Uberto Tommasi – Mariella Cataldo,
Kosovo buco nero d’Europa
Edizioni Achab, Verona,
ottobre 2004, euro 11,00
INDICE:
Andrea Catone, Prefazione, pp. 5-8
Uberto Tommasi , Kosovo; Diario di viaggio, pp. 9-87
Prologo
Il Montenegro
La città assediata
Le case rubate
La danza dei cappi
La notte dei cristalli
L’amerikano
Il sogno di un prete
Nella tana dell’Uck
Il testamento di Tito
Il monastero di Decani
Pec
La stanza degli uomini
Uranio 238
Il vecchio rom
L’aquila nera
Un posto da serpenti
Dopo il Kosovo toccherà alla Palestina
Mariella Cataldo, Kosovo leti! (Voliamo in Kosovo), pp. 89-131
Dovidenia Jugoslavija, Arrivederci Jugoslavia
Un piano di soluzione politica per il Kosovo
Profughi a Kragujevac
Una Giulietta serba
Nenad il kosovaro
La casa dei doganieri
La peonia rossa
Il buco nero
Oggi arrivano i barbari
Buona notte Kosovo!
Annessi, pp. 133-141
---
Prefazione
Andrea Catone
Kosovo, vi dice niente questa parola?
I riflettori di giornali e TV da tempo si sono spenti su questa
provincia grande all’incirca quanto il Trentino o la Basilicata (poco
più di 10.000 km2), formalmente appartenente ancora alla Serbia, per la
quale diversi anni fa, nell’ormai lontana primavera del 1999, fu
rovesciato dalla NATO, l’alleanza militare più potente del mondo, un
torrente di missili e bombe, bombe a grappolo e proiettili all’uranio
impoverito compresi, su tutto il territorio di quella che si chiamava
ancora Repubblica Federale Jugoslava. Fu la guerra del Kosovo, ma
l’ipocrisia dei leader al governo, allora quasi tutti “democratici” e
“di sinistra”, dall’italiano D’Alema al tedesco Schröder, preferì non
pronunciare la parola “guerra” e parlare di “azione militare”,
“intervento”, “azione di polizia internazionale”. Fu la cosiddetta
“guerra umanitaria”, scatenata contro un paese che non aveva aggredito
nessun altro Stato, che non ne minacciava nessuno, per impedire, così
si disse, una “catastrofe umanitaria”, un “genocidio” dei
kosovaro-albanesi. Non era vero, nessun genocidio era in atto, come un
anno dopo, nel marzo 2000, ammise, in un documentato dossier curato da
Serge Halimi e Dominique Vidal, Le monde diplomatique, uno dei
pochissimi giornali che fecero esplicitamente autocritica sul modo in
cui si era parlato della situazione in Kosovo.
Ma le menzogne, i falsi, le contraffazioni servivano a spianare il
terreno per ottenere il consenso, o quanto meno il non-dissenso, per
l’aggressione armata alla Jugoslavia. Come ebbe a dire il deputato
tedesco della CDU Willy Wimmer, “non era mai successo finora che così
pochi mentissero a così tanti e così a fondo come in rapporto alla
guerra del Kosovo[1]”. La menzogna e la contraffazione hanno preceduto
e accompagnato la guerra della NATO contro la Jugoslavia, dal massacro
di Račak, attribuito alle milizie serbe e smentito da successivi
rapporti e autopsie di funzionari internazionali[2], alle centinaia di
migliaia di kosovaro-albanesi che l’esercito di Milošević avrebbe
massacrato[3], ridottesi, nel dicembre 1999, dopo accurate ricerche
degli osservatori internazionali, a 2018 cadaveri di tutte le etnie[4],
o l’operazione “ferro di cavallo” che il governo jugoslavo avrebbe
ordito per realizzare la pulizia etnica, anche questa inventata di sana
pianta dal governo tedesco, come rivelò in seguito il generale
Loquai[5].
