(dalla coppia Bonini-D'Avanzo, esperti professionali di
disinformazione strategica, un articolo che spiega molto...)

http://www.repubblica.it/2006/c/sezioni/spettacoli_e_cultura/librobodav/librobodav/librobodav.html

Dal libro "Il mercato della paura" di Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo
la storia delle brigate "Al Masri", troppo occidentali per essere vere

Quei misteriosi scrivani del web che minacciavano l'Italia

Dal capitolo VI del libro "Il Mercato della Paura" di Carlo Bonini e
Giuseppe D'Avanzo (ed. Einaudi, euro 15,50)


Quando si mostrano il 12 marzo del 2004 per attribuirsi la
responsabilità della strage di Madrid, le "Brigate Abu Hafs Al Masri"
sono materia per soli addetti. La sigla ha un che di misterioso
esattamente come il profilo dei militanti di cui sostiene di essere la
voce. Di loro si sa poco o nulla.

Si sa che hanno rivendicato la strage nella sede delle Nazioni Unite a
Bagdad del 19 agosto 2003 e gli attentati del 15 novembre di quello
stesso anno alle sinagoghe di Istanbul. Si sa che Abu Hafs Al Masri è
il nome di battaglia dell'egiziano Mohammed Atef, caduto nei
combattimenti dell'autunno del 2001 in Afghanistan, quando gli archivi
di intelligence lo fotografano "massimo dirigente militare di Al Qaeda".

Si sa che utilizzano un unico, inafferrabile, strumento di
comunicazione - internet - "postando" le loro rivendicazioni via
e-mail alle redazioni di quotidiani in lingua araba ora a Londra, ora
nei Paesi del Golfo Persico. Si sa che sintassi e immagini utilizzate
nelle loro rivendicazioni hanno molto a che fare con stilemi e
categorie politiche dell'Occidente, assai poco con quelle del moderno
Islam radicale.

Ce n'è abbastanza per nutrire qualche sana diffidenza sull'originalità
della sigla e sulla dichiarata intenzione di chi ne fa uso di dare a
intendere che le Brigate hanno le stimmate di Osama Bin Laden. Ma la
prudenza non abita il nostro cortile e il 2 luglio del 2004, a Parigi,
a conclusione di un vertice bilaterale con il Presidente francese
Jacques Chirac, è il Presidente del Consiglio a spiegare che le
minacce intestate "Abu Hafs Al Masri" "vanno prese sul serio".

A sollecitarne la sortita sono le prime pagine dei quotidiani in
lingua araba "Al Hayat" e "Al Sharq al-Awsat", su cui, quella mattina,
le brigate sono tornate a discettare con un lunghissimo comunicato. La
mossa di Berlusconi si muove in una logica politica che si libera in
un colpo solo di ciò che il buon senso degli addetti dovrebbe
suggerirgli. Il testo del 2 luglio sembra uscito dallo scantinato di
qualche attento collezionista di materiale tutto italiano. Chi lo ha
confezionato puzza di provocatore. Usa arnesi familiari all'album di
famiglia della nostra storia politica recente. Una storia che,
evidentemente, conosce, con cui ha avuto a che fare o che
semplicemente orecchia.

Non si spiegherebbero altrimenti i riferimenti a un fronte di lotta
per svuotare le carceri americane dai prigionieri della guerra al
terrore, espressioni quali "allargare l'area del conflitto" o il
riferimento alla caduta di "fiducia degli investitori nei mercati
americani". Non è un caso, del resto, che mentre Roma promuove le
"Brigate" a nuova stella di prima grandezza del firmamento
fondamentalista, a Berlino, Rainer Lingenthal, portavoce del ministero
dell'interno federale, si smarchi con una sola, semplice mossa:
"Queste affermazioni delle sedicenti Brigate Abu Hafs Al Masri vanno
prese con molta prudenza. E' un gruppo misterioso che è arrivato ad
attribuirsi persino il black-out energetico negli Stati Uniti".

