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Giorno della memoria o giorno della cancellazione della memoria?

Riflessioni su memoria e oblio

di Adriana Chiaia
13 febbraio 2006

 

Nel 2000 una legge dello Stato italiano istituiva “la giornata della memoria” da celebrarsi il 27 gennaio, ricorrenza della liberazione dei prigionieri sopravvissuti nel campo di sterminio di Auschwitz.

In questa ricorrenza i mezzi di comunicazione di massa hanno usato, negli scorsi anni, espressioni del tipo: “27 gennaio 1945: cadono i cancelli di Auschwitz” oppure: “I cancelli di Auschwitz sono stati aperti dagli alleati, cioè dagli inglesi, statunitensi e francesi. E ancora, britannico è il carro armato del tanto osannato  film La vita è bella di Benigni, premio Oscar 1999.

Abbiamo protestato facendo ricorso alla testimonianza di Primo Levi, sopravvissuto di quel campo,  che descrive così l’arrivo dei liberatori:
«… La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio del 1945. […]. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. […] Quattro uomini armati, ma non armati contro di noi, quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota […]: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono…»[1]
Recuperata così la memoria, in seguito si è ammesso che, sì, ad Auschwitz erano arrivati i russi.
Ma perché tante amnesie? Perché, proprio nel giorno della memoria, fare torto a quei giovani soldati?
Perché altrimenti si sarebbe dovuto riconoscere nel loro sgomento, nel loro incolpevole senso di vergogna, il simbolo che Auschwitz assumeva davanti al loro sguardo attonito: il crinale, l’invalicabile confine tra due opposte concezioni del mondo che venivano a contatto. Da una parte la concezione del mondo  basata sull’ideologia fascista dell’odio e del razzismo, sulla perversa ideologia revanscista della conquista delle terre altrui, attraverso l’eliminazione o la riduzione in schiavitù delle popolazioni considerate inferiori, in nome di un osceno culto della superiorità di una razza eletta. Dall’altra la concezione del mondo basata sugli ideali del comunismo, sulla fratellanza tra gli uomini, sull’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla sostituzione della schiavitù del lavoro salariato con la libera associazione dei produttori.

Di questo non si vuole parlare, dato che, al contrario, e più frequentemente negli ultimi tempi, è invalso l’uso dell’ignobile equazione tra l’una e l’altra visione del mondo: comunismo = nazismo, e che recentemente l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa a Strasburgo ha discusso una condanna dei regimi comunisti su proposta del Partito Popolare Europeo, lo stesso che un anno addietro  aveva chiesto che, insieme ai simboli del nazismo, fosse proibito quello di falce e martello!

Di quei giovani soldati dell’Armata rossa, lanciati nell’offensiva vittoriosa attraverso l’Europa dell’est, che li avrebbe portati fino a Berlino ad issare la rossa bandiera dell’URSS sul Reichstag non si vuole parlare, perché altrimenti bisognerebbe ricordare il prezzo di quella vittoria: oltre 20 milioni di morti,  circa la metà dei quali civili e prigionieri di guerra uccisi e torturati dai nazisti nei territori sovietici occupati e più di 40 milioni di feriti e mutilati. I nazisti distrussero 1710 città e cittadine, oltre 70.000 paesi e villaggi, 32 mila imprese industriali,  98 mila kolchoz, 1876 sovchoz. Fecero saltare 65 mila chilometri di linee ferroviarie, danneggiarono o portarono via 16 mila locomotive e 428 mila vagoni.

Bisognerebbe ricordare lo sterminio sistematico dei cittadini sovietici nei territori occupati e nelle città assediate. «…nella sola Leningrado, assediata per 900 giorni, si calcola che i morti per fame siano stati 632.258…e, sempre a Leningrado, i morti  in seguito ai bombardamenti, esclusi i militari, furono 16.747 e 33.782 i feriti.»[2]
Bisognerebbe ricordare che per i prigionieri di guerra sovietici «… in generale valse il principio, enunciato in varie ordinanze tedesche, secondo cui “il soldato sovietico ha perso ogni diritto di essere trattato come un onesto soldato”. Il che significò […]: eliminazione istantanea dei feriti e di quelli che non reggevano alle marce di trasferimento; utilizzazione dei prigionieri validi nei lavori forzati e loro uccisione quando giungevano allo stato di esaurimento…»[3]

