Joseph Halevi | Senior Lecturer
Discipline of Political Economy
School of Economics and Political Science, Sidney
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Invio con il permesso di pubblicarlo e farlo circolare (ho deciso non esprimermi più per ora sul manifesto in materia di medioriente perchè la situazione interna del giornale è troppo contorta ed è inutile litigare e rompere amicizie e rapporti umani stabiliti da circa un ventennio. Di conseguenza sul MO mi esprimerò liberamente inviando di tanto in tanto dei pezzi dando la facoltà di utilizzarli liberamente). Joseph Halevi (Fonte: Contropiano)
Sul medioriente e la sinistra italiana
La sinistra italiana ufficiale, quella che sta al governo e quella che l'appoggia di fatto dall' esterno, come il manifesto, si trova davanti alla situazione mediorientale come un'imbarcazione di fronte ad un visibilissimo scoglio ma senza un equipaggio capace di effettuare la manovra di aggiramento. Il motore che spinge il natante verso lo schianto è la missione UE/ONU così come è stata concepita ed attuata. Quando i soldati UE/ONU si troveranno maggiormente coinvolti nel conflitto - coinvolgimento fisicamente iniziato con l'attentato a Sidone - vi sarà un duro scontro tra Francia ed Italia, quest'ultima rimarrà da sola nei fatti e la sinistra entrerà in un mare di ricriminazioni ed accuse reciproche. Infatti la Francia cercherà di salvare i suoi interessi in Libano ed in Siria mentre l'Italia seguirà la linea pro-americana di D'Alema cosa che Parigi ostacolerà. Indipendentemente dallo scatenamento della prossima guerra da parte di Israele, la Francia non permetterà al comando italiano della forza UE/ONU di espletare le sue funzioni.
Per capire la dinamica che si sta mettendo in moto alla frontiera del Libano con Israele bisogna avere un'idea chiara di che cosa sia stata questa fase del conflitto che dura dal 1948.
Non è stato Israele ad iniziare quest'ultima guerra al Libano semplicemente perchè Tel Aviv aveva pianificato un'altra data. Ha ragione il capo di Hezbollah, Nasrallah, a dichiararsi sorpreso della reazione israeliana alla cattura dei due soldati, perchè le sue previsioni erano corrette. Israele aveva effettuato varie manovre militari preparatorie ma il momento di apertura dello scontro veniva calibrato in rapporto alla pressione USA sull'Iran ed al rifiuto di quest'ultimo di cedervi. E' evidente che tale pressione era destinata ad entrare in una fase acuta DOPO il rifiuto di Tehran di soggiacere alla richiesta USA/ONU di sospendere tutte le sue attività in materia nucleare. La data scadeva in Agosto per cui è evidente che la tensione sarebbe montata da Settembre in poi, periodo in cui Hezbollah prevedeva l'inizio del conflitto da parte di Israele e penso che così la pensassero i governanti ed i militari israeliani. La guerra al Libano ed a Hezbollah era programmata con gli Usa come parte dello scontro con l'Iran.
Le cose non sono andate così per via della situazione interna in Israele e per la guerra condotta contro la popolazione di Gaza in funzione dell'occupazione della Cisgiordania. La destra politica israeliana accusava Olmert di non condurre un guerra efficace sebbene avesse ricevuto luce verde da tutte le parti, non solo da parte degli Usa ma anche da parte dell' Unione Europea. Infatti la decisione dell'UE di boicottare il governo palestinese legalmente eletto ha accelerato la determinazione distruttiva di Israele. Tuttavia l'establishment capitalistico-militare di Israele si vedeva estromesso dalla sua posizione di comando in quanto - per la prima volta da tanti anni - l'esecutivo del paese era formato da persone che non provengono, ad eccezione di Peres, dalla casta prodotta dal complesso militare e dei servizi di sicurezza. Ogni occasione era buona per attaccare l'incompetenza militare di Olmert e Peretz sebbene questi volessero devastare Gaza in perfetta continuità con la politica dei passati governi. La cattura da parte di un commando di Hamas di un militare isrealiano ha spezzato la schiena ad Olmert. Dal punto di vista militare l'operazione di Hamas era alquanto complessa dato che si trattava di scavare un tunnel, attaccare delle posizioni fortificate, penetrarle e catturare dei soldati. Da quel momento la destra politica e l'establishment militare non ha mollato la pressione su Olmert. Quando Hezbollah ha effettuato un'operazione simile - probabilmente in solidarietà con i palestinesi di Gaza e per mettere pressione su Israele di liberare i palestinesi ed i libanesi (tutti terroristi ovviamente mentre i soldati che occupano territori che dovrebbero essere evacuati secondo le risoluzioni dell'ONU sono completamente pacifici) che vengono regolarmente rapiti da anni - è scattata, d'accordo con gli USA, la guerra al Libano. Per il governo Olmert si trattava di mostrare alla destra politica che era capace di reagire e di imporre la forza deterrente di Israele aumentandone l'importanza agli occhi degli USA per via del colpo che l'azione israeliana avrebbe apportato alla Siria. La prima cosa che Bush ha detto a Blair durante la conversazione al microfono è proprio questa ' they have to get Syria..'.
Sia Washington che Tel Aviv pensavano che acchiappare al volo l'occasione della guerra che si presentava in maniera anticipata non avrebbe cambiato il risultato: governo filo Usa-Israele in Libano, isolamento totale e mortale (per il regime) della Siria, eliminazione di Hezbollah, quindi chiusura definitiva della questione del Golan occupato dal 1967 e della striscia di terra di confine tra Libano e Siria anch'essa occupata da Israele. Proprio perchè gli USA ed Israele pensavano che le cose sarebbero andate in tal modo, si opponevano a qualsiasi intervento dell'ONU ed a qualsiasi tregua. Anzi, come sottolineato in un'ottima corrispondenza di Robert Fisk, quando Israele si accorse della sua incapacità a sopraffare Hezbollah attaccò la postazione ONU - uccidendone i militari - che da anni monitorava e registrava le azioni nella zona agendo quindi da importante testimonianza pubblica (forza UE/ONU di oggi: de te fabula narratur). Ho già osservato che il boicottaggio da parte dell'UE del governo palestinese legalmente eletto è stato un fattore importante nell' accelerazione della guerra contro la popolazione di Gaza da parte di Israele. Analogamente la riunione di Roma del 26 non è stata un fallimento. E' stata invece un'autorizzazione ad andare avanti nei bombardamenti contro le popolazioni civili del Libano. D'Alema può negarlo quanto vuole ma per almeno una settimana ministri israeliani andavano ripetendo alla radio che la riunione di Roma avevo dato 'or iarok' (luce verde) per continuare. L'impatto in tal senso della riunione di Roma è stato talmente importante da essere ripetuto dalla BBC la quale mandava in onda anche le dichiarazioni in ebraico dei ministri israeliani. La riunione di Roma ha quindi svolto un ruolo criminale nei confronti della popolazione del Libano merdionale e la decisione di inviare truppe UE/ONU si innesta sulla linea tenuta a Roma.