La guerra contro la Serbia, fortemente voluta dai tedeschi e
dall’amministrazione Clinton - come mostrano chiaramente tutte le trame
cui Madeleine Albright ricorse per imporre nelle trattative al castello
di Rambouillet un diktat inaccettabile[6] alla delegazione jugoslava -
serviva a ben altro. Lo spiegava chiaramente ai suoi lettori un
insospettabile Sole 24 ore: serviva allo “sviluppo ed il controllo
delle vie di comunicazione ed energetiche verso e dal Medio Oriente ed
Asia Centrale […] Rifare i Balcani non è solo una questione intricata
di frontiere, ma significa ridiscutere la mappa dei corridoi
trans-europei […] nelle retrovie dei campi di battaglia, ogni Stato sta
spingendo verso una soluzione geopolitica ed economica conveniente”[7].
E accanto e complementare al controllo dei corridoi energetici e delle
vie di comunicazione, il controllo delle risorse minerarie (specie la
lignite, come Uberto Tommasi sottolinea nel suo racconto-inchiesta), di
cui il Kosovo, in particolare nella zona di Trepča, è ricco. Ma, poiché
oggi, nell’età dell’imperialismo più aggressivo, il McDonald non può
prosperare senza McDonnel Douglas, il costruttore dell’F-15 e di tanti
caccia USA, poiché gli interessi economici delle grandi potenze vengono
sostenuti dalla potenza di fuoco dei bombardieri, ecco che la guerra
contro la Jugoslavia frutta agli USA la più grande base militare in
Europa, Camp Bondsteel,che tra soldati e personale esterno può ospitare
fino a 50.000 persone: 25 chilometri di strade, 300 edifici, 14
chilometri di barriere di cemento, 84 chilometri di filo spinato.
Ma su tutto questo i grandi media tacciono, come tacciono
sul fatto che,ad oltre cinque anni dalla “guerra umanitaria”, che con
pesanti bombardamenti sulla Federazione jugoslava dichiarava di voler
evitare un genocidio, si sta realizzando un etnocidio. Le fanfare
mediatiche che prepararono e accompagnarono con grande fragore di
suoni, immagini, parole, la “guerra umanitaria”, cedono il posto alla
condanna del silenzio. Un silenzio imbarazzato e complice.
Questa regione nel cuore dei Balcani, contesa da secoli, nella quale
all’ombra dei difensori dei diritti umani, delle truppe NATO e
dell’ONU, si sono consumati in cinque anni i più efferati delitti ed
una pulizia etnica radicale e violenta, questa regione è destinata alla
rimozione e all’oblio. Poiché oggi non si può disinformare, poiché oggi
non si può raccontare la favoletta di una ritrovata convivenza tra le
diverse etnie, di una democrazia instaurata in cui viene rispettata la
legalità e uno stato di diritto – qui vige la legge del più forte,
dell’impunità per gli assassini, questo è oggi un grande narcostato che
traffica in armi, schiave, droga[8] – poiché è talmente plateale la
realtà di una discriminazione sostanziale dei serbi, di un’oppressione
senza limiti, di una vita invivibile sotto la permanente minaccia di
violenze, sequestri, assassini, devastazioni, o “semplici” vessazioni
quotidiane come l’abituale lancio di sassi su automobili con targa
serba, ecco che allora è preferibile tacere, stendere un velo spesso di
oblio. Dimenticate il Kosovo, ignorate il Kosovo, non nominatelo, non
parlatene! Perché se ne parlate è una ferita aperta nel cuore
dell’Europa. Perché non si turbino le coscienze di chi la guerra la
promosse , giustificò e sostenne ideologicamente e politicamente,
perché si possa affermare la favola dei diritti umani portati sulle
bocche di fuoco della “guerra umanitaria”, il Kosovo deve essere
ignorato. Dimenticate il Kosovo, dimenticate le migliaia di morti e
distruzioni che furono portate per imporre alla Serbia il “nuovo ordine
mondiale”. Il Kosovo è oggi il luogo dove ammutoliscono i discorsi
retorici della “comunità internazionale”, è la testimonianza vivente e
sanguinante della menzogna della “guerra umanitaria”. Il Kosovo è oggi
il luogo della insicurezza estrema, della mancanza di diritti reali per
le minoranze, è il luogo della sopraffazione, della giustizia negata,
della verità contraffatta. Oggi il Kosovo è il luogo del silenzio.