Bisognerebbe ricordare che «dei 16 mila prigionieri sovietici inviati al campo di Auschwitz ne furono trovati vivi, il giorno della liberazione del campo, solo 96.»[4]
Bisognerebbe inoltre ricordare che la Gran Bretagna e gli Stati Uniti rimandarono reiteratamente la promessa apertura del secondo fronte nell’Europa occidentale (lo sbarco delle truppe anglo-americane in Normandia avvenne nel giugno del 1944), privilegiando la conquista di posizioni strategiche in altre parti del mondo e lasciando che l’URSS sostenesse da sola la maggior forza d’urto messa in campo dalle forze armate naziste. Il grosso della Wehrmacht era infatti stato schierato contro i sovietici: 179 divisioni tedesche, 16 divisioni ungheresi ed altre truppe (in totale più di 3 milioni di uomini), mentre contro inglesi e americani si schierarono 107 divisioni. Di questo non si vuole parlare, perché equivarrebbe a riconoscere che il popolo sovietico, con la sua dedizione e con il suo sacrificio, ha salvato l’Europa dal pericolo nazista.

Di questo non si vuole parlare, altrimenti si darebbe la misura dell’ammirazione nei confronti dell’epica resistenza delle città assediate e della controffensiva dell’Armata Rossa che prese le mosse dalla liberazione di Stalingrado (2 febbraio 1943), ammirazione espressa anche dai nemici storici della società socialista: dallo stesso Churchill (che a suo tempo aveva esortato a “soffocare il comunismo ancora nella culla”),  dal re Giorgio di Gran Bretagna che donò a Stalingrado una  “Spada d’Onore” e dal presidente degli Stati Uniti, Roosevelt, che consegnò un “diploma d’onore” agli eroici difensori della città, divenuta simbolo della riscossa contro il nazismo.

Di questo non si vuole parlare  perché bisognerebbe soprattutto ricordare che la sconfitta dei nazisti a Stalingrado incoraggiò la resistenza dei partigiani nei territori europei occupati e ridiede speranza ai popoli oppressi dal nazismo.
«I successi sovietici nella guerra, la vittoria di Stalingrado, il suo peso decisivo dal punto di vista militare, hanno avuto una eco diffusa a livello di grandi masse e nel mondo politico internazionale. L’ammirazione e la simpatia per l’Unione Sovietica, la stima per Stalin, sono diventate sentimento e patrimonio dell’antifascismo, anche di quello non comunista.»[5]

Di questo non si vuole parlare. Altrimenti bisognerebbe ricordare che questa ammirazione e questi riconoscimenti furono ben presto liquidati. Già la conferenza di Potsdam (luglio-agosto 1945), che avrebbero dovuto decidere dell’avvenire della Germania sconfitta e porre le basi per una pace durevole, segnò invece una brusca svolta nell’atteggiamento che gli Stati Uniti, forti del successo della prima esplosione nucleare avvenuta in quei giorni a Fort Alamo, assunsero nei confronti dell’URSS.

Bisognerebbe ricordare che l’inutile (l’imperatore del Giappone aveva avviato contatti diplomatici per trattare una resa) e quindi doppiamente criminale bombardamento nucleare, che cancellò le città di Hiroshima e Nagasaki e fece al momento e in seguito 300 mila morti, fu un avvertimento all’Unione Sovietica. E non solo. La supremazia nel possesso delle armi nucleari,  almeno fino a quando gli Stati Uniti ne ebbero il monopolio, fu alla base dei piani segreti di distruzione dell’URSS, che furono orditi tra il 1948 e il 1957 dagli stati maggiori del governo degli Stati Uniti, con il sostanziale appoggio della Gran Bretagna.[6]

Bisognerebbe ricordare la guerra fredda, ufficialmente dichiarata nel 1946 con il celebre discorso di Churchill a Fulton, USA («Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, una cortina di ferro si è abbattuta sull’Europa») e definitivamente sancita dal messaggio al Congresso degli Stati Uniti nel quale il presidente Truman lanciò la famosa teoria sulla divisione tra il mondo “libero” (cioè quello delle democrazie borghesi) e il mondo soggetto “ad un potere dispotico imposto dal terrore” (cioè quello degli Stati ad ordinamento socialista).
Bisognerebbe ricordare il blocco militare, economico, culturale cui fu sottoposta per molti anni l’Unione Sovietica, accerchiamento che rese estremamente più difficile il lavoro di ricostruzione della sua economia.

