all'interno del sistema
della produzione, non assume valore condizionante, nel senso che non
assume alcuna funzione generale di regolazione sociale. Ciò è
dimostrato dalla sostanziale scomparsa delle forme tipicamente
capitalistiche dello “scambio ineguale”, sia nel senso dell'allocazione
sulmercato della forza-lavoro, dal momento che nell'economia sovietica
questa allocazione non esisteva (in quanto il lavoratore non vendeva
privatamente la sua forza-lavoro al capitalista, ma la massa
complessiva di forza-lavoro era allocata nei vari comparti della
produzione sulla base della decisione politica), sia nel senso della
compravendita dei prodotti-merci (in quanto il sistema dello scambio si
fondava non sulla compravendita finalizzata al profitto mediante
accumulazione di quote di valore eccedentarie contenute nel prezzo,
bensì sulla compravendita regolata in sede politica, finalizzata
all'approvvigionamento reciproco mediante una forma monetaria sancita
dal prezzo imposto, uguale ai costi diretti della produzione, sulla
base di una valutazione politica generale orientata all'annullamento
della quota-capitale). .
Ne derivano due conseguenze: la forza-lavoro come valore-lavoro non ha
carattere salariale, dal momento che essa si esprime mediante
aggregazioni salariali su tutti i comparti della vita sociale (l’intero
sistema dei servizi sociali nella struttura sovietica è gratuito) e
come lavoro-vivo non entra all'interno delle quote di capitale
accumulabile dal momento che non esiste proprietà privata dei mezzi di
produzione. Inoltre, l'assenza di unaproprietà privata degli strumenti
della produzione e il sistema della regolazione generale dei prezzi
impedisce la formazione di qualunque profitto aggiuntivo a quello che è
considerato “profitto minimo” (quantità di valore arbitrariamente
fissata in sede politica nell'ambito del computo dei prezzi come
determinazione del valore contenuto nel bene-merce sulla base del
lavoro socialmente necessario), e il sistema stesso della proprietà
statale dei mezzi di produzione fa sì che tutte le quotazioni in conto
capitale (quota del profitto minimo, quote di ammortamento del capitale
fisso, quota generale delle imposte) pertengano al controllo e alla
disponibilità dello Stato e rifluiscano (in quote politicamente
determinate) al sistema delle aziende solo sotto forma di
quote-capitale non capitalizzabili ma investibili unicamente nella
produzione.
La conseguenza del sistema è quella di agire direttamente su tutti i
versanti della composizione sociale del meccanismo della riproduzione,
cioè a dire sui rapporti sociali di produzione: su quello della
forza-lavoro, in quanto ne garantisce la riproducibilità in forme non
capitalistiche, e su quello dei dirigenti delle aziende in quanto
impedisce la maturazione di un plusprofitto e quindi la accumulazione
di capitale. Ciò garantisce il sistema dalla riproduzione della prassi
dell’accumulazione, ma al tempo stesso lo espone al limite della
determinazione simultanea di tutti i singoli fattori della produzione,
compito sostanzialmente inespletabile dal pianificatore in maniera
compiuta, specie se si considerano i limiti della tecnologia sovietica
del software e del calcolo automatico, necessari per questo genere di
operazioni di computo a molteplici livelli.
2. Sull’economia socialista di mercato
La Cina, nella III sessione plenaria dell'XI congresso del Pcc del
1978, ha compiuto una svolta storica, ridislocando il concetto di lotta
di classe, intesa non più come punto centrale del programma del
partito, sostituendolo con quello di “costruzione economica”. Di
conseguenza, la distinzione marxista tra forze produttive e rapporti
sociali di produzione, sebbene rimanga rilevante, viene rivista in
termini diversi da quelli tradizionali, il mercato viene utilizzato
come elemento di dinamizzazione per le forze produttive socialiste e la
nuova condizione del ‘socialismo di mercato’ è finalizzata alla
innovazione economica. Attualmente il sistema produttivo cinese è
ripartito in modo equanime tra il settore pubblico, quello cooperativo
e quello privato, con una leggera preponderanza del primo e all’interno
di un orientamento generale fissato dal piano generale della produzione
sotto la direzione politica del partito. Il risultato di questa
evoluzione si misura nei tassi di crescita dell'economia cinese (10%
circa annuo in tutti gli anni Novanta), un tasso di crescita che
consentirà nel giro di un decennio alla Cina di superare il prodotto
interno lordo Usa. Non stupisce quindi il grado dell’integrazione
dell’economia cinese con la maggiore economia mondiale, quella Usa:
tale integrazione economica si spiega anche con i dati degli scambi: la
Cina esporta 32.4 b$ negli Usa (35% export cinese) e importa 8.8 b$
dagli Usa (2% export statunitense, dati 1999). La Cina rappresenta la
fonte del 7.5% dell'import statunitense, mentre viene dagli Usa il 5%
dell'import Cinese. Si ritiene valutabile in 200.000 posti di lavoro
negli Usa il costo sociale di un taglio dei rapporti con la Cina.
Il XXI secolo si apre per la Cina all'insegna della necessità di
mantenere una propria egemonia strategica nella regione e un proprio
primato rispetto alle economia delle altre ‘tigri asiatiche’, in modo
da confermarle lo status di potenza regionale - e nel medio periodo non
solo regionale - che attualmente le compete, nonostante il
rallentamento dell'ultimo biennio, che comunque non le ha impedito di
mantenere la media di incremento del proprio pil su valori stabilmente
ancorati attorno all'8% annuo in media, e di registrare nel 1999 un
aumento su base annua del valore degli scambi borsistici pari al 50%
superando la media giornaliera dei 13 mld di yuan, un valore di
crescita assolutamente strabiliante. La forza dell'economia cinese si
basa su due pilastri: il sistema misto integrato che caratterizza la
struttura economica, nel quadro del modello socialista di mercato, e le
‘regioni economiche speciali’, con la funzione dinamizzante
dell’economia di mercato a spingere la crescita e il sistema regolativo
centrale, guidato dall’impresa pubblica e dalla forte spinta agli
investimenti, attualmente concentrati nelle regioni dell’interno, ad
assicurare il controllo governativo e a fare da calmiere nei periodi di
recessione. Ciò significa che il modello cinese misto, controllato
dallo Stato ma aperto al libero mercato e in grado di cogliere ogni
occasione di crescita, è percepito come una garanzia di mantenimento di
un tasso di crescita costantemente superiore a quello della stragrande
maggioranza degli altri paesi del mondo, tanto è vero che la bilancia
commerciale ha fatto segnare per il 1999 un surplus di 30 mld di
dollari, con riserve straniere che ammontano a quasi 150 mld di
dollari, parzialmente convertiti in euro.
