KRAGUJEVAC 1941: LE "FOSSE ARDEATINE" DELLA SERBIA

L'articolo che segue e' tratto da "Storia Illustrata" del gennaio 1979.
E' stato trovato per caso in una vecchia collezione della rivista.

Ricordiamo che la citta' di Kragujevac e' stata soggetta nella primavera
del 1999 a bombardamenti da parte di aerei della NATO (forse anche
tedeschi!), che hanno colpito tra l'altro gli impianti della fabbrica di
auto Zastava e decine di operai che li presidiavano, nonche' gli stessi
edifici del museo-memoriale della strage nazista di cui si racconta qui
sotto.

Ringraziamo vivamente Giorgio di Trieste per la trascrizione.
Per il grande interesse dell'argomento trattato, ne alleghiamo una
versione in formato Word per facilitarne la lettura e la diffusione a
chi usa Windows.


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38 anni fa a Kragujevac

STERMINIO NAZISTA IN SERBIA

In un solo giorno 7300 morti nella città martire. E' l'autunno del 1941.
Pochi mesi dopo la dissoluzione del regno di Jugoslavia, la penisola
balcanica è insorta contro l'occupante nazifascista. Alla rivolta
partigiana i tedeschi rispondono facendo strage della popolazione
civile.

(di ANTONIO PITAMITZ)


Il 20 ottobre 1941, sei mesi dopo l'invasione tedesca della Jugoslavia,
nei due Ginnasi di Kragujevac (leggi Kragujevaz), la città serba posta
nel centro della regione della Šumadija, le lezioni iniziano alle 8.30,
come di consueto. Sono in programma quel giorno la sintassi della lingua
serbocroata, matematica, la poesia di Goethe, la fisica. In una classe,
un professore croato, un profugo fuggito dal regime fascista instaurato
in Croazia da Ante Pavelic, sottolinea il valore della libertà. Poco
lontano, un altro spiega l'opera di un poeta serbo del romanticismo
risorgimentale. La mente rivolta alle secolari lotte sostenute dai serbi
per la loro indipendenza e a quella presente che cresce
irresistibilmente, anch'egli parla di libertà. La voce calma e profonda
che illustra i versi del poeta: "La libertà è un nettare che inebria /
Io la bevvi perché avevo sete", ne nasconde a fatica la tensione, che
aleggia anche nell'aula, che grava su tutti, sulla cittadina, sui suoi
abitanti, e che l'eco strozzata di fucilerie lontane da alcuni giorni
alimenta.

Dal 13 ottobre 1941 Kragujevac e la sua regione sono teatro di una vasta
azione di rappresaglia, che i tedeschi stanno conducendo con spietata
decisione contemporaneamente anche nel resto della Serbia. La ferocia di
cui essi in quei giorni danno prova ha una ragione specifica
contingente. La rapida vittoria dell'Asse ha dissolto uno Stato, il
regno dei Karadjeordjevic, ma non ha prostrato i popoli della
Jugoslavia. L'illusione tedesca di una comoda permanenza in quella terra
è stata presto delusa. Sin dai primi giorni dell'occupazione, i tedeschi
hanno avuto filo da torcere. La guerra, che anche in Šumadija i
resistenti fanno, è senza quartiere. Sabotaggi sensazionali e diversioni
in grande stile si registrano sin dal mese di maggio. Linee telefoniche
e telegrafiche vengono tagliate, ponti e strade ferrate saltano. Il
movimento di resistenza cresce così rapidamente, ben presto è così ampio
che i tedeschi e le truppe collaborazioniste del quisling serbo Milan
Nedic abbandonano il presidio dei villaggi. Gli invasori si sentono
troppo esposti, isolati, preferiscono arroccarsi in città. La lotta
contro i patrioti la organizzano dai centri urbani, e la conducono
secondo il metro nazista che misura in tutti gli slavi una razza
inferiore, da sterminare. La traduzione pratica di questo principio è
all'altezza della fama che si guadagnano. A Belgrado, una moto
incendiata della Wehrmacht vale la vita di 122 serbi. Solo nella
capitale, in sette mesi fucilano 4700 ostaggi.

Incredibilmente, gli hitleriani ritengono di poter coprire con la
propaganda questo pugno di ferro che calano sul paese. Le argomentazioni
che diffondono sono quelle care alla "dottrina" nazifascista dell'Ordine
Nuovo Europeo. Ai contadini serbi dicono di averli salvati dagli ebrei e
dai capitalisti, e promettono anche di salvarli dal bolscevismo semita,
che sta per essere sicuramente sconfitto sul fronte orientale.