Perciò di tutto questo non si vuole parlare
 
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In occasione del “giorno della memoria” anche quest’anno si sono moltiplicate le iniziative per celebrarlo e, se la maggior parte di esse è stata dedicata alla  Shoah, si è  cominciato a ricordare gli “stermini dimenticati”. Così  la Camera del Lavoro di Milano ha ricordato, in una serata nella sua sede,   la strage dei Rom e dei Sinti nei lager nazisti. Una iniziativa lodevole, specialmente in una città così poco ospitale nei confronti di quelle minoranze, cacciate da un accampamento all’altro, mediante l’incendio doloso o la demolizione delle loro improvvisate baracche o lo sgombero “manu militari” da parte delle “forze dell’ordine”.

Tuttavia, il loro non è il solo sterminio dimenticato. Secondo le statistiche dell’ANED (Associazione Nazionale ex Deportati politici nei campi nazisti), i deportati italiani nei campi di sterminio nazisti furono circa 44.000. Di questi 8000 erano ebrei, 12.000 erano operai (molti delle fabbriche torinesi, di Sesto San Giovanni e delle vetrerie di Empoli e dintorni) arrestati e deportati in seguito agli scioperi del 1944, 2750 erano donne (le lombarde 600). Fecero ritorno in 4000 circa, meno del 10% del totale.
Perché i 12.000 operai, più di un quarto del numero complessivo dei deportati, nel giorno della memoria non sono stati ricordati in alcuna celebrazione ad essi espressamente dedicata?

Non se ne vuole parlare forse perché, come dice e ripete un trito luogo comune, la classe operaia è una categoria obsoleta? (Tranne poi, in un sussulto di resipiscenza, essere costretti a prendere atto della sua esistenza, quando decine di migliaia di metalmeccanici invadono le piazze e bloccano le vie di comunicazione per rivendicare la chiusura del loro contratto, scaduto da tredici mesi).

Non se ne vuole parlarne soprattutto perché  altrimenti bisognerebbe ricordare che: «… è stata la classe operaia, sono stati i lavoratori a dare alla Resistenza il più grande contributo di sacrificio, di sangue, di idee. I lavoratori si trovarono ad essere i protagonisti, le forze principali della Resistenza, non per caso, ma perché la loro posizione nella società italiana li portò ad essere alla testa della grande battaglia contro il fascismo per riconquistare le libertà, per il rinnovamento sociale dell’Italia…»[7]

Con gli scioperi del 1943 e con lo sciopero generale del 1944 la classe operaia ha dato una spallata determinante all’occupazione nazista e al collaborazionismo fascista, ha aperto la strada all’insurrezione generale del 25 aprile del ‘45.

Dei 12 mila operai deportati, nella giornata della memoria non si vuole parlare, perché altrimenti bisognerebbe ricordare che quegli stessi padroni che avevano consegnato nelle mani dei boia nazisti e fascisti le avanguardie di lotta, destinandole alle torture, alla fucilazione o alla deportazione nei campi di stermino, quegli stessi padroni, usciti dopo la Liberazione dai comodi rifugi elvetici, una volta rassicurati dal disarmo dei partigiani imposto dagli alleati, hanno isolato, perseguitato, licenziato gli stessi operai che avevano  salvato con le armi in pugno le fabbriche dalla distruzione dei nazisti in fuga e gliele avevano restituite indenni.

«La fabbrica non dev’essere una prigione», denunciava Pietro Secchia in un discorso tenuto al Senato il 13 marzo 1953. «A Milano, la società Montecatini ha assoldato centinaia di guardie armate dalla polizia e dalle ex brigate nere, le quali vengono impiegate negli stabilimenti per perquisire gli operai all’entrata e all’uscita, per frugare nei loro cassetti alla ricerca di un manifestino sindacale, comunista o socialista, per impedire che la commissione interna durante le ore di lavoro possa parlare con gli operai, per ascoltare se gli operai parlano di politica, per controllarli persino quando vanno al gabinetto. A Milano, nel dicembre scorso, un proprietario di un’azienda cittadina, cittadino straniero per giunta, ha licenziato due operaie motivando il provvedimento apertamente e sfacciatamente perché avevano partecipato al Congresso della Camera del Lavoro.[…] Ma questo è fascismo che torna.»[8]. Ma di questo non si vuole parlare.
 