Dopo aver viaggiato agli inizi degli anni Novanta su punte massime
addirittura superiori al 14% nei casi record, attualmente il pil
viaggia intorno a valori più regolari e stabili del 7-8% annuo, con un
tasso di crescita delle esportazioni introno al 6-8%, arrivando a circa
200 mld $ nell'insieme nel 2000. Se a ciò si aggiunge che il volume
degli scambi negli ultimi 25 anni è passato da 20 a 450 mld $, cioè si
è moltiplicato di ben 25 volte (quello americano di appena 8.5 volte)
si può affermare che la Cina è destinata a giocare un ruolo chiave
nell'economia mondiale già a partire da questa generazione. Questo,
però, non significa per la Cina la soluzione di tutti i problemi, anzi:
la crescita della domanda interna, che pure viaggia a ritmi assai
sostenuti, tra il 6 e l'8% annuo, non è in grado da sola di fare da
traino ad una ripresa così vigorosa dell'economia. In particolare, il
sistema bancario è in difficoltà: tra sofferenze (3%) e crediti
dichiarati inesigibili (9%) i problemi finanziari delle banche hanno
raggiunto una dimensione tale che si è reso necessario l'intervento
della banca centrale per garantire la tenuta dell'intero sistema. La
prevista riconversione di una parte delle aree destinate alla
coltivazione del cotone, del riso e dello zucchero, con l'obiettivo di
migliorarne la qualità, aumentarne le quotazioni sul mercato, favorire
una maggiore diversificazione della produzione agricola, incoraggiando
anche colture più remunerative, ha ricevuto un forte impulso, ma
procede ancora lentamente, rivelandosi ancora una volta l’agricoltura
l'anello debole della catena produttiva cinese - come del resto è
sempre stato storicamente per tutti i sistemi a guida
grande-industriale. Una peculiarità del sistema cinese del socialismo
di mercato è la non armonicità del sistema creditizio: il 75% del pil
proviene dai settori privati, che però hanno accesso soltanto al 35%
dell'ammontare dei crediti bancari, laddove il restante 25% della quota
pil dovuta al settore pubblico è finanziato ancora per il 65% dal
credito bancario. E’ una caratteristica significativa, perché rende
ragione della centralità pubblica della direzione del meccanismo della
riproduzione economica in Cina. E’ noto che l'economia cinese del
resto, prova a evolvere sul duplice binario del mercato e della
direzione socialista dell’economia, puntando da una parte a chiudere le
imprese di Stato improduttive e dall'altra a mantenere in piedi e
cercare anzi di potenziare quelle redditizie, secondo un progetto di
integrazione competitiva tra le due economie, che potrebbe
rappresentare una sintesi originale delle esperienze storiche
precedenti ed anche un modo di tenere insieme l'esigenza di una
maggiore competitività sui mercati finanziari mondiali e quella di
garantire un livello di protezione sociale, adeguato agli standard
socialisti, alla luce di un’esigenza resa impellente dalla complessità
della struttura sociale interna della Cina.
In questo quadro è da interpretarsi il progetto degli investimenti per
infrastrutture strategiche messo in cantiere dal governo cinese per
l'ammodernamento di tutto il sistema-paese in un arco di tempo
decennale a partire dal 1999, nonché altri provvedimenti significativi:
l'entrata in vigore della nuova legge che elimina il monopolio statale
sui movimenti del mercato del lavoro (assunzioni e licenziamenti),
affidandoli anche a enti parastatali o privati sotto controllo
pubblico, ed il lancio del software “red flag linus” per
l'informatizzazione dell'apparato amministrativo. La vera forza
dell'ammodernamento della Cina è probabilmente il settore delle
comunicazioni: in questo ambito si inseriscono il piano di
razionalizzazione delle 27 compagnie aeree del paese, che hanno
determinato nel 1999 un volume d'affari di 1mld $ di profitti per 65
mln di passeggeri, attorno ai tre poli dell'Air China su Pechino, la
China Eastern su Shanghai, e la China Southern a Guangdong; il piano
commerciale di interscambio con l'Ue (la Cina con il10% del volume
totale è già oggi il terzo fornitore del nostro paese dopo Francia e
Germania e punta ad una vera e propria egemonia dei mercati mondiali,
grazie soprattutto alla competitività dei suoi prodotti, in virtù del
basso costo del lavoro); il piano Internet (su cui il governo cinese
esercita un rigoroso controllo ma che ha già aperto a decine di mln di
abbonati); ed infine, la conquista più recente, l'ingresso ufficiale
della Cina nel Wto del 2002. L'ingresso formale della Cina nel Wto è
stato assicurato a Ginevra il 17/9/2001, e ufficializzato durante il
Wto round in Quatar: l'ingresso ripropone la questione della
competitività del sistema cinese, ma anche il suo ruolo di regolatore
degli scambi nell’area Asean (di cui diede prova già al tempo della
crisi del Sudest asiatico, recuperata proprio grazie alla politica
valutaria decisa dal governo cinese e alla non svalutazione della sua
moneta). Del resto la Cina punta a essere competitiva per determinati
comparti produttivi e a battere la concorrenzadi altri paesi in via di
sviluppo e che figurano tra i 146 membri del Wto. In particolare, il
documento sottoscritto a Ginevra, che è la piattaforma dell'ingresso
della Cina, contiene un capitolo, che è la grande vittoria politica di
Pechino, in cui, a dispetto del fatto che a partire dal 2010 il pil
della Cina raggiungerà quello americano, è stato stabilito che sino al
2008 i cinesi pagheranno per ben 1600 prodotti dazi inferiori all'1%,
in virtù dello status di “nazione povera” ad essa concesso, il che le
ha già provocato l'accusa di fare una politica di vero e proprio
dumping sociale.
