( Sullo stesso argomento vedi anche:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3543
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3541
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3521
http://www.salvaimonasteri.org/ )

---

http://www.salvaimonasteri.org/stampa_06.htm

L’arte bizantina in Serbia tra ‘200 e ‘300: notizie brevi tra storia e
cultura

ROSA D’AMICO
(tratto con revisioni e aggiunte dal testo pubblicato nel catalogo
della mostra ‘Paolo Veneziano…’ di Rimini)

Al confine tra Oriente e Occidente, le terre balcaniche hanno sempre
avuto un difficile ruolo di ‘ponte’: ‘cerniera’ tra luoghi e culture, e
insieme punto d’attrito tra civiltà. Nel Medioevo le rotte dei
commerci, che vedevano le due rive dell’Adriatico in continuo rapporto,
penetravano dalle ricche città del Litorale nell’interno, incontrando,
nel cuore dell'antica Serbia, la via romana che, attraverso l’attuale
Macedonia, raggiungeva la seconda capitale bizantina, Salonicco, e poi
Costantinopoli, la ‘città imperiale’- il maggior centro di riferimento
per il mondo allora conosciuto.
Negli ultimi decenni del XII secolo era sorto all’interno dei Balcani,
accanto ad altre realtà, come la potente Bulgaria, il primo embrione di
quello che sarebbe divenuto lo Stato serbo: dominato dalla dinastia dei
Nemanjic’, questo si sarebbe in breve ampliato, raggiungendo il
Litorale, e divenendo una delle più significative presenze politiche e
sociali di quei territori. Suo primo centro propulsore fu la regione
della Raska che, con il vicino Kosovo, rappresentava un importante
crocevia per comunicazioni, scambi, traffici commerciali, in una terra
ricca dal punto di vista agricolo e minerario.
Già sotto il fondatore Nemanja si manifestò la ‘dualità’ politica,
culturale e religiosa dello Stato in formazione, al confine tra
cattolicesimo e ortodossia, tra Impero bizantino e potentati
d’Occidente. Tra la fine del 1100 e i primi del ‘200 la Serbia, come
gli altri Stati dei Balcani, approfittò abilmente dell’indebolimento e
della decadenza del vicino Impero per la propria crescita, in
particolare a seguito degli eventi del 1204. In quell’anno la stessa
capitale Costantinopoli era caduta in mano ai crociati ‘latini’, in
particolare veneziani e francesi, che avrebbero mantenuto il potere
sulla grande e ricca città fino al 1261, quando il potere sarebbe
tornato in mano greca con la dinastia dei Paleologhi. Alla nuova
politica dello Stato serbo contribuì l’accorta politica matrimoniale
dei Nemanjic’, che già in passato avevano stretto parentele con
famiglie d’Occidente oltre che con gli Stati confinanti e con i ‘romei’
di Bisanzio. Già nel 1207- 1208 il figlio di Nemanja, Stefano – poi re
‘primo coronato’- ripudiò la moglie bizantina Eudossia, e sposò la
veneziana Anna, nipote di Enrico Dandolo, tra i principali protagonisti
della conquista latina di Costantinopoli. Anna, proveniente dallo Stato
più potente tra Occidente e Oriente, fu presente alla formazione del
regno- sancita definitivamente nel 1217, quando Stefano ricevette la
corona dallo stesso papa Onorio- e vi mantenne una propria influenza,
accanto al marito e ai suoi successori, per tutta la vita: arrivata in
Serbia quando Venezia era la maggiore potenza dell’Impero ‘latino’,
morì intorno al 1250, durante il regno del figlio Uros I, il più abile
e ‘illuminato’ tra i discendenti di Stefano. Proprio in quegli anni- a
seguire una ‘politica’ matrimoniale volta di nuovo in senso
‘occidentale’- Uros aveva sposato la francese Elena d’Angiò, figlia di
Baldovino, l’ultimo imperatore occidentale di Bisanzio, detronizzato
nel 1261 dall’avvento dei Paleologhi. Cattolica, legata ai potenti
Angioini che governavano l’Italia meridionale con forti mire sui
Balcani e sull’Ungheria, Elena fu, più di Anna, figura influente nella
politica serba e nella ‘mediazione’ tra est e ovest. Prima accanto ad
Uros, poi quale ‘consigliera’ dei figli, i re Dragutin e Milutin, ella
percorse tutta la seconda metà del ‘200, fino al 1314, data della sua
morte.
La presenza presso la corte serba di queste figure femminili conferma
una tendenza non estranea al ‘passaggio’ di idee e modelli tra le rive
adriatiche. Elena, ‘cara consanguinea’ degli angioini, fu riconosciuta
dai papi ‘fedele figlia della chiesa’, malgrado l’unione con una
dinastia ortodossa. Dopo la detronizzazione di Uros nel 1276 ad opera
del figlio Dragutin, questi, a parziale ‘ricompensa’ per l’offesa verso
il padre, concesse ad Elena i territori del Litorale, ed alcuni
possessi nell’interno, fino a Brnjac, dove l’ex regina istituì la sua
corte. Importante fu, sullo scorcio del ‘200, il suo rapporto con la
costa, dove - nelle città litoranee da lei governate- a Kotor, Bar,
Skadar- tornò a proteggere le fondazioni cattoliche- specie
francescane- e promosse- soprattutto dal 1288- la costruzione di nuovi
monasteri dell’Ordine. Significativo fu il suo rapporto con Niccolò IV,
l’illuminato francescano che, dopo aver conosciuto in gioventù la
cultura di Costantinopoli, di cui sentì sempre la forte suggestione, fu
papa proprio dal 1288 al 1292.
Grande sviluppo ebbe lo Stato in particolare sotto il secondo figlio di
Elena e Uros, Milutin: l’intera Macedonia passò allora sotto il
controllo del re serbo. Nel 1999, poi, arrivando alla rottura con il
fratello Dragutin, che governava allora la zona nord della Serbia ed
era legato all’Ungheria, egli riannodò i rapporti con i Paleologhi di
Bisanzio, ancora una volta per via matrimoniale, unendosi alla
giovanissima Simonida, principessa reale. Da allora prevalse
definitivamente in Serbia l’influsso politico, culturale e religioso
dell’Oriente bizantino. Attraverso scontri, conflitti, nuove alleanze,
dopo il regno del figlio di Milutin, Stefano Decanski, si arrivò alla
metà del ‘300, momento della massima espansione dello Stato sotto il
re- imperatore- Dusan, e poi alla sua rapida disgregazione e
indebolimento, fino alla conquista ottomana del 1459.
La storia di questo territorio trova estrinsecazione nell’arte:
espressione principale ne fu la grande fioritura di monasteri, di
fondazione reale o monastica, le cui chiese, nel corso di più di due
secoli, furono affrescate da grandi maestri provenienti probabilmente
dalle capitali bizantine, Costantinopoli e Salonicco. Nel corso del
‘200, quando la Serbia divenne uno dei punti di riferimento per i
contatti tra est e ovest, vi si manifestarono alcuni dei più
significativi episodi della cultura europea del tempo, importante
tramite per l’irraggiamento della più nobile arte bizantina.
Architettura e pittura, come naturale in una terra di passaggio tra
civiltà e religioni, vi produssero monumenti di grande suggestione,
testimoni materiali dell’incontro tra le tradizioni del cristianesimo
orientale e il ‘romanico’ occidentale- tra culto della chiesa ortodossa
e forme costruttive ‘italiane’. Risultato ne furono già i primi edifici
della ‘scuola Raska’, così detta dalla regione dove era stato fondato
lo Stato e dove più ampiamente si diffuse: nelle chiese allora
costruite, ad una forma esterna che ricorda le cattedrali romaniche
della Puglia o della Lombardia corrisponde una distribuzione interna
legata anche nella decorazione pittorica ai modi più nobili
dell’Oriente bizantino. Dagli ultimi decenni del XII secolo, quando
furono fondati i monasteri di Kursumlja e Studenica, fino al ‘300,
epoca in cui l’architetto francescano di Kotor Vita realizzò, dopo il
1321, la monumentale chiesa di Decani in Kosovo, fu tutta una grande
fioritura di edifici che ripropongono con variazioni modelli simili.
Poco dopo l’arrivo in Serbia di Anna Dandolo, alla fine del primo
decennio del ‘200, era stato decorato di splendidi affreschi il ‘primo’
tra i monasteri, Studenica, fondato nel 1196: lì era stato seppellito
lo stesso Nemanja, il fondatore della dinastia che, fattosi monaco alla
fine della vita con il nome di Simeone, divenne il primo e più
importante tra i santi serbi.
Molto significativa accanto a quella del re Stefano è in quel periodo
la figura dell’altro suo figlio, monaco con il nome di Sava- pure
santificato dopo la morte- che nel 1219 fondò e fu primo arcivescovo
della Chiesa serba indipendente. Frequentatore di Costantinopoli,
Salonicco e delle capitali d’Oriente, ne riportò in patria tesori e
artisti illustri che, nei ricchi centri della nuova realtà politica,
come al di là dell’Adriatico, cercavano occasioni di lavoro migliori
che non nell’antica capitale depredata e impoverita. A loro-
espressione della cultura più aggiornata allora esistente- fu affidata
la decorazione di molti dei più antichi monasteri: dalla stessa
Studenica a Hilandar, fondazione serba sul monte Athos.
Tra 1222 e 1228 il secondo figlio di Stefano Primo coronato, Vladislav,
costruì e decorò la propria fondazione- mausoleo, Mileseva, il più
importante monastero del regno dopo Studenica: nel cuore della Raska,
era vicino all’antica città mercantile di Prijepolje, non lontano dalle
vie che portavano da un lato al Litorale, dall’altro a Salonicco. Pur
danneggiati, splendono sulle pareti gli affreschi che, nelle zone più