Questo silenzio Uberto e Mariella provano a rompere, con la
voce accorata, ma anche lieve, dimessa, familiare, apparentemente e
volutamente non curata, conversevole, talora ironica o sarcastica, ma
sempre partigiana, la voce di chi si sente di stare, con passione e
solidarietà, dalla parte degli oppressi, la voce di chi sente montare
un moto violento d’indignazione, a stento trattenuto, per l’infamia di
una condizione umana che è insicurezza di vita, che è vita senza vita,
una condizione che si vorrebbe gridare con tutto il fiato che si ha in
corpo a un mondo che, indifferente, dopo la “guerra umanitaria”, ha
spento la luce sul Kosovo molto più a lungo di quanto non facciano le
continue interruzioni di corrente elettrica nel paese “liberato” dalla
NATO. I racconti di viaggio di Uberto e Mariella - di un viaggio
compiuto in tempi diversi e in zone diverse, da parti diverse, l’uno,
reporter di guerra nelle zone più esposte dell’ultimo decennio del
secolo, viaggiando con una macchina con targa italiana a incontrare e
intervistare i “vincitori” albanesi (aprendo al lettore improvvise e
folgoranti brecce per comprendere una mentalità in gran parte ignota),
o gli “amerikani” che spadroneggiano, ma anche i rom perseguitati e
costretti ad una vita di stentata sopravvivenza; l’altra, viaggiando
con un’auto con targa serba, cui è consentito muoversi con un minimo di
tranquillità solo nelle enclave serbe, a incontrare il mondo dei
“vinti”, delle donne serbe cui i terroristi dell’UCK hanno rapito o
ucciso il marito sotto lo sguardo indifferente e oggettivamente
complice della KFOR; dei ragazzi serbi che sono costretti per studiare
all’università a farsi 500 chilometri invece di 100 per non incorrere
nelle maglie della ferocia etnica; dei frati degli antichi monasteri
ortodossi rischiosamente sfuggiti agli incendi e devastazioni del
pogrom di marzo – sono squarci di voci che rompono l’assordante
silenzio, sprazzi di luce nella notte in cui i grandi media hanno
avviluppato il Kosovo.
[1]Citazione del deputato tedesco della CDU, Willy Wimmer, riportata
daJürgen Elsässer, in Menzogne di guerra - Le bugie letali della NATO e
le loro vittime nel conflitto per il Kosovo, La Città del Sole, Napoli,
p. 22.
[2] Cfr. oltre al minuziosamente documentato libro di Elsässer,Robin de
Ruiter, Jugoslavia: prima vittima del “nuovo ordine mondiale”, Zambon
editore, Frankfurt a.M., 2003, nonché Enrico Vigna, Kosovo “liberato” –
le menzogne per fare le guerre le ragioni per fare la pace, La città
del sole, Napoli, 2003, cui è annesso il bel film-inchiesta di Michel
Collon e Vanessa Stojlković, Les damnés du Kosovo, che denuncia la
pulizia etnica delle minoranze nel Kosovo governato dall’ONU e dalla
NATO.
[3] 800.000 secondo Standard Vienna (7 aprile 1999), 500.000 secondo un
comunicato del Dipartimento di stato USA del 5 aprile 1999, 300.000
nella comunicazione di D’Alema alla Camera del 13 aprile. Tutti i
principali leader politici e i mass media parlarono di genocidio in
atto.
[4] Cfr. il dossier di Le monde diplomatique, marzo 2003.
[5] Cfr. J. Elsässer, op. cit., capitolo5,Wag the dog. Come la Nato
escogitò una campagna serba di espulsioni – “l’operazione a ferro di
cavallo”.
[6] Si pretendeva, tra l’altro, che l’intera Repubblica federale
jugoslava fosse aperta alle truppe della NATO, cosa che significava una
rinuncia totale alla sovranità statale.
[7] Cfr. Alberto Negri, “Qual è la reale posta in gioco della
ricostruzione dei Balcani?”, in Il sole 24 ore,30 luglio 1999.
[8] Cfr. l’analisi del generale Fabio Mini, già comandante della KFOR
in Kosovo, “Fuga dai Balcani”, in Limes, 2003, n. 6, pp. 35-36.
