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"La bonifica etnica al confine orientale nel ventennio fascista"

tenuta da Marta Verginella

il prossimo 10 marzo

presso la Biblioteca Comunale di Giavera del Montello (TV)

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FONTE:
http://it.groups.yahoo.com/group/tera_de_confin/message/9902


Marta Verginella

La minoranza slovena nel Friuli-Venezia Giulia

Testo pubblicato in "I viaggi di Erodoto" a. 1998 n. 34


La vita della minoranza slovena del Friuli-Venezia Giulia nel secondo
dopoguerra è stata pesantemente segnata dalle vicende belliche e
prebelliche, soprattutto dalla lunga persecuzione nazionale fascista
che fu all'origine della drastica riduzione del ceto medio, in
particolare di molti intellettuali e politici emigrati negli anni
Venti e Trenta.
Nel 1921, secondo le stime di Lavo Cermelj, 350.000 Sloveni e 200.000
Croati risiedevano nelle nuove province della Venezia Giulia, mentre a
parere di Carlo Schiffrer il loro numero non superava i 417.000
abitanti. Sempre secondo le stime di parte slovena, durante il periodo
fascista circa 70.000 Sloveni e Croati della Venezia Giulia emigrarono
in Jugoslavia, 5.000 verso altri paesi europei e 30.000 oltrepassarono
l'Oceano per raggiungere l'America latina. Non esistono rilevazioni
precise e attendibili su quanti sloveni rimasero entro i confini dello
Stato italiano dopo la fine della seconda guerra mondiale. Secondo le
valutazioni fatte della presidenza del Consiglio dei ministri nel 1953
in 14 comuni della provincia di Udine (escluse la Val Canale e la Val
Resia) risiedevano 22.936 Sloveni. Il rilevamento fu però contestato
da parte slovena, come lo furono altri censimenti eseguiti negli anni
Sessanta e Settanta, poiché i criteri stabiliti per censire
l'appartenenza etnica non erano sufficientemente chiari mentre le
condizioni politiche del tempo ostacolavano la libera espressione
dell'identità nazionale minoritaria. (P. Stranj, p. 39). Per queste
ragioni i dati sulla consistenza numerica della popolazione slovena
residente nel Friuli-Venezia Giulia rimangono ancor oggi approssimativi.
Secondo le stime slovene il numero complessivo degli sloveni presenti
nella regione ammonta a circa 96.000 persone, di cui 29.000 residenti
nella provincia di Udine, 18.000 nella provincia di Gorizia e 49.000
in quella di Trieste.