In un primo tempo USA e Tel Aviv non volevano tregue di sorta. Ma quando si resero conto che l'esercito era impantanato nel Libano merdionale, la stessa Rice si affrettò a dire che urgeva una tregua. Guardiamo la questione dal lato degli USA. Più l'esercito israeliano si impantanava, più Israele bombardava i civili, tanto più entrava in crisi il rapporto sciiti iracheni (di Al Sistani) e gli USA. Anche la Rice finì per capirlo. Dal lato USA la guerra produceva gli effetti opposti: rafforzava Hezbollah in tutto il Libano, nonchè la Siria e l'Iran indebolendo quel po' di rapporto che c'è tra leadership sciita ed occupanti USA in Iraq.
Guardiamo ora la situazione dal lato dei governanti israeliani. E' sbagliato pensare che avrebbero continuato a bombardare. Con l'esercito che subiva perdite crescenti, senza essere capaci di interrompere il lancio dei razzi tramite i bombardamenti dell' aviazione sui civili (come mezzo di pressione e di terrore), Tel Aviv si trovava di fronte ad una popolazione che nel nord del paese era terrorizzata. Questa popolazione voleva che l'esercito continuasse fino in fondo in un'offensiva che non poteva sostenere se non con una guerra totale che avrebbe coinvolto anche la Siria e che comunque non avrebbe potuto effettuare dal tipo di schieramento che aveva alla frontiera del Libano meridionale. In effetti per soddisfare le richieste di una popolazione terrorizzata il governo avrebbe dovuto interrompere le operazioni correnti sul fronte del Libano, ritirarsi, riorganizzare le truppe e gli schieramenti e ripartire. Più o meno come sta pianificando di fare ora con la tregua con l'obiettivo dichiarato di accelerare lo scontro USA-Israele contro l'Iran. Ma iniziare tale manovra di rientro da soli durante la guerra avrebbe significato perdere ogni posizione di contrattazione politica mostrando di ritirarsi senza alternativa. L'avrebbero fatto comunque per salvare e riorganizzare l'esercito (PERCHE' ERA SALTATO TUTTO IL DIPOSITIVO) e calmare la popolazione, senza l'ONU. Tuttavia per gli USA era importante salvare Israele politicamente e diluire il ritiro facendo mantenere all'esercito un piede nel Libano meridionale facendolo apparire come un ritiro pianificato nell'ambito di una tregua duratura. Il prezzo di questo premio ad Israele malgrado la sua sconfitta lo deve pagare l'Europa.
Ecco quindi che abbiamo la Rice che comincia a dire che urge una tregua e l'invio di una forza di separazione. Ma è una tregua per la nuova guerra, non per porre termine all'occupazione che porrebbe anche termine alle azioni contro le forze israeliane. Questa risoluzione dell'ONU - talmente mal concepita dalla Francia che perfino un governo filofrancese come quello di Beirut l'aveva rifiutata in una prima istanza - vorrebbe vincolare Libano, Siria e Hezbollah senza porre il vincolo fondamentale ad Israele che è quello di procedere all'evacuazione delle alture del Golan ed alla striscia di Shaba. Tale azione fa soltanto risaltare l'atteggiamento unilaterale da parte dell'Europa e degli USA nei confronti del problema del MO e soprattutto nell'attuazione delle risoluzioni dell'ONU: vincolanti per gli arabi, non vincolanti per Israele. Permette quindi ad Israele di pianificare con ordine assieme agli USA la nuova guerra in cui l'Italia si troverà coinvolta in pieno.
Joseph Halevi
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I tre fronti
di Sbancor
L'Italia sta per mandare 3.500 soldati allo sbaraglio su quello che G.W.Bush ha definito "il terzo fronte" della guerra al terrorismo. Ma qual è il terzo fronte? Oggi è la frontiera libano-israeliana. Già lungamente ed inutilmente presidiata dall'UNIFIL. Ma dalla fine di agosto, quando l'Iran risponderà negativamente alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU sul nucleare, il Terzo Fronte, quello vero, sarà l'Iran e, forse, anche la Siria. Ora, se valutiamo con spirito equanime l'andamento delle operazioni sugli altri due fronti, Afghanistan e Iraq, c'è di che rabbrividire.
Cito da fonte non sospetta: Alessandro Politi, in un paper intitolato Un multipolarismo difficile, presentato all'interno del Rapporto Nomisma "Nomos & Khaos" 2005:
"La guerra in Afghanistan (Operazione Enduring Freedom) rischia di essere persa. (.) Secondo le mappe pubblicate dall'ONU tra il giugno 2002 ed il febbraio 2004 la coalizione non solo non sta vincendo ma ha subito una costante erosione nel controllo delle province disputate. Se un tempo solo tratti della frontiera pakistana erano insicuri, ora lo è l'intera fascia frontaliera. Nel giro di un anno (aprile 2005) secondo mappe non pubblicate, il saliente ribelle nelle province di Uruzgan, Zabul, e Ghazni è aumentato del 20% circa sul totale (.) Concretamente dopo le azioni di disarmo e smobilitazione del luglio 2005, vi sono ancora dai 100.000 ai 180.000 irregolari in armi, dei quali 2-3000 combattenti talebani e irriducibili ed un centinaio di qa'edisti".