L'itinerario di questa vittoria, a Kragujevac può essere seguito sulla
grande carta geografica che campeggia nel centro della città. Una croce
uncinata segna la progressione delle forze dell'Asse in direzione di
Mosca. Però, come altrove, nemmeno a Kragujevac terrore, repressione,
lusinghe, denaro fatto circolare per corrompere, valgono a indebolire il
sostegno alla lotta partigiana, a ridurne il seguito. A dare contorni
netti alla situazione, le risposte alla propaganda tedesca non mancano.
La carta geografica dell'Asse viene bruciata in pieno giorno. Il fuoco
divora anche una delle fabbriche militari della città. Un treno di
quaranta vagoni viene distrutto sulla linea Kragujevac-Kraljevo,
provocando la morte di cinquanta tedeschi. Da vincitori e occupanti, i
tedeschi si trovano nella condizione di assediati.

E' Kragujevac, città da sempre ribelle, che prende il suo nome da
kraguj, dal rapace grifone che popolava i sui boschi, che alimenta la
Resistenza della zona. E' questa città di antiche tradizioni nazionali e
socialiste che guida la lotta della Šumadija, il cuore della Serbia. Gli
operai comunisti che costituiscono il nerbo delle formazioni partigiane
vengono dal suo arsenale militare. Dalle sue case dai cento nascondigli,
che hanno già ingannato turchi e austroungarici, escono le armi, le
munizioni, il materiale sanitario, i libri che donne, bambini e ragazzi
portano quotidianamente ai combattenti del bosco.

Per contenere la sua iniziativa, per fronteggiare questa lotta di bande,
che è lotta di popolo e che sconvolge gli schemi bellici dei signori
nazisti della guerra, già alla fine dell'agosto 1941 Kragujevac conta la
guarnigione tedesca più forte di tutta la Serbia centrale. Ma i due
battaglioni e i mezzi corazzati di cui i tedeschi dispongono non sono
sufficienti ad arrestare lo slancio delle tre compagnie partigiane che
operano fuori della città. Né tantomeno la Gestapo è in grado di
bloccare i gruppi clandestini che si annidano dentro. La loro azione
anzi si fa sempre più audace, punta sul risultato militare, ma ricerca
anche l'effetto psicologico. Per i partigiani, importante è non soltanto
colpire il nemico, ma aiutare anche i serbi oppressi a sperare, a
vivere. Una notte d'agosto, cento metri di ferrovia vengono fatti
saltare in città, proprio sotto il naso dei tedeschi.

E' una sfida, che ha sapore di beffa. In questa situazione, la rabbia e
il desiderio di vendetta dei tedeschi crescono quotidianamente. Quando
nel settembre 1941, la ribellione guadagna tutta la Serbia, e
conseguentemente mette radici ancora più profonde in Šumadija, il
generale Boehme, comandante delle forze tedesche nel Paese, considera
che la misura è colma. Il prestigio dei suoi soldati deve essere
risollevato, una dura lezione deve essere somministrata ai serbi. Una
spietata repressione, da condurre senza esitazione, è decisa. A rendere
più chiara la direttiva che passa ai subalterni, e che precisa la
"filosofia" del comando tedesco, Boehme ricorda che "una vita umana non
vale nulla", e che perciò per intimidire bisogna ricorrere a una
"crudeltà senza eguali". A metà settembre i tedeschi passano all'azione.
La macchina si mette in moto.

Per un mese la Serbia centrale è trasformata in un campo di sterminio. A
decine villaggi grandi e piccoli sono bruciati, spesso, come a Novo
Mesto o a Debrc, con dentro gli abitanti. I serbi muoiono a migliaia,
uccisi, massacrati. A Šabac, il 26 settembre, sono 3000 gli uomini dai
14 ai 70 anni che rimangono vittime della razzia tedesca. Cinquecento
muoiono durante una marcia fatta fare al passo di corsa per 46
chilometri. Gli altri sono fucilati. Una sorte analoga hanno, il 10
ottobre, a Valjevo, 2200 ostaggi: finiscono al muro. "Pagano" 10
tedeschi uccisi e 24 feriti. Cinque giorni dopo, il 15, è "sentenziata"
la punizione di Kraljevo, un'altra città che resiste. I plotoni di
esecuzione lavorano per cinque giorni, le vittime sono 5000. Sembra
impossibile immaginare una strage ancora più grande. Eppure,
l'allucinante escalation non ha toccato la sua punta di massimo orrore.
Lo farà a Kragujevac, e nel suo circondario. La "spedizione punitiva"
comincia il 13 ottobre. Quel giorno, nel quartiere operaio di
Kragujevac, i tedeschi prendono 30 uomini. Per 3 giorni se li trascinano
dietro nella puntata che fanno contro il paese vicino, Gornji Milanovac.
Affamati, percossi, costretti a rimuovere tronchi d'albero e a tirare
fuori dal fango carri armati, adoperati come scudo contro i partigiani,
sono testimoni della sorte del piccolo paese di pastori. Vivono
un'agonia che ha fine solo con il grande massacro, nel quale scompaiono
anche i 132 ostaggi di Gornji Milanovac. In quanto al paese, anche
questo viene bruciato. I tedeschi saldano così un vecchio conto che
avevano in sospeso. Anche per questa impresa però devono pagare uno
scotto. Trentasei uomini vengono messi fuori combattimento dai
partigiani, che attaccano senza sosta.