3. Sull’autogestione
Il sistema dell’autogestione corrisponde alla formazione economica
adottata in Jugoslavia a partire dal 1950, anno in cui, a seguito dei
limiti del sistema di pianificazione centrale adottato precedentemente
(bassa accumulazione causata dalla mancata decentralizzazione
produttiva, scarsa diversificazione qualitativa dei prodotti, carente
formazione di quadri nelle diverse specializzazioni
tecnico-produttive), è stata assunta le decisione di passare alla forma
dell’autogestione. Questa si basa sulla struttura del consiglio
operaio, che è un organismo sociale, formalmente non collocato sotto il
controllo del partito, incaricato della direzione della produzione e
delle relazioni industriali. Il modello ha consentito, attraverso il
controllo diretto della produzione e la riduzione degli addetti
dell’apparato, una maggiore aderenza al mercato, la regolazione della
produzione sulla base della legge della domanda e dell’offerta (con
conseguente diversificazione produttiva), ma anche, d’altra parte, una
certa sperequazione tra le diverse imprese, quanto alla
compartecipazione del reddito complessivo prodotto, e tra le diverse
regioni della Federazione, dovuta aldiverso ritmo di sviluppo e alla
non omogenea industrializzazione del Paese. Non a caso a seguito
dell’adozione dell’autogestione, che ha finito con il migliorare la
produzione, ma anche con l’accrescere simili disparità, si è imposta
una modalità nuova di intervento dello Stato centrale, che regola la
compartecipazione al reddito agendo soprattutto mediante la leva degli
investimenti e attraverso l’imposizione di barriere doganali volte a
difendere la produzione industriale.
Lo Stato acquisisce all’interno del sistema la funzione di orientamento
e riequilibrio attraverso la leva dei fondi di investimento, che
mediamente raccolgono circa il 50% dei profitti della Federazione;
viceversa, il Partito non detiene un ruolo centrale, se non quello
della definizione ideologica della funzione della autogestione e
dell’autogoverno e, conseguentemente, quello della regolazione sociale
del consenso, attraverso gli organismi sociali di massa. In altre
parole, il partito agisce tra le masse attraverso i suoi quadri che
sostengono le posizioni generali negli organismi, ma senza esercita una
direzione politica impositiva all’interno dei consigli: non a caso,
esso possiede un funzionariato piuttosto ridotto e ha un funzionamento
interno decisamente snello, specialmente se comparato con gli organismi
dei partiti al potere nelle altre democrazie popolari. Il partito, ha,
invece, un ruolo cruciale al di fuori dei luoghi della produzione, dove
funge da organizzatore sociale, attraverso le assemblee, nei suoi vari
gradi, e svolge questo ruolo di concerto con i consigli dei produttori,
pur esercitando in questo caso una funzione dirigente più esplicita:
formalmente, comunque, le assemblee di partito e i consigli dei
produttori hanno diritti uguali per i problemi di rispettiva competenza
e possono tenere sedute comuni per problemi comuni.
All’interno del quadro economico generale, tutte le attività produttive
sono autogestite e le forze produttive fondamentali, di proprietà
sociale, sono controllate dai consigli dei lavoratori, eccezion fatta
per la terra (di proprietà statale) e per alcuni settori
dell’artigianato (che hanno una regolazione diversa e privatistica). Il
consiglio operaio è una struttura assembleare elettiva (è eletto dalle
maestranze): i suoi membri non sono remunerati e tutti i membri devono
essere attivi all’interno della produzione. Pur essendo una struttura
sostanzialmente leggera, e comunque poco burocratizzata, in ragione
della gran mole di ambiti sui quali interviene (sostanzialmente, tutte
le questioni del lavoro, della produzione e delle relazioni
industriali), esso si struttura in commissioni interne, di cui possono
far parte anche operai non membri del consiglio (democrazia interna).
Il consiglio operaio detiene il potere formale ed effettivo nella
produzione e le sue decisioni, oltre ad essere vincolanti, non possono
essere annullate se non dal consiglio medesimo. Il reddito netto delle
aziende viene diviso in base ad una legge apposita (definita ‘legge dei
salari’) e ripartito nei diversi fondi di investimento per la quota
destinata allo Stato; il salario viene invece garantito dall’unità
produttiva per l’80% e per il restante 20% compartecipato dallo Stato,
che detiene il controllo di un fondo, da cui si estrae una quota
eccedentaria corrisposta al lavoratore in premio (qualcosa di simile,
per intenderci, alla nostra 13a). Il reddito nel sistema jugoslavoè
diviso tra salari per i lavoratori, quota destinata alla comune, quota
destinata all’accumulazione o al consumo (questa è una voce variabile,
a seconda della decisione del consiglio di fabbrica). Il sindacato
svolge una funzione importante: partecipa alla fissazione dei salari,
si occupa della previdenza, gestisce le funzioni ricreative e,
parzialmente, associative.
Il vantaggio principale dell’autogestione è indubbiamente connesso con
la possibilità di associare direttamente alla direzione del sistema
produttivo la classe operaia: da questo punto di vista, in effetti, vi
è una divisione delle mansioni di responsabilità, dal momento che,
all’interno della fabbrica, la responsabilità tecnica e legale è del
direttore, ma la responsabilità generale di direzione ed organizzazione
della produzione è del consiglio di fabbrica; il suo svantaggio
probabilmente è quello di non garantire necessariamente uno sviluppo
armonico della produzione e di non poter impedire un ruolo socialmente
regolativo della legge del valore e della funzione di mercato
(permanenza della validità della legge della domanda e dell’offerta).