Domanda: E gli altri chi sono? Le antiche milizie dei "signori della guerra e dell'oppio"? In parte sicuramente. Ma molti sono semplicemente afghani che di fronte alla distruzione dei villaggi, ai danni collaterali, all'uccisione di vecchi donne e bambini, ma soprattutto di fronte all'insipienza dell'intervento della coalizione e del governo fantoccio di Kabul, hanno semplicemente deciso che era più prudente rimanere in armi. Le corrispondenze di Gino Strada e di Vauro dal "fronte afghano" degli ospedali di guerra valgono molto più delle scempiaggini di analisti, esperti militari e giornalisti!
Certo, secondo Politi "se questa guerra viene persa, l'intera ONU e la coalizione militare impegnata nell'operazione subiranno lo stesso scacco politico patito dai sovietici nel 1988, con prevedibili effetti nelle minoranze arabe o mussulmane jihadiste o simpatizzanti"
Peccato che questo effetto l'abbiamo già ottenuto proprio con la "guerra afghana": un'operazione di polizia che doveva individuare e catturare i vertici di Al Qa'eda ed arrestare (dead or alive) Osama bin Laden. Sono passati cinque, dico cinque anni. Osama e Zahwahiri sono ancora a piede libero - e qualcuno mi deve spiegare perché - e Enduring Freedom e Isaf - che militarmente sono la stessa cosa hanno fallito il loro obiettivo principale e sono divenute una "guerra coloniale". E la storia insegna che le "guerre coloniali" in Afghanistan le hanno perse tutti, tranne Alessandro il Grande. Ma non mi sembra che la "coalizione" sia paragonabile alla falange macedone!
Ma continuiamo a leggere Politi: "La guerra in Iraq è invece persa. Sul piano strategico reale gli Usa avevano puntato a trasformare l'Iraq in un perno di manovra strategico nel Medio Oriente, con la possibilità di rimpiazzare le grandi basi perdute in Arabia Saudita di fronte alla pressione di Al Qa'eda e della casa regnante. A livello simbolico le forze USA oggi non riescono nemmeno a controllare l'autostrada che collega l'aeroporto di Baghdad alla Zona Internazionale, tanto è vero che gli spostamenti diplomatici avvengono solo in elicottero"
In più c'è la "Guerra Civile irachena" fra Sciiti e Sunniti, che potrebbe portare addirittura a uno "dissociazione" (è il termine che si usò in Jugoslavia) dello Stato Iracheno o a qualche forma molto radicale di federalismo. Vedi qui.
Solo nel mese di luglio ci sono stati 3.438 morti di morte violenta, secondo dati del Ministero della Sanità e della "Morgue".
Centodieci morti al giorno. Più delle vittime complessive del conflitto israelo-palestinese. Nei primi sette mesi dell'anno i morti sono stati, sempre secondo fonti del governo iracheno, 17.776. E c'è la provincia di Bassora pronta a esplodere (vedi qui).
E c'è l'Iran che deve solo aspettare che l'Iraq o gran parte di esso finisca per gravitare nella sua area di influenza. Già è stato siglato un accordo sul petrolio fra Iran e Iraq.
"Secondo l'accordo, Baghdad spedirà a Teheran 100 mila barili di greggio al giorno. In cambio l'Iran invierà all'Iraq 2 milioni di litri di prodotti raffinati al giorno. Il trasporto del carburante avverrà in un primo momento su strada, ma le due parti non escludono la costruzione di un oleodotto che colleghi i due paesi. Si tratta di un risultato importante per l'Iraq, che e' costretto spesso a importare derivati del petrolio a causa dei continui attacchi dei miliziani all'industria petrolifera. Un tempo estremamente tesi, i rapporti tra Baghdad e Teheran sono migliorati da quando un governo a maggioranza Sciita ha preso il potere a Baghdad." (Repubblica online, 16 agosto 2006)
Le conseguenze mediatiche della guerra in Libano
La capacità di resistenza, per non dire la "vittoria", degli Hezbollah contro l'esercito più forte del Medioriente, l'Idf, ha segnato probabilmente una svolta cruciale, che non riguarda solo il Libano.
Essa ha due conseguenze immediate, uno sul piano della comunicazione - che nella guerra al terrorismo è fondamentale - e un'altra sul piano della geopolitica dell'area.
Nonostante gli sforzi per attribuire agli "Hezb" l'etichetta di "terroristi", compito a cui si è dedicata gran parte della stampa occidentale, e italiana in particolare, è sinceramente difficile convincere l'opinione pubblica che un gruppo così radicato nel Sud del Libano, rappresentato da due ministri nel governo libanese, alleato con forze come quelle del Generale Aoun, cristiano-maronita, un gruppo che gestisce ospedali, centri di assistenza e che ora manda i suoi militanti nelle aree colpite dai bombardamenti per fornire supporto alla popolazione, sia solo un gruppo di efferati "terroristi" (1).
Il che non esclude ovviamente che gli "Hezb" abbiano condotto operazioni con tecniche terroristiche.
Secondo l'israeliano Intelligence and Terrorism Information Center at the Center for Special Studies (CSS) Hezbollah sarebbe responsabile fra l'altro,
- dell'autobomba all'ambasciata americana di Beirut del 18 aprile 1983, (63 vittime)
- dell'autobomba contro le caserme dei marines e del corpo dospedizione francese in Libano il 23 ottobre dello stesso anno (241 marines e 58 paracadutisti francesi uccisi).
- dell'autobomba del 20 settembre 1984 contro un sito annesso all'ambasciata USA a Beirut Est (30 morti)
- dell'attentato alla AMIA, un centro ebraico a Buenos Aires nel luglio del 1994 (86 morti)
- dell'attentato all'ambasciata israeliana sempre a Buenos Aires nel1992.
Per dovere di cronaca: i primi tre attentati furono rivendicati dalla Jihad Islamica, un gruppo inizialmente proveniente dai "Fratelli Mussulmani" (sunniti) ma che dal 1979 manifestò simpatie per la rivoluzione khomeinista e che da tempo è considerato legato all'Iran. Sempre per dovere di cronaca. Secondo il CSS l'ex presidente argentino Carlos Menem, incassò, per ordine di Kamenei, una tangente da 10 milioni di dollari su una Banca Svizzera per depistare le indagine sull'attentato all'AMIA.
Ma di fronte al bombardamento indiscriminato di Beirut Sud molti, anche in Occidente, iniziano a pensare che fra lanciare bombe dagli aerei su pulmini carichi di profughi, su ambulanze o ricoveri di donne e bambini, e portarle con le proprie mani o peggio con il proprio corpo, non esista una differenza morale o etica rilevante. Al massimo sono diverse le tecnologie adottate.
