# B. Steri: L'imperialismo democratico alla prova in Bielorussia

# Intervista a Giulietto Chiesa

---

...Nell'operazione repressiva - lo ha riconosciuto anche Aleksandr
Milinkevic, il leader dell'opposizione - hanno usato i guanti bianchi.
"Niente violenza! Niente insulti", ha gridato ogni trenta secondi da
un megafono il colonnello Podobed... Tra i fermati - "portati ai
commissariati di polizia in conformità alla legge", ha precisato il
responsabile dello sgombero - figurano uno dei due figli di
Milinkevic, due nipoti di Aleksandr Kozulin (un altro leader del
fronte anti-Lukashenko) e un ex ambasciatore polacco a Minsk (SIC)...

Fonte ANSA, 24/03/2006 10:11
http://www.ansa.it/main/notizie/fdg/200603241038235821/200603241038235821.html

---

L' "IMPERIALISMO DEMOCRATICO" AL LAVORO IN BIELORUSSIA

di Bruno Steri*

per www.lernesto.it

La fabbrica del consenso "democratico"

"Il Kgb stronca la protesta", "I pretoriani del regime spazzano via
l'opposizione democratica da piazza Oktiabraskaja", "Immediate e dure
le reazioni dell'Unione Europea e degli Usa che si apprestano a varare
sanzioni contro la Bielorussia". Questo il tono prevalente dei
commenti apparsi sulla stampa il giorno successivo allo sgombero ad
opera della locale polizia di qualche migliaio di manifestanti dalla
piazza di Minsk. In questo modo gli effetti dell'ennesima pesante
ingerenza dell'Occidente vengono trasformati in una specie di
riedizione dei fatti di Genova rivisitati in salsa bielorussa. Ma il
clima mediatico era stato da tempo preparato. Era già oltremodo
significativa l'unanimità del coro intonato a proposito delle elezioni
tenutesi il 19 marzo scorso: pressoché tutti allineati e coperti
dietro la denuncia dell'illegittimità del plebiscito pro-Lukashenko e
in sostanziale sintonia con il Congresso Usa che già lo scorso 8 marzo
(con un solo voto contrario) si pronunciava contro "l'ultima tirannia
d'Europa".
Questa vicenda consente emblematicamente di apprezzare la forza dei
dispositivi attraverso cui è costruita l'informazione ufficiale e, più
in generale, quali gravi manipolazioni si celino dietro l'odierno uso
della nozione di `democrazia'. Accedendo a fonti `eterodosse' - e
posto che si abbia la volontà politica di farlo - si ha tuttavia la
possibilità di ascoltare voci dissonanti: il sito de L'Ernesto lo ha
fatto pubblicando, ad esempio, un'intervista (tradotta dal russo) ad
Aleksandr Fadeev, incaricato per le questioni bielorusse dell'Istituto
dei Paesi della Csi. In essa leggiamo il seguente resoconto, tanto più
significativo in quanto fa riferimento a valutazioni di osservatori
dei Paesi Csi espresse prima del 19 marzo: "Già ora le elezioni
presidenziali vengono considerate falsificate sebbene nessuna scheda
elettorale sia stata ancora depositata nell'urna". Eppure "i
rappresentanti dell'opposizione hanno potuto tranquillamente
raccogliere le firme per la presentazione delle candidature, esponenti
dell'opposizione sono oggi in corsa per la presidenza (…). A tutti i
candidati è stato concesso uno spazio televisivo, così che non è
assolutamente possibile parlare di discriminazione alcuna". Nonostante
ciò, "non c'è alcun dubbio che Washington e Bruxelles dichiareranno le
elezioni illegittime. Tutto induce a pensarlo". E così è stato: gli
osservatori internazionali di emanazione Osce (l'Organizzazione per la
sicurezza e la cooperazione in Europa) hanno subito parlato di gravi
irregolarità, ribadendo dunque quella che appare una condanna
comminata da tempo. Il commento di Giulietto Chiesa (anch'egli
intervistato su questo sito), deputato europeo della cui autorevolezza
e competenza nessuno potrebbe dubitare, è in proposito lapidario: "Il
giudizio dato dall'Osce sulla validità delle elezioni era già deciso.
Si tratta, lo dico senza mezzi termini, di giudizi tendenziosi,
faziosi e manipolati. Ho avuto molte volte l'occasione di vedere
all'opera gli osservatori internazionali e ho sempre verificato di
prima mano come le loro relazioni fossero bugiarde".

