[ This article in english:
Panorama: Prisoners of Peace (by Francesca Folda)
http://www.kosovo.com/erpkiminfo_feb04/erpkiminfo14feb04.html#1 ]

NOTA: diffondiamo questo articolo pubblicato dal settimanale
filogovernativo PANORAMA per conoscenza, avvertendo il lettore che esso
contiene bugie ed informazioni tendenziose sulla realta' passata del
Kosmet (es: "Slobodan Milosevic lanciò la sua campagna di
discriminazioni contro gli albanesi del Kosovo") dovute alla necessita'
giornalistica di giustificare la aggressione della NATO del 1999 e la
attuale occupazione imperialista dell'area. CNJ

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http://www.panorama.it/mondo/capitali/articolo/ix1-A020001022890

EMERGENZA KOSOVO: VIVERE IN UN PAESE SOTTO SCORTA


Prigionieri della pace

di  Francesca Folda

6/2/2004  

Sempre meno numerosi, sempre più poveri, sempre più minacciati: così
vivono i serbi nella regione governata dall'Onu. Dove i conflitti con
gli albanesi non si sono mai fermati. E dove, dopo Milosevic, torna
l'incubo della pulizia etnica. Al contrario.
 
Miliana ha 11 anni. Spesso fa lezione da sola perché la sua unica
compagna di classe non riesce a prendere lo scuolabus scortato dalla
polizia. Non c'è altro modo per raggiungere la scuola serba di Obilic,
una piccola enclave a pochi chilometri da Pristina. Fino al 1999 gli
alunni slavofoni erano oltre 900, oggi soltanto 45. Quasi tutte le
finestre della scuola sono protette da grate in metallo. Le altre hanno
i vetri rotti, colpiti dalle sassaiole dei kosovari albanesi che si
sono insediati nella zona, un tempo prevalentemente serba. Dalla fine
della guerra, solo in questo comune si contano 29 serbi uccisi. Gli
ultimi tre (padre e madre ultraottantenni con il figlio di 53 anni)
sono stati aggrediti il 3 giugno dello scorso anno: massacrati di
botte, accoltellati, evirati, bruciati nella loro casa.
Kosovo 2004: la regione su cui l'Onu ha giocato la scommessa per la
multietnicità di fatto è diventata un suo protettorato, affidando
l'amministrazione del paese al governo provvisorio delle Nazioni Unite
(Unmik) con 7 mila funzionari internazionali e la sicurezza a 50 mila
militari della forza di pace (Kfor).

Ma il Kosovo resta ufficialmente una provincia della Serbia, mentre la
popolazione di etnia albanese mira ancora all'indipendenza. E l'Onu
prepara la ritirata senza certo poter dire di aver vinto. Niente più
uccisioni di massa, fosse comuni, villaggi bruciati e razziati. Ma
ancora oggi c'è un'etnia discriminata, che vive nella paura, non ha
lavoro né libertà di movimento. Si sono soltanto invertiti i ruoli nei
giochi di forza tra serbi e albanesi. Stavolta sotto gli occhi della
comunità internazionale.
Albanesi e serbi del Kosovo sono divisi da tutto, non solo lingua e
religione. Oggi usano persino targhe automobilistiche e monete diverse.
Gli albanesi hanno abbracciato entusiasti la gestione Unmik, intitolato
viali a Bill Clinton, adottato l'euro e inventato un nuovo registro
automobilistico. Ma i non albanesi continuano a utilizzare targhe e
documenti della Serbia, oltre alla valuta di Belgrado. Molti di loro
vivono del sussidio mensile (circa 80 euro, ma in dinari) che il
governo serbo concede ai capifamiglia perché non lascino la regione.

Quando Slobodan Milosevic lanciò la sua campagna di discriminazioni
contro gli albanesi del Kosovo, i serbi erano circa 300 mila.
Occupavano posti di rilievo in enti pubblici, scuole, ospedali e
fabbriche. Dopo la caduta del regime sotto le bombe Nato, sono fuggiti
per evitare le ritorsioni dell'Uçk, l'esercito di liberazione albanese.
Prima che le forze militari alleate prendessero il controllo, la
violenza dei paramilitari serbi è stata ripagata con la stessa moneta:
vendette, esecuzioni, cimiteri ortodossi profanati, case bruciate. Oggi
i serbi del Kosovo sono ridotti a un terzo: molti hanno trovato le
proprie case distrutte od occupate da albanesi (che se hanno accettato
di pagarle, hanno preteso prezzi stracciati).
Ivan, ingegnere elettrotecnico, vive nella zona di Obilic: ha lavorato
11 anni in una delle due centrali elettriche a carbone che garantivano
energia a gran parte della ex Iugoslavia. Per lui non c'è più posto
(non sarebbe sicuro) tra i dipendenti albanesi. Ivan arrotonda il
sussidio di Belgrado lavorando come interprete per i carabinieri, ma a
primavera lascerà la casa dove è nato per trasferirsi in Serbia. Lo
aspettano la moglie e il figlio appena nato: a Pristina non c'è più un
ospedale dove far venire alla luce bambini serbi. Anche la sua casa
finirà agli albanesi. E allora, in questa frazione di Obilic, la nuova
pulizia etnica sotto gli occhi dell'Onu sarà compiuta.