---
Gazzetta del Mezzogiorno, web
«Kosovo buco nero d’Europa»
Kosovo buco nero d’Europa
Edizioni Achab, Verona,
ottobre 2004, euro 11,00
INDICE:
Andrea Catone, Prefazione, pp. 5-8
Uberto Tommasi , Kosovo; Diario di viaggio, pp. 9-87
Prologo
Il Montenegro
La città assediata
Le case rubate
La danza dei cappi
La notte dei cristalli
L’amerikano
Il sogno di un prete
Nella tana dell’Uck
Il testamento di Tito
Il monastero di Decani
Pec
La stanza degli uomini
Uranio 238
Il vecchio rom
L’aquila nera
Un posto da serpenti
Dopo il Kosovo toccherà alla Palestina
Mariella Cataldo, Kosovo leti! (Voliamo in Kosovo), pp. 89-131
Dovidenia Jugoslavija, Arrivederci Jugoslavia
Un piano di soluzione politica per il Kosovo
Profughi a Kragujevac
Una Giulietta serba
Nenad il kosovaro
La casa dei doganieri
La peonia rossa
Il buco nero
Oggi arrivano i barbari
Buona notte Kosovo!
Annessi, pp. 133-141
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Prefazione
Andrea Catone
Kosovo, vi dice niente questa parola?
I riflettori di giornali e TV da tempo si sono spenti su questa
provincia grande all’incirca quanto il Trentino o la Basilicata (poco
più di 10.000 km2), formalmente appartenente ancora alla Serbia, per la
quale diversi anni fa, nell’ormai lontana primavera del 1999, fu
rovesciato dalla NATO, l’alleanza militare più potente del mondo, un
torrente di missili e bombe, bombe a grappolo e proiettili all’uranio
impoverito compresi, su tutto il territorio di quella che si chiamava
ancora Repubblica Federale Jugoslava. Fu la guerra del Kosovo, ma
l’ipocrisia dei leader al governo, allora quasi tutti “democratici” e
“di sinistra”, dall’italiano D’Alema al tedesco Schröder, preferì non
pronunciare la parola “guerra” e parlare di “azione militare”,
“intervento”, “azione di polizia internazionale”. Fu la cosiddetta
“guerra umanitaria”, scatenata contro un paese che non aveva aggredito
nessun altro Stato, che non ne minacciava nessuno, per impedire, così
si disse, una “catastrofe umanitaria”, un “genocidio” dei
kosovaro-albanesi. Non era vero, nessun genocidio era in atto, come un
anno dopo, nel marzo 2000, ammise, in un documentato dossier curato da
Serge Halimi e Dominique Vidal, Le monde diplomatique, uno dei
pochissimi giornali che fecero esplicitamente autocritica sul modo in
cui si era parlato della situazione in Kosovo.
Ma le menzogne, i falsi, le contraffazioni servivano a spianare il
terreno per ottenere il consenso, o quanto meno il non-dissenso, per
l’aggressione armata alla Jugoslavia. Come ebbe a dire il deputato
tedesco della CDU Willy Wimmer, “non era mai successo finora che così
pochi mentissero a così tanti e così a fondo come in rapporto alla
guerra del Kosovo[1]”. La menzogna e la contraffazione hanno preceduto
e accompagnato la guerra della NATO contro la Jugoslavia, dal massacro
di Račak, attribuito alle milizie serbe e smentito da successivi
rapporti e autopsie di funzionari internazionali[2], alle centinaia di
migliaia di kosovaro-albanesi che l’esercito di Milošević avrebbe
massacrato[3], ridottesi, nel dicembre 1999, dopo accurate ricerche
degli osservatori internazionali, a 2018 cadaveri di tutte le etnie[4],
o l’operazione “ferro di cavallo” che il governo jugoslavo avrebbe
ordito per realizzare la pulizia etnica, anche questa inventata di sana
pianta dal governo tedesco, come rivelò in seguito il generale
Loquai[5].