Bielorussia: un ingombro sul cammino del neoliberismo

L'accanimento nei confronti della Bielorussia è in effetti fin troppo
sospetto. Che Lukashenko si sia dimostrato ostile all'Occidente, non
vi è dubbio: egli ha tenuto il suo Paese al riparo dalla "transizione
al capitalismo" scaturita dall'implosione del socialismo reale,
evitando per un verso di svendere le risorse nazionali e imponendo
vincoli al mercato, preservando per altro verso il già vigente sistema
di sicurezza sociale. Così Lukashenko ha sin qui impedito che
accadesse in Bielorussia quello che viceversa è accaduto in Ucraina,
dove il neo-liberista Yushenko ha immediatamente inaugurato il suo
mandato presidenziale procedendo ad oltre 3 mila passaggi di proprietà
pubbliche ai privati, vendendo beni pubblici di portata strategica
quale il colosso metallurgico Kryvorizhstal. Se l'anzidetta
ispirazione politico-ideologica ha consentito alla Bielorussia di
mantenere un più alto tenore di vita interno rispetto alle realtà
circostanti (con un tasso di disoccupazione azzerato, di contro al 18%
della Polonia), l'ha però anche resa un pericoloso corpo estraneo in
un contesto regionale strategicamente delicato, una sorta di ingombro
sulla strada del liberismo trionfante. Essa continua ad incarnare una
flagrante violazione al principio recitato dal finanziere George Soros
nel corso di una recente visita a Kiev: "E' necessario affermare con
forza il diritto di proprietà, presupposto imprescindibile per la
crescita" (cfr. Liberazione, 27-11-05). Oltre a ciò, bisogna
aggiungere che la destabilizzazione di questo Paese è l'ultimo anello
in ordine di tempo di una linea di condotta che punta a fare
progressivamente il vuoto attorno alla Russia, sottraendole uno ad uno
i suoi alleati più prossimi: non è un mistero che i più autorevoli
maitres à penser dei due schieramenti politici statunitensi – bastino
i nomi di Henry Kissinger e di Zbigniew Brzezinsky – abbiano da sempre
ritenuto essenziale agli interessi Usa l'obiettivo di impedire alla
Russia di tornare a svolgere un ruolo di potenza mondiale. Anche per
quel che concerne l'attuale amministrazione Bush, il tasso di
diffidenza nei confronti di Putin è tornato ad essere in rapida
ascesa, soprattutto a seguito dei provvedimenti anti-oligarchi
promossi da quest'ultimo nonché dopo le recenti deliberazioni a tutela
delle risorse strategiche nazionali e a delimitazione della libertà
d'azione degli investitori internazionali.