Due settimane dopo, tra il 15 e il 16 luglio, il gioco mostra il
trucco. Nello spazio di quarantotto ore, due comunicati telematici
firmati "un ammiratore tunisino dei due sceicchi" e "Brigate Abu Hafs
Al Masri" riducono la campagna estiva del terrore ad affare
squisitamente italiano. Alla figura di Silvio Berlusconi. La mano che
verga proclami comincia a giocare con l'ultimatum di Osama Bin Laden
scaduto il 15 luglio e ne riscrive i termini a piacere. Il 26 luglio
dà al presidente del consiglio "pochi giorni" per ritirarsi dall'Iraq.
Il 28 luglio promette un futuro imminente di devastazione. Il primo
agosto torna a spostare la deadline del terrore di un paio di
settimane. Per poi riaffacciarsi ossessivamente il 7, il 10, l'11, il
15, il 21 e il 29 di quello stesso mese.

Se si ha voglia di leggere questo scartafaccio se ne coglie il tratto
artefatto. Il segno "italiano" dell'autore si rivela in un prolisso
crescendo di riferimenti presenti e passati al dibattito pubblico di
casa nostra. Dai rapporti Putin-Berlusconi, alla morte violenta del
giornalista Antonio Russo, al dichiarato disprezzo per alcuni noti
commentatori in lingua araba della nostra stampa quotidiana. Le
minacce delle "Brigate" hanno l'attendibilità di uno zero, esattamente
quanto la rivendicazione di fatti di sangue le cui responsabilità
portano ad altri indirizzi. A Bagdad, a Madrid, a Istanbul.

Sarebbe insomma consigliabile non cavalcare questa tigre di carta che
incupisce l'estate italiana. Ma non è quel che accade. Le parole di
Berlusconi dei primi di luglio e il credito aperto alle minacce delle
"Brigate" consiglia a una parte degli apparati mosse accorte e qualche
piccola furbizia. Nessuno trova la forza di denunciare pubblicamente
questa montagna di frottole per quel che è. Il ministro dell'Interno
Giuseppe Pisanu invita genericamente a "non sottovalutare il rischio"
e predica "compostezza nella risposta". Il Sismi arriva a tratteggiare
il possibile profilo di chi si nasconde dietro la sigla "Brigate Abu
Hafs al Masri": "Tutti i messaggi rimandano ad un unico autore,
verosimilmente nordafricano con buona conoscenza dell'attualità
italiana". Qualcuno lo cerca? E chi e cosa lo muove?

Sono domande che restano a ciondolare nel vuoto. Un'urgenza cui
nessuno ritiene di dover dare precedenza. Anche perché, forse, tra gli
addetti nessuno sa poi bene quanto convenga davvero venire a capo di
quella rumorosa campagna di intimidazione. Meglio per tutti resti in
aria come un pallone che, se proprio si deve sgonfiare, è meglio si
sgonfi da solo. Del resto, che il rischio per il nostro Paese non
debba misurarsi sul delirio locutorio della "Brigate" lo spiega con
franchezza proprio il direttore del Sisde, il generale Mario Mori. Il
26 agosto, a Rimini, di fronte alla platea del meeting di Comunione e
Liberazione, l'uomo che ha le chiavi del nostro spionaggio interno si
sottrae al coro dei profeti di sventura. Dice: "La minaccia di un
attentato in Italia esiste, ma non è diversa da quella che incombe su
tutti quei Paesi portatori di una cultura o di una politica che non si
confanno ad un certo estremismo radicale islamico. Ma, credetemi,
l'Italia non è in una situazione pre-spagnola. A chi intende colpirci
manca quel supporto tecnico-logistico che li attarda e li
appesantisce. Se un attacco dovesse arrivare sarebbe improvviso,
imprevedibile, perché può essere lanciato da gente che vive in Italia
da dieci anni, che lavora in un supermarket e, ricevuto un ordine,
cerca di portare a termine il suo compito...".