importanti della chiesa, avevano luminosi fondi d’oro ad imitare il
prezioso mosaico, di cui gli esecutori bizantini, forse di Salonicco,
conoscevano perfettamente la tecnica. Non dovette essere estranea alla
concezione e alla presenza dei più aggiornati pittori dell’epoca
l’influente posizione dello zio di Vladislav, il ricordato Sava,
vissuto fino al 1236. Nella grave perdita di testimonianze originali
nelle capitali d’Oriente, cicli come quello di Mileseva rappresentano
un punto fermo per la conoscenza dell’arte di Bisanzio nel suo momento
più alto, adattamento degli schemi importati alle necessità e alla
filosofia del nuovo Stato. Sempre nuovi tasselli ne confermano il
legame con opere del ‘200 in Italia. Gli influssi ‘balcanici’,
riconosciuti a Venezia, a Roma, in Toscana e nelle città del ‘nostro’
litorale adriatico, fanno pensare a rapporti diretti, sulla base di
alleanze politiche e commerciali. Del resto i pittori bizantini che
avevano lasciato le grandi capitali d’Oriente erano abituati ad
aggiornare le loro precedenti conoscenze a contatto con le novità
iconografiche e stilistiche proposte nei luoghi dove operavano, come
l’emergente regno dei Nemanja o Venezia.
Uros’ I, fratellastro e successore di Vladislav, aveva fondato un altro
tra i massimi monasteri della Serbia, Sopocani. Le pitture del maggiore
artista e dei suoi più alti collaboratori lì attivi, di qualche
decennio successive rispetto a Mileseva, costituiscono uno dei vertici
dell’intera arte europea del ‘200: vera e propria ‘rinascenza’ degli
antichi modelli ellenistici, in rapporto con i maggiori centri
culturali bizantini, ma difficilmente comparabili con testimonianze
sopravvissute, la loro suggestione incontra, in modo diverso rispetto a
Mileseva, l’arte contemporanea della penisola italiana, confermando la
‘dualità’ dei Nemanja tra Oriente e Occidente. L’affresco nel nartece
interno della chiesa, che rappresenta la Morte di Anna Dandolo, con la
presenza di personaggi storici, contribuisce a datare il complesso tra
1263 e 1265: intorno alla defunta, tra i familiari e i nobili della
corte, sono il re suo figlio, Uros, il fratellastro, l’ex re Vladislav,
l’altro fratello, l’arcivescovo Sava II, e i figli Dragutin e Milutin
‘giovani principi’. Sull’altro lato, in ginocchio, bacia la mano della
defunta la nuova regina, Elena. Accanto a Dragutin non compare
Katalina, figlia del futuro re d’Ungheria che, seguendo la politica di
alleanze matrimoniali dei Nemanja, egli sposò nel 1368- data che
diventa così un termine ante quem per il ciclo.
Al papa Niccolò IV, di cui si sono ricordati i rapporti con Elena
d’Angiò, si deve, sullo scorcio del ‘200, la promozione di cantieri
artistici che, a Roma e ad Assisi, presentano suggestioni dalla
maggiore arte d’Oriente, con possibili echi proprio di Sopocani. Anche
Jacopo Torriti, pure francescano, sembra averne avuto conoscenza nei
mosaici per Santa Maria Maggiore, nelle Basiliche romane e ad Assisi. E
Pietro Cavallini mostra consonanze con simili modelli nel celebre ciclo
a mosaico con Storie della Vergine per Santa Maria in Trastevere. Nel
Bagno del Bambino (a)- diffuso tema bizantino, collegato alla Natività-
troviamo lì forse la versione iconografica più vicina a quella,
sublime, della parete nord della Chiesa di Sopocani.
Unica tra le regine serbe, Elena, insieme ad Uros, aveva fondato nel
1276, secondo le regole ortodosse, il proprio monastero- mausoleo, in
cui fu sepolta nel 1314. Nella chiesa principale, la cui costruzione
presenta- non casualmente- anche suggestioni del gotico francese, gli
affreschi sopravvissuti ricordano ancora il grande modello di Sopocani.
Il monastero che era stato la prima sede dell’Arcivescovado serbo sotto
San Sava, Zica, era stato gravemente danneggiato da incursioni già alla
metà del ‘200, con perdita di molte pitture. Verso la fine del secolo
vi furono affrescati nuovi cicli da artisti che, con quelli attivi ad
Arilje, monastero sorto nella zona sottoposta al potere di Dragutin,
segnano l’importante passaggio tra il classicismo di Sopocani e le
diverse tendenze che si svilupperanno nel nuovo secolo.
I gravi danni subiti da Zica alla metà del ‘200 avevano portato a
spostare la sede dell’Arcivescovado a Pec’ nel Kosovo, nel cuore più
protetto della vecchia Serbia. Lì tra il sesto decennio del ‘200 e i
primi del ‘300 sorse uno dei complessi più importanti della regione,
poi restato punto di riferimento anche nei secoli della presenza turca.
Tre chiese unite tra loro, la più antica delle quali è quella dei Santi
Apostoli. Di grande importanza, gli affreschi interni raccontano le
vicende dell’arte in Serbia dal tempo di Sopocani alle novità della
matura pittura paleologa, entro forme architettoniche non più legate
alla scuola raska, ma a una lettura dell’edificio a cupola tipico
dell’Oriente cristiano.
In effetti, con la fine del ‘200 e i primi decenni del ‘300, quando il
centro dello Stato, con le conquiste di Milutin, si spostò verso il
Sud, le nuove costruzioni e i nuovi cicli pittorici interessarono
soprattutto le zone del Kosovo e della Macedonia. Una suggestione più
ampiamente orientale si riconosce nelle grandi fondazioni promosse da
lui, dalla Chiesa e dall’aristocrazia: fondazioni la cui architettura
interpreta in modo originale gli schemi costruttivi bizantini. Alcuni
esempi, il monastero di Staro Nagoricino in Macedonia, e le grandi
chiese del Kosovo, dalla Madonna di Ljevisa a Prizren a Gracanica, che
custodiscono al loro interno importanti ed uniche testimonianze
pittoriche legate agli sviluppi dell’arte paleologa- ultima fioritura
di grande rilievo dell’arte bizantina. In alcuni casi ci restano anche
i nomi degli artisti che decorarono gli edifici con splendidi e
complessi cicli, tra cui Michele Astrapa ed Eutichio, pittori di
Salonicco, attivi in diversi momenti nelle maggiori chiese del periodo.
La fioritura proseguì sotto Stefano Decanski e sotto Dusan, re e
imperatore. Ad essi va tra l’altro riferita l’ultima grande costruzione
legata allo stile ‘misto’ della scuola Raska, la chiesa del monastero
di Decani.
Sotto la pressione turca, che si fece costante negli ultimi decenni del
‘300, il centro dello Stato serbo, indebolito e frammentato, si
trasferì più a nord, nella regione del fiume Morava, ove, tra la fine
del secolo XIV e la prima metà del ‘400, si produsse una diversa
fioritura architettonica e pittorica, basata su nuove idee e nuovi
modelli, le cui principali testimonianze sono ancora visibili nei
monasteri di Manasija- Resava, Ljubostinja, Kalenic’.
Fitte fino al ‘600 sono le notizie sulle regioni interne balcaniche, e
sulla Serbia, tramandateci dai viaggiatori che le attraversarono:
l’interruzione degli scambi non fu quasi mai totale e nemmeno i
drammatici eventi verificatisi durante il lungo dominio ottomano
bloccarono le storiche vie di comunicazione, né le espressioni di vita
e cultura. Un più forte iato alla conoscenza si ebbe a seguito delle
guerre austro - turche di fine ‘600 e del ‘700, quando la migrazione di
molti residenti nelle regioni danubiane dell’Ungheria portò allo
sradicamento della memoria, con parziale o totale perdita di monumenti
e testimonianze. Solo nel secolo XIX, con il nuovo interesse nei
riguardi dei popoli che si liberavano dalle antiche dominazioni, e con
il desiderio degli intellettuali balcanici di riallacciarsi alle
proprie radici, si tornò a proteggere quanto sopravvissuto di un
patrimonio che manteneva un tessuto fitto e diramato. Sulle mura dei
monasteri ortodossi costruiti tra la fine del XII e la metà del XV
secolo restavano, pur danneggiati, complessi pittorici di altissimo
rilievo, più fitti che in altri centri dell’antico Impero. Specialmente
a partire dagli anni venti del ‘900 si arrivò al ripristino di edifici
diroccati e al recupero delle pitture in essi contenute. Studiosi come
il francese Gabriel Millet o il russo Okunev, insieme a ricercatori
balcanici, si dedicarono all’indagine sui cicli; e cominciarono a
circolare fotografie di complessi che spesso continuavano a
deteriorarsi.
Difficile era il riconoscimento degli antichi contatti: l’intera
cultura bizantina, salvo pochi vertici, era allora conosciuta per lo
più tramite opere tarde, o periferiche e ‘provinciali’, che non
rendevano giustizia alla sua grandezza; e così ‘bizantino’ diveniva
termine negativo, legato agli aspetti deteriori dell’arte d’occidente.
La riscoperta delle opere realizzate nell’antica Serbia può ancora oggi
aiutare ad affrontare confini culturali spesso divenuti anche confini
sociali e politici; a meglio capire la nostra stessa cultura che, nel
suo antico sviluppo, trovò, nel reciproco scambio, uno degli elementi
fondanti. Gli eventi bellici che hanno drammaticamente coinvolto quelle
regioni sia nel corso delle due guerre mondiali, che nei più recenti e
recentissimi eventi, devono farci riflettere sulla necessità di
considerare il grande patrimonio culturale di quelle regioni come
eredità comune di tutti noi, aiutandone la sopravvivenza e il tramando
alle future generazioni.