Tecniche di ingerenza targate Cia

Quanto detto è già sufficiente per affibbiare alla Bielorussia il
carattere dell'intollerabilità, per farla rientrare a pieno titolo nel
novero degli "stati-canaglia". Gli strateghi della "guerra preventiva"
si sono immediatamente messi all'opera. Come ha osservato in occasione
della conferenza "Axis for Peace 2005" – il tedesco Andreas von Bulow,
ex ministro socialdemocratico e membro della Commissione di controllo
parlamentare sui servizi segreti, "i media rappresentano oggi il più
importante strumento di manipolazione delle opinioni. Il Pentagono
possiede, esso solo, un budget di 655 milioni di dollari per la
disinformazione e per influenzare l'opinione pubblica, in particolare
in quei Paesi poco disposti a seguire la politica di guerra preventiva
degli Stati Uniti"(cfr. www.voltairenet.org). I metodi per "esportare
la democrazia" sono infatti molteplici. E non sempre le soluzioni più
direttamente cruente sono compatibili con le esigenze della politica:
così, accanto alla scelta di un impegno militare diretto, troviamo ad
esempio quello che von Bulow definisce "uno degli strumenti millenari
di destabilizzazione": l'uso delle minoranze etniche. Accanto a
questo, i servizi segreti statunitensi hanno perfezionato – negli
ultimi anni e specificatamente nell'area est-europea – un'ulteriore e
quanto mai insidiosa leva di destabilizzazione: l'urto
antistituzionale di una "rivoluzione interna" finalizzata ad un cambio
di regime. Come - da ultimo - il caso dell'Ucraina ha ulteriormente
comprovato, le cosiddette "rivoluzioni colorate", pur rovesciando
esecutivi in evidente difficoltà interna, sono state visibilmente
eterodirette. Ciò vuol dire che, al di là dell'enfasi "democratica"
profusa a piene mani dai mezzi di informazione occidentali, dietro i
colori vivaci e la pretesa spontaneità "non violenta" si sono mossi e
continuano a muoversi colossali flussi di dollari e uomini della Cia e
del Pentagono.
Beninteso, non è da oggi che sulla scena internazionale operano
associazioni e fondazioni statunitensi, alimentate attraverso
formidabili canali di finanziamento statale. Ne è un illustre esempio
la Freeedom House (Casa della Libertà: un nome, un programma!), creata
da Roosevelt per preparare l'opinione pubblica americana alla guerra;
e, successivamente, instancabilmente attiva sul fronte
dell'anticomunismo militante e delle missioni di libertà al servizio
dell'atlantismo. Per tutta la seconda metà del secolo scorso fino ad
oggi, la Freedom House ha attivato risorse e costruito opinione in
sintonia con le necessità della Casa Bianca: ha organizzato campagne a
favore del Piano Marshall e della Nato, ha preparato l'opinione
pubblica motivando l'aggressione imperialista in Vietnam, ha
sovrinteso all'affaire Iran/Contra e intrigato nel 1988 contro la
rivoluzione sandinista. Negli anni '90 ha allargato i suoi interessi
all'Europa dell'Est, organizzando programmi di formazione per la
dissidenza dell'Europa centro-orientale e - più recentemente, sotto la
direzione dell'ex patron della Cia James Woolsey - creando in Ungheria
un servizio web per le Ong est-europee e aprendo uffici in Ungheria,
Polonia, Romania, Serbia e Ucraina (ma anche in Kazakhstan,
Kirghizstan e Uzbekistan). (Cfr. Le reti di ingerenza Usa, Newsletter
Galileo).

Il colpo di stato non violento

Che da tempo operino associazioni private a supporto della politica
estera Usa od anche in qualche modo fiancheggiatrici dell'azione di
intelligence, non è certamente una novità. Degno di nota, nonchè fonte
di gravi ambiguità politiche, è viceversa il fatto che nel contesto di
un'ispirazione radicale e non violenta vi sia chi si è posto al
servizio della Cia e del pensiero neo-cons, per favorire e mettere in
opera le tecniche del "colpo di stato postmoderno". E' il caso di Gene
Sharp, già autore di un noto manuale radicale (Politica dell'azione
non violenta) e successivamente patrocinatore dell'Albert Einstein
Institution, un'associazione che sin dagli anni '90 "iniziava una
collaborazione, fatta di finanziamenti e consulenze, con istituti
filo-governativi come il National Endowment for Democracy creato da
Reagan nel 1983, il National Democratic Institute presieduto da
Madeleine Albright e l' International Republican Institute, fino alla
Freedom House, nata durante la guerra fredda (…)" (F. Giovannini,
Strategie non violente al servizio dell'Impero, `La Rinascita della
sinistra', 3-3-2006). Il "modello Sharp" è appunto quello felicemente
sperimentato nell'ex Jugoslavia, in Georgia e Ucraina; e da ultimo
applicato - questa volta con esito negativo - in Bielorussia: "Non le
semplici tecniche di azione non violenta, ma ingenti finanziamenti ai
gruppi di opposizione, stretta collaborazione con gli ambasciatori
americani, appoggio dei mezzi di informazione e uso delle Ong per
monitorare le elezioni accusando i singoli regimi di frodi elettorali"
(Ibid.). Questa sorta di "imperialismo democratico e senza spargimenti
di sangue" ha anche provato a sfondare – ma senza successo – nel
Venezuela del presidente Chavez, dove l'Albert Einstein Institute di
Sharp assieme al reaganiano National Endowment for Democracy hanno
collaborato nell'organizzazione delle contestazioni di piazza e, anche
qui, nell'amplificazione delle denunce di brogli elettorali: coloro
che hanno sostenuto il fallito colpo di stato del 12 e 13 aprile 2003,
mirante a rovesciare Chavez, hanno ricevuto finanziamenti anche dalle
suddette associazioni.
Bisogna insistere sul fatto che attività come quelle sopra descritte
non solo sono l'opposto di quel che si intende per "normali e
democratiche relazioni tra stati", ma – in un senso propriamente
tecnico – configurano un'ingerenza assolutamente indebita negli affari
interni di un Paese. E' quanto viene sottolineato in un recente
articolo da Wayne S. Smith (La Cia di scorta si chiama Ned, `Il
Manifesto', 1-3-2006). Il National Endowment for Democracy (Ned) "è in
apparenza una fondazione privata, non governativa e senza scopo di
lucro". In realtà "riceve un finanziamento annuale dal Congresso. La
finzione ha una sua particolare importanza perché nella maggior parte
dei Paesi – e anche negli Stati Uniti – esistono leggi severe che
controllano l'attività dei cittadini che ricevono finanziamenti da un
governo straniero. Negli Usa, tanto per fare un esempio, ogni
individuo o Ente `soggetto a controllo estero' deve essere registrato
presso il dipartimento di giustizia e inviare ogni sei mesi una
relazione sulle proprie attività, comprese quelle finanziarie". La
fondazione o l'associazione privata funziona dunque da prestanome
privato, da canale alternativo a quelli governativi, formalmente
legittimato a far affluire le necessarie risorse finanziarie. E' in
questo modo - e con tali esorbitanti mezzi - che viene organizzata la
macchina operativa destinata ad influenzare la società civile, la
stampa, le forze politiche, le unioni sindacali del Paese di turno da
"democratizzare".