E' qui che incomincia a crollare la costruzione mediatica, ma anche giuridica della "Guerra al Terrorismo".
Partiamo dalla normativa:a livello di Assemblea delle Nazioni Unite nel 1994 si definisce il terrorismo come degli: "Atti criminali intesi o calcolati per provocare uno stato di terrore nel pubblico in generale, o verso un gruppo di persone o particolari persone".
Nel 1999 sempre l'Assemblea ONU, Risoluzione 54/164 al punto 3: "Ribadisce la propria assoluta condanna degli atti, metodi e pratiche terroristiche, in tutte le forme e manifestazioni, in quanto azioni che mirano alla distruzione dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della democrazia, minacciano l'integrità territoriale degli Stati, destabilizzano i governi legittimamente costituiti, colpiscono il pluralismo della società civile e pregiudicano lo sviluppo economico e sociale degli Stati"
Basterebbero queste due citazioni a dimostrare che il bombardamento del Libano è stata una azione terroristica. Non solo nel metodo ma anche nel merito. Seymour M. Hersh, il giornalista americano che scoprì la strage di My Lay in Vietnam, ha scritto su The New Yorker del 21 agosto che l'attacco al Libano era stato preparato da molto tempo prima e con il pieno consenso del Governo Americano. Non solo: "Secondo un ex membro dell'intelligence israeliana, il piano iniziale, così come schematizzato da Israele, prevedeva un massiccio bombardamento in risposta alla prossima provocazione degli Hezbollah. (.) Israele riteneva che prendendo di mira obiettivi come le infrastrutture del Libano, incluse le autostrade, i depositi di carburante, e perfino le strade normali e il principale aeroporto di Beirut, ciò avrebbe persuaso la maggior parte della popolazione Cristiana e Sannita del Libano a rivoltarsi contro gli Hezbollah".Un magistrato direbbe che la fattispecie del reato di "terrorismo", così come descritto dalla risoluzione dell'Assemblea dell'ONU si applicherebbe perfettamente al comportamento israeliano.Nonostante gli "Hezbollah" possano essere considerati una organizzazione "terroristica", ciò che è apparso evidente nei giorni scorsi è che la differenza fra "terrorismo" e "terrorismo di Stato" è estremamente labile. Anzi inesistente.
Pare che agli americani i quali, dopo la strage di Qana, chiedevano a Olmert di limitare i danni civili, egli abbia risposto irritato "E voi cosa avete fatto in Kossovo! Lì non subivate neanche il lancio di una katjuscia, e avete massacrato diecimila civili!"
Non c'è dubbio, la nostra politica è fatta da gentiluomini di vecchio stampo.
Gli attentati di Londra avrebbe potuto rilanciare la "visione classica" del terrorismo islamico: aerei carichi di civili che esplodono in aria. Ma ogni giorno che passa anche la stampa inglese non nasconde un certo scetticismo. Qualcuno l'ha ironicamente chiamata la "strage dei biberon" per il gran numero di biberon finiti nei cestini durante la ricerca di esplosivo liquido. Ma è proprio l'esplosivo liquido a costituire un problema. The Royal Society of Chemistry, una autorevole associazione scientifica inglese ha pubblicato sul suo bollettino Chemistry World un articolo di B.Perks e K Sanderson che solleva molti dubbi sulla possibilità di utilizzare esplosivo liquido sugli aerei. In breve, gli esplosivi liquidi più conosciuti sono la nitroglicerina e il triacetone triperoxide (TATP), che non è propriamente un esplosivo liquido, ma è un solido proveniente dalla combinazione di componenti liquide. L'idea di portare nitroglicerina su un aereo è semplicemente folle: esploderebbe durante i controlli a terra, ad esempio quando passa sotto i raggi X, se non addirittura durante il trasporto in aeroporto. Il TATP sembra sia stato usato negli attentati alle metropolitane di Londra lo scorso anno, a detta dei laboratori che hanno svolto le indagini su un campione rimasto inesploso. Ma introdurre le componenti liquide del TATP in aereo e produrlo nella "toilette" dell'aeroplano è altrettanto improbabile. Sono necessarie "basse temperature e tutta l'operazione va effettuata in una soluzione acquosa".
Gli obiettivi geopolitici
Sempre secondo Seymour Hersh "l'obiettivo a lungo termine dell'Amministrazione USA era di aiutare la nascita di una coalizione Arabo-Sunnita - comprese nazioni come l'Arabia Saudita, la Giordania, e L'Egitto - coalizione che si sarebbe dovuta unire nella "pressione" degli Stati Uniti e dell'Europa contro il predominio dei mullah Sciiti in Iran.
Questo, però, se Israele avesse vinto sul campo in modo incontrovertibile. Esattamente il contrario di quanto è successo.
Pare che la stessa Amministrazione Bush si sia divisa a un certo punto al suo interno, fra la posizione di Cheney, favorevole ad appoggiare a oltranza Israele, e quella di Condoleeza Rice. La Rice, dopo aver consentito, attraverso la sciagurata "Conferenza di Roma", il proseguimento dell'offensiva israeliana, si è accorta dell'errore commesso e ha addirittura chiesto al Presidente di poter aprire un tavolo di trattativa con la Siria, cercando un ruolo di mediazione. Donald Rumsfeld buttava fumo dal naso: pur odiando gli Hezbollah si era reso conto che, se le milizie scite irachene avessero attaccato le "sue" truppe in Iraq, la situazione sarebbe volta al peggio. Rumsfeld era in alla Casa Bianca nel 1975, quando le truppe americane si ritirarono dal Vietnam. Non voleva ripetere l'esperienza.
Si potrebbe ironizzare a lungo sulle strategie americane in Medio Oriente, sui goffi tentativi di governare i "signori della guerra" in Afghanistan, sui tentativi di alleanza prima con gli Sciiti e poi con i Sunniti in Iraq, sulle "relazioni pericolose" con la famiglia saudita, e così via, fino al fiasco libanese.