L'autunno si porta via le "Brigate" neanche fosse un fatto stagionale.
Il misterioso scrivano di Internet si tace d'improvviso e chi, tra gli
addetti, ne ha pesato ogni parola perde interesse nell'affare. Al
punto da ridurlo a semplice accidente, come documenta il breve
passaggio che il Cesis dedica alla misteriosa sigla nella sua
relazione al Parlamento sull'attività della nostra intelligence nel
secondo semestre del 2004: "E' proseguita intensa la propagazione
sulla rete di testi di caratura programmatica, di rivendicazioni e di
comunicati minatori, strumenti di vere e proprie campagne offensive
virtuali che hanno conosciuto il proprio apice durante l'estate, con
una forte accelerazione mediatica anti-italiana. Interamente svoltasi
nel cyberspazio, tale stagione minatoria è stata opera di sigle e
nickname vari, con una netta preponderanza delle sedicenti "Brigate
Abu Hafs Al Masri", comparse a rivendicare anche gli attentati di
Madrid del marzo 2004. Il fenomeno va valutato soprattutto in
relazione alla sua tempistica e ai tratti salienti della minaccia che
intende enfatizzare e amplificare".

Non una parola sulla natura delle "Brigate" e sul lavoro - ammesso ci
sia stato - per venirne a capo. Non un cenno per segnalare che tutti
gli attentati rivendicati con quella sigla (a cominciare da quello di
Madrid) hanno visto accertate altre responsabilità. Tra la fine del
2004 e l'inizio del 2005, la fretta nel mettere in un canto e senza
eccessivi clamori l'estate delle "Brigate" tradisce la convinzione dei
più avvertiti tra gli addetti che la sigla nasconda una campagna di
disinformazione che con Al-Qaeda nulla ha a che fare, ma che nessuno
ha convenienza a raccontare in questi termini. Almeno fino a quando il
gioco non si allarga, come abbiamo visto nel primo capitolo, il 4
maggio del 2005 e Abu Faraj Al Libbi viene catturato nel villaggio di
confine tra Pakistan e Afghanistan. Le "Brigate Abu Hafs Al-Masri" non
hanno nulla a che fare con Al Qaeda.

Nel luglio 2005, le bombe nei metrò di Londra offrono un'altra fugace
opportunità alle "Brigate". Ma è una finestra che si apre e chiude
nello spazio di un mattino. La loro rivendicazione è di cartapesta,
come il comunicato che la segue e la smentisce. "Sono solo una sigla
telematica", conviene ora il ministro dell'interno Giuseppe Pisanu.

Pesano evidentemente le confessioni di Abu Faraj raccolte dagli
americani. Pesa un contesto domestico che comincia a mostrare sintomi
di rigetto di fronte alla sciatta riproposizione della sequenza
allarme-paura-consenso. Pesa un nuovo, grave infortunio della nostra
intelligence militare. E' storia degli inizi di luglio 2005. Alla
vigilia del primo attacco a Londra, una nota del Sismi "informa" che
"fonti di intelligence segnalano la presenza di una scuola di kamikaze
in Lombardia". Si discetta di "istruttori di esplosivi" itineranti,
"appena giunti dall'estero", capaci di fornire know-how in grado di
trasformare aspiranti martiri in bombe umane. La notizia galleggia nel
circuito degli addetti per qualche settimana, quindi, a fine luglio,
dopo il secondo attacco a Londra, il Sismi pensa bene di "spingerla".

La nota, secondo uno schema sperimentato, finisce sulla prima pagina
di un quotidiano che avverte: "Da quanto filtra, il rapporto è "molto
concreto"". Dunque, accende l'allarme e conferma, a posteriori, che la
nostra intelligence ha visto lungo e per tempo il pericolo che ha
appena colpito al cuore Londra. Che anche in Italia si avanza -
peggio, è pronta a colpire - una nuova leva di "homegrown terrorists",
di estremisti domestici pronti a farsi saltare nelle città in cui sono
cresciuti.