Riferimenti bibliografici:

G. Millet, L’Art chretien d’Orient du milieu du XII au milieu du XVI
siecle, La peinture- Peintures russes et serbes, Paris 1908
G. Millet, L’ancien art serbe. Les eglises, Paris 1919
N. Okunev, Monumenta Artis Serbicae, Praga 1928- 32
A. Deroko, in ‘ L’art Byzantin chez les slaves, Les Balkans’, tomo I,
Paris 1930
G. Millet, in ‘l’Art byzantin chez les Slaves, Les Balkans’, tomo I,
Paris 1930
C. Diehl, ‘La peinture byzantine’, Paris 1933
V. Petkovic’, ‘La peinture serbe du Moyen Age’, I- II, Beograd 1930- 34
V. Lazarev, ‘Storia della pittura bizantina’, edizione originale 1947;
(ed. it. Milano 1967)
‘L’Art medieval yougoslave’, catalogo della mostra, Parigi 1950 ( S.
Radojcic’, ‘Les fresques dans les eglises du Moyen Age en Serbie, au
Montenegro et en Macedoine’, ibidem) .
G. Millet, ‘La peinture du Moyen Age en Yougoslavie: Serbie, Macedoine
et Montenegro’, Paris 1957
S. Radojcic’, Mileseva, Beograd 1963, pp. 40- 59 ( con sunto in inglese)
A.Deroko, ‘Malo nekog davnog secanja’, in ‘Zograf’, n. 3, Beograd 1969,
pp. 53- 55
G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, I edizione, Roma 1966, II
edizione, con commento di G. Gandolfo, Roma 1988
V. Djuric’, Sopocani, Beograd 1991, pp. 173- 175 ( in lingua originale,
con breve sunto in inglese).
S. Cirkovic’, I serbi nel Medioevo, edizione italiana, Milano 1992.
B. Todic’, ‘Srpsko slikarstvo u doba Kralja Milutina’, Beograd 1998
AA.VV., Tra le due sponde dell’Adriatico- la pittura nella Serbia del
XIII secolo e l’Italia, cat. della mostra (Bologna, Ferrara, Bari),
Ferrara 1999
V. Pace, Mosaici e pittura romana del Medio Evo: pregiudizi e
omissioni, e Dieci secoli di affreschi e mosaici romani, in ‘Arte a
Roma nel Medioevo’, Napoli 2000, p. 287 segg., in part. pp. 294- 302; e
p. 305 segg. , in part. p. 312-14
R.D’Amico, Quel ‘filo’ da Mileseva a Bologna’, in Strenna storica
bolognese, 1997
‘Tra Oriente e Occidente attraverso l’Adriatico- due regine della
Serbia del ‘200 a Bologna’, in Strenna storica bolognese, 1998
‘Ponti distrutti- ponti da ricostruire- ancora il ‘filo’ tra Bologna e
Belgrado’, in ‘Strenna storica bolognese’, 2000
‘Alla confluenza tra fiumi e culture- Per la costruzione di nuovi
ponti’, in ‘ Strenna storica bolognese’ 2001
Per la salvaguardia dei beni culturali della Serbia, in
‘Mediterraneum’(in corso)

---

http://www.salvaimonasteri.org/stampa_07.htm

MEMORIA STORICA E TUTELA: PER LA CONOSCENZA E LA SALVAGUARDIA DEL
PATRIMONIO CULTURALE DELLA SERBIA

Rosa D’Amico
(da ‘Mediterraneum/Tutela e valorizzazione dei beni culturali e
ambientali. Volume II,). La tutela del patrimonio culturale in caso di
conflitto’, a cura di Fabio Maniscalco, Napoli 2002 pp. 127- 133)