E però questa immagine degli americani adolescenti malcresciuti, affetti da sindrome di Peter Pan, ignoranti di storia e di cultura è uno stereotipo un po' troppo logorato e sostanzialmente falso. Ad esempio la trasformazione della resistenza all'occupazione USA nella Guerra Civile Irachena è stata un'operazione studiata in gran parte a tavolino . L'utilizzo dell'ala qa'edista di Zharkawi (chiunque esso sia stato) è stata probabilmente una grande operazione di intelligence. Non a caso l'amministrazione americana diede sin dall'inizio gran risalto alla presunta lettera di Zharkawi alla dirigenza di Al Q'aeda , in cui si sosteneva la guerra civile contro gli sciti, chiamati eretici "sabei", lettera diligentemente riportata dal sito "New American Century"
http://www.newamericancentury.org/middleeast-20040212.htmE anche durante la guerra in Libano, guarda caso Ynet, agenzia israeliana, riporta le dichiarazioni dello Sceicco Safar al Hawali, antico maestro di Osama Bin Laden, il quale definisce "il Partito di Dio" (Hezbollah) come "il Partito di Satana" e dichiara di aver emesso una fatwa per vietare ai credenti di sostenere in qualsiasi modo gli Hezb.
Storicamente gli americani sono esperti di guerre etnico-religiose, fin dalle Guerre Indiane del tempo della frontiera, alla conquista delle Filippine, al Vietnam, con l'utilizzo della minoranza Hmong, alla Jugoslavia, alla guerra in Afghanistan, con il conflitto fra tagiki, ukbeki, azeri e pashtun.
L'ipotesi di una "dissociazione" dell'Iraq in una federazione di Stati (2) certo comporterebbe vantaggi e svantaggi: Uno dei problemi più complessi è la concentrazione delle risorse petrolifere dei campi di Kirkuk nell'area a prevalenza curda. Le relazioni con la Turchia diverrebbero certamente più tese.
L'ipotesi di uno stato unitario "pacificato" a prevalenza Sciita è però ancor più pericolosa per gli USA.
In Iraq i partiti di estrazione Sciita di fatto monopolizzano il governo e sono per adesso indispensabili agli americani per il contenimento della guerriglia, soprattutto di estrazione "baathista"-sunnita. In Libano gli Hezbollah sono direttamente collegati all'Iran e controllano l'intero Sud del Libano, esprimono membri del governo libanese e raccolgono il 28% dei consensi elettorali; in Palestina, area ad assoluta maggioranza Sunnita, l'Iran controlla almeno un gruppo della resistenza, la Jihad Islamica, e mira a diventare il paese di riferimento per le ali più oltranziste del movimento palestinese, dopo l'azzeramento della dirigenza di Hamas effettuato dagli israeliani. Non bisogna dimenticare infine che il gruppo dirigente siriano che fa capo a Bashir Assad è anch'esso parte della Sh'ia, anche se di una setta particolare come gli alawithi. I musulmani Sciiti nel mondo sono ormai 130 milioni, la maggioranza in Iran, il 60% in Iraq, il 30% in Libano. Ma sono presenti ormai anche in Pakistan, in Palestina e persino nella culla dell'ortodossia Sunnita ottomana: la Turchia.
Il "Terzo Fronte" appare indubbiamente il più duro. Ed è proprio lì che vogliamo inviare le nostre truppe. Viste le scarse risorse di cui dispone il nostro malconcio paese e la miseria prossima ventura che quel menagramo di Tommaso Padoa Schioppa non cessa di ricordarci ogni volta che apre bocca, invece di militari costosi quanto inutili, non sarebbe meglio mandare che so io Emergency, la Protezione Civile, un po' di società di ingegneria e costruzione per avviare la ricostruzione di un paese di cui avremmo dovuto impedire la distruzione? Lasciamo ai Parà francesi il compito di interposizione. Ché sul Libano hanno qualche responsabilità storica maggiore delle nostre.
Se l'Europa fosse qualcosa di più di una "espressione geografica," vincolata a una serie di parametri e regolamenti idioti, e ad alleanze quantomeno discutibili, il suo compito sarebbe stato quello di intervenire immediatamente, assicurando, ad esempio, l'inviolabilità dello spazio aereo libanese. Evitando così la distruzione del Libano, la migrazione biblica degli sfollati, oltre a un migliaio di morti. Una posizione forte, certo, ma almeno chiara.
Ma Israele, come la Turchia dal 2004 è praticamente un paese NATO (vedi qui).
Difficile pensare quindi un esito diverso da quello della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU, che di fatto ha concesso a Israele un mese di tempo per protrarre i bombardamenti indiscriminati sul Libano.
La risoluzione dell'ONU 1701 è un capolavoro di ambiguità come ha ben evidenziato Paolo Chiocchetti su Carmilla.
Praticamente l'80% dei compiti spetta all'Esercito libanese, male armato, debole e, come sanno benissimo gli israeliani, formato ormai al 75% da Sciiti. Solo gli ufficiali sono cristiani o sunniti, ma molti parteggiano per il Generale Aoun, attualmente alleato a Hezbollah. Insomma una barzelletta.
Dall'altra parte l'intera risoluzione è filo-israeliana: non parla dei blocchi navali e dei consueti sorvoli del Libano da parte dell'aviazione di Tshal, che durano da almeno vent'anni. Di buono nella 1701 c'è solo il "cessate il fuoco".
A una prima valutazione, dunque, gli obiettivi strategici degli USA e degli Israeliani sono falliti sul piano militare, ma forse hanno recuperato qualcosa su quello diplomatico. La domanda è: dove si riaccenderà il "terzo fronte"? Di nuovo in Libano, o a Bassora oppure direttamente in Iran con una campagna di bombardamenti?
Una notizia passata inosservata, a volte, è la chiave di interpretazione dei nuovi assetti geopolitici.
In Aprile l'Agenzia Russa Itar-Tass riportava le dichiarazioni di Manuchehr Mohammadi, ministro degli esteri iraniano che dichiarava la richiesta dell'Iran di far parte del Gruppo di Shanghai, (Shanghai Cooperation Organization - SCO).
Cos'è lo SCO? Nato nel 1997 fra Russia, Cina, Kazakistan, Kyrgyzstan e Tajikistan - i cosiddetti cinque di Shanghai - a cui si aggiunse l'Uzbekistan, lo SCO si proponeva inizialmente di risolvere i problemi relativi alla frontiera russo-cinese. Ben presto però i suoi scopi si sono allargati: nel 2001 fra le sue finalità fu inserita la "lotta al terrorismo in Centro-Asia, dove vi erano state infiltrazioni qa'ediste (wahabbite), particolarmente rischiose vista l'esistenza sia negli Stati dell'ex URSS che in Cina di ampie comunità mussulmane, addirittura maggioritarie nelle ex repubbliche sovietiche del centro Asia. Comunque all'inizio i suoi obiettivi sembravano modesti.