La circostanza che esista una "scuola" lombarda in cui diventare
"kamikaze" è un'iperbole che si muove - come sempre - sul sottile
crinale della inverosimiglianza che soltanto la paura può trasformare
in informazione degna di fede. Come sempre, c'è chi, lesto, sale sul
carro del pubblico allarme. A cominciare dal sindaco di Milano
Gabriele Albertini: "Sapevamo dell'esistenza di questi santuari...".
Come sempre, il gioco si mostra subito corto.

La procura della Repubblica di Milano cade dalle nuvole. "Una scuola
di kamikaze? Non ne sappiamo nulla". Cadono dalle nuvole carabinieri e
polizia. Cade dalle nuvole il Sisde, il servizio informazioni interno.
Curioso. Una notizia di questo genere circola da un mese (la nota è
dei primi di luglio) e nessuno ha avuto cuore di condividerla con chi
protegge la quiete delle strade di Milano. Se è una notizia vera,
qualcuno non sta facendo il suo mestiere. Se è una bufala, il Sismi
dovrebbe smentirne la fondatezza.

In entrambi i casi, qualcuno dovrebbe chiedere conto di che cosa sta
succedendo. Colpevolmente non accade nulla. Nei suoi informali
conversari con il Comitato parlamentare di controllo, il direttore del
Sismi conferma l'esistenza di quella allarmata nota e dà appuntamento
alla riapertura del Parlamento per eventuali chiarimenti. La Procura
di Milano ordina al Ros dei carabinieri di vederci più chiaro.
L'estate passa indenne (forse anche la "scuola" ha chiuso per ferie)
e, il 28 settembre, la storia si rivela per quella che è.

Il rapporto del Sismi è una palla gonfiata dalle informazioni
visionarie di un "disturbato mentale, uso al consumo di alcool e
cocaina". Chi immagina a questo punto che lo svelamento della
fanfaluca si traduca in un qualche esito istituzionale, sbaglia.
All'affare, viene dedicata l'attenzione che si riserva a un incidente
stradale in provincia. Dal Comitato parlamentare di controllo si leva
una sola voce. Irata e furiosa. Il senatore di Rifondazione Comunista,
Luigi Malabarba si muove non contro i fabbricatori della bufala, ma
sorprendentemente contro chi (procura di Milano, Ros dei carabinieri,
media) ha osato smascherare l'infondatezza dell'informazione diffusa
dall'intelligence militare. Accusa il senatore: "Mi pare che ci sia
qualcuno che vuole la testa del direttore del Sismi, forse perché poco
disponibile a sposare la tesi del "partito americano" e della
riorganizzazione dell'ordine pubblico e della sicurezza in questo Paese".

Inconsapevolmente, Luigi Malabarba si lascia imprigionare da un'altra
tecnica "sporca" dell'intelligence: la propaganda nera, così
codificata nei manuali di guerra psicologica delle forze armate
statunitensi. "Si tratta di una tecnica impiegata soprattutto dai
militari per screditare il capo di forze guerrigliere ostili (il
leader di un governo nemico o degli insorti) o, genericamente, per
screditare l'avversario principale".

Al senatore viene fatto credere dagli uomini dell'intelligence che ci
sono "inconfessabili ragioni" o "interessi e disegni politici" dietro
le critiche al Sismi. Accecato, il senatore non vede più i fatti e non
si accorge di essere stato preso in trappola dalla propaganda nera
nella sua forma di "eliminazione della credibilità". Così definita dai
manuali: "Di fronte a un'accusa, si può reagire sostenendo che chi
l'ha formulata è una persona squalificata o moralmente equivoca o che
mente per calcolo. Aggredire e depotenziare la fonte significa, di
conseguenza, rendere meno credibile tutto ciò che da quella fonte
proviene".

Naturalmente il silenzio privo di esiti negativi che conclude l'affare
della scuola dei kamikaze non scoraggia il Sismi dal provarci ancora.
Questa volta, la favola in circolazione narra addirittura della
spedizione in Italia di una bomba atomica nella disponibilità di al
Qaeda. Ma la tecnica di disinformazione dovrebbe essere, a questo
punto, trasparente nel suo metodo e nelle sue finalità. Quest'ultima
fanfaluca si può trascurare.

(20 marzo 2006)