Nei Balcani e nella Serbia , da sempre ‘terra di passaggio’ e di
confronto tra grandi potenze, dove , tra Oriente e Occidente, sorsero e
tramontarono regni e imperi, i monumenti costituirono spesso l’unico
‘segno’ ‘materiale’ di intere identità nazionali e culturali, restando
simbolo di ‘resistenza’ anche nei periodi più duri. Le testimonianze
sulle loro frequenti distruzioni e ricostruzioni confermano che il
radicamento nella storia collettiva ne ha aiutato la conservazione,
mentre, dall’angolatura contraria, il fatto di ‘rappresentare’
‘visibilmente’ l’identità ‘nemica’ ha creato i presupposti per il loro
‘annullamento’ ideale e materiale.
Drammatici sono i ‘passaggi’ che , nei secoli, hanno visto tanti
complessi della ‘Vecchia Serbia’ abbandonati, danneggiati o distrutti.
Ricordiamo ad esempio , in Kosovo, il romitorio di San Pietro a Korisa
, di cui restano parti dell’architettura e degli affreschi, per lo più
perduti già in epoca antica ; o la chiesa dei Santi Arcangeli presso
Prizren, costruita nel ‘300 dal re- imperatore Dusan, che conserva in
loco solo le fondamenta e alcuni blocchi del parato murario- in marmo
come nella più antica Studenica- mentre la maggior parte dei materiali
fu riutilizzata, dopo l’abbandono , nella costruzione della moschea di
Sidan Pasa a Prizren, tra i più rilevanti edifici islamici del secolo
XVI nella regione.
Malgrado il frequente ‘uso’ dei monumenti come segno positivo o
negativo di identità, è utile ricordare i contatti mantenuti in questi
territori nei momenti di scontro meno aperto. La tolleranza della
legislazione ottomana consentì a lungo la sopravvivenza dei privilegi
goduti da alcuni monasteri , una limitata libertà di culto e la
conseguente espressione di un’autonoma cultura di tradizione ortodossa
, che mantenne il legame con le proprie radici. Anche nella ‘ripresa’
artistica dei secoli XVI e XVII, al tempo del rinnovato Patriarcato di
Pec’- che, sede dell’antico Arcivescovado medievale, era stato riaperto
nel 1549 col sostegno dell’allora Gran Vizir, sotto la guida di suo
fratello, Makarije Sokolovic’- le ‘nuove’ costruzioni e pitture serbe
non cercheranno ‘nuovi modelli’, ma , per non perdere il contatto con
la propria storia, si rifaranno, ‘restaurandoli’, o ‘ricostruendoli’, a
quelli delle antiche fondazioni

Varietà e ricchezza del patrimonio presente nel territorio sono
confermate dalle tante emergenze. Ecco i più antichi monasteri
costruiti tra XII e XIII secolo nella Raska, regione nel sud della
Serbia e culla dei primi Nemanja: da Djurdjevi Stupovi, a Kursumlija ,
a Studenica, da Mileseva, a Sopocani e Gradac , sono espressione di una
cultura che, tipica del momento e della zona, univa suggestioni da
Oriente e Occidente. Ecco , poco più a nord, i complessi nella regione
della Morava, sede degli ultimi despoti dove, prima della definitiva
caduta dello Stato serbo sotto gli Ottomani nel 1459, si espressero, in
fondazioni come Manasija- Resava, Ravanica, Kalenic’, nuove tendenze
artistiche..
Nel Kosovo , Gracanica , fondata da re Milutin nel 1315, è tra le più
significative costruzioni dell’architettura bizantina paleologa, mentre
la chiesa di Decani , progettata nel 1321 per suo figlio Stefano
‘Decanski’ da Vitus, architetto francescano di Kotor- Cattaro, ha
ancora le forme esterne del ‘romanico’ occidentale, tipiche dell’antica
scuola ‘ raska’. All’interno entrambi gli edifici conservano cicli di
grande rilievo per la storia dell’arte bizantina, come la chiesa della
Vergine di Ljevisa a Prizren, con affreschi firmati dai maggiori
esponenti della ‘scuola di re Milutin’, i pittori di Salonicco Michele
Astrapa ed Eutichio. Le chiese del Patriarcato di Pec’- dai Santi
Apostoli a San Demetrio a Santa Maria- realizzate dalla metà del 200 ai
primi del 300, sono legate non solo alle memorie medievali, ma anche
alla ‘rinascenza’ cinque- seicentesca , quando la rinnovata autonomia
incentivò il sogno di una rinascita.
Non dimentichiamo la cultura formatasi in Vojvodina specie dopo la
‘grande migrazione’ del 1689, quando i serbi trovarono rifugio nelle
zone danubiane dell’Ungheria, legate all’Impero asburgico :
significativi i complessi della zona di Fruska Gora, vicino a Novi Sad,
monasteri come Vojlovica presso Pancevo, o interi centri
dall’interessante tessuto urbano- Novi Sad , Pancevo , Sombor , Sremski
Karlovski, Vrsac, in cui si uniscono la tradizione ungherese e quella
balcanica . In questa regione, pur nelle recenti difficoltà, non si è
interrotto il rapporto tra i gruppi etnici che nel tempo vi si sono
stabiliti .
Un cenno meritano sia il patrimonio dell’artigianato e delle tradizioni
popolari, che gli interessanti edifici otto- novecenteschi, base
urbanistica delle nuove città- e di Belgrado- dopo la fondazione del
nuovo Regno indipendente .
I monasteri sono allora solo le emergenze più rilevanti in una terra
ricca di edifici ‘minori’ di varia epoca, che specie nelle zone a sud ,
fino al Kosovo– più a lungo sotto l’influenza ottomana- dialogano
spesso con il tessuto islamico, rappresentato da interessanti moschee e
da strutture di pubblica utilità. Punto di riferimento per tutti è
l’importante patrimonio archeologico, databile dal paleolitico
all’epoca romana e al primo Mediovo .

Alcune testimonianze su due dei monasteri citati della Raska, Sopocani
e Mileseva- espressioni altissime dell’arte bizantina nell’antico Regno
dei Nemanja – possono aiutarci a ‘ripercorrere’ le esperienze vissute
nei secoli da un patrimonio, fino a date recenti quasi ignoto per
difficoltà di informazione , più che per diffidenze strumentali.
L’approfondimento dell’indagine sugli antichi scambi, la volontà di
riallacciare i capi del ‘filo’ che lega due mondi vicini pur nelle
differenze, può aiutare anche la tutela di opere senza le quali non
conosceremo fino in fondo neppure la nostra stessa civiltà.
Esse appartengono a un territorio, ma sono insieme patrimonio comune.

Ricordiamo anzitutto i contatti della dinastia serba con l’Occidente,
sviluppati specie nel secolo XIII, spesso in funzione antibizantina, e
testimoniati anche dall’importante ruolo lì svolto da due regine: la
veneziana Anna Dandolo, nipote di Enrico Dandolo- tra i conquistatori
di Costantinopoli nella IV crociata del 1204, che sancì per
sessant’anni il governo ‘latino’ dell’antica Bisanzio- sposò Stefano,
‘Primocoronato’- il più antico dei Nemanja ad aver assunto il titolo
reale- e dal primo decennio alla metà del ‘200 fu protagonista della
vita del Regno accanto a Stefano e ai figli Radoslav, stanislav e Uros
. Intorno al 1250 quest’ultimo – il fondatore di Sopocani – prese in
moglie la francese Elena D’Angiò, figlia dell’ ultimo Imperatore
occidentale di Costantinopoli , Baldovino, cacciato nel 1262
dall’avvento dei Paleologhi. Legata alla dinastia angioina, in rapporto
con la politica guelfa italiana e col papato, Elena avrà grande
influenza in Serbia, prima, fino al 1269, accanto al marito, e poi fino
alla morte, nel 1314, sotto il regno dei figli, Dragutin e Milutin.
Notevole fu la sua importanza per il rapporto tra le due culture e le
due interpretazioni religiose cui era personalmente legata.