Di fronte a questo "smacco" la logica tedesca della ritorsione non tarda
a scattare. Sarà Kragujevac a pagare, con la vita di 100 cittadini ogni
tedesco morto, e con quella di 50 ogni tedesco ferito. Duemilatrecento
persone sono condannate a morte.

La rappresaglia punta per primo sui "nemici storici" del Reich:
comunisti e ebrei. Gli ebrei maschi, e un certo numero di comunisti, 66
persone in tutto, vengono arrestati sulla base delle liste che i
collaborazionisti forniscono. Ma questo non basta. Il giorno
successivo, il 19 ottobre, una massiccia operazione ha luogo
nell'immediata periferia della città. Tre paesi, posti nel giro di tre
chilometri, sono travolti della furia tedesca. Grošnica, Meckovac,
Maršic bruciano, 423 uomini muoiono. A Meckovac, donne e bambini sono
costretti ad assistere all'esecuzione. Lo stesso macabro rituale è
imposto a Grošnica, dove si distinguono i Volontari Anticomunisti di
Dimitrjie Ljotic. Il paese quel giorno celebra la festa del patrono. I
fascisti serbi strappano il pope dell'altare con il vangelo ancora in
mano, i fedeli vanno a morire stringendo i pani benedetti della
comunione ortodossa. Vengono falciati tutti lì vicino, con le
mitragliatrici. Così, intorno a Kragujevac si è fatto un cerchio di
morte. La prova generale è compiuta. Ora si passa al "grande massacro".

L'azione inizia la mattina del 20 ottobre. Alle prime luci dell'alba,
gli accessi a Kragujevac vengono bloccati. Mitragliatrici sono postate
nei punti nevralgici. Nessuno può più uscire dalla città, nessuno può
più entrarvi. Chi, ignorando il dispositivo, si avvicina, viene ucciso.
E' quanto accade a uno zingaro, che arriva dalla campagna, a un vecchio
che in città muove verso il mercato. Agli ordini del maggiore Koenig,
tedeschi e collaborazionisti aprono la caccia all'uomo. Nessuno sfugge,
nessuno è "dimenticato". Il gruppo di operai che lavora tranquillamente
a un torrente, i tre popi di una chiesa, che sperano di trovare la
salvezza dietro le icone. I razziatori entrano a stanare ovunque. Gli
impiegati sono portati fuori dal municipio; giudici, scrivani, pubblico,
dal tribunale. Dalle abitazioni vengono tratti anche gli ammalati. Un
barbiere è prelevato dal negozio insieme al suo cliente, che con altri
disgraziati marcia verso il suo destino, una guancia insaponata, l'altra
no.

Alle dieci i tedeschi irrompono anche nei due ginnasi. L'apparizione di
quelle uniformi verdi armate di fucili e parabellum, infrange la
normalità forzata che da tre giorni nelle due scuole vige. Il barone
Bischofhausen, il comandante tedesco della piazza, il 17 ha minacciato
presidi, professori e genitori di severe sanzioni se i ragazzi non
frequentavano la scuola. Lo ha fatto ripetere anche per le vie della
città, a suon di tamburo, dal banditore pubblico. Li vuole tutti in
aula, sempre. L'ufficiale tedesco, che da civile è insegnante, combatte
l'assenteismo degli studenti non certo perché mosso da passione
pedagogica. Chiedendo che proprio per quel giorno 20 tutti siano
presenti, egli fa apparire di voler esercitare un controllo; che però si
trasforma in una trappola. In realtà, egli non dimentica che i
ginnasiali di Kragujevac hanno manifestato sin dai primi giorni la più
violenta opposizione all'occupante. Un giovane è finito impiccato dopo
uno scontro con la polizia. Il barone sa pure che anche in quelle aule
la Resistenza attinge, per alimentare i suoi "gruppi d'azione", i suoi
propagandisti e sabotatori.