Unione Europea in prima fila

Il caso bielorusso costituisce dunque l'ennesima messa in opera del
suddetto copione. Lo conferma un'altra significativa agenzia questa
volta trasmessa da Odalys Buscarion, corrispondente di Prensa Latina,
una settimana prima delle elezioni del 19 marzo: "Il Comitato di
sicurezza ha presentato all'inizio di questo mese la documentazione
relativa a conteggi falsificati dei voti che avrebbero attribuito un
virtuale trionfo all'oppositore filo-occidentale Milinkevich (…).
Intervenendo alla televisione il capo di questo organismo, Stepan
Sujorenko, ha anche affermato che esistono prove su piani di un colpo
di stato, in corrispondenza con le elezioni, finalizzato ad occupare
con la forza il potere. Ha menzionato tra i patrocinatori la Ong
Partenariato, finanziata dall'estero (…) Il finanziamento a questa
organizzazione, a giudicare dalle prove rinvenute, sarebbe da
attribuire ad una filale regionale del cosiddetto National Democratic
Institute. E' di pubblico dominio che gli Stati Uniti hanno
autorizzato uno stanziamento di circa 12 milioni di dollari per
appoggiare nel 2006 le `attività per il sostegno alla democrazia' in
Bielorussia. Si sta attuando una colossale campagna di interferenza
nelle elezioni bielorusse da parte di governi stranieri, ha rilevato
il giornalista Jonatan Stil in un commento sul quotidiano britannico
Guardian: Stil ha definito scandaloso l'atteggiamento di intromissione
dell'Occidente nella contesa elettorale del Paese slavo"
(www.prensalatina.com).
Nel quadro dell'azione di ingerenza destabilizzatrice sin qui
descritta, l'Europa figura in prima fila. Spingono in tale direzione i
dieci nuovi entrati nel club dei 25 Paesi Ue, vero e proprio cavallo
di Troia "americano"; e il portavoce del Consiglio d'Europa non ha
perso tempo nel confermare l'appoggio alla scelta di sanzioni
immediate nei confronti della Bierlorussia e del suo presidente.
Tuttavia, per i Paesi del Vecchio Continente c'è qualche apprensione
in più. E' di questi giorni la notizia di un maxi-accordo tra la
Russia e la Cina che impegna i due colossi energetici nazionali, il
Gazprom e il China National Petroleum (Cnpc), per la realizzazione di
due pipeline che serviranno a rifornire il Paese asiatico di gas
naturale russo. Si tratta di un'opzione strategicamente decisiva, che
rafforza una tendenza ampiamente in atto e che testimonia
dell'insistenza con cui Vladimir Putin guardi ad oriente. Ciò non è
senza conseguenze per la politica energetica europea: come ha
osservato Roland Nash, analista di Renaissance Capital, "le riserve di
idrocarburi della Siberia occidentale (…) potrebbero non bastare per
soddisfare la domanda interna russa, il fabbisogno dei Paesi europei e
quello in aumento della Cina" (Il Sole 24 Ore, 22-3-2006). In altri
termini, l'Europa rischia di restare senza il gas russo: e, d'altra
parte, gli esperti del settore sottolineano che la strategia
energetica russa non può trascurare la conquista di nuovi mercati e
quindi la riduzione della dipendenza dal mercato europeo. Di qui, il
preoccupato commento del quotidiano confindustriale: "A Mosca non
hanno certamente dimenticato la posizione apertamente filo-ucraina
dell'Unione Europea durante la recente `crisi del gas' tra Mosca e
Kiev" (Ibid.). Senza alcun dubbio, la posizione assunta dall'Ue sulla
vicenda bielorussa è destinata a complicare ulteriormente le cose.