Non a caso, lo Stato, anche in regime di autogestione, interviene con
diversi mezzi per riequilibrare gli scompensi: non solo gli
investimenti, ma anche, ad esempio, gli incentivi materiali, il
controllo del commercio estero della valuta, la predisposizione di
fondi speciali di sostegno per le regioni arretrate.
Pur garantendo uno sviluppo dell’economia in senso socialista, grazie
soprattutto alla funzione dello Stato, il sistema economico resta
duale, e può essere definito come un sistema a economia pianificata di
mercato. In questo sistema un ruolo centrale rivestono le cooperative,
il cui sviluppo è stato storicamente condizionato dallo sviluppo della
meccanica e dell’industrializzazione del paese (macchine e
fertilizzanti) e la cui funzione è quella dell’organizzazione della
produzione contadina sulla base di un modello
solidaristico-collettivistico (vicino a quello del kolchoz sovietico);
il sistema delle cooperative costituisce, in effetti, nel sistema
economico jugoslavo, la funzione di controllo dell’intero lavoro dei
contadini, non esistendo un sistema di aziende agricole di Stato
sufficientemente esteso.
L’assenza di direzione politica effettiva del partito all’interno dei
luoghi della produzione fa sì che si registri una singolare
non-omogeneità politica tra i lavoratori medesimi rispetto alle grandi
questioni teorico-politiche ed ideologiche: erano, ad esempio, diffuse
tra i lavoratori jugoslavi, posizioni che sostenevano che
l’autogestione consentisse una trasformazione delle basi materiali del
sistema capitalistico, rendendolo,di conseguenza, accettabile, oppure
che ritenevano non vi fosse una frontiera geografica ed economica tra i
Paesi del blocco socialista e quelli capitalisti, segno, questo,
probabilmente, della notevole apertura al mercato internazionale da
parte della Jugoslavia, in rapporto agli altri Paesi del blocco
socialista, e della sua mancata adesione al Comecon.
Si registrano, inoltre, interventi attivi, sebbene sporadici, dello
Stato all’interno del sistema di fabbrica per fermare il
corporativismo, altra minaccia al sistema dell’autogestione; in ogni
caso, anche in circostanze di questo genere, non è il partito che
interviene. Del resto i meccanismi del controllo, nella realtà
produttiva jugoslava, risultano essere decisamente ridotti,
riguardando, in prevalenza, controlli di legittimità e di rispetto
della legge, anche in virtù della sostanziale assenza di conflitti
interni al sistema delle relazioni di fabbrica. Lo stesso apparato
ispettivo della Federazione, nonché le commissioni di controllo del
partito sono relativamente modeste e impegnate in circostanze
specifiche generalmente non concernenti conflitti di lavoro; da questo
punto di vista si può dire che il risultato più importante conseguito
dal modello dell’autogestione è proprio quello di aver coniugato in
maniera più efficace di altri sistemi storicamente sviluppati le
esigenze della produzione con quelli di un’effettiva democrazia
socialista in generale, e, in particolare, sui luoghi di lavoro.
Breve relazione sulle forme storiche
della regolazione socialista dell’economia
di Gianmarco Pisa, Federazione Prc Napoli
(ringraziamo l'autore per avere messo il testo a disposizione)
1. Sull’economia socialista di piano
All’interno di un sistema socialista a direzione pianificata centrale,
il piano si pone innanzitutto come “metodo”, criterio generale di
determinazione politica delle linee generali della produzione,
orientato all'individuazione delle produzioni strategiche, mediante un
sistema di controllo e direzione, che si articola in due momenti: il
primo quello della definizione politica degli obiettivi generali della
produzione, il secondo quello della partecipazione all'elaborazione del
piano da parte dei singoli responsabili della produzione.
Il piano punta alla determinazione degli obiettivi generali della
crescita economica, della produzione settoriale, e degli assetti
strategici della produzione, secondo una definizione contenuta nel
piano (tipicamente quinquennale, più raramente settennale) definito
appunto ‘prospettico’, in quanto finalizzato a stabilire l'obiettivo
generale di produzione di medio-periodo; e definisce le ricadute
effettive del piano prospettico, che diventa operativo nella forma
di‘piano annuale’ (con i suoi articolati trimestrali o semestrali),
atto a fornire le linee guida delle operazioni economiche da compiere,
le direttive della produzione, le forme dell'interazione tra i vari
comparti produttivi. Qui si inserisce un terzo tipo di piano, che va
sotto il nome di ‘piano degli investimenti’, che fissa gli orientamenti
rispetto alla destinazione degli investimenti produttivi, in ordine
alla quota di pil da destinare all'investimento generale, alla quota di
capitale preventivato da destinare tra i vari settori produttivi, e
infine alla quota di investimento all'interno di ciascun settore. Il
primo orientamento spetta alla dirigenza politica e attiene
strettamente agli obiettivi fissati nel piano prospettico, il secondo
viene preso dai ministeri ed uffici preposti (l'Ufficio Centrale della
Pianificazione stabilisce le coordinate generali del piano e attraverso
i suoi dipartimenti, uffici e ministeri economici le ricadute
particolari) sulla base delle indicazioni emergenti dai dati raccolti
dalla base aziendale, mentre il terzo consta delle decisioni operative
sulla base di un calcolo generale del tasso di interesse e dei tempi di
ammortamento, in un quadro complessivo di gestione a più livelli
dell’intero sistema produttivo.
