(Questa è la storia di un partigiano dei Gap triestini, recentemente
scomparso.
Perse la madre in Risiera ed il padre fu fucilato per rappresaglia
dai nazifascisti ad Opicina; il fratello cadde combattendo; lui
stesso fu gravemente ferito.
Ma nel dopoguerra subisce un processo e gli è negata a lungo la
cittadinanza italiana; viceversa, al capo dei torturatori di Trieste,
Collotti, è attribuita una medaglia.
Una storia normale, insomma.)

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Cari compagni, alcuni giorni fa è morto a Trieste, dopo una lunga
malattia, il compagno Igor Dekleva, partigiano. Lo ricordo come una
persona forte e gentile assieme, che mi ha fatto capire come a volte
delle scelte violente possano essere fatte anche da chi non sarebbe
violento per propria indole, ma che alla fine della violenza non
desiderano altro che vivere in pace. Le pagine che seguono fanno
parte di uno studio sull'Ispettorato Speciale di PS, che operò nella
"Venezia Giulia" tra il 1942 ed il 1945, e raccontano le vicende
tragiche e paradossali che costituirono la vita di Igor Dekleva. Dato
che Igor è morto prima di poter leggere quanto ho scritto su di lui,
desidero rendere pubblica la sua vicenda in questo modo, per
ricordarlo anche a chi non l'ha conosciuto.

Saluti resistenti
Claudia Cernigoi - Trieste

LA STORIA DI IGOR DEKLEVA.