25 marzo 2006

* del Dipartimento Esteri PRC, Comitato politico nazionale, area
Essere Comunisti

---


http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=8564

La Bielorussia dopo il voto

di Manuele Bonaccorsi

su redazione del 22/03/2006

Intervista a Giulietto Chiesa

Raggiungiamo Giulietto Chiesa in una pausa tra le riunioni del
Parlamento Europeo, a Bruxelles. "Qui c'è un pessimo clima- dice
l'europarlamentare- si parla apertamente di sanzioni; parlamentari
della destra, con l'appoggio di settori dei verdi e del partito
socialista, sono autori di un pericoloso e insensato estremismo.
Dinanzi alla Bielorussia c'è anche chi vorrebbe mettere in gioco le
relazioni con la Russia. Speriamo che la Commissione e il Consiglio
abbiano pareri più pacati".

A Giulietto Chiesa, profondo conoscitore delle vicende dell'ex Urss,
chiediamo delucidazioni sugli accadimenti di Minsk e sulla turbolenta
frontiera orientale dell'UE.


I giornali di oggi parlano di arresti di oppositori politici e di
repressione delle mobilitazioni contro l'elezione di Lukashenko in
Bielorussia. Si parla di una nuova rivoluzione arancione, simile a
quelle che hanno investito prima la Georgia e poi l'Ucraina. Qual è la
tua opinione in proposito?

E' in corso un tentativo di far passare gli avvenimenti di Minsk come
una nuova rivoluzione colorata, ma nessun giornale sembra notare che
la realtà politica della Bielorussia non è paragonabile a quella che
ha defenestrato i leader filorussi, da Kiev a Tblisi passando per
Belgrado. La differenza è questa: Lukashenko ha un reale appoggio
popolare. Mentre in Ucraina il ritorno alle urne ha dato un esito
diverso da quello iniziale, convocare in Bielorussia nuove elezioni
non farebbe che ridare il potere in mano al vecchio presidente.

Eppure gli osservatori internazionali hanno parlato di evidenti
irregolarità...

Il giudizio dato dall'Osce sulla validità delle elezioni era già
deciso. Si tratta, lo dico senza mezzi termini, di giudizi
tendenziosi, faziosi e manipolati. Ho avuto molte volte l'occasione di
vedere all'opera gli osservatori internazionali, e ho sempre
verificato di prima mano come le loro relazioni fossero bugiarde.

Quindi?

Quindi bisogna prendere atto del consenso popolare del leader
Bielorusso, e chiedersi, semmai, quale sia il suo fondamento. Tra i
pochi dirigenti comunisti contrari allo scioglimento dell'Urss,
Lukashenko è salito al potere battendo i suoi oppositori con un
programma quantomai preciso: nessuna privatizzazione economica e
protezione del sistema di sicurezza sociale. Lukashenko vince perché è
riuscito a tenere in piedi pezzi del sistema socialista, senza
immettere il paese nell'onda della "capitalistizzazione" forzata che
stava già impoverendo la Russia e le altre repubbliche ex-sovietiche.
I suoi avversari, al contrario, sono stati conquistati dalle ipotesi
di occidentalizzazione del paese. Si tratta di una rilevante
minoranza, ma non ci sono dubbi che la maggioranza del paese rimanga
fedele alla politica di Lukashenko. Si tratta di una questione
politica, dunque, non solo di una maggiore o minore aderenza alle
regole democratiche.