In questo panorama generale emerge il problema storico dell’economia
sovietica, quello del mantenimento di una forma di mercato ‘socialista’
sotto forma di mantenimento della forma monetaria dello scambio, dovuto
alla permanenza della contraddizione città-campagna e,
conseguentemente, del problema degli approvvigionamenti. Questo
problema determinò la consapevolezza della inopportunità di spingere la
lotta di classe nelle campagne fino alle sue estreme conseguenze
cosicché la collettivizzazione delle campagne non fu resa integrale, ed
accanto al sistema dei sovchoz (le aziende agricole statali, in cui i
contadini lavoravano alle dirette dipendenze dello Stato su una terra
integralmente statalizzata), si affermò quello della cooperazione
contadina nei kolchoz (aziende cooperative non statali, in cui i
contadini cooperatori lavoravano direttamente la terra collettivizzata
con strumenti di produzione di proprietà dello Stato al quale dovevano
poi vendere i loro prodotti).
Il sistema sovietico corrisponde, quindi, alla formulazione socialista
di un sistema economico mediato tra forme statali e cooperative, il che
non traduce in effetti il programma di socializzazione integrale dei
mezzi di produzione (anche in virtù del limite della statalizzazione),
ma risponde alla campagna antikulaki e di conseguenza alla necessità di
assicurare all'egemonia operaia una base salda di collaborazione con il
mondo delle campagne e le fonti di approvvigionamento. Rimaneva
pertanto, di conseguenza, all'interno della pianificazione sovietica,
la validità della legge del valore e la formalizzazione del valore nei
prezzi dei beni, sulla base del lavoro astratto oggettivato contenuto
in essi.
Tale contraddizione all'interno del sistema generale dell'economia di
piano non valse comunque ad inficiare l'impianto generale, appunto per
il carattere non autoregolativo della forma monetaria dello scambio
introdotto nell'Unione e nel sistema delle relazioni tra macrostrutture
distinte (agricoltura, industria, servizi). Se è vero che i prodotti si
scambiano su base mercantile, è anche vero che i prezzi che esprimono
il rapporto di valore all'interno di quella forma di scambio non
esprimono alcun valore aggiunto al bene-merce, come accade nelle
economie capitalistiche, ma semplicemente il valore in sé del
bene-merce sulla base del lavoro sociale oggettivato in esso contenuto
sotto forma di costi diretti della produzione, senza alcuna eccedenza
di valore diversamente capitalizzabile (per esempio sotto forma di
acquisto della forza-lavoro o dei mezzi della produzione, forma
dell’accumulazione capitalistica).
Dal punto di vista strutturale, si può dire che nel sistema economico
sovietico la pianificazione si pone come criterio generale di
regolazione dell’applicazione della legge del valore, in virtù del
quale quest'ultima, pur permanendo come dato all'interno del sistema
della produzione, non assume valore condizionante, nel senso che non
assume alcuna funzione generale di regolazione sociale. Ciò è
dimostrato dalla sostanziale scomparsa delle forme tipicamente
capitalistiche dello “scambio ineguale”, sia nel senso dell'allocazione
sulmercato della forza-lavoro, dal momento che nell'economia sovietica
questa allocazione non esisteva (in quanto il lavoratore non vendeva
privatamente la sua forza-lavoro al capitalista, ma la massa
complessiva di forza-lavoro era allocata nei vari comparti della
produzione sulla base della decisione politica), sia nel senso della
compravendita dei prodotti-merci (in quanto il sistema dello scambio si
fondava non sulla compravendita finalizzata al profitto mediante
accumulazione di quote di valore eccedentarie contenute nel prezzo,
bensì sulla compravendita regolata in sede politica, finalizzata
all'approvvigionamento reciproco mediante una forma monetaria sancita
dal prezzo imposto, uguale ai costi diretti della produzione, sulla
base di una valutazione politica generale orientata all'annullamento
della quota-capitale). .
Ne derivano due conseguenze: la forza-lavoro come valore-lavoro non ha
carattere salariale, dal momento che essa si esprime mediante
aggregazioni salariali su tutti i comparti della vita sociale (l’intero
sistema dei servizi sociali nella struttura sovietica è gratuito) e
come lavoro-vivo non entra all'interno delle quote di capitale
accumulabile dal momento che non esiste proprietà privata dei mezzi di
produzione. Inoltre, l'assenza di unaproprietà privata degli strumenti
della produzione e il sistema della regolazione generale dei prezzi
impedisce la formazione di qualunque profitto aggiuntivo a quello che è
considerato “profitto minimo” (quantità di valore arbitrariamente
fissata in sede politica nell'ambito del computo dei prezzi come
determinazione del valore contenuto nel bene-merce sulla base del
lavoro socialmente necessario), e il sistema stesso della proprietà
statale dei mezzi di produzione fa sì che tutte le quotazioni in conto
capitale (quota del profitto minimo, quote di ammortamento del capitale
fisso, quota generale delle imposte) pertengano al controllo e alla
disponibilità dello Stato e rifluiscano (in quote politicamente
determinate) al sistema delle aziende solo sotto forma di
quote-capitale non capitalizzabili ma investibili unicamente nella
produzione.
La conseguenza del sistema è quella di agire direttamente su tutti i
versanti della composizione sociale del meccanismo della riproduzione,
cioè a dire sui rapporti sociali di produzione: su quello della
forza-lavoro, in quanto ne garantisce la riproducibilità in forme non
capitalistiche, e su quello dei dirigenti delle aziende in quanto
impedisce la maturazione di un plusprofitto e quindi la accumulazione
di capitale. Ciò garantisce il sistema dalla riproduzione della prassi
dell’accumulazione, ma al tempo stesso lo espone al limite della
determinazione simultanea di tutti i singoli fattori della produzione,
compito sostanzialmente inespletabile dal pianificatore in maniera
compiuta, specie se si considerano i limiti della tecnologia sovietica
del software e del calcolo automatico, necessari per questo genere di
operazioni di computo a molteplici livelli.
