Parliamo dunque della Jugoslavia

di Peter Handke

Finalmente, dopo più di un decennio di linguaggio giornalistico a
senso (e a non-senso) unico, sembra che si stia creando un'apertura
in Francia nella stampa (1), forse non soltanto in Francia, per
parlare in modo diverso - o semplicemente per cominciare a parlare -
della Jugoslavia.
Sembrano divenuti possibili un dibattito, una discussione, un
discorso, una fruttuosa contesa, un interrogarsi comune, e narrazioni
che si parlano... Prima c'era il nulla e ancora il nulla,
diffamazioni al posto del dibattito, costruite con parole
prefabbricate, ripetute all'infinito e utilizzate come armi automatiche.
Allarghiamo dunque questa breccia o apertura, questa primavera di
parole. Ascoltiamoci finalmente gli uni e gli altri invece di urlare
e abbaiare da due campi nemici. Ma non tolleriamo più nemmeno quegli
esseri (?), quelle anime (?) cattive (!) che, nel tragico dilemma
jugoslavo, continuano a lanciare parole-proiettili come
«revisionismo», «apartheid», «Hitler», «dittatura sanguinaria», ecc.
Fermiamo ogni paragone e parallelo su quello che riguarda la guerra
nella Jugoslavia. Restiamo agli avvenimenti che, come avvenimenti di
una guerra civile, innescata o almeno coprodotta da un'Europa in
malafede o, perlomeno, ignorante, pure se già messi a nudo restano
per tutte le parti comunque terribili. Smettiamola di paragonare
Slobodan Milosevic a Hitler. Smettiamola di paragonare lui e sua
moglie Mira Markovic a Macbeth e alla sua Lady o di fare paralleli
tra la coppia e il dittatore Ceausescu e la sua donna. E non usiamo
mai più per i campi disseminati nella guerra di secessione in
Jugoslavia l'espressione «campi di concentramento».
E' vero: c'erano campi intollerabili tra il 1992 e il 1995 nel
territorio delle Repubbliche jugoslave, soprattutto in Bosnia. Però
smettiamo di legare meccanicamente nella nostra testa questi campi ai
serbi bosniaci: c'erano anche campi croati e anche campi musulmani, e
i crimini che vi sono stati commessi vengono e verranno giudicati dal
Tribunale dell'Aja. E, finalmente, smettiamola di legare i massacri
(dei quali - al plurale - quelli di Srebrenica del luglio 1995 sono
di gran lunga i più atroci) alle forze armate o ai paramilitari
serbi. Ascoltiamo anche - finalmente - i sopravvissuti ai massacri
compiuti dai musulmani nei numerosi villaggi serbi attorno a
Srebrenica - musulmana - massacri commessi e ripetuti nei tre anni
che precedettero la caduta di Srebrenica, stragi guidate dal
comandante di Srebrenica che portarono nel luglio 1995 - una vendetta
infernale e una vergogna incancellabile per i responsabili
serbobosniaci - alla grande mattanza, e per una volta la parola che è
stata spesso ripetuta è davvero giusta, «la più grande in Europa dopo
la Seconda guerra mondiale». Aggiungendo questa informazione: che
tutti i soldati e gli uomini di Srebrenica che sono fuggiti dalla
Bosnia serba traversando il fiume Drina, la frontiera tra i due
Stati, fuggivano in Serbia, paese all'epoca sotto l'autorità di
Milosevic, che tutti questi soldati arrivando nella cosiddetta Serbia
nemica venivano salvati, senza che lì si verificassero uccisioni o
stragi.
Sì, ascoltiamo, dopo aver ascoltato «le madri di Srebrenica», anche
le madri o una sola madre del vicino villaggio serbo di Kravica,
raccontare il massacro del Natale ortodosso 1992-1993, perpetrato
dalle forze musulmane di Srebrenica, un massacro anche contro le
donne e i bambini di Kravica (il solo crimine per il quale vale la
parola genocidio).
E smettiamola di associare gli «snipers» di Sarajevo ciecamente ai
«serbi»: la maggior parte dei caschi blu francesi uccisi a Sarajevo
furono vittime dei cecchini musulmani. E smettiamola di collegare
l'assedio (orribile, stupido, incomprensibile) di Sarajevo
esclusivamente all'armata serbobosniaca: nella Sarajevo degli anni
1992-1995, decine di migliaia di civili serbi rimasero bloccati nei
quartieri del centro, come Grbavica, che a loro volta erano assediati
- eccome se lo erano! - dalle forze musulmane. E basta attribuire gli
stupri soltanto ai serbi. Smettiamola di collegare le parole in modo
unilaterale, alla maniera del cane di Pavlov. Allarghiamo l'apertura
che ci si presenta. Che la breccia non sia più ostruita da parole
marce e avvelenate. Resti fuori ogni mente malvagia. Abbandoniamo
finalmente questo linguaggio. Impariamo l'arte della domanda,
viaggiamo nel paese sonoro, in nome della Jugoslavia, in nome di
un'altra Europa. Viva l'altra Europa. Viva la Jugoslavia. Zivela
Jugoslavija.

(1) Tra gli altri, gli articoli di Brigitte Salino e di Anne Weber su
Le Monde del 4 maggio, il commento di Pierre Marcabru nel Figaro
dello stesso giorno e l'appello di Christian Salmon su Libération del 5.


Questo articolo dello scrittore e drammaturgo austriaco censurato
dalla Comédie Française «perché è andato al funerale di Milosevic», è
uscito mercoledì 10 su Libération, è stato pubblicato su Il Manifesto
del 12 Maggio 2006, ed è ora ripresentato qui in una traduzione più
corretta a cura del CNJ.