Altro che ritorno. L'Onu aveva previsto un piano di rientri per quelli
che a tutti gli effetti possono considerarsi i profughi serbi
dell'ultima guerra balcanica. Nella valle di Osojane, in cinque paesi
ne vivevano oltre 2 mila: oggi sono 300, concentrati in due villaggi
per motivi di sicurezza, 136 alloggiati in container perché le loro
case devono ancora essere ricostruite. «Ma i giovani preferiscono
restare in Serbia o emigrare in Europa» racconta Sonja Vucovic ,
giovane pedagoga, «perché qui non hanno futuro: ha un impiego solo il
10 per cento della popolazione slava, lavorare nei campi è pericoloso e
non ci si può muovere nemmeno per vendere prodotti agricoli».
A Suvi Lukavac, nella provincia di Istok, sono state quasi ricostruite
21 case per altrettante famiglie serbe e rom rientrate con la scorta
del contingente Kfor spagnolo. Ma la procedura di riappropriazione non
è semplice: da quella che viene chiamata «go-and-see-visit» (il primo
approccio dei capifamiglia con i villaggi abbandonati) al ritorno in
case abitabili passano anche due anni. È necessario provare di essere i
legittimi proprietari dei terreni su cui erano edificate le case
distrutte e saccheggiate.

Alla lentezza della burocrazia si aggiunge un mai sopito odio etnico.
Nel 2002, in Kosovo, si sono contati 136 omicidi. Le vittime serbe sono
state 30, il 22 per cento (pur essendo solo il 10 per cento della
popolazione) . Ad agosto del 2003 l'ultimo episodio: colpi di
kalashnikov contro un gruppo di bambini serbi che giocavano lungo il
fiume a Goradzevac. Due ragazzi morti, quattro feriti. Pochi giorni
dopo era previsto il rientro di 200 profughi slavi che le autorità
internazionali si sono affrettate a cancellare.
Non è l'unico dietrofront cui è stata costretta Unmik. Il 10 dicembre
scorso, 26 serbi di Klina, una città al centro del Kosovo, scortati in
forze dai militari della Kfor, sono tornati nel loro villaggio alle
prime ore del mattino e hanno cercato di insediarsi in un grande
edificio senza tetto per ricostruire poco alla volta le loro
abitazioni. Appena si è diffusa la notizia, un centinaio di albanesi ha
raggiunto la zona impugnando spranghe e pietre: rifiutano qualsiasi
reinsediamento serbo se prima non hanno notizie certe dei familiari
«scomparsi» durante le persecuzioni di Slobodan Milosevic. Risultato? I
serbi sono fuggiti per la seconda volta (assieme alla Kfor) da quello
che era il loro villaggio. Una disfatta per l'Onu.
«Questa cosiddetta pace della Nato in Kosovo significa soltanto che la
guerra è sotto controllo, non che ci sia davvero la pace» ha scritto la
giornalista serbokosovara Marilina Veca nel libro Kosovo perduto . «Non
appena andrà via la Kfor, sarà di nuovo conflitto» è il commento della
gente comune di entrambe le etnie. La comunità internazionale sembra
prendere tempo, rinviando l'unica decisione politica che tutti
aspettano: rendere o meno il Kosovo indipendente, magari cedendo alla
Serbia la parte a nord di Mitrovica, città divisa e contesa.