Vicino all’attuale città di Novi Pazar, nel cuore dell’antica Raska- la
cui prima capitale, Ras, è forse stata individuata nelle vicinanze- il
monastero di Sopocani è espressione di quell’ importante momento
politico e culturale. L’assegnazione dei dipinti più significativi
della chiesa al periodo tra 1263 e 1265 è importante anche per gli
scambi con l’arte italiana, nelle forme che assunse negli ultimi
decenni del secolo XIII a Roma, Siena, Assisi, Venezia e lungo
l’Adriatico. La loro datazione - convalidata dagli studi successivi - è
partita proprio dall’identificazione dei personaggi presenti nella
Morte di Anna Dandolo, episodio storico dipinto nel nartece: accanto al
fondatore Uros, due suoi fratelli- l’ex re Vladislav e il futuro
arcivescovo Sava II- gli allora giovani figli Dragutin e Milutin e, ai
piedi del letto, la nuova regina, Elena.
La drammatica vicenda conservativa di Sopocani ebbe inizio alla fine
del ‘300.
Il patriarca Pajsje- importante esponente della Chiesa serba dopo la
ricostituzione del Patriarcato di Pec’- ricordava ancora nel 1628- 29
le distruzioni subite dal monastero nel 1389, al momento della più
antica conquista turca della Serbia del Sud, e quando, sotto la spinta
ottomana, il centro dello Stato ormai frammentato si era spostato nella
regione intorno alla Morava, con parziale abbandono degli antichi
territori .
Dopo un silenzio di 150 anni, interrotto da qualche sporadica notizia,
Sopocani si ‘risvegliò’ nel periodo del Patriarcato riaperto, fino alla
seconda metà del ‘600, epoca delle guerre austro- turche. Nel 1688,
spinte dal sogno di una nuova indipendenza sotto gli Asburgo, le
popolazioni serbe si ribellarono e seguirono con speranza l’avanzata
austriaca, e la ‘riconquista’ di territori ai turchi. Antichi storici
ricordano che in quell’anno molti complessi, da Mileseva a Djurdjevi
Stupovi, da Sopocani a Studenica, furono dati alle fiamme e
saccheggiati durante la ritirata ottomana verso sud . Quando furono poi
gli Austriaci a ritirarsi sconfitti, molti serbi, guidati dal
patriarca, li seguirono fino alle regioni danubiane della Vojvodina
nella ‘grande migrazione’ del 1689, portando con sè le antiche reliquie
dei monasteri, ma lasciando gli edifici al deterioramento.
Varie iscrizioni documentano il dolore di testimoni per i monumenti
danneggiati da scontri, vendette, eventi naturali, ma soprattutto
dall’abbandono della popolazione che, sradicata e lontana, non poteva
più ‘curare’ quei ‘segni’ privilegiati della propria identità.
Nel 1724 , a Sopocani, il metropolita della Raska, Arsenije IV, pur
ritenendone ancora possibile il recupero, incideva nel portale di marmo
tra nartece e nave principale parole di rimpianto per il degrado del
monastero. Sullo stesso portale , Gavril, metropolita di Bosnia,
lasciava nel 1750 una ‘invocazione’ sulla necessità di rinnovare quel
tempio- simbolo. L’impossibilità di attuare il progetto è documentata
da una scritta del 1759, in cui si descrive la bellezza del monastero e
delle sue pitture e se ne piange lo stato.

Accanto a Sopocani, Mileseva è uno dei complessi più significativi del
‘200 in Serbia. Il re Vladislav, fratello e predecessore di Uros I,
eresse il monastero quale suo mausoleo all’inizio del regno, e restò
suo ‘mecenate’ per tutto il periodo in cui fu re, e anche dopo il
ritiro nelle terre del Litorale. Si datano intorno al 1236 le più
importanti pitture murali commissionate ad artisti delle maggiori
scuole bizantine . Per la fortunata collocazione geografica , lungo la
strada mai interrotta che conduceva dalla costa, attraverso la vicina
città mercantile di Prijepolje- ‘grande centro dei serbi cristiani’,
come la descriveva nel 1573 il francese Pierre Lascopier- fino
all’interno dei Balcani, e verso Costantinopoli, Mileseva – custode di
importanti reliquie, e dei sepolcri di prestigiosi esponenti della
storia serba, come San Sava, fondatore, nel 1219, della Chiesa
indipendente - restò spesso presente nei documenti. Molte sono le
descrizioni lasciatene da viaggiatori, di nazionalità soprattutto
francese , veneziana e tedesca.
Dopo le devastazioni tardo trecentesche le attività non vi si
interruppero, anche per l’appoggio del governo ottomano, che ne
mantenne antichi privilegi. Anzi, secondo le fonti, contributi le erano
spesso elargiti da turchi ed ebrei come da cristiani. Vi si ricorda
spesso l’importante attività tipografica, che nel 1536- 37 portò i
monaci- tipografi Teodosio e Gherardo a Venezia, nella stamperia serba
di Bozidar Vukovic’- Dionisio della Vechia.
Nel 1550 l’Ambasciatore veneziano Catarino Zen citava nella chiesa la
presenza - confermata nove anni dopo da Melchior Saidliz- di oro e
argento. L’ oro era in effetti protagonista anche delle pitture, non
solo in particolari decorativi, ma perfino- come anche a Sopocani- nei
fondali degli episodi affrescati nelle zone più visibili . Anche se
oggi ne rimangono solo tracce, esse documentano la volontà di rendere
l’interno delle chiese scrigni preziosi, con dipinti ispirati alla
ricchezza delle tecniche musive.
Un momento drammatico per Mileseva si ebbe dopo il 1583, quando morì il
suo protettore, Mehmed Sokolovic’. Allora, a seguito di una rivolta
antiturca, il corpo di San Sava, segno di identità per il popolo serbo,
venne prelevato dal sepolcro, trasportato a Belgrado- castello
fortificato turco- e bruciato. Seguirono anni difficili, con più di un
invito al papa e ai sovrani occidentali perché intervenissero a
liberare quelle terre dal governo ottomano.
Sotto il patriarca Pajsje, tra 1614 e 1647, e nei due decenni
successivi, si ha anche a Mileseva una rinnovata fioritura: nel 1657
furono commissionate nuove pitture, che, eseguite a risarcimento di
zone mancanti , protessero gli originali fino alle più recenti
‘riscoperte’. Dopo il 1689, con la dispersione dei monaci, anche questo
monastero, oggetto di nuovi saccheggi ed incendi, fu gradualmente
abbandonato.

Notizie sui monasteri riprendono a diffondersi , dopo un periodo di
silenzio, con la ‘riscoperta’ ottocentesca delle ‘antichità serbe’,
promossa a livello culturale e politico mentre cresceva in Europa, con
il Romanticismo, l’interesse per l’identità dei popoli; era il momento
in cui, nelle terre legate agli Imperi ottomano e asburgico, si
prendeva coscienza della propria storia , e si rivendicava la propria
autonomia – un momento che in Serbia coincise con la formazione del
Regno indipendente, ancora una volta fondato sui valori della ‘memoria’.