2. Sull’economia socialista di mercato
La Cina, nella III sessione plenaria dell'XI congresso del Pcc del
1978, ha compiuto una svolta storica, ridislocando il concetto di lotta
di classe, intesa non più come punto centrale del programma del
partito, sostituendolo con quello di “costruzione economica”. Di
conseguenza, la distinzione marxista tra forze produttive e rapporti
sociali di produzione, sebbene rimanga rilevante, viene rivista in
termini diversi da quelli tradizionali, il mercato viene utilizzato
come elemento di dinamizzazione per le forze produttive socialiste e la
nuova condizione del ‘socialismo di mercato’ è finalizzata alla
innovazione economica. Attualmente il sistema produttivo cinese è
ripartito in modo equanime tra il settore pubblico, quello cooperativo
e quello privato, con una leggera preponderanza del primo e all’interno
di un orientamento generale fissato dal piano generale della produzione
sotto la direzione politica del partito. Il risultato di questa
evoluzione si misura nei tassi di crescita dell'economia cinese (10%
circa annuo in tutti gli anni Novanta), un tasso di crescita che
consentirà nel giro di un decennio alla Cina di superare il prodotto
interno lordo Usa. Non stupisce quindi il grado dell’integrazione
dell’economia cinese con la maggiore economia mondiale, quella Usa:
tale integrazione economica si spiega anche con i dati degli scambi: la
Cina esporta 32.4 b$ negli Usa (35% export cinese) e importa 8.8 b$
dagli Usa (2% export statunitense, dati 1999). La Cina rappresenta la
fonte del 7.5% dell'import statunitense, mentre viene dagli Usa il 5%
dell'import Cinese. Si ritiene valutabile in 200.000 posti di lavoro
negli Usa il costo sociale di un taglio dei rapporti con la Cina.
Il XXI secolo si apre per la Cina all'insegna della necessità di
mantenere una propria egemonia strategica nella regione e un proprio
primato rispetto alle economia delle altre ‘tigri asiatiche’, in modo
da confermarle lo status di potenza regionale - e nel medio periodo non
solo regionale - che attualmente le compete, nonostante il
rallentamento dell'ultimo biennio, che comunque non le ha impedito di
mantenere la media di incremento del proprio pil su valori stabilmente
ancorati attorno all'8% annuo in media, e di registrare nel 1999 un
aumento su base annua del valore degli scambi borsistici pari al 50%
superando la media giornaliera dei 13 mld di yuan, un valore di
crescita assolutamente strabiliante. La forza dell'economia cinese si
basa su due pilastri: il sistema misto integrato che caratterizza la
struttura economica, nel quadro del modello socialista di mercato, e le
‘regioni economiche speciali’, con la funzione dinamizzante
dell’economia di mercato a spingere la crescita e il sistema regolativo
centrale, guidato dall’impresa pubblica e dalla forte spinta agli
investimenti, attualmente concentrati nelle regioni dell’interno, ad
assicurare il controllo governativo e a fare da calmiere nei periodi di
recessione. Ciò significa che il modello cinese misto, controllato
dallo Stato ma aperto al libero mercato e in grado di cogliere ogni
occasione di crescita, è percepito come una garanzia di mantenimento di
un tasso di crescita costantemente superiore a quello della stragrande
maggioranza degli altri paesi del mondo, tanto è vero che la bilancia
commerciale ha fatto segnare per il 1999 un surplus di 30 mld di
dollari, con riserve straniere che ammontano a quasi 150 mld di
dollari, parzialmente convertiti in euro.
Dopo aver viaggiato agli inizi degli anni Novanta su punte massime
addirittura superiori al 14% nei casi record, attualmente il pil
viaggia intorno a valori più regolari e stabili del 7-8% annuo, con un
tasso di crescita delle esportazioni introno al 6-8%, arrivando a circa
200 mld $ nell'insieme nel 2000. Se a ciò si aggiunge che il volume
degli scambi negli ultimi 25 anni è passato da 20 a 450 mld $, cioè si
è moltiplicato di ben 25 volte (quello americano di appena 8.5 volte)
si può affermare che la Cina è destinata a giocare un ruolo chiave
nell'economia mondiale già a partire da questa generazione. Questo,
però, non significa per la Cina la soluzione di tutti i problemi, anzi:
la crescita della domanda interna, che pure viaggia a ritmi assai
sostenuti, tra il 6 e l'8% annuo, non è in grado da sola di fare da
traino ad una ripresa così vigorosa dell'economia. In particolare, il
sistema bancario è in difficoltà: tra sofferenze (3%) e crediti
dichiarati inesigibili (9%) i problemi finanziari delle banche hanno
raggiunto una dimensione tale che si è reso necessario l'intervento
della banca centrale per garantire la tenuta dell'intero sistema. La
prevista riconversione di una parte delle aree destinate alla
coltivazione del cotone, del riso e dello zucchero, con l'obiettivo di
migliorarne la qualità, aumentarne le quotazioni sul mercato, favorire
una maggiore diversificazione della produzione agricola, incoraggiando
anche colture più remunerative, ha ricevuto un forte impulso, ma
procede ancora lentamente, rivelandosi ancora una volta l’agricoltura
l'anello debole della catena produttiva cinese - come del resto è
sempre stato storicamente per tutti i sistemi a guida
grande-industriale. Una peculiarità del sistema cinese del socialismo
di mercato è la non armonicità del sistema creditizio: il 75% del pil
proviene dai settori privati, che però hanno accesso soltanto al 35%
dell'ammontare dei crediti bancari, laddove il restante 25% della quota
pil dovuta al settore pubblico è finanziato ancora per il 65% dal
credito bancario. E’ una caratteristica significativa, perché rende
ragione della centralità pubblica della direzione del meccanismo della
riproduzione economica in Cina. E’ noto che l'economia cinese del
resto, prova a evolvere sul duplice binario del mercato e della
direzione socialista dell’economia, puntando da una parte a chiudere le
imprese di Stato improduttive e dall'altra a mantenere in piedi e
cercare anzi di potenziare quelle redditizie, secondo un progetto di
integrazione competitiva tra le due economie, che potrebbe
rappresentare una sintesi originale delle esperienze storiche
precedenti ed anche un modo di tenere insieme l'esigenza di una
maggiore competitività sui mercati finanziari mondiali e quella di
garantire un livello di protezione sociale, adeguato agli standard
socialisti, alla luce di un’esigenza resa impellente dalla complessità
della struttura sociale interna della Cina.