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Quando si parla di deportati nei campi di annientamento è giusto ricordare gli omosessuali (i “triangoli rosa”), che in essi sono stati sottoposti ad indicibili sofferenze e spesso vi hanno trovato la morte, tanto più giusto nel momento in cui il Vaticano include questi cittadini nelle sue rinnovate scomuniche e ne vuole limitare i diritti civili.

Ma c’è un’altra “categoria” di internati nei campi, i “triangoli rossi”, i detenuti politici, a volte genericamente e pudicamente qualificati come “oppositori dei regimi” o non ricordati affatto. Delle centinaia di migliaia  di detenuti nei campi di concentramento e nelle carceri fasciste e naziste, di torturati e condannati a morte, di fucilati, di impiccati e perfino di ghigliottinati non si parla o si parla a denti stretti: gli antifascisti, i comunisti, i partigiani che dovunque in Europa riscattarono l’onore del loro paese invaso, occupato, governato da servi collaborazionisti. È un’infamia denigrarli e una viltà dimenticarli.

È un dovere parlarne per onorarli. Partiamo dalla situazione più difficile in cui essi furono costretti ad operare: la Germania nazista. Il nazismo, che ha il primato nel numero dei lutti e nell’entità delle rovine che causò nei paesi occupati, aveva già instaurato un regime di terrore nel proprio paese.

È necessario anzitutto ricordare che, nel macabro elenco dei campi di concentramento e annientamento i cui nomi sono diventati tristemente famosi in tutto il mondo, spesso non vengono inclusi i campi di concentramento dai nomi meno noti che costellarono il territorio di molti paesi, sia quelli a regime fascista, che quelli occupati dai fascisti e dai nazisti.[9]
I più importanti di essi sorsero in Germania fino dall’ascesa al potere di Hitler.

«I primi campi di concentramento spuntarono come funghi durante il primo anno del governo di Hitler: già alla fine del 1933 ve n’erano una cinquantina, quasi tutti istituiti dalle SA per dare alle loro vittime una buona bastonata, e farle quindi riscattare dai parenti o dagli amici per una somma proporzionale alle loro possibilità.»[10]. «Poco dopo la purga di Röhm[11], Hitler mise i campi di concentramento sotto controllo delle SS (Schutz-Staffeln, “Squadre di Protezione”), che si dettero a organizzarli con l’efficienza e la spietatezza caratteristiche di questo corpo scelto. Il servizio di guardia fu affidato esclusivamente alle unità “Teste di morto”, i cui componenti venivano reclutati tra gli elementi più fanatici nazisti e  portavano la nota insegna del teschio sulla casacca nera.»[12].
«I [campi] più importanti erano (fino all’inizio della guerra, quando furono diffusi anche sui territori occupati): Dachau presso Monaco, Buchenwald presso Weimar, Sachsenhausen […] presso Berlino, Ravensbrück nel Meclemburgo (per donne) e, dopo l’occupazione dell’Austria nel 1938, Mauthausen presso Linz. Questi nomi, assieme a quelli di Auschwitz, Belsec e Treblinka, campi istituiti più tardi in Polonia, erano destinati a diventare fin troppo familiari in quasi tutto il mondo.»[13] In essi, anche se non erano ancora finalizzati allo sterminio, vigeva un regime di terrore. Ad esempio un articolo del regolamento del campo di Dachau (poi esteso a tutti gli altri campi) recitava:
«Art. 11. Sarà impiccato come agitatore, chiunque faccia della politica, tenga discorsi e comizi di incitamento, formi associazioni, si indugi con altri; chi, al fine di fornire alla propaganda dell’opposizione episodi di atrocità, raccolga informazioni vere o false sul campo di concentramento; riceva queste notizie, le conservi, ne parli ad altri, le propali di nascosto fornendole ai visitatori stranieri, eccetera.»[14]