‘Sopocani, monastero nella Vecchia Serbia, di cui oggi restano le
mura’: così, nel 1818, Vuk Karadzic’, letterato e rinnovatore della
lingua serbocroata , descriveva l’illustre monumento. Acquarelli e
disegni del secolo XIX confermano quanto viaggiatori e amatori
annotavano circa lo stato dell’edificio, privo delle volte su quasi
tutta la navata, anche se la cupola e parte dell’abside erano ancora
integre. Le descrizioni vi testimoniano i problemi degli affreschi,
causati da incendi antichi, come dall’abbandono e dall’esposizione agli
agenti atmosferici.
Console in Bosnia dal 1857 al 1858, il diplomatico russo Giliferning,
che visitò numerosi monasteri della Vecchia Serbia, sentendosi ‘in un
territorio storico’, giudicò Sopocani -‘uno dei più importanti
monumenti’ della regione’- ancora facilmente recuperabile. ‘Per la
prima volta, trattando degli affreschi del nartece esterno’ (poi
ulteriormente danneggiati , e ancora oggi conservati ‘all’aperto’, non
essendo mai stata ricostruita questa zona dell’edificio) , egli
ipotizzava ‘la possibilità di trarne copie per salvaguardarne la
memoria quali testimonianze della storia della pittura ad affresco
slava’( Komnenovic’). Il complesso di Mileseva viene invece da lui
descritto ancora come ‘rovina’. Poco dopo – tra 1863 e 1868- la chiesa
avrebbe subito un ‘restauro’ non rispettoso delle forme originali- con
l’uniforme intonacatura che dette al suo esterno l’aspetto attuale.
Nuovo impulso allo studio delle ‘antichità serbe’ venne dopo la guerra
serbo- turca del 1876- 88, quando nuovi territori vennero annessi al
Regno. Gli sforzi di catalogazione proseguirono, con note di viaggio,
descrizioni , disegni, spesso carenti a livello scientifico, ma validi
come documenti su un patrimonio che continuava a subire danni.
I conflitti dei primi del ‘900, e soprattutto la guerra 1915- 1918,
portarono infatti nuove distruzioni a edifici difficilmente
difendibili, sia per la dispersione su un vasto territorio- con
conseguenti problemi di accesso - che per l’uso ‘militare’ attribuito
ad alcuni di essi, come Djurdjevi Stupovi. Fondato nel secolo XII, agli
inizi della dinastia Nemanja, questo monastero domina la valle di Novi
Pazar- centro dell’antica Raska- fino al Kosovo. Ancora i viaggiatori
ottocenteschi ne ricordavano integra parte della muratura e degli
affreschi. Ma, usato - per la sua posizione strategica- come deposito
di armi dagli austriaci, fu da questi fatto saltare al momento della
ritirata , riducendosi allo stato di ‘rovina’ in cui in parte ancora si
trova.
La necessità di una ‘ricostruzione’- anche della conoscenza - allargata
oltre i confini balcanici- si sviluppò negli anni tra le due guerre
mondiali, mentre si continuava a scrivere e a visitare le chiese mezzo
distrutte, occupandosi più ampiamente anche delle necessità di recupero.
Di grande significato fu l’impegno del celebre bizantinologo francese
Gabriel Millet, che sistematizzò in anni di lavoro quanto noto sui
monumenti bizantini serbi , descrivendone anche il drammatico stato
conservativo. Ancora nel 1920 A. Deroko ricordava l’isolamento di
Sopocani, privo di facili accessi e di luoghi di sosta. Solo dopo il
1926, quando fu ricostruita la parte mancante, ma documentabile, della
chiesa, si diffuse meglio anche la conoscenza delle sue pitture ,
finalmente protette dalle intemperie.
Tra gli ‘amatori’ e storici di quel periodo , il russo Nikolaj Okunjev
fu importante per la riscoperta di percorsi perduti. Alla fine degli
anni venti, quando la cultura bizantina era nota – a parte le tracce
sublimi conservate nell’antica Costantinopoli e nei ‘centri’
dell’antico Oriente cristiano- quasi solo attraverso interpretazioni
provinciali o testimonianze di più tardi ‘madonneri’, Paolo Muratoff,
nel volume ‘La pittura bizantina’, citava le ricerche, ancora non
pubblicate, dello studioso russo. Questi, ‘lasciandosi guidare da
considerazioni molto sagaci di ordine teorico…rivolse l’attenzione
…sulle più antiche tra le pitture murali della Vecchia Serbia e della
Macedonia. Finora era relativamente poco nota l’esistenza stessa di
questi affreschi anteriori al secolo XIV. Il Millet e il Diehl fanno
menzione di affreschi antichissimi a Studeniza (sic) (della fine del
XII secolo), nonché degli affreschi di Zica e Gradac (della prima metà
del secolo XIII)….Sono in primo luogo questi affreschi preziosi di
Nerez ( Nerezi in Macedonia) , poi quelli di Milescevo ( sic) ( dal
1236) e di Sopociany (sic) ( al 1250) che l’Okunjev ha esplorato e in
parte con le mani liberato da posteriori ridipinture…’
‘…I successivi anelli della catena … che speriamo tra pochi anni di
veder compiutamente saldata, si devono ancora ai lavori dell’Okunjev ….
Gli affreschi del monastero di Milescevo (sic)…Una serie di affreschi
ancora più notevoli … è stata scoperta… nel monastero di Sopociany…’.
In queste frasi scopriamo la passione per la ricerca e il desiderio di
liberare con le proprie mani i dipinti per ritrovarne l’aspetto
originario.
Anche fuori dai confini balcanici nasce la consapevolezza di un
patrimonio a lungo ignorato, che porta a rivedere , attraverso il
dialogo con le ricomparse pitture dei monasteri serbi, gli stessi
angoli di lettura dell’arte ‘bizantina’ e dei suoi rapporti di dare-
avere con le culture occidentali.