In questo quadro è da interpretarsi il progetto degli investimenti per
infrastrutture strategiche messo in cantiere dal governo cinese per
l'ammodernamento di tutto il sistema-paese in un arco di tempo
decennale a partire dal 1999, nonché altri provvedimenti significativi:
l'entrata in vigore della nuova legge che elimina il monopolio statale
sui movimenti del mercato del lavoro (assunzioni e licenziamenti),
affidandoli anche a enti parastatali o privati sotto controllo
pubblico, ed il lancio del software “red flag linus” per
l'informatizzazione dell'apparato amministrativo. La vera forza
dell'ammodernamento della Cina è probabilmente il settore delle
comunicazioni: in questo ambito si inseriscono il piano di
razionalizzazione delle 27 compagnie aeree del paese, che hanno
determinato nel 1999 un volume d'affari di 1mld $ di profitti per 65
mln di passeggeri, attorno ai tre poli dell'Air China su Pechino, la
China Eastern su Shanghai, e la China Southern a Guangdong; il piano
commerciale di interscambio con l'Ue (la Cina con il10% del volume
totale è già oggi il terzo fornitore del nostro paese dopo Francia e
Germania e punta ad una vera e propria egemonia dei mercati mondiali,
grazie soprattutto alla competitività dei suoi prodotti, in virtù del
basso costo del lavoro); il piano Internet (su cui il governo cinese
esercita un rigoroso controllo ma che ha già aperto a decine di mln di
abbonati); ed infine, la conquista più recente, l'ingresso ufficiale
della Cina nel Wto del 2002. L'ingresso formale della Cina nel Wto è
stato assicurato a Ginevra il 17/9/2001, e ufficializzato durante il
Wto round in Quatar: l'ingresso ripropone la questione della
competitività del sistema cinese, ma anche il suo ruolo di regolatore
degli scambi nell’area Asean (di cui diede prova già al tempo della
crisi del Sudest asiatico, recuperata proprio grazie alla politica
valutaria decisa dal governo cinese e alla non svalutazione della sua
moneta). Del resto la Cina punta a essere competitiva per determinati
comparti produttivi e a battere la concorrenzadi altri paesi in via di
sviluppo e che figurano tra i 146 membri del Wto. In particolare, il
documento sottoscritto a Ginevra, che è la piattaforma dell'ingresso
della Cina, contiene un capitolo, che è la grande vittoria politica di
Pechino, in cui, a dispetto del fatto che a partire dal 2010 il pil
della Cina raggiungerà quello americano, è stato stabilito che sino al
2008 i cinesi pagheranno per ben 1600 prodotti dazi inferiori all'1%,
in virtù dello status di “nazione povera” ad essa concesso, il che le
ha già provocato l'accusa di fare una politica di vero e proprio
dumping sociale.
3. Sull’autogestione
Il sistema dell’autogestione corrisponde alla formazione economica
adottata in Jugoslavia a partire dal 1950, anno in cui, a seguito dei
limiti del sistema di pianificazione centrale adottato precedentemente
(bassa accumulazione causata dalla mancata decentralizzazione
produttiva, scarsa diversificazione qualitativa dei prodotti, carente
formazione di quadri nelle diverse specializzazioni
tecnico-produttive), è stata assunta le decisione di passare alla forma
dell’autogestione. Questa si basa sulla struttura del consiglio
operaio, che è un organismo sociale, formalmente non collocato sotto il
controllo del partito, incaricato della direzione della produzione e
delle relazioni industriali. Il modello ha consentito, attraverso il
controllo diretto della produzione e la riduzione degli addetti
dell’apparato, una maggiore aderenza al mercato, la regolazione della
produzione sulla base della legge della domanda e dell’offerta (con
conseguente diversificazione produttiva), ma anche, d’altra parte, una
certa sperequazione tra le diverse imprese, quanto alla
compartecipazione del reddito complessivo prodotto, e tra le diverse
regioni della Federazione, dovuta aldiverso ritmo di sviluppo e alla
non omogenea industrializzazione del Paese. Non a caso a seguito
dell’adozione dell’autogestione, che ha finito con il migliorare la
produzione, ma anche con l’accrescere simili disparità, si è imposta
una modalità nuova di intervento dello Stato centrale, che regola la
compartecipazione al reddito agendo soprattutto mediante la leva degli
investimenti e attraverso l’imposizione di barriere doganali volte a
difendere la produzione industriale.
Lo Stato acquisisce all’interno del sistema la funzione di orientamento
e riequilibrio attraverso la leva dei fondi di investimento, che
mediamente raccolgono circa il 50% dei profitti della Federazione;
viceversa, il Partito non detiene un ruolo centrale, se non quello
della definizione ideologica della funzione della autogestione e
dell’autogoverno e, conseguentemente, quello della regolazione sociale
del consenso, attraverso gli organismi sociali di massa. In altre
parole, il partito agisce tra le masse attraverso i suoi quadri che
sostengono le posizioni generali negli organismi, ma senza esercita una
direzione politica impositiva all’interno dei consigli: non a caso,
esso possiede un funzionariato piuttosto ridotto e ha un funzionamento
interno decisamente snello, specialmente se comparato con gli organismi
dei partiti al potere nelle altre democrazie popolari. Il partito, ha,
invece, un ruolo cruciale al di fuori dei luoghi della produzione, dove
funge da organizzatore sociale, attraverso le assemblee, nei suoi vari
gradi, e svolge questo ruolo di concerto con i consigli dei produttori,
pur esercitando in questo caso una funzione dirigente più esplicita:
formalmente, comunque, le assemblee di partito e i consigli dei
produttori hanno diritti uguali per i problemi di rispettiva competenza
e possono tenere sedute comuni per problemi comuni.