Oggi non è più così. All'iniziale funzione di anti-terrorismo, si sono aggiunte funzioni di cooperazione militare, economica e culturale. Esso rappresenta un'area di oltre 30 milioni di kmq e una popolazione di un miliardo 455 milion idi persone. Non solo nel 2005 il Gruppo di Shanghai è stato aperto ad altri Stati come "osservatori": Mongolia, Pakistan, India e Iran.
Di fatto all'offensiva americana in "Eurasia" - il vecchio sogno di Brezinsky - che doveva puntare sulle repubbliche sovietiche del Centro-Asia si è contrapposta un'alleanza Russo-Cinese che in pochi anni si è consolidata enormemente.
Per comprendere la sua influenza basta pensare che dispone di due membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
Il Gruppo di Shanghai vuole entrare nella gestione della "crisi nucleare iraniana" e non ha nessuna intenzione di lasciare all'America e a Israele il monopolio della politica estera mondiale. Si è creata una nuova "faglia" che rischia di riallontanare Oriente ed Occidente. L'Iran è esattamente sul confine della faglia.
E d'altra parte l'atteggiamento Russo-Cinese nelle recenti crisi mediorientali, e soprattutto verso l'Iran sembra non solo coordinato, ma volto a trovare soluzioni antitetiche a quelle americane. I Russi hanno proposto a più riprese di svolgere loro per conto dell'Iran i processi di arricchimento dell'uranio. Inoltre chiunque abbia un minimo di conoscenza in campo militare sa che quella dell'atomica iraniana è una minaccia estremamente relativa.
Vediamo perché. Il numero delle atomiche israeliane non è evidentemente pubblico. Ma ci sono delle stime: l'Intelligence americano le valutava a fine anni '90 fra 75 e 130. Le foto realizzate da Mordechai Vanunu, che pagò con lunghi anni di carcere la divulgazione dell'informazione, facevano ritenere che vi fosse un potenziale fra le 100 e le 200 bombe. Le stime più alte arrivano a 400. Comunque stiamo parlando di una potenza nucleare in grado di polverizzare tutte le capitali del mondo arabo. I vettori di trasporto, oltre agli aerei, sono circa 300 missili Jericho 1 e Jericho 2 , il primo con una gittata di 500 km e il secondo da 1.500 a 4.000 km, a cui si aggiungono 12 missili Popeye Turbo con gittata da 200 km per sottomarini di classe Dolphin di fabbricazione tedesca.
A questo potenziale l'Iran può opporre pochi esemplari, forse prototipi, di Shabab 3 con una gittata di 1.900 km. In grado comunque di colpire Israele. E' vero che l'Iran sta potenziando il suo programma missilistico, ma è anche vero che l'atomica iraniana non potrà essere pronta, secondo le stime AIEA, che fra cinque-dieci anni. E' opinione comune infine che, dopo lo smembramento dell'URSS, il "Trattato di non proliferazione nucleare" abbia perso di senso. Israele, India e Pakistan non vi aderiscono, la Corea del Nord si è ritirata dai sottoscrittori e la possibilità che anche piccoli stati si dotino di armi nucleari, è estremamente alta, purtroppo.
Da un punto di vista militare l'intera questione è priva di senso. La forza del mondo arabo-mussulmano nei confronti di Israele è costituita dall'enorme differenza demografica fra ebrei e mussulmani. E anche questa è relativa, considerando le divisioni etnico-religiose all'interno del mondo arabo-mussulmano. Sul piano tecnologico la forza è tutta dalla parte di Israele. L'atomica iraniana, se mai verrà costruita, avrà una logica di "deterrenza", come fra USA e URSS ai tempi della guerra fredda. Gli ambienti militari israeliani temono proprio questo: essere costretti a sedersi al tavolo delle trattative. E seguono gli americani nella guerra preventiva.
Ma allora come mai la crisi iraniana scoppia proprio adesso?
Alcuni motivi "geopolitici" appaiono già da quanto detto. Riassumendo: la politica americana per un "Nuovo Medioriente" non può permettere che fra i suoi due avamposti, l'Afghanistan e l'Iraq, esista uno "stato canaglia", un "asse del male" il quale potenzialmente ha già in mano il controllo del governo iracheno e può giocare in Afghanistan la carta della minoranza azera e dell'"esecrabile banda di Golbodin Hekmatyar (Hezb-i-Islami) che ridusse in macerie Kabul con l'indiscriminato bombardamento e il lancio dei missili quotidiani.". Così la chiamavano le donne del RAWA, l'Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane (vedi qui). Oggi Hekmatyar è gentile ospite dell'Iran.
Il Governo Americano non può soprattutto permettere che il quarto produttore mondiale di petrolio e il secondo di gas entri nel "Gruppo di Shanghai", dove c'è la Russia, secondo produttore di greggio, e primo per il gas. La geopolitica delle fonti energetiche verrebbe rivoluzionata definitivamente.
Ma, a differenza di diversi critici della politica americana, da Chossudosky a Chomsky, solo per citare alcuni punti di riferimento, io non credo che ci troviamo nella situazione di un "imperialismo classico", cioè del tentativo di impossessarsi di risorse strategiche attraverso la guerra. Insomma: una guerra per il petrolio. Un piccolo esempio: Gli USA prima della guerra del 2003, in pieno embargo, importavano dall'Iraq in media più di 800 milioni di barili giorno, con il sistema "Oil for Food". Oggi dopo l'occupazione ne importano 522. Nonostante gli attacchi della "resistenza" ad alcune centrali di pompaggio - peraltro limitati - il calo dimostra che il petrolio iracheno non era un obiettivo immediato degli USA. Diverso il discorso sulle riserve, ma quelle verranno amministrate probabilmente da un governo Sciita filo-iraniano, o da un improbabile Stato Kurdo.