La guerra contro la Serbia, fortemente voluta dai tedeschi e
dall’amministrazione Clinton - come mostrano chiaramente tutte le trame
cui Madeleine Albright ricorse per imporre nelle trattative al castello
di Rambouillet un diktat inaccettabile[6] alla delegazione jugoslava -
serviva a ben altro. Lo spiegava chiaramente ai suoi lettori un
insospettabile Sole 24 ore: serviva allo “sviluppo ed il controllo
delle vie di comunicazione ed energetiche verso e dal Medio Oriente ed
Asia Centrale […] Rifare i Balcani non è solo una questione intricata
di frontiere, ma significa ridiscutere la mappa dei corridoi
trans-europei […] nelle retrovie dei campi di battaglia, ogni Stato sta
spingendo verso una soluzione geopolitica ed economica conveniente”[7].
E accanto e complementare al controllo dei corridoi energetici e delle
vie di comunicazione, il controllo delle risorse minerarie (specie la
lignite, come Uberto Tommasi sottolinea nel suo racconto-inchiesta), di
cui il Kosovo, in particolare nella zona di Trepča, è ricco. Ma, poiché
oggi, nell’età dell’imperialismo più aggressivo, il McDonald non può
prosperare senza McDonnel Douglas, il costruttore dell’F-15 e di tanti
caccia USA, poiché gli interessi economici delle grandi potenze vengono
sostenuti dalla potenza di fuoco dei bombardieri, ecco che la guerra
contro la Jugoslavia frutta agli USA la più grande base militare in
Europa, Camp Bondsteel,che tra soldati e personale esterno può ospitare
fino a 50.000 persone: 25 chilometri di strade, 300 edifici, 14
chilometri di barriere di cemento, 84 chilometri di filo spinato.
Ma su tutto questo i grandi media tacciono, come tacciono
sul fatto che,ad oltre cinque anni dalla “guerra umanitaria”, che con
pesanti bombardamenti sulla Federazione jugoslava dichiarava di voler
evitare un genocidio, si sta realizzando un etnocidio. Le fanfare
mediatiche che prepararono e accompagnarono con grande fragore di
suoni, immagini, parole, la “guerra umanitaria”, cedono il posto alla
condanna del silenzio. Un silenzio imbarazzato e complice.
Questa regione nel cuore dei Balcani, contesa da secoli, nella quale
all’ombra dei difensori dei diritti umani, delle truppe NATO e
dell’ONU, si sono consumati in cinque anni i più efferati delitti ed
una pulizia etnica radicale e violenta, questa regione è destinata alla
rimozione e all’oblio. Poiché oggi non si può disinformare, poiché oggi
non si può raccontare la favoletta di una ritrovata convivenza tra le
diverse etnie, di una democrazia instaurata in cui viene rispettata la
legalità e uno stato di diritto – qui vige la legge del più forte,
dell’impunità per gli assassini, questo è oggi un grande narcostato che
traffica in armi, schiave, droga[8] – poiché è talmente plateale la
realtà di una discriminazione sostanziale dei serbi, di un’oppressione
senza limiti, di una vita invivibile sotto la permanente minaccia di
violenze, sequestri, assassini, devastazioni, o “semplici” vessazioni
quotidiane come l’abituale lancio di sassi su automobili con targa
serba, ecco che allora è preferibile tacere, stendere un velo spesso di
oblio. Dimenticate il Kosovo, ignorate il Kosovo, non nominatelo, non
parlatene! Perché se ne parlate è una ferita aperta nel cuore
dell’Europa. Perché non si turbino le coscienze di chi la guerra la
promosse , giustificò e sostenne ideologicamente e politicamente,
perché si possa affermare la favola dei diritti umani portati sulle
bocche di fuoco della “guerra umanitaria”, il Kosovo deve essere
ignorato. Dimenticate il Kosovo, dimenticate le migliaia di morti e
distruzioni che furono portate per imporre alla Serbia il “nuovo ordine
mondiale”. Il Kosovo è oggi il luogo dove ammutoliscono i discorsi
retorici della “comunità internazionale”, è la testimonianza vivente e
sanguinante della menzogna della “guerra umanitaria”. Il Kosovo è oggi
il luogo della insicurezza estrema, della mancanza di diritti reali per
le minoranze, è il luogo della sopraffazione, della giustizia negata,
della verità contraffatta. Oggi il Kosovo è il luogo del silenzio.