La mancata annessione alla Jugoslavia socialista dei territori abitati
anche dagli sloveni e il ritiro dell'Esercito di Liberazione Jugoslavo
nel giugno 1945 fecero svanire il sogno di una Slovenia unita,
comprendente le città di Gorizia e di Trieste. La liberazione
dall'occupatore nazifascista fu vissuta dalla grande maggioranza della
popolazione slovena come la fine di un lungo periodo di
prevaricazioni, di subalternità e come esautorazione di una classe
politica che nel nome della Kultunation reprimeva e snazionalizzava
tutto ciò che non era italiano. La vittoria sul fascismo e sul nazismo
era intesa soprattutto come nascita di una nuova società nella quale
sarebbe stata possibile la libera espressione del proprio credo
politico e della propria appartenenza etnica. Perciò dopo gli accordi
di Belgrado firmati il 9 giugno 1945 e la costituzione della Zona A
della Venezia Giulia, che passava sotto l'amministrazione alleata, e
della Zona B che continuava ad essere amministrata dagli jugoslavi, la
delusione degli sloveni fu immensa.
Nella Zona A vennero a trovarsi gli sloveni residenti nelle provincie
di Trieste e di Gorizia, mentre ne erano rimasti esclusi quelli della
Benecia (le Valli dei Natisone, le Valli del Torre e la Val Resia) e
della Val Canale, definitivamente restituite all'Italia nel giugno del
1945. Per la popolazione slovena di queste ultime aree il ritorno
delle autorità italiane coincise con la negazione di ogni diritto di
tutela etnica e con svariate forme di persecuzione verso chi aveva
partecipato al movimento partigiano, ma anche verso chi non era
disposto a negare la propria appartenenza etnica.
Da parte italiana infatti, il manifestarsi durante la guerra di forme
di coscienza nazionale e di orientamenti filo-jugoslavi all'interno di
popolazioni che nel 1866 optarono per l'Italia venne considerato
frutto di agitazione sovversiva proveniente da oltre confine, e quindi
represso con decisione. Sin dal giugno 1945 si verificò così una
distinzione de facto e de iure (tuttora in vigore) tra gli sloveni
rimasti al di fuori della Jugoslavia.
La preoccupazione prima delle autorità alleate nella zona A fu quella
di smantellare tutte le principali istituzioni create durante i
quaranta giorni dal potere jugoslavo. Fu così reintrodotta la
legislazione italiana, compresi i decreti fascisti in vigore fino al
settembre 1943, ed emanati con lo scopo di attuare la «bonifica
etnica» nella Venezia Giulia. Il Governo Militare Alleato (Gma),
liquidando gli organi di governo lasciati dagli jugoslavi e
ripristinando il vecchio apparato amministrativo, riconobbe
implicitamente la sovranità italiana sulla zona A della Venezia Giulia
(E. Apih, p. 167). Tuttavia con il ripristino dei diritti civili
fondamentali avvenne anche la riapertura delle scuole con lingua
d'insegnamento slovena, soppresse dalla riforma Gentile. L'intervento
alleato nel campo dell'istruzione venne però vissuto dalla dirigenza
slovena locale come un ulteriore tentativo di smantellare la rete di
scuole partigiane nate negli ultimi due anni di guerra; un intervento
volto ad esautorare il Comitato regionale di liberazione nazionale
sloveno (Pokrajinski narodno osvobodilni odbor - Pnoo) dal ruolo
svolto nel campo dell'istruzione.
In attesa delle decisioni della Conferenza della pace del 1947, tra
gli organi del Gma e le forze filojugoslave (cioè la maggioranza della
popolazione slovena e parte della componente italiana di sinistra), si
accese una stagione di lotte per accaparrarsi il consenso politico
della cittadinanza. In un clima esasperato ebbero luogo manifestazioni
di massa, atti di violenza, incidenti, proclami, appelli, interventi
di polizia, che invece di instaurare un clima di convivenza etnica,
produssero l'esclusione totale della comunità slovena
dall'amministrazione locale e l'inasprimento dei rapporti tra le due
nazionalità.
Nella comunità slovena già in concomitanza alla Conferenza di Pace di
Parigi iniziò il processo di differenziazione politica interna.
Accanto alla maggioranza degli sloveni che continuava ad appoggiare il
Partito comunista della regione Giulia, pronunciatosi il 24 settembre
1945 per l'annessione alla Jugoslavia, si costituirono nuove
formazioni politiche di orientamento cattolico e liberale. A Gorizia
gli ambienti moderati sloveni costituirono l'Unione Democratica
Slovena (Slovenska demokratska zveza). Allo stesso tempo il Fronte di
liberazione (Osvobodilna fronta - Of) diede vita nella provincia di
Udine e di Gorizia al Fronte Democratico degli Sloveni. La
differenziazíone politica raggiunse il suo apice nelle Valli del
Natisone, dove da una parte il Fronte Democratico degli Sloveni
chiedeva il riconoscimento della comunità slovena locale e dei suoi
diritti nazionali, dall'altra i sindaci dei comuni abitati dalla
popolazione slovena promuovevano invece manifestazioni e altre
attività per dimostrare l'italianità della Slavia veneta.