No, il petrolio è una variabile del "Grande Gioco" Mediorientale, influenza sicuramente i conti della Exxon e di Halliburton, grandi elettori di Bush, ma non basta da solo a spiegare la destabilizzazione dell'intero Medioriente. Fra l'altro una "Guerra per il petrolio", condotta secondo i canoni classici dell'imperialismo, avrebbe dovuto avere come obiettivo un ribasso del prezzo del greggio: l'esatto inverso di quanto si sta verificando.
Storicamente gli americani, fin dalla prima crisi petrolifera, sono stati avvantaggiati dagli alti prezzi del petrolio. Un petrolio più caro vuol dire creare una massa di liquidità in dollari (petrodollari) che non incide sull'inflazione americana, ma che viene "riciclata" in parte sui mercati finanziari, principalmente americani, e in parte in progetti di sviluppo nei paesi produttori, (realizzati in gran parte da società americane) ovviamente purché siano "amici", come l'Arabia Saudita e gli Emirati. Il flusso di capitali così generato viene utilizzato per pareggiare il "deficit della bilancia commerciale americana" attraverso investimenti diretti e di portafoglio. Il risultato è che i cittadini USA possono continuare a vivere al di sopra delle proprie possibilità: una generazione di Oscar Wilde, anche se meno autoironici.
La guerra come forma di regolazione dell'economia in un periodo di crisi
L'economia americana, come è noto agli esperti - anche se non ai giornalisti economici - è in crisi dal marzo 2000, quando tutti i principali indicatori, a partire dalla produzione industriale, iniziarono a puntare verso il basso, fino allo sgonfiamento prima della "bolla della new economy" e poi dell'intera borsa americana. E' forse non del tutto inutile ricordare alcune di quelle cifre: nel secondo trimestre del 2000 l'economia americana passò da un tasso di crescita del 5%, allo 0% della fine del 2000, andando in recessione per due trimestri nel 2001. Nonostante gli sforzi della FED, che iniziò una serie vertiginosa di ribassi dei tassi di interesse, fino a portarli a valori negativi, sotto cioè il tasso d'inflazione, la Borsa registrò il peggior crollo dai tempi di Wall Street: l'indice Standard & Poors 500 perse fra il 1999 e il 2002 589,5 punti, pari al 67% del suo valore.
La tragedia del 9/11 avvenne proprio nel mezzo della crisi. Guardando l'indice Dow Jones si nota una pesante caduta di circa 400 punti i giorni 5 e 6 settembre dopo la rottura di quota 10.000, avvenuta a fine agosto. Il 7 ed il 9 la Borsa è chiusa per il week-end. Il 10 rimane piatta, come in attesa. L'11 gli aerei si schiantano sulle Torri e Wall Street chiude per circa una settimana. Seguono altri crolli del listino fino a portare il Down Jones poco sopra quota 8.000. Poi lentamente la ripresa.
Nel frattempo era scoppiata la "Guerra al Terrorismo" che, dal punto di vista economico, volle dire un aumento impressionante del deficit pubblico. La recessione fu scongiurata, la crisi finanziaria anche e l'America ricominciò a crescere a tassi del 3,5% annuo. Molto più dell'Europa.
Tutto ciò però ha avuto un costo in termini di deficit commerciali e pubblici. Nel periodo di Clinton l'America aveva accumulato un grande deficit commerciale, ma aveva un forte "surplus" nel Bilancio Federale, pari al 2% del PIL. Nell'era del primo mandato Bush si è arrivati a un deficit fiscale superiore al 4% del PIL. Ciò vuol dire che in meno di quattro anni una cifra pari al 6% del PIL americano è stato trasferito dallo Stato all'economia. Si tratta di una cifra enorme. A cui si assomma un deficit commerciale superiore al 5% del P.I.L.
"Gli Stati Uniti - dice Joseph Stiglitz (premio Nobel per l'Economia, ex consigliere di Clinton e professore alla Columbia University) - stanno ampiamente contraendo prestiti, al ritmo di due miliardi di dollari al giorno, per pagare l'ampio deficit commerciale. Il più ricco paese del mondo vive al di sopra dei propri mezzi. Comunque, anche la più potente nazione del mondo non può sfuggire alla semplice aritmetica del debito: i soldi servono per pagare gli interessi e, eventualmente, ripagare i prestiti. Facendo così gli USA saranno più poveri."
Negli ultimi giorni diversi economisti americani, non particolarmente anticonformisti, come Nouriel Rubini sul suo blog, e Paul Krugman, sul New York Times, hanno messo in guardia su una possibile prossima recessione dell'economia americana fra la fine del 2006 e il 2007. Questa volta sarà la "bolla immobiliare" a innescare la crisi che potrebbe estendersi al dollaro e ai mercati finanziari. Oltre a mettere letteralmente sul "marciapiede" migliaia di famiglie americane che hanno usato la crescita del prezzo delle case per "rifinanziare" i propri mutui a tassi ora sempre più alti.
A novembre ci sono le elezioni americane per il Congresso. La "Junta" Militare che governa attualmente gli Stati Uniti deve vincerle, se non vuol rimanere ingessata fino al 2008, data delle prossime presidenziali. Aspettiamoci il peggio.
Il Dio e il bambino
Come dire: il rischio che "Il Terzo Fronte" si riapra prima dell'autunno è concreto. E se il quadro geopolitico che ho provato a delineare ha una pur scarsa possibilità di essere vero, Il Terzo Fronte" non sarà uno scherzo: per la prima volta rischieranno di confrontarsi l'ormai consolidata egemonia americana e la nascente potenza euroasiatica. Nessuna delle due, né il "fondamentalismo liberista" yankee, né il "nazionalismo totalitario Russo-Cinese", sembra poter incarnare un futuro possibile per l'umanità. Se un "altro mondo è possibile", andrebbe cercato in fretta. Prima che, come scriveva Ezra Pound "Ognuno segua il suo Dio". Ed Ezra Pound, benché geniale, non era propriamente uno scrittore "di sinistra".