Con l’uscita dal secondo conflitto mondiale, quando l’ Europa prendeva
coscienza della necessità di salvaguardare il suo passato, anche in
Jugoslavia si avviarono nuove campagne di restauro e ricostruzione dei
monumenti sulla base delle forme antiche, campagne spesso proseguite
fino ad oggi, quando non in corso, o interrotte per i recenti eventi
bellici, ‘proiezione’ di un tormentato percorso storico.
Nei primi anni cinquanta fu fondato l’Istituto per la protezione dei
monumenti della Repubblica di Serbia- con sedi principali a Belgrado e
a Pristina. Fu un periodo importante per la ricerca come per
l’accelerazione degli interventi .
Purtroppo la grande dimensione dei cicli , la conservazione spesso
compromessa, la difficoltà di raggiungere luoghi isolati, non
consentirono sempre recuperi rapidi e diramati . Mentre in Italia, nel
caso di gravi danni alla pittura murale, si procedeva a ‘stacchi’ e
‘strappi’- usando metodi collaudati dall’esperienza- anche se non
sempre ‘sicuri’ a livello conservativo- nella Jugoslavia che si
risollevava dalla guerra si cercò un modo alternativo per ‘tramandare’
un patrimonio quasi perduto alla memoria delle generazioni future.
Sull’esempio di quanto realizzato a Parigi dal Museo dei Monumenti
francesi, a Belgrado si formò una scuola specializzata nella ‘copia’
degli affreschi, di cui venivano riproposte dimensioni, colori e
iconografie , ma anche irregolarità, mancanze, danni, sovrapposizioni,
che potevano documentarne lo stato in un determinato momento. I
copisti, in contatto con l’originale, ne studiavano anche le tecniche.
Così le indagini sui colori, sugli effetti degli agenti esterni, sulla
costruzione degli strati pittorici, hanno visto spesso la loro
partecipazione. Molti particolari da pitture ‘conservate nelle chiese
in rovina’- dalla stessa Sopocani, a Mileseva, a Studenica, alle chiese
del Kosovo e alle fondazioni della ‘scuola della Morava’- furono
riprodotti su tela, a tempera, consentendo la salvaguardia almeno del
‘ricordo’ di tante testimonianze.
Fortunatamente furono anche possibili interventi di restauro ‘in loco’;
oltre alla pulitura, al consolidamento e allo studio del già noto,
nuove superfici furono liberate dalle ridipinture- come a Studenica;
altre furono riscoperte sotto scialbature: ad esempio, nella Madonna di
Ljevisa presso Prizren tornarono allora in luce gli affreschi
trecenteschi ricoperti di calce quando il complesso era stato
trasformato in moschea ; nel monastero di Manasja- Resava nella Morava
si recuperarono importanti pitture quattrocentesche. L’attività dei
restauratori non tolse spazio ai copisti; ogni volta che comparivano
nuove pitture, o che un dipinto subiva un intervento, essi venivano
chiamati a testimoniare un altro ‘passaggio’ nell’esistenza dell’opera.
E il fenomeno della ‘copia’ è restato connesso fino ad oggi alla
volontà di sopravvivenza, di conservazione della propria cultura. Si
ricorderà che, fino allo scoppio della guerra del ‘99 , in Kosovo si
continuava ad andare: e che ancora nell’estate del ’98 i ‘copisti’
belgradesi erano a Pec’, a ‘testimoniare’ lo stato delle pitture.
Le copie, facilmente trasportabili, divennero anche ‘messaggere’ per la
conoscenza della pittura bizantina di Serbia al di là dei confini,
quando, a partire dal 1950, furono al centro di mostre ‘itineranti’.
Mentre negli stessi anni in Occidente si presentavano affreschi
originali staccati, le pitture dei monasteri serbi furono rese note a
un pubblico più vasto proprio tramite le ‘copie’- la ‘migliore
possibilità di conoscere un’opera dopo quella consentita dalla visione
dell’originale’ (Zivkovic’).
Dalla prima esposizione a Parigi, si passò, tra gli anni cinquanta e
sessanta, a iniziative su singoli temi, in sedi italiane, europee e
americane, fino ad arrivare - nel 1999, in concomitanza con il nuovo
tragico conflitto- alla realizzazione a Bologna e Ferrara, poi a Bari e
l’anno seguente a Venezia, della mostra ‘Tra le due sponde
dell’Adriatico’, destinata ad illustrare tramite una cinquantina di
copie i più significativi cicli dei monasteri duecenteschi di Serbia,
‘a confronto’ con opere del Duecento italiano che nello ‘scambio’ con
quella terra trovano più di un riferimento.
In quel periodo difficile la volontà d’incontro ha mantenuto i contatti
, cercando, al di là delle strumentalizzazioni, di far conoscere la
grandezza di una cultura che ha avuto tanti rapporti con la nostra.
Quei legami hanno permesso tra l’altro di avere notizie dirette sugli
eventi, specie sui danni al patrimonio. E’ naturale che quanto allora
raccolto subisse gli effetti del clima instaurato dal conflitto. Ma la
comunicazione ha consentito di ricevere nel corso dei tre tragici mesi
di bombardamenti informazioni di prima mano su quanto avveniva , mentre
notizie ufficiali venivano diffuse dal sito Internet dell’Istituto per
la Protezione dei monumenti , ancora consultabile.
Ogni danno, ma anche ogni ‘mancanza di attenzione’ nei riguardi di
obiettivi sensibili per la storia collettiva di intere comunità , ha
portato- accanto a perdite ‘materiali’- profonde ferite all’identità,
al rapporto di intere generazioni con il ‘luogo’, testimoniato anche
dal lungo, difficile recupero dei monumenti, troppo spesso liquidato
come ‘non antico’ e di conseguenza ‘non interessante’.

Nell’ottobre del 1998, quando la prospettiva di una nuova guerra nei
Balcani era sempre più vicina, l’ecologo Franz Weber inoltrava una
richiesta al Parlamento europeo perché il complesso dei monumenti del
Kosovo- di cui 1800 di rilevante valore- fosse protetto dall’Unesco .
In un appello ai leaders delle grandi potenze, chiedeva poi di
scongiurare interventi aerei che difficilmente avrebbero risparmiato il
tessuto urbanistico e monumentale della regione. L’Istituto per la
protezione dei monumenti di Belgrado, che elencava in Serbia e
Montenegro 3000 complessi già considerati dalla stessa UNESCO, e altri
13.000 degni di interesse, inviò in quel periodo varie richieste al
Direttore generale di quell’organismo , perché nella sua funzione
‘sovranazionale’ consentisse di risparmiare un patrimonio di valore
universale.
Furono anche la scarsa informazione sull’importanza di quei complessi e
la loro collocazione al di là di un confine lungamente isolato a
stendere un velo di silenzio sulle conseguenze di un attacco dall’alto-
sia pur ‘intelligente’ e ‘selettivo’. Alcuni si opposero a quel
silenzio; e questo permise, se non di impedire un’azione pianificata a
livello troppo alto, almeno di non interrompere la comunicazione, di
far ‘sentire’ alla società civile dell’altra parte – per lo più
scarsamente compromessa con le attività che venivano attribuite non a
un gruppo, ma a un intero popolo- che la sua identità poteva essere
rispettata e non violentata, che l’embargo culturale non era da tutti
applicato, che la grandezza di una storia tanto legata alla nostra non
poteva essere dimenticata per strumentalizzazioni contingenti.
Quell’embargo- mantenuto per una parte degli anni novanta , e
proseguito idealmente fino a date recenti, aveva portato addirittura -
per una curiosa commistione tra vicende contemporanee e cultura
storica- all’interruzione di percorsi conoscitivi: ad esempio
importanti mostre internazionali sull’arte bizantina hanno allora
‘ignorato’ fin l’esistenza del grande momento in cui la Serbia era
stata importante centro di quella cultura.
Lo stesso embargo escludeva la Jugoslavia dai consessi internazionali,
anche quando si trattava della salvaguardia dei beni culturali in caso
di conflitto. Non avendo voce ‘riconosciuta’, gli appelli lanciati per
la tutela del patrimonio nei momenti più gravi dell’intero decennio di
guerra- ‘percorso’ da ripetute minacce di interventi aerei contro la
Serbia - hanno avuto qualche risposta di comprensione , quando non sono
caduti nel nulla. I rappresentanti culturali jugoslavi non hanno potuto
nemmeno presenziare alla discussione sulla convenzione dell’Aja nel
marzo del 1999, quando l’intervento era deciso, e sarebbe stato
opportuno affrontare in modo non generico la situazione del patrimonio
che in quel momento era il più minacciato.

Su questo delicato tessuto di comunità umane e di monumenti si è
abbattuta dalla fine di marzo alla metà di giugno del 1999 la guerra
aerea, e nel Kosovo, centro della tragedia, anche lo scontro tra due
identità sempre più contrapposte, proseguito anche dopo la ‘pace’. Già
pochi giorni dopo l’inizio dell’attacco arrivava notizia della caduta
di ordigni presso Gracanica, con possibile compromissione statica delle
pareti- danno causato agli antichi edifici dal dissesto dovuto alle
forti deflagrazioni che, pur non colpendoli , avevano l’effetto di
continui, forti terremoti.
Danni strutturali diretti hanno coinvolto tra l’altro il monastero di
Kursumljia, i complessi della zona di Fruska Gora, particolarmente
bersagliata, il settecentesco monastero di Vojlovica , di cui è caduto
il tetto, la chiesa della Trasfigurazione a Pancevo, con il crollo di
una delle volte dipinte.
Significativi i danni riportati, nella Serbia centrale, dai monasteri
della zona di Ovcar- Kablar, mentre lesioni e crepe si denunciavano nel
monastero di Kovilj- del secolo XVI- presso Novi Sad, e in quello di
Rakovica, presso Belgrado. Pericoli alla stabilità delle strutture
coinvolgevano anche le chiese nella zona di Novi Pazar- da San Pietro a
Ras alla stessa Djurdjevi Stupovi, con possibile coinvolgimento della
non lontana Sopocani . Danni gravi hanno subito a Belgrado e nelle
altre città- gli edifici otto- novecenteschi, sedi di Ministeri e di
strutture governative e di conseguenza diretto ‘obiettivo’ degli
attacchi aerei.
I problemi del Kosovo saranno da altri trattati. Ma va qui fatto cenno
alla difficoltà di stabilire - in mancanza di attendibili testimonianze
delle diverse parti in conflitto- le cause di alcune perdite: in parte
imputabili alle bombe, ma anche alla volontà di ‘annullare’ l’identità
culturale del ‘nemico’- rischio cui un così delicato patrimonio è
sempre esposto. Da un lato sono stati danneggiati o distrutti edifici
legati all’identità islamica, in particolare moschee- a Djakovica,
Prizren, Pristina, Pec’. Le testimonianze di delegazioni lì presenti
confermano tante perdite- ferita profonda all’intera realtà del
territorio. D’altra parte- non durante il conflitto, ma dopo la ‘pace’,
alla presenza delle truppe internazionali- sono stati abbattuti o
gravemente deturpati numerosi monasteri ortodossi: forse non i
principali, meglio difesi, ma buona parte del tessuto connettivo che
arricchiva questa terra di episodi di varia epoca e storia- spesso
liquidati come ‘artisticamente poco interessanti’ (ma quando si tratta
del ‘nostro’ patrimonio, ogni chiesa di montagna è giustamente
sottoposta a tutela, perchè , pur in forme ‘provinciali’, è patrimonio
della comunità). Già nel luglio del ‘99- a pochi giorni dalla
‘conclusione’ degli attacchi, e dall’arrivo delle ‘truppe di pace’-
almeno trenta tra chiese e monasteri erano stati incendiati, violati o
fatti saltare. Non si sono sentite molte voci scandalizzate per queste
azioni, giudicate come ‘naturale risposta’ alle violenze subite. Così,
ogni casella finisce per andare al suo posto! E le coscienze
addormentate sono tranquille. Ma alcuni hanno anche allora dichiarato
il proprio sgomento e la necessità della tutela . Ricordiamo gli
articoli di Lionello Puppi sui danni che la scarsa attenzione ha
provocato all’identità di un popolo e della sua cultura . E gli appelli
lanciati sulla necessità di recuperare resti e documenti materiali dei
monasteri distrutti, prima di perdere anche le tracce della ‘memoria’.