Per soffermarsi sull’esempio Germania, si calcola che dall’inizio alla fine del regime hitleriano, ebbero luogo 32 mila esecuzioni capitali (promulgate da tribunali civili o militari) di cittadini del Reich condannati per opposizione al nazismo e alla guerra nazista o per defezione da essa. Si deve osservare che tale cifra  è una parte quasi irrilevante rispetto al numero dei cittadini fatti morire violentemente o non, per motivi politici o razziali; i detenuti nei campi di concentramento di cui circa 500 mila non fecero ritorno; i soppressi dalla Gestapo, dalle SS, dalle SA, ecc., uccisi sul luogo stesso dove venivano sorpresi, o durante gli interrogatori; i militari, nei vari paesi occupati, giustiziati per essersi uniti alle forze partigiane.[15]

Nei libri di storia e nella pubblicistica borghese non si manca di citare il tentativo di rovesciare il regime nazista per mezzo di un colpo di stato a cui avrebbe dovuto dare il via un attentato per uccidere Hitler. È il noto complotto del 20 luglio 1944, ordito da alte gerarchie militari e da esponenti della borghesia imperialista. Come si sa, il complotto fallì e comunque, se fosse riuscito nel suo intento, avrebbe sostituito il nazismo con un regime autoritario, militarista, che mirava a ristabilire i vecchi rapporti di alleanza con le potenze imperialiste alleate in chiave antisovietica.

Quello che invece va ricordato è che questo regime di terrore non impedì la formazione e l’azione di gruppi politici clandestini. Oltre a quello denominato della “Rosa bianca”, più noto, grazie alla sua ispirazione etico – religiosa e per la radicalità dei suoi obiettivi, per l’impatto emotivo derivante dall’estrema giovinezza e dalla determinazione che portò al sacrificio i suoi protagonisti, vi furono numerosi gruppi clandestini che operarono all’interno, in collegamento con l’emigrazione all’estero. Dei loro eroici tentativi non si parla quasi mai, avvalorando, sulla base del largo consenso di massa di cui effettivamente godette il regime nazista almeno fino alla disfatta nell’ultima parte della guerra,  il luogo comune di tedeschi = nazisti, profondamente ingiusto, nei confronti dei coraggiosi che osarono opporsi in condizioni difficilissime.

Il nazismo aveva distrutto tutte le organizzazioni della classe operaia, nonostante ciò, nei primi due anni del potere hitleriano ci furono molti scioperi nelle principali fabbriche per motivi economici (a causa della riduzione dei salari), ma anche a contenuto politico, contro i licenziamenti di operai sgraditi al regime e in solidarietà con i perseguitati politici. Il partito comunista, costretto alla clandestinità, non cessò mai di operare all’interno e, con la svolta del VII Congresso dell’Internazionale comunista, fu fautore della formazione di un “fronte unito”, con il partito socialdemocratico il quale, con il manifesto di Praga del 1934, superò il suo tradizionale anticomunismo. Il collegamento con l’emigrazione, composta soprattutto da intellettuali, che si proponevano di rappresentare davanti al mondo intero das beste Deutschland, il meglio della Germania, funzionò favorendo la diffusine della stampa illegale, prodotta all’estero, almeno fino a quando la Cecoslovacchia non fu invasa dalla truppe del Terzo Reich.

Ci furono tentativi, anche consistenti, di collegamento tra i vari gruppi della resistenza. Citiamo, a titolo esemplificativo, il più importante nucleo antinazista, di indubbia influenza comunista, che si formò anteriormente allo scoppio della guerra. Esso fu denominato dalla polizia nazista Rote Kapelle, “orchestra rossa”.

«L’ impostazione politica della Rote Kapelle si può definire di fronte popolare di largo schieramento antifascista; la sua attività fu di propaganda e di solidarietà con i perseguitati politici e razziali, ma fu anche di appoggio attivo ai movimenti di resistenza nei territori occupati dai nazisti. Dopo l’aggressione contro l’Unione Sovietica, il gruppo intensificò l’attività di propaganda e stabilì persino un contatto radio con l’URSS.»[16] La violenta repressione da parte della Gestapo, con sessanta condanne a morte, mise fine alla coraggiosa attività del gruppo.