Un paio d’anni or sono scrissi un articolo sulla vicenda di Igor
Dekleva, che riprendeva quanto apparso in un libro di Gian Pietro
Testa [1].
< Quello di Igor Dekleva è un caso che soltanto all’apparenza può
sembrare paradossale, mentre è sintomatico. (…) Appartenente ai GAP
di Trieste, Dekleva cadde in un’imboscata degli uomini
dell’Ispettorato Speciale di PS il 24 aprile 1945 (…) Dekleva si
difese, ci fu una sparatoria, lui rimase ferito, un brigadiere di
Collotti morì. Dekleva era stato processato nel 1943 in Croazia
(dov’era nato) da un tribunale degli ustascia ed espulso in Italia
perché “partigiano italiano”; nel ‘45, anche dopo l’arrivo
degli alleati a Trieste, egli non aveva patria e divenne
ufficialmente apolide. Nel 1954, durante la festa della polizia a
Palermo, Gaetano Collotti fu insignito della medaglia d’argento [2]
al valor militare alla memoria. (…) Pochi mesi dopo la medaglia a
Collotti, Dekleva, uno dei suoi perseguitati, fu sottoposto a
processo per il reato di omicidio nella persona del brigadiere (…)
Non subì carcere, Dekleva, perché il giudice riconobbe che il reato
era coperto da amnistia. Ma moralmente il giudice, nella sua
sentenza, volle condannare Dekleva, fornendo una sottile
disquisizione sul valore della vita umana. Di quella del brigadiere
di Collotti, naturalmente, non di quella del partigiano apolide.
Legittima difesa? Azione di guerra? Neanche parlarne. L’amnistia:
anche troppo per un apolide di nome sloveno, nato in Croazia >.
Qualche tempo dopo incontrai lo stesso Dekleva che mi spiegò che i
fatti non si erano svolti proprio come li riferiva Testa e mi
raccontò cos’era realmente accaduto [3].
Igor Dekleva non avrebbe voluto combattere. Voleva studiare per
diventare medico, farsi una famiglia, avere una vita normale. Cose
queste che sotto il fascismo erano impossibili per uno come lui,
sloveno e comunista. La sua famiglia aveva dovuto rifugiarsi da
Trieste a Zagabria, da dove era stata poi espulsa nel 1942, perché
“partigiani italiani”; così ritornarono a Trieste.
La madre Vera Kalister fu uccisa in Risiera nel giugno del ‘44; il
padre Stanislao fucilato per rappresaglia ad Opicina il 3/4/44
assieme ad altri settanta ostaggi; il fratello Cirillo, partigiano
EPLJ del Distaccamento Litorale Meridionale, cadde il 29/7/44 a San
Giacomo in Colle-Štjak [4]. Igor Dekleva “Miha”, a Trieste faceva
parte del comitato circondariale della Zveza Slovenske Mladine (ZSM,
Unione della Gioventù slovena) e militava nei GAP; < dopo gli arresti
del novembre e dicembre l’associazione della gioventù slovena
ottenne un notevole rinforzo con la venuta a Trieste dei noti
compagni Igor Dekleva-Miha e Carlo Šiškovič-Mitko. Quando tutte le
compagne che costituivano il comitato circondariale dovettero
trasferirsi nella zona già liberata, perché continuamente pedinate
dalla polizia, tutta l’organizzazione della gioventù rimase in mano
dei compagni Miha e Mitko > [5].
La sera del 24 aprile 1945 Dekleva andò ad una riunione clandestina
in un appartamento di via Gatteri, ma quando fu sul pianerottolo si
rese conto che nell’appartamento c’era la polizia che lo stava
aspettando. Gli agenti Ernesto Cenni e Raimondo De Franceschi
aprirono la porta e spararono addosso a Dekleva; lui rispose al fuoco
gettando una bomba e ferendo a sua volta gli agenti e scappò giù
lungo le scale. Davanti al portone trovò un poliziotto, Giuseppe Foti.
< Foti non era della banda Collotti, semplicemente abitava in quel
palazzo. Mi puntò contro la pistola perché voleva arrestarmi. Non
fare il cretino, lasciami andare, gli dissi, non sei neanche in
servizio. Niente da fare, non mi avrebbe lasciato andare. Io ho
dovuto sparare, se non sparavo io mi avrebbe ammazzato lui >.
Dekleva scappò in strada ed in via Ginnastica trovò un milite della
Decima, Attilio Riva, che cercò di fermarlo. Dekleva gli sparò e
l’altro rispose, colpendolo.
< Mi sparò addosso perché non aveva scelta. O io o lui. Era la
guerra >.
Dekleva fu ricoverato all’ospedale, gravemente ferito.
< Arrivò un’ambulanza militare che mi prese su per portarmi
all’ospedale. Quelli dell’Ispettorato volevano ammazzarmi subito,
ma l’autista glielo impedì, mi condusse all’ospedale, e loro con
me. Nell’atrio presero a picchiarmi, ma fu lo stesso portiere a
prendere le mie difese, li bloccò. “Questo è un ospedale, disse
loro, dove credete di essere?” e quelli mi lasciarono stare. Poi
venne Collotti in persona, per arrestarmi, ma i medici non gli
permisero di portarmi via, il dottor D’Este, che aveva già salvato
molte persone, gli mostrò le mie lastre, dove si vedeva che avevo una
scheggia nell’addome e gli disse che ero in fin di vita. Per inciso,
quella scheggia, ce l’ho ancora, non è che fossi in fin di vita per
quel motivo, ma evidentemente a Collotti la cosa fece impressione e