L'ispezione annunciata per quel giorno è arrivata. I registri chiesti
dal barone sono pronti. Arrivando quella mattina a scuola, i ragazzi
hanno cancellato i loro nomi dall'elenco. Precauzione inutile. Non c'è
appello. I tedeschi entrano direttamente nelle aule, e rastrellano.
Hinaus, fuori tutti quelli dai 16 anni in su. Anche il ragazzo invalido
che si trascina con la stampella, per il quale invano una professoressa
intercede. Anche la classe che il professore di tedesco tenta di
salvare. Ai soldati che si affacciano, il professore dice, per
rabbonirli, che stanno facendo lezione di tedesco. Mente. E mente una
seconda volta quando gli chiedono quanti anni hanno i suoi ragazzi.
Quindici dice. I tedeschi, convinti, fanno per andarsene. Ma in quel
momento un alunno si alza dall'ultimo banco. E' lo spilungone della
classe. I tedeschi, dalla soglia si girano, capiscono, e sbattono fuori
tutti.

I ginnasiali raggiungono le file dei razziati, i professori in testa.
Con loro, ci sono anche Mile Novakovic, insegnante di chimica, celibe, e
Djordje Stefanov, di letteratura croata, anche lui rifugiato in Serbia
con la moglie e le due figlie per sfuggire ai fascisti della Croazia.
Quel giorno i due professori non hanno lezione. Ma quando hanno visto
che in città i tedeschi rastrellavano, certi che la scuola non sarebbe
stata risparmiata, sono venuti lo stesso, per essere insieme ai loro
ragazzi. Li vogliono seguire fino in fondo. Andranno insieme a loro alla
fucilazione. Del corpo insegnante, solo le donne non sono razziate.
Dalle finestre della scuola vedono sfilare i professori e gli alunni, e
"cento berretti levarsi in segno di saluto" . I ragazzi credono ancora
che torneranno.

Pochi sono i fortunati che riescono a filtrare tra le maglie di quella
immensa rete gettata sulla città. Chi vi riesce, va a unirsi ai
partigiani. Avrà sicuramente qualcuno da vendicare. Gli altri, a
migliaia, ingrossano le colonne che tutto il giorno scorrono per
Kragujevac dirette ai luoghi di raccolta. I razziati sono quasi 10.000,
su meno di 30.000 abitanti che conta la città. I tedeschi non hanno
tralasciato nemmeno il carcere. Ultimi ad arrivare, quei detenuti sono,
con comunisti ed ebrei, i primi ad essere fucilati.

Dai luoghi dove sono concentrati in attesa di conoscere la loro sorte,
la sera di quel 20 ottobre i prigionieri sentono le prime scariche di
fucileria. E' l'avvio della grande carneficina. Contando sulla
sorpresa, e sulla iniziale "distrazione" dei fucilatori, alcuni dei
condannati riescono a salvarsi. Qualcuno fugge appena messo in riga.
Altri, come Životjin Jovanovic, alla scarica si getta a terra anche se
non è colpito, poi balza e corre. Viene ricatturato a un posto di
blocco. Tenta di nuovo la fuga, e il suo guardiano gli spara a
bruciapelo. Gli sfiora l'inguine. Poi dopo avergli dato il colpo di
grazia nella spalla invece che in testa, lo lascia a terra credendolo
morto. L'uomo striscia tutta la notte a palmo a palmo finché arriva alla
casa di un amico. E' soccorso, si crede in salvo. Arrivano i fascisti
serbi, che lo riprendono. Dopo averlo picchiato decidono che, essendo
ormai in fin di vita, tanto vale lasciarlo morire. Ma l'uomo non muore.

Altri ancora devono la vita alla fortuna, alla professione, al sangue
freddo che riescono ad avere anche in un tale frangente. A mano a mano
che inquadrano i gruppi per condurli alla fucilazione, i tedeschi fanno
la selezione. Alcuni criteri non sono molto chiari. Risparmiano, per
esempio, gli elettricisti, gli idraulici, i panettieri. Altri lo sono di
più. Ai loro collaboratori fascisti concedono di tirare fuori i loro
amici e parenti. In questo mercato i fascisti serbi sono generosi.
Arrivano a offrire dei ragazzi di 10/12 anni in cambio dei loro
protetti. Viene risparmiato anche chi è cittadino di un paese alleato
dell'Asse. O che lo faccia credere. Escono romeni, ungheresi. Un dalmata
si dichiara italiano. Forse lo è davvero, forse è solo un croato
acculturato italiano, bilingue. Ma riesce a salvarsi, e a salvare il
ragazzo che gli è accanto, affermando alla guardia, con la sua
"autorità" di "alleato", che non ha ancora 16 anni. Un serbo, invece,
mostra un certificato bulgaro qualunque, rilasciato dalle truppe di
Sofia che occupano il suo Paese di origine, e viene messo da parte.