Infine ricordiamo, sia pur brevemente, che i rovesci subiti dalle forze armate tedesche misero in crisi il consenso verso il nazismo della parte meno politicizzata e cosciente della popolazione e favorirono l’azione di propaganda contro la guerra e di sabotaggio della produzione di materiale bellico. «La sconfitta di Hitler non è la nostra sconfitta, ma la nostra vittoria!» fu la parola d’ordine di un importante gruppo comunista di Amburgo, a composizione prevalentemente operaia, il quale si fece promotore dell’organizzazione comunista centralizzata che raggruppò parecchi nuclei clandestini. Anche l’attività di questa rete fu stroncata nel settembre 1944,  con la condanna a morte dei principali dirigenti e con centinaia di condanne che ne attestano la vastità.

Ma di questo non si vuole parlare perchél’immane sacrificio di sangue, l’eroica dedizione degli antifascisti, all’indomani della caduta di Hitler, della disfatta delle armate hitleriane, del fallimento delle ideologie naziste, avrebbe dovuto portare alla rinascita di una Germania libera e democratica. Bisognerebbe ricordare che le solenni dichiarazioni firmate a Potsdam il 2 agosto 1945 dagli alleati occidentali e dall’Unione Sovietica, che occupavano rispettivamente il territorio occidentale e orientale della Germania, sembravano riconoscere questi principi. Esse sostenevano: «Il militarismo tedesco ed il nazismo saranno estirpati e gli Alleati prenderanno di comune accordo, per il presente e in avvenire, le misure necessarie perché la Germania non possa più minacciare i suoi vicini e la pace mondiale. Non è nelle intenzioni degli Alleati distruggere o ridurre in schiavitù il popolo tedesco. L’intenzione degli Alleati è quella di dare al popolo tedesco la facoltà di rifare la propria vita su basi democratiche e pacifiche.»[17]

Questa dichiarazione implicava l’epurazione nelle istituzioni e negli apparati amministrativi della nuova Germania di coloro che avevano appoggiato il nazismo e soprattutto, poiché era chiaro a tutti che senza l’appoggio delle grandi concentrazioni industriali Hitler non sarebbe mai potuto andare al potere, i firmatari si impegnarono a: «eliminare gli attuali eccessi di concentrazione della potenza economica che [in Germania] è caratterizzata in particolare da cartelli, sindacati, trust e altri organismi a carattere monopolistico.»[18]

Di questo non si vuole parlare perché gli accordi di Potsdam furono violati dalle potenze occidentali.
Gli esperti della commissione del Governo Militare americano in Germania, che si sarebbe dovuta occupare della “de-cartellizzazione, si dimisero, uno dopo l’altro, denunciando che le ingerenze di alti esponenti governativi e delle principali società capitaliste statunitensi avevano manovrato per impedire che la commissione conseguisse gli obiettivi per cui era stata istituita; al contrario, le loro manovre avevano impedito che i maggiori industriali e banchieri tedeschi che avevano appoggiato Hitler fossero tradotti davanti ai tribunali, in quanto si riteneva che «chi aveva aiutato Hitler sarebbe diventato il miglior collaboratore degli Americani nella lotta contro il bolscevismo.»[19]

Per quanto riguarda la denazificazione, è noto il reclutamento delle SS nei servizi di intelligence statunitensi e altrettanto nota l’operazione ODESSA (Organizzazione dei Veterani delle SS) che permise il trasferimento dei beni materiali nazisti fuori dall’Europa e creò le reti di  fuga delle SS. «Partendo da ogni angolo della Germania i sentieri della fuga portavano a Menningen, in Baviera, quindi a Roma, e poi, via mare, verso le numerose colonie per nazisti che erano state messe in piedi nell’emisfero sud.»[20]

Di tutto questo non si vuole parlare perché bisognerebbe ricordare che la guerra fredda era stata già dichiarata e che i suoi effetti si ripercuotevano in ogni campo. Per questo, ad esempio,   nella zone occupate dagli Inglesi e dagli Americani, la stampa tedesca, per disposizione delle autorità occupanti che in pratica la controllavano, aveva assunto  toni e contenuti violentemente anticomunisti paragonabili a quelli in uso durante il regime nazista.