lasciò perdere. Per alcuni giorni quindi mi piantonarono per portarmi
via appena possibile, ma per fortuna arrivarono gli ultimi giorni di
aprile e tutta la “banda” scappò da Trieste perché stavano
arrivando i partigiani. Io rimasi in ospedale due mesi, perciò ho un
alibi di ferro se qualcuno vuole imputarmi qualche “infoibamento”
in quei giorni; uscii dall’ospedale dopo che gli jugoslavi
lasciarono il posto agli angloamericani >, concluse Dekleva con un
pizzico di amara ironia.
Il 26/4/45 presso l’Ospedale Maggiore di Trieste fu steso dal
giudice istruttore Ferruccio Bercich il seguente < processo verbale
di esame testimoni in via informativa > [6].
< Covacich Giovanni fu Luigi ab. via Giulia 24 presentemente
ricoverato all’Ospedale. L’Ufficio dà atto che gli agenti di PS
Attanasio Sante e Jerovasi Giuseppe dell’Ispettorato Speciale,
addetti al piantonamento del ferito Giovanni Covacich (…) hanno
dichiarato che per precise disposizioni ricevute dal dott. G.
Collotti (…) non sono autorizzati a permettere che il Covacich venga
esaminato. A richiesta dell’Ufficio l’agente ausiliario di PS
Moretti Gaetano, pure dell’Ispettorato Speciale, dichiara di essersi
messo in comunicazione telefonica col dott. Collotti e di aver
ricevuto conferma dell’ordine retroindicato con la precisazione che
il divieto di esaminare il ferito si estende altresì all’autorità
giudiziaria, qualora manchi l’autorizzazione dell’autorità
germanica di polizia >.
Vista la coincidenza delle date, domandai ad Igor Dekleva se sapesse
qualcosa di questo Covacich. Dekleva si mise a ridere. < Certo che lo
so, ero io >, e mi spiegò come si erano svolti i fatti.
< Covacich era il nome che risultava sulla carta d’identità che
avevo con me quando sono stato catturato, falsa naturalmente, per
questo risulta nei loro verbali. Chi mi riconobbe in ospedale,
invece, fu un tedesco, un certo Wolf, che mi aveva arrestato tempo
addietro, ma dal quale ero riuscito a scappare. “Ci rivediamo,
dunque, Dekleva”, mi disse. Ma i Tedeschi lasciarono Trieste il 26 o
27 aprile, chi rimase qui fino all’ultimo furono i banditi di
Collotti, rimasero qui anche durante l’insurrezione… mi sembra che
abbiano anche fucilato qualcuno negli ultimi giorni di guerra >.
Quando spiegai a Dekleva come mi fossi imbattuta nel nome Covacich,
volle sapere i nomi di quelli che lo avevano piantonato e, dato che
risultava dal verbale, glieli dissi. Aggiunse che durante il loro
“servizio”, i due non mancavano di dargli dei colpi sulla gamba
rotta, per vendicarsi del fatto che non potevano portarlo via
dall’ospedale, visto che i medici lo avevano dichiarato in fin di
vita.
Attanasio fu processato per collaborazionismo nel dopoguerra,
condannato in primo grado e poi amnistiato. Sostenne a propria
discolpa che era semplicemente andato a dare il cambio ad un collega,
come se ciò non comportasse una sua partecipazione alle attività del
Corpo.
Attilio Riva fu processato nel 1946; sostenne di avere sparato a
Dekleva credendolo un ladro, gli fu riconosciuto che non poteva
sapere di avere sparato contro un partigiano e fu assolto con formula
piena. Fu assolto anche dal reato di collaborazionismo perché < il
solo fatto di essere stato della Decima Mas > non comprovava il
collaborazionismo.
Neppure con la fine della guerra e del nazifascismo Dekleva ebbe la
vita facile, come abbiamo già visto. A parte l’arresto ed il
processo per avere ucciso il brigadiere Foti e ferito gli altri due
agenti, dovette lottare a lungo per ottenere la cittadinanza
italiana, dato che era considerato apolide. Nonostante si fosse
laureato in un’Università italiana, avesse sposato una cittadina
italiana e vivesse da ventotto anni a Trieste, quando nel 1970 chiese
per l’ennesima volta la cittadinanza italiana, gli risposero
negativamente. < Non risulta che l’interessato si sia assimilato
all’ambiente nazionale >, la motivazione ufficiale. Rimase apolide
per altri anni, fino al 1985, quando fu naturalizzato in base alla
legge 21/4/83 (concessione della cittadinanza a stranieri che hanno
sposato una cittadina italiana).
Dekleva è un uomo che avrebbe voluto semplicemente vivere una vita
normale, non combattere ed ammazzare altri uomini, ma fu costretto a
farlo. Non è anche questa un’ennesima violenza fatta contro altri
esseri umani, costringere qualcuno a diventare violento anche se non
vorrebbe?

[1] Il brano seguente è tratto dal libro di Gian Pietro Testa “La
strage di Peteano”, Einaudi, 1975, p. 78, 79.
[2] In realtà la medaglia era di bronzo, come vedremo più avanti.
[3] Testimonianze di Igor Dekleva all’autrice, luglio 1998 e agosto
2002.
[4] “Caduti, dispersi e vittime civili…”, cit..
[5] In “Trieste nella lotta verso la democrazia”, op. cit., p. 73.
[6] Carteggio processuale Gueli, cit.