All’interno del quadro economico generale, tutte le attività produttive
sono autogestite e le forze produttive fondamentali, di proprietà
sociale, sono controllate dai consigli dei lavoratori, eccezion fatta
per la terra (di proprietà statale) e per alcuni settori
dell’artigianato (che hanno una regolazione diversa e privatistica). Il
consiglio operaio è una struttura assembleare elettiva (è eletto dalle
maestranze): i suoi membri non sono remunerati e tutti i membri devono
essere attivi all’interno della produzione. Pur essendo una struttura
sostanzialmente leggera, e comunque poco burocratizzata, in ragione
della gran mole di ambiti sui quali interviene (sostanzialmente, tutte
le questioni del lavoro, della produzione e delle relazioni
industriali), esso si struttura in commissioni interne, di cui possono
far parte anche operai non membri del consiglio (democrazia interna).
Il consiglio operaio detiene il potere formale ed effettivo nella
produzione e le sue decisioni, oltre ad essere vincolanti, non possono
essere annullate se non dal consiglio medesimo. Il reddito netto delle
aziende viene diviso in base ad una legge apposita (definita ‘legge dei
salari’) e ripartito nei diversi fondi di investimento per la quota
destinata allo Stato; il salario viene invece garantito dall’unità
produttiva per l’80% e per il restante 20% compartecipato dallo Stato,
che detiene il controllo di un fondo, da cui si estrae una quota
eccedentaria corrisposta al lavoratore in premio (qualcosa di simile,
per intenderci, alla nostra 13a). Il reddito nel sistema jugoslavoè
diviso tra salari per i lavoratori, quota destinata alla comune, quota
destinata all’accumulazione o al consumo (questa è una voce variabile,
a seconda della decisione del consiglio di fabbrica). Il sindacato
svolge una funzione importante: partecipa alla fissazione dei salari,
si occupa della previdenza, gestisce le funzioni ricreative e,
parzialmente, associative.
Il vantaggio principale dell’autogestione è indubbiamente connesso con
la possibilità di associare direttamente alla direzione del sistema
produttivo la classe operaia: da questo punto di vista, in effetti, vi
è una divisione delle mansioni di responsabilità, dal momento che,
all’interno della fabbrica, la responsabilità tecnica e legale è del
direttore, ma la responsabilità generale di direzione ed organizzazione
della produzione è del consiglio di fabbrica; il suo svantaggio
probabilmente è quello di non garantire necessariamente uno sviluppo
armonico della produzione e di non poter impedire un ruolo socialmente
regolativo della legge del valore e della funzione di mercato
(permanenza della validità della legge della domanda e dell’offerta).
Non a caso, lo Stato, anche in regime di autogestione, interviene con
diversi mezzi per riequilibrare gli scompensi: non solo gli
investimenti, ma anche, ad esempio, gli incentivi materiali, il
controllo del commercio estero della valuta, la predisposizione di
fondi speciali di sostegno per le regioni arretrate.
Pur garantendo uno sviluppo dell’economia in senso socialista, grazie
soprattutto alla funzione dello Stato, il sistema economico resta
duale, e può essere definito come un sistema a economia pianificata di
mercato. In questo sistema un ruolo centrale rivestono le cooperative,
il cui sviluppo è stato storicamente condizionato dallo sviluppo della
meccanica e dell’industrializzazione del paese (macchine e
fertilizzanti) e la cui funzione è quella dell’organizzazione della
produzione contadina sulla base di un modello
solidaristico-collettivistico (vicino a quello del kolchoz sovietico);
il sistema delle cooperative costituisce, in effetti, nel sistema
economico jugoslavo, la funzione di controllo dell’intero lavoro dei
contadini, non esistendo un sistema di aziende agricole di Stato
sufficientemente esteso.
L’assenza di direzione politica effettiva del partito all’interno dei
luoghi della produzione fa sì che si registri una singolare
non-omogeneità politica tra i lavoratori medesimi rispetto alle grandi
questioni teorico-politiche ed ideologiche: erano, ad esempio, diffuse
tra i lavoratori jugoslavi, posizioni che sostenevano che
l’autogestione consentisse una trasformazione delle basi materiali del
sistema capitalistico, rendendolo,di conseguenza, accettabile, oppure
che ritenevano non vi fosse una frontiera geografica ed economica tra i
Paesi del blocco socialista e quelli capitalisti, segno, questo,
probabilmente, della notevole apertura al mercato internazionale da
parte della Jugoslavia, in rapporto agli altri Paesi del blocco
socialista, e della sua mancata adesione al Comecon.
Si registrano, inoltre, interventi attivi, sebbene sporadici, dello
Stato all’interno del sistema di fabbrica per fermare il
corporativismo, altra minaccia al sistema dell’autogestione; in ogni
caso, anche in circostanze di questo genere, non è il partito che
interviene. Del resto i meccanismi del controllo, nella realtà
produttiva jugoslava, risultano essere decisamente ridotti,
riguardando, in prevalenza, controlli di legittimità e di rispetto
della legge, anche in virtù della sostanziale assenza di conflitti
interni al sistema delle relazioni di fabbrica. Lo stesso apparato
ispettivo della Federazione, nonché le commissioni di controllo del
partito sono relativamente modeste e impegnate in circostanze
specifiche generalmente non concernenti conflitti di lavoro; da questo
punto di vista si può dire che il risultato più importante conseguito
dal modello dell’autogestione è proprio quello di aver coniugato in
maniera più efficace di altri sistemi storicamente sviluppati le
esigenze della produzione con quelli di un’effettiva democrazia
socialista in generale, e, in particolare, sui luoghi di lavoro.