Con queste premesse, la conferenza di Londra tra le potenze vincitrici, che avrebbe dovuto trovare un accordo per il futuro della Germani, fu fatta fallire. Il progetto dell’unificazione della Germania fu accantonato e al contrario «…il 7 giugno 1948 , i ministri degli esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Belgio e Olanda decisero unilateralmente la formazione di un governo della Germania Occidentale e undici giorni più tardi procedettero a una riforma monetaria altrettanto unilaterale che rompeva l’unità economica della Germania.»[21]

Di tutto questo non si vuole parlare perché bisognerebbe ricordare che lo spirito con cui l’URSS aveva sostenuto che non si dovesse far pagare al popolo tedesco le colpe del nazismo era lo stesso che, alla fine della prima guerra mondiale, aveva ispirato il trattato di Rapallo, non un semplice trattato commerciale tra la Germania e la Repubblica Sovietica, ma il tentativo, da parte di quest’ultima, di tendere la mano al popolo tedesco prostrato dalle condizioni capestro imposte dalla pace di Versailles, in nome del principio dell’internazionalismo proletario che doveva guidare i rapporti tra i popoli. A Potsdam, come a Rapallo, obiettivo dei Sovietici era di evitare che nella Germania sconfitta si sviluppassero i sentimenti di rancore e rivalsa e la mala pianta del nazionalismo reazionario e del revanscismo che avevano costituito il terreno di coltura del nazismo.

Di tutto questo non si vuole parlare perché bisognerebbe denunciare le responsabilità delle potenze occidentali nel far fallire i principi affermati a Potsdam, finalizzati alla creazione di una Germania unita, democratica e pacifica che realizzasse finalmente gli ideali dei patrioti che avevano osato sfidare il regime nazista e che avevano pagato con indicibili sofferenze questa scelta.  Gli interessi dei governi occidentali e dei grandi monopoli erano prevalsi nell’intento di fare della Germania Occidentale un bastione contro l’Unione Sovietica e il comunismo.

La Germania Orientale si costituì in Repubblica Democratica Tedesca solo nel 1949 e in essa fu possibile gettare le basi di una società democratica, ispirata alla giustizia sociale e alla fratellanza tra i popoli.

 

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Nell’impossibilità di farlo nello spazio di un articolo, rimandiamo all’opera più volte citata[22] per una rassegna delle forme della repressione e della Resistenza nei paesi europei occupati dai nazisti e dai fascisti durante la seconda guerra mondiale, in presenza o meno di governi collaborazionisti. Ci soffermeremo in questa ultima parte del nostro scritto sulle specificità della situazione nel nostro paese ed in questo quadro sul ruolo dei deportati politici.

In Italia si ebbero due centri di raccolta e di smistamento per le deportazioni nei campi di sterminio in Germania o nelle zone occupate dai nazisti: Borgo San Dalmazzo (Cuneo) e Fossoli di Carpi (Modena). Un lager delle SS fu allestito nella Risiera di San Sabba (Trieste), nella zona sottoposta ad amministrazione militare tedesca, dove funzionarono i forni crematori.[23]

Su 44.000 italiani deportati nei campi, 8382  deportati politici  furono uccisi o fatti morire per gli stenti e per la fatica dei lavori forzati.[24] A loro, contrassegnati dal triangolo rosso, nella giornata della memoria, non viene dedicata alcuna celebrazione particolare. Eppure essi rappresentavano nei campi la parte più cosciente della rivolta contro il fascismo, li animava non solo la disperata volontà di sopravvivere, ma la consapevolezza di aver fatto una scelta giusta e li sosteneva la speranza e la volontà di costruire una società radicalmente diversa. Come nella Resistenza armata di cui parleremo fra poco, i detenuti politici antifascisti e soprattutto comunisti, che venivano dall’esperienza della clandestinità, dell’esilio, della guerra di Spagna, del confino e delle carceri fasciste, portarono in sé, pur nel bestiale regime dei campi di concentramento la concezione della dignità umana e della solidarietà.

In quei campi, in cui ci si batteva per una carota, «… ho, nella mia mente, dei ricordi stupendi di solidarietà, quando (…) al fratello morente si dà l’ultimo pezzo di pane perché possa avere ancora un quarto d’ora di vita; quando i compagni, i comunisti in particolar modo, organizzano tra loro il “collettivo”, sono costretti, sono obbligati (è un obbligo che si assumono tra loro) a versare nel collettivo tutto il pane, tutta la zuppa che hanno e a ripartirli fra i vari compagni, in modo che chi ha di più possa farne beneficiare gli altri.»[25]

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