Non fa nulla invece per salvarsi Jovan Kalafatic, professore, insegnante
di religione, che invece potrebbe. Tutti sanno che è un fascista
convinto. A scuola sospettano anche che sia un delatore, che alcuni
professori progressisti siano finiti in galera per opera sua. Basterebbe
che dica chi è. Kalafatic invece tace. Tace anche quando passano i
fascisti serbi per la "loro" selezione. Forse, nelle lunghe ore della
tragedia passate con il suo popolo, deve aver capito la vera natura
dell'Ordine Nuovo nel quale crede. Va, volontariamente, alla fucilazione
con gli altri. Vanno volontari anche due vecchi genitori che non
vogliono abbandonare i figli. Alla fucilazione vanno, divisi in due
gruppi, anche i 300 studenti ginnasiali e i loro professori. Alla testa
di un gruppo vi è il preside del ginnasio. L'altro gruppo marcia verso
la morte in fila indiana, le mani sulle spalle, come dovessero danzare
il kolo, la danza nazionale serba. Poi, cantano. Intonano "Hej
Slaveni!", l'inno antico e comune a tutti gli slavi. Cadono cantando.

Il massacro dura a lungo. Su un fronte di morte lungo oltre dieci
chilometri, fuori della città le armi crepitano fino alle 14 del giorno
21 ottobre. Settemilatrecento uomini di Kragujevac dai 16 ai 60 anni
cadono divisi in 33 gruppi. Dovevano essere 2300. I tedeschi hanno più
che triplicato il "coefficiente dichiarato" di rappresaglia. I graziati
sono circa 3000. Molti di questi sopravvissuti rientreranno a piangere
un morto. Kragujevac onora la memoria dei suoi fucilati il sabato
successivo al massacro. Il rito ortodosso per il quale il sabato è il
giorno dei morti, vuole anche che per ogni morto sia accesa una candela
gialla e per ogni candela, cui si accompagna un pane che è da benedire
con il vino santo, il pope reciti la parola dei defunti. I sacerdoti
rimasti a Kragujevac sono solo due. Altri sette sono stati fucilati. Ma
il rito deve essere compiuto. Mentre le donne piantano le candele,
presentano i pani, gridano il nome del defunto, i due preti cantano
l'antica preghiera della liturgia veteroslava. Dandosi il cambio pregano
per ventiquattro ore, dalle sette alle sette.

Inutilmente i nazisti tentano poi di nascondere la verità sulla strage,
alterando registri, imbrogliando le cifre, esumando e cremando cadaveri.
Kragujevac ha fatto il "suo" appello. E' la prova che Životjin
Jovanovic, l'uomo sopravvissuto tre volte, porta ai giudici di
Norimberga: "...Quell'ottobre del 1941 a Kragujevac furono esposte più
di settemila bandiere nere... nella chiesa vennero presentati e
benedetti in un giorno più di settemila pani... E furono accese
settemila e trecento candele...".


Antonio Pitamitz




DIDASCALIE DELLE FOTO

Pagg. 100 - 101
Il massacro della popolazione di Macva, località nei pressi di Šabac. E'
una delle stragi che precedono lo sterminio di Kragujevac.
A destra, sopra e sotto: gli uomini di Kragujevac vengono razziati e
condotti ai centri di raccolta.

Pag. 102
Kragujevac, 22 ottobre 1941: un gruppo di ostaggi prima di essere
fucilati.
A destra: alcune vittime della strage. L'uccisione di 7300 uomini si
compie su un fronte di oltre 10 chilometri. Tra le vittime ci sono anche
300 ginnasiali.

Životjin Jovanovic, l'uomo messo al muro tre volte.

Pag. 103
Cadaveri di fucilati. I tedeschi scattarono alcune foto del massacro.
Questa qui sotto, fu trovata addosso a un ufficiale SS ucciso
successivamente in uno scontro con i partigiani della regione: come le
altre era esattamente datata.

Ljubiša Jovanovic, uno degli studenti periti a Kragujevac.

Pag. 104
L'ultimo messaggio di Božidar Nikolic, una delle vittime di Kragujevac:
"Cara Borika, abbi cura di Mica e abbine molta cura e saluta mio padre
fa come dice lui. Vi bacia Božidar".
E' conservato, con altri, nel Museo Civico della città.



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