Oggi tante cose sono cambiate in quella terra. Anche chi non si era
avvicinato alla sua cultura e alla sua società civile nel periodo della
separazione sente la necessità di riaprire i contatti. Si parla del
recupero del patrimonio di Serbia e Kosovo, finalmente come patrimonio
dell’umanità. Importanti iniziative ‘pubbliche’ sono state dedicate al
problema. Ho partecipato a due di questi momenti: al convegno
organizzato nel marzo 2000 a Venezia dal Dipartimento di Architettura -
sui beni culturali in rapporto alla guerra, e alla giornata dedicata un
anno dopo dalla Scuola Normale di Pisa ai problemi del patrimonio del
Kosovo. Più di recente sono state effettuate missioni, che ci si augura
siano momenti di dialogo tra parti che, entrambe, hanno qualcosa da
dire. La storia dei recuperi in quelle regioni non può essere
dimenticata, né liquidata perché non sempre ‘in linea’ con le teorie
proposte altrove. Si può crescere ‘insieme’ attraverso il confronto ,
anche se questo raramente si realizza nei fatti. Le occasioni che hanno
avuto- e continuano ad avere- concreta attuazione dimostrano che si può
almeno continuare su questa strada.

Il patrimonio ‘dell’umanità’ è in primo luogo patrimonio ‘del luogo’ e
ogni negazione o ‘sostituzione’ delle realtà umane lì presenti mina
anche la sopravvivenza del contesto culturale. E’ quello che sembra
avvenire nel Kosovo, che, dopo le tragiche vicende di scontro, sta
finendo per essere ‘spogliato’ di una delle sue identità con il
‘silenzio’ di chi dovrebbe aiutare la comunicazione. Ci si augura che
si possa ancora agire in direzione contraria. Il rispetto per i
monumenti non può prescindere dal rispetto per le componenti umane che
caratterizzano la storia di un ambiente. La sopravvivenza è legata al
recupero della ‘memoria’ e della ‘identità’ di quelli che in una terra
hanno vissuto, e vivono, le proprie radici. Solo il riconoscimento del
‘filo’ che unisce le proprie alle radici dell’ ‘altro’, con la
condivisione di uno spazio comune , può far vivere il patrimonio nel
tempo. Senza quel ‘confronto’ nessun patrimonio può salvarsi, nemmeno
quando viene riconosciuto come ‘patrimonio dell’umanità’. Basti
ricordare quanto l’antico sradicamento degli abitanti abbia contribuito
a danneggiare l’eredità artistica di queste regioni . E quanto anche in
Italia l’allontanamento di comunità umane abbia portato a perderne la
cultura, come nel caso di borghi appenninici dove l’ abbandono ha
decretato distruzioni, danneggiamenti o incongrue ‘trasformazioni’
dell’ ambiente ormai privo di cure .
Si sa che la cultura del ‘nemico’ è condannata alla distruzione.
Ricostruire il contesto sociale è allora unica base per una reale
tutela dei monumenti, che presuppone conoscenza e accettazione.
‘Riconoscerli’ come propri vuol dire ‘curarli’ e farli esistere. Gli
organismi internazionali non potranno da soli garantirne la vita, se
non torneranno ad essere ‘usati’ da chi, attraverso drammatiche
vicende, li ha fatti giungere fino ad oggi.

L’avvio di un dialogo riguardo alla tutela dei monumenti nella Serbia
propriamente detta può essere riconoscimento di quella cultura nel suo
‘reale’ significato nel contesto del territorio.
Risultano in corso importanti recuperi , ad esempio a Mileseva, dove si
sta intervenendo sugli affreschi dello ‘spazio sotto la cupola’, a
Sopocani- dove ogni anno si fanno lavori di manutenzione- o nei palazzi
di Belgrado, per ripristinare le strutture danneggiate dalle bombe.
Conoscenza e diffusione di informazioni, con la ‘schedatura’ delle
presenze e il recupero di monumenti e centri urbani, potranno portare
anche alla riapertura di itinerari legati a un turismo positivamente
vissuto, necessario alla crescita del territorio, come quello dei
viaggiatori del passato. Spesso parlando dei Balcani si rimane ancorati
alla costa - con qualche ‘salto’ in Bosnia- dimenticando le opportunità
dell’interno, dove splendide emergenze attendono solo di essere
conosciute. La ‘ricostruzione’ della via che, lungo i tracciati delle
strade romane, traversava i Balcani fino a Salonicco, oggi in pratica
corrispondente all’autostrada Belgrado - Nis, e al suo proseguimento in
Macedonia, oltre a facilitare i contatti , può riaprire antichi
percorsi. Facendo brevi deviazioni, si potranno allora incontrare
alcuni dei più importanti monasteri, che quella via avevano come punto
di riferimento già nel Medioevo.

Bibliografia di riferimento:

Per le vicende storiche::
N. Komnenovic’, ‘O propadanju fresaka na polusrusenim srpskim
srednjovekovnim crkvama’, in ‘ Narodni Muzej – Beograd, Kopije fresaka
iz srpskih srednjovekovnim crkva u rusevinama’ ( Copie degli affreschi
delle chiese medievali serbe in rovina), catalogo della mostra, Beograd
1980, pp. 5- 16 ( traduzione inglese pp. 51- 55).
Per lo studio tecnico degli affreschi:
Zdenka Zivkovic’ ( ‘Promene vrednosti boja na freskama polusrusenih
srpskih crkva’), ibidem, pp. 17- 32, traduzione inglese pp. 56- 61
Per le vicende di Sopocani:
V. Djuric’, ‘Sopocani’, Beograd 1991, con bibliografia. Per la storia
del monastero dopo i Nemanja, ‘Sudbina manastira’, ibidem , pp. 173-
175 (con riassunto in inglese)
Per le vicende di Mileseva:
S Radojcic’, ‘Mileseva’, Beograd 1963. Per gli eventi storici
successivi ai Nemanja, pp. 44- 59, con riassunto in inglese.
Per le vicende e la storia serba nel Medioevo:
S. Cirkovic’, ‘I Serbi nel Medioevo’, edizione italiana, Milano 1992