Cosa nasconde, dunque, le levata di scudi di Ue, Usa e Nato?

L'obiettivo occidentale è assai chiaro: sottrarre all'influenza della
Russia tutti i suoi vicini, di modificare nel profondo, cioè, il
quadro geopolitico della regione. Si tratta di un progetto imperiale.
Gli Stati Uniti sono tra i maggiori finanziatori dell'opposizione
interna. Ma anche Polonia e Paesi Baltici sono in prima fila per
limitare la sovranità dello scomodo vicino. Ci sono poi la Nato e
l'Ue, il cui obiettivo è quello di spingere sempre più a est le
frontiere delle proprie organizzazioni. Dinanzi a questa realtà non
posso non pormi una domanda: siamo tutti consapevoli che questa
politica ha come diretta conseguenza una nuova guerra fredda, una
nuova contrapposizione frontale con la Russia? Sappiamo quali pericolo
comporterebbe una simile ipotesi?

Dietro l'instabilità delle ex repubbliche sovietiche si nasconde la
grande partita per il controllo dell'energia. Come si può inserire in
questa battaglia la vicenda Bielorussa? E qual è il ruolo della
Germania, il cui ex cancelliere Gerard Schoeder è tra i sostenitori
dell'operazione Gazprom?

La questione energetica è di fondamentale importanza per la
comprensione del quadro geopolitico. Pensiamo, ad esempio, all'accordo
tra Mosca e Pechino che prevede la costruzione di un nuovo gasdotto
che porterà in Cina l'energia di cui essa ha grande bisogno. Pensiamo
anche alla crisi dell'Iran, dove si prepara una nuova guerra con
l'obiettivo americano di esercitare su questo paese il proprio potere.
La Bielorussia, poi, si inserisce perfettamente in questo scenario,
poichè potrebbe ospitare i gasdotti che la Russia vuole negare
all'Ucraina. La questione, in sintesi, è questa: da un lato
l'occidente ha la presunzione di esercitare uno stretto controllo
sulla produzione dell'energia.
Dall'altro è sempre più evidente che questo controllo è impossibile.
C'è poi la vicenda di Gazprom e il tentativo tedesco di stringere i
rapporti con la Russia, anche attraverso la costruzione di un gasdotto
che, scorrendo in acque internazionali, aggiri i paesi baltici,
strenui avversari di Mosca. Per qualcuno questo progetto ha avuto il
senso della frattura della solidarietà europea in materia di politica
energetica. E' chiaro che l'Ue cerca faticosamente, ma con scarsi
risultati, una politica comune dell'energia. In questo conteso si
inserisce la proposta del commissario al commercio Peter Mandelson,
che in un articolo di pochi giorni fa sull'International Herald
Tribune ipotizza la costruzione di un mercato comune dell'energia. Una
proposta che avrebbe quantomeno il merito di sottrarre la questione
energetica dai criteri politici aggressivi che emrgono con forza
all'interno dell'Europa.

Sullo sfondo, dunque, rimane la potenza russa...

Il capogruppo dei verdi in parlamento oggi diceva: "Se dietro la
Bielorussia non ci fosse la Russia Lukashenko sarebbe già stato
spazzato..." Mi pare evidente che ci troviamo dinanzi a una nuova
teoria della sovranità limitata, che questa volta l'Europa gioca
contro la Russia. Si è gridato allo scandalo, ad esempio, dinanzi alla
notizia delle limitazione imposte da Putin all'attività delle Ong nel
suo paese. Ebbene, l'UE ha fatto finta di non sapere che molte di
quelle Ong non sono altro che emissari occidentali che lavorano per
una penetrazione politica all'interno della Russia. Ha diritto Putin
di fare ciò? Io credo di sì. Poiché con una scelta del genere Putin
difende il diritto del popolo russo di decidere del proprio futuro.