«Mitrosalemme» l'hanno ribattezzata gli osservatori internazionali, una
Gerusalemme dei Balcani, con popoli uniti solo da due ponti. Pochi gli
scambi. Falliti i tentativi di mediazione. Come il grande mercato
multietnico, inaugurato il 12 aprile 2002 a metà del ponte Cambronne.
La settimana seguente i banchi erano vuoti, nessuno si è più presentato
a vendere mercanzie. Molti sostengono che sia il governo di Belgrado a
boicottare la convivenza tra le due parti. Ma ci sono anche frange
estremiste del disciolto Uçk come i Black Eagles (convertite al crimine
organizzato) che non hanno fatto mancare agguati e minacce tanto contro
i serbi quanto contro gli albanesi etichettati come «traditori».
I segnali positivi sono pochi e contraddittori. Il Kosovo police
service (la neonata polizia multietnica promossa dall'Onu) ha assunto
il controllo dei check- point sul ponte principale di Mitrovica. Ma
l'intelligence internazionale segnala vessazioni nei confronti delle
auto serbe ai posti di blocco meno simbolici della regione. A
Mitrovica, nella parte nord della città, sorgono le cosiddette Tre
torri, palazzoni di cemento armato dove famiglie di etnie diverse
vivono sullo stesso pianerottolo. Ma a Pristina c'è un solo edificio
abitato da serbi: è quello dove alloggiano anche gli stranieri dell'Onu.
La tensione è sempre nell'aria. Il sabato a Lipljan, giorno di mercato,
quando i serbi vanno a fare la spesa scortati dai soldati finlandesi. O
la domenica, quando un pullman Unmik, seguito da militari e polizia,
raccoglie a Mitrovica Nord i serbi ortodossi che vogliono assistere
alla messa nella chiesa di San Sava, la cattedrale nella parte albanese
della città. La chiesa è circondata dal filo spinato, vigilata 24 ore
su 24 da 15 soldati greci. Un carro armato è parcheggiato accanto alle
navate.

La religione è il motivo per cui i serbi non rinunciano al loro diritto
di cittadinanza in Methonia (la terra dei monasteri). È così che
chiamano la parte centrale del Kosovo, culla della Chiesa serba dal
1200, quando per la prima volta fu incoronato patriarca ortodosso uno
slavo. A Pec c'è quello che può essere considerato il «Vaticano»: un
monumentale monastero dove vivono come prigionieri l'attuale patriarca,
24 suore e sei laici. Per far arrivare i pellegrini o fare la spesa,
devono prenotare la scorta del contingente italiano Kfor. Altrettanto
accade ai 30 monaci del monastero di Decani.
Confessa padre Andrej: «Non siamo monaci di clausura, ma siamo abituati
alla vita monastica. Le famiglie serbe, invece, vivono recluse in casa
e aspettano le nostre visite per ricevere cibo e sacramenti. Come quei
malati che respirano grazie a macchinari, noi abbiamo bisogno della
Kfor e dei carabinieri della Msu per sopravvivere». Non si tratta di
manie di persecuzione. Dalla fine dei bombardamenti Nato, 116 chiese in
tutto il Kosovo (una regione grande come l'Abruzzo) sono state
distrutte o incendiate .
«Mantenere l'ordine pubblico e la legalità, promuovere il rispetto dei
diritti umani, assicurare il rientro sicuro e incondizionato dei
profughi nelle loro case in Kosovo»: questo era il mandato dell'Onu. Ma
il primo ministro kosovaro Bajram Rexhepi , ancora una volta lo scorso
22 gennaio, è stato costretto a richiamare la sua gente: «Io non
appoggio il principio della multietnicità. Ma anche se non ci amiamo, e
non siamo obbligati a farlo, io chiedo di rispettarci l'un l'altro (con
i serbi, ndr) e di evitare gli attacchi». Non chiamatela «pace».


GLI ULTIMI ATTENTATI

I più gravi episodi di violenza nei confronti dei serbi kosovari dal
2002 a oggi.

10 ottobre 2002 : feriti 2 impiegati Unmik di scorta a un convoglio
serbo diretto a Pec: una folla di albanesi li ha bersagliati con pietre
e bottiglie molotov.
16 novembre 2002 : 3 bombe contro la chiesa serbo-ortodossa di Istok.
30 novembre 2002 : 4 uomini denunciano intimidazioni e minacce da parte
delle Black Eagles per aver aperto negozi nel centro di Pristina.
8 febbraio 2003 : 4 serbi sono feriti dal lancio di una granata a
Mogila (50 km da Pristina). La polizia di Unmik arresta un albanese di
26 anni.
13 febbraio 2003 : un'esplosione distrugge il negozio e l'auto di un
serbo a Kosovska Kamenica, area controllata dai soldati americani.
3 giugno 2003 : 3 componenti della famiglia Stolic (tra cui due
ultraottantenni) vengono uccisi durante la notte nell'enclave serba di
Obilic: sono stati massacrati, i loro corpi deturpati e bruciati
nell'incendio della casa.
Agosto 2003 : due ragazzi serbi di 11 e 20 anni vengono uccisi a colpi
di kalashnikov mentre giocano nel fiume a Goradzevac. Altri quattro
ragazzi sono feriti.
31 agosto 2003 : una granata uccide un uomo nel villaggio serbo di
Cernica. La comunità lamenta soccorsi troppo lenti che non avrebbero
consentito di salvargli la vita.
10 dicembre 2003 : il rientro a Klina di 26 serbi sotto la supervisione
dell'Onu fallisce per i disordini provocati da un centinaio di albanesi
che li accolgono con il lancio di sassi. In meno di due ore i serbi
vengono accompagnati in un'altra enclave protetta.