Fu però soprattutto la risoluzione del Cominform, il 28 giugno 1948, a
incrinare gravemente la compattezza politica della comunità slovena e
in generale di tutta la sinistra, soprattutto di quella giuliana fino
ad allora favorevole all'annessione di Trieste alla Jugoslavia, e a
produrre un clima di grave contrapposizione ideologica. Gli sloveni di
sinistra, che costituivano la maggioranza della comunità, si divisero
in due fronti ostili. I «filosovietici» e i «filojugoslavi» iniziarono
una vera lotta di quartiere sia nelle zone urbane che in quelle rurali
e la frattura ideologica produsse ripercussioni molto forti tanto
nella vita politica quanto in quella culturale. La componente
maggioritaria slovena scelse il Partito comunista del Territorio
Libero di Trieste (Pctlt) e con esso l'atteggiamento filosovietico,
quella minoritaria rimase fedele alle posizioni titoiste e fondò il
Fronte popolare italo-sloveno (Slovansko italijanska ljudska stranka).
A Trieste nel 1949, alle prime elezioni comunali, la minoranza slovena
si ritrovò divisa in tre fronti politici - il Pctlt , il partito
filojugoslavo e la formazione nella quale si unirono i gruppi moderati
sloveni di tendenza cattolica, liberale, cristianosociale o
socialdemocratica. Per la mancata compattezza interna riuscì a far
eleggere solo 8 rappresentanti su 60 consiglieri comunali. Un
rappresentante fu eletto dalla lista nazionale slovena
(cattolico-liberale), la Slovenska narodna lista, uno dal Fronte
popolare italo- slavo) e sei sulle liste del Pctlt. Dopo le elezioni
nel territorio del comune di Trieste, l'italiano divenne la lingua
ufficiale e
solamente nei comuni minori fu permesso l'uso amministrativo anche
della lingua slovena. Nello stesso anno si definì anche a Trieste il
terreno delle rivendicazioni della minoranza slovena, rivendicazioni
di tutela che nemmeno la firma del Memorandum d'intesa a Londra nel
1954, con il quale la città e il suo territorio furono riconsegnati
all'Italia, modificò sostanzialmente.
Lo Statuto speciale, come del resto il Memorandum stesso, che
garantiva alla comunità slovena di Trieste la salvaguardia dei diritti
nazionali non venne infatti mai ratificato dal parlamento italiano e
non divenne perciò mai vincolante per lo stato italiano.
Nel 1954 gli sloveni residenti nelle tre province di Udine, Gorizia e
Trieste si trovarono riuniti sotto la sovranità italiana, ma senza
veder garantite le condizioni per una convivenza etnica. Se infatti
per un verso il regime democratico assicurò il rispetto dei diritti
individuali, assai lento ed incerto - e tuttora non completo - fu
invece il riconoscimento della necessità di una politica di tutela del
gruppo etnico sloveno in quanto tale. Gli sloveni perciò, esclusi dai
processi decisionali, soggetti all'assimilazione silenziosa
continuarono a farsi sentire nell'ambito pubblico con le
rivendicazioni etniche e con richieste di maggiori garanzie
istituzionali.