Questo silenzio Uberto e Mariella provano a rompere, con la
voce accorata, ma anche lieve, dimessa, familiare, apparentemente e
volutamente non curata, conversevole, talora ironica o sarcastica, ma
sempre partigiana, la voce di chi si sente di stare, con passione e
solidarietà, dalla parte degli oppressi, la voce di chi sente montare
un moto violento d’indignazione, a stento trattenuto, per l’infamia di
una condizione umana che è insicurezza di vita, che è vita senza vita,
una condizione che si vorrebbe gridare con tutto il fiato che si ha in
corpo a un mondo che, indifferente, dopo la “guerra umanitaria”, ha
spento la luce sul Kosovo molto più a lungo di quanto non facciano le
continue interruzioni di corrente elettrica nel paese “liberato” dalla
NATO. I racconti di viaggio di Uberto e Mariella - di un viaggio
compiuto in tempi diversi e in zone diverse, da parti diverse, l’uno,
reporter di guerra nelle zone più esposte dell’ultimo decennio del
secolo, viaggiando con una macchina con targa italiana a incontrare e
intervistare i “vincitori” albanesi (aprendo al lettore improvvise e
folgoranti brecce per comprendere una mentalità in gran parte ignota),
o gli “amerikani” che spadroneggiano, ma anche i rom perseguitati e
costretti ad una vita di stentata sopravvivenza; l’altra, viaggiando
con un’auto con targa serba, cui è consentito muoversi con un minimo di
tranquillità solo nelle enclave serbe, a incontrare il mondo dei
“vinti”, delle donne serbe cui i terroristi dell’UCK hanno rapito o
ucciso il marito sotto lo sguardo indifferente e oggettivamente
complice della KFOR; dei ragazzi serbi che sono costretti per studiare
all’università a farsi 500 chilometri invece di 100 per non incorrere
nelle maglie della ferocia etnica; dei frati degli antichi monasteri
ortodossi rischiosamente sfuggiti agli incendi e devastazioni del
pogrom di marzo – sono squarci di voci che rompono l’assordante
silenzio, sprazzi di luce nella notte in cui i grandi media hanno
avviluppato il Kosovo.
[1]Citazione del deputato tedesco della CDU, Willy Wimmer, riportata
daJürgen Elsässer, in Menzogne di guerra - Le bugie letali della NATO e
le loro vittime nel conflitto per il Kosovo, La Città del Sole, Napoli,
p. 22.
[2] Cfr. oltre al minuziosamente documentato libro di Elsässer,Robin de
Ruiter, Jugoslavia: prima vittima del “nuovo ordine mondiale”, Zambon
editore, Frankfurt a.M., 2003, nonché Enrico Vigna, Kosovo “liberato” –
le menzogne per fare le guerre le ragioni per fare la pace, La città
del sole, Napoli, 2003, cui è annesso il bel film-inchiesta di Michel
Collon e Vanessa Stojlković, Les damnés du Kosovo, che denuncia la
pulizia etnica delle minoranze nel Kosovo governato dall’ONU e dalla
NATO.
[3] 800.000 secondo Standard Vienna (7 aprile 1999), 500.000 secondo un
comunicato del Dipartimento di stato USA del 5 aprile 1999, 300.000
nella comunicazione di D’Alema alla Camera del 13 aprile. Tutti i
principali leader politici e i mass media parlarono di genocidio in
atto.
[4] Cfr. il dossier di Le monde diplomatique, marzo 2003.
[5] Cfr. J. Elsässer, op. cit., capitolo5,Wag the dog. Come la Nato
escogitò una campagna serba di espulsioni – “l’operazione a ferro di
cavallo”.
[6] Si pretendeva, tra l’altro, che l’intera Repubblica federale
jugoslava fosse aperta alle truppe della NATO, cosa che significava una
rinuncia totale alla sovranità statale.
[7] Cfr. Alberto Negri, “Qual è la reale posta in gioco della
ricostruzione dei Balcani?”, in Il sole 24 ore,30 luglio 1999.
[8] Cfr. l’analisi del generale Fabio Mini, già comandante della KFOR
in Kosovo, “Fuga dai Balcani”, in Limes, 2003, n. 6, pp. 35-36.
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«Kosovo buco nero d’Europa»