La presenza della comunità slovena in Italia fu intesa dall'apparato
statale come il prolungamento del mondo comunista entro i confini
italiani e non fu per nulla casuale che le autorità locali cercarono
di modificare i rapporti etnici alterando la composizione della
popolazione dei comuni minori contigui a Trieste, definiti
«slavocomunisti»; nel circondario di Trieste, ad esempio, vennero
prevalentemente costruiti gli insediamenti per i profughi istriani
espropriando il territorio alle comunità carsiche di etnia slovena. A
questo tipo di espropri dei territorio etnico ne seguirono altri per
motivi di interesse pubblico dovuti alla costruzione delle
infrastrutture di collegamento stradale, per gli oleodotti, per i
piani di edilizia popolare nelle aree urbane periferiche, interventi
tutti che da parte slovena furono intesi come uso maggioritario e
urbanocentrico del territorio. Uso che fino agli anni Novanta generò
numerosi momenti di conflittualità politica e di attivazione su base
etnica, poiché al centro dei processi di identificazione slovena
rimase comunque il territorio etnico, la «terra slovena» che conservò
una forte valenza simbolica, in quanto non solo luogo, ma pure
strumento di riproduzione dell'identità etnica e base naturale,
ecologica e antropologica dell'etnia (I. Jogan, pp. 14-15)
La composizione sociale della popolazione slovena appartenne fino agli
anni Settanta prevalentemente al mondo rurale e operaio. Negli anni
Settanata essa fu vittima di una forte ondata migratoria che toccò in
particolar modo le zone della Slavia veneta. Soltanto negli anni
Settanta e Ottanta la fisionomia socioeconomica della minoranza iniziò
a subire profonde trasformazioni. Al calo degli impieghi
nell'industria e al dimezzamento degli addetti all'agricoltura seguì
lo sviluppo del terziario, la creazione di numerose società e imprese
dedite allo scambio commerciale con le vicine repubbliche jugoslave.
L'Unione economica e culturale slovena (Slovenska kulturno gospodarska
zveza), l'interlocutore privilegiato dello stato jugoslavo e della
dirigenza comunista slovena, iniziò a realizzare un grande progetto:
la creazione di una larga struttura economica in grado di finanziare
la vasta rete culturale e sociale presente sul territorio abitato
dagli sloveni e capace di rallentare, se non di sconfiggere, il
processo di assimilazione etnica. La creazione di una nicchia etnica
protettiva, decisa in considerazione dell'ambiente poco favorevole
alla lingua e alla cultura slovena e l'assenza della tutela
legislativa, avrebbe dovuto porre fine al lungo periodo di
marginalizzazione sociale e culturale. La realizzazione di questo
progetto si interruppe però dopo la dissoluzione della Jugoslavia, il
cambio della classe dirigente in Slovenia e la crisi finanziaria nella
quale si ritrovarono i due principali istituti bancari della minoranza
a Trieste e a Gorizia.
Il voto sloveno negli anni Settanta e Ottanta si distribuiva
progressivamente in crescendo dal centro a sinistra. L'unico partito
sloveno, l'Unione Slovena, raccoglieva solo una parte dei consensi
dell'elettorato che perlopiù preferiva i partiti presenti a livello
nazionale, regionale e locale. La rappresentanza politica più
consistente fu garantita dal Pci, che rese possibile l'elezione
dell'unico rappresentante sloveno al Parlamento. Va notato che
soprattutto negli anni Settanta iniziò il dialogo tra gli
intellettuali dei due gruppi etnici, e già nel decennio precedente il
disgelo nei rapporti tra Italia e Jugoslavia produsse aperture a
livello politico locale. Nel periodo del centrosinistra si smorzarono
i toni dello scontro etnico, tuttavia l'ingresso nella Giunta comunale
di Trieste del socialista sloveno Dusan Hrescak nel 1965 inaugurò una
campagna antislovena. Un'ennesima campagna contro la tutela della
minoranza slovena e contro lo spettro del bilinguismo fu indetta alla
chiusura del contenzioso territoriale fra Italia e Jugoslavia sancito
con l'accordo di Osimo nel novembre 1975.

Bibliografia

P. Stranj, La comunità sommersa. Gli sloveni in Italia dalla A alla Z,
Editoriale Stampa Triestina, Trieste, 1989.

I. Jogan, Territorio e etnia. La questione degli sloveni nella
politica urbanistica dei Friuli Venezia Giulia, Franco Angeli, Milano,
1991.

B. C. Novak, Trieste 1941-1954, Mursia, Milano, 1973;

S. Benvenuti, Le ragioni della storia, «Il Territorio», n. 16/17,
1986, IX, pp. 30-54;

J. Pirjevec (a cura di), Introduzione alla storia culturale e politica
slovena a Trieste nel '900, Provincia di Trieste, Trieste, 1983;

E. Apih, Trieste, Laterza, Roma-Bari, 1988.