Per quanto mi riguarda il mio, di Dio è stato bombardato a Balbek. Un cacciabombardiere israeliano ha centrato, insieme a un bambino di dieci anni, anche una parte del Tempio di Bacco-Dioniso. Ma il mio, di Dio, c'è abituato. Da sempre muore ogni anno, e ogni anno rinasce, così come spero accada al bambino. Che forse altri non era che una epifania del Dio.
www.informationguerrilla.org
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WATCHING LEBANON
Washington’s interests in Israel’s war.
by SEYMOUR M. HERSH
The New Yorker, 2006-08-21
In the days after Hezbollah crossed from Lebanon into Israel, on July 12th, to kidnap two soldiers, triggering an Israeli air attack on Lebanon and a full-scale war, the Bush Administration seemed strangely passive. “It’s a moment of clarification,” President George W. Bush said at the G-8 summit, in St. Petersburg, on July 16th. “It’s now become clear why we don’t have peace in the Middle East.” He described the relationship between Hezbollah and its supporters in Iran and Syria as one of the “root causes of instability,” and subsequently said that it was up to those countries to end the crisis. Two days later, despite calls from several governments for the United States to take the lead in negotiations to end the fighting, Secretary of State Condoleezza Rice said that a ceasefire should be put off until “the conditions are conducive.”
The Bush Administration, however, was closely involved in the planning of Israel’s retaliatory attacks. President Bush and Vice-President Dick Cheney were convinced, current and former intelligence and diplomatic officials told me, that a successful Israeli Air Force bombing campaign against Hezbollah’s heavily fortified underground-missile and command-and-control complexes in Lebanon could ease Israel’s security concerns and also serve as a prelude to a potential American preëmptive attack to destroy Iran’s nuclear installations, some of which are also buried deep underground.
Israeli military and intelligence experts I spoke to emphasized that the country’s immediate security issues were reason enough to confront Hezbollah, regardless of what the Bush Administration wanted. Shabtai Shavit, a national-security adviser to the Knesset who headed the Mossad, Israel’s foreign-intelligence service, from 1989 to 1996, told me, “We do what we think is best for us, and if it happens to meet America’s requirements, that’s just part of a relationship between two friends. Hezbollah is armed to the teeth and trained in the most advanced technology of guerrilla warfare. It was just a matter of time. We had to address it.”
Hezbollah is seen by Israelis as a profound threat—a terrorist organization, operating on their border, with a military arsenal that, with help from Iran and Syria, has grown stronger since the Israeli occupation of southern Lebanon ended, in 2000. Hezbollah’s leader, Sheikh Hassan Nasrallah, has said he does not believe that Israel is a “legal state.” Israeli intelligence estimated at the outset of the air war that Hezbollah had roughly five hundred medium-range Fajr-3 and Fajr-5 rockets and a few dozen long-range Zelzal rockets; the Zelzals, with a range of about two hundred kilometres, could reach Tel Aviv. (One rocket hit Haifa the day after the kidnappings.) It also has more than twelve thousand shorter-range rockets. Since the conflict began, more than three thousand of these have been fired at Israel.
According to a Middle East expert with knowledge of the current thinking of both the Israeli and the U.S. governments, Israel had devised a plan for attacking Hezbollah—and shared it with Bush Administration officials—well before the July 12th kidnappings. “It’s not that the Israelis had a trap that Hezbollah walked into,” he said, “but there was a strong feeling in the White House that sooner or later the Israelis were going to do it.”
The Middle East expert said that the Administration had several reasons for supporting the Israeli bombing campaign. Within the State Department, it was seen as a way to strengthen the Lebanese government so that it could assert its authority over the south of the country, much of which is controlled by Hezbollah. He went on, “The White House was more focussed on stripping Hezbollah of its missiles, because, if there was to be a military option against Iran’s nuclear facilities, it had to get rid of the weapons that Hezbollah could use in a potential retaliation at Israel. Bush wanted both. Bush was going after Iran, as part of the Axis of Evil, and its nuclear sites, and he was interested in going after Hezbollah as part of his interest in democratization, with Lebanon as one of the crown jewels of Middle East democracy.”
Administration officials denied that they knew of Israel’s plan for the air war. The White House did not respond to a detailed list of questions. In response to a separate request, a National Security Council spokesman said, “Prior to Hezbollah’s attack on Israel, the Israeli government gave no official in Washington any reason to believe that Israel was planning to attack. Even after the July 12th attack, we did not know what the Israeli plans were.” A Pentagon spokesman said, “The United States government remains committed to a diplomatic solution to the problem of Iran’s clandestine nuclear weapons program,” and denied the story, as did a State Department spokesman.
The United States and Israel have shared intelligence and enjoyed close military coöperation for decades, but early this spring, according to a former senior intelligence official, high-level planners from the U.S. Air Force—under pressure from the White House to develop a war plan for a decisive strike against Iran’s nuclear facilities—began consulting with their counterparts in the Israeli Air Force.
“The big question for our Air Force was how to hit a series of hard targets in Iran successfully,” the former senior intelligence official said. “Who is the closest ally of the U.S. Air Force in its planning? It’s not Congo—it’s Israel. Everybody knows that Iranian engineers have been advising Hezbollah on tunnels and underground gun emplacements. And so the Air Force went to the Israelis with some new tactics and said to them, ‘Let’s concentrate on the bombing and share what we have on Iran and what you have on Lebanon.’ ” The discussions reached the Joint Chiefs of Staff and Secretary of Defense Donald Rumsfeld, he said.
“The Israelis told us it would be a cheap war with many benefits,” a U.S. government consultant with close ties to Israel said. “Why oppose it? We’ll be able to hunt down and bomb missiles, tunnels, and bunkers from the air. It would be a demo for Iran.”
A Pentagon consultant said that the Bush White House “has been agitating for some time to find a reason for a preëmptive blow against Hezbollah.” He added, “It was our intent to have Hezbollah diminished, and now we have someone else doing it.” (As this article went to press, the United Nations Security Council passed a ceasefire resolution, although it was unclear if it would change the situation on the ground.)
According to Richard Armitage, who served as Deputy Secretary of State in Bush’s first term—and who, in 2002, said that Hezbollah “may be the A team of terrorists”—Israel’s campaign in Lebanon, which has faced unexpected difficulties and widespread criticism, may, in the end, serve as a warning to the White House about Iran. “If the most dominant military force in the region—the Israel Defense Forces—can’t pacify a country like Lebanon, with a population of four million, you should think carefully about taking that template to Iran, with strategic depth and a population of seventy million,” Armitage said. “The only thing that the bombing has achieved so far is to unite the population against the Israelis.”
Several current and former officials involved in the Middle East told me that Israel viewed the soldiers’ kidnapping as the opportune moment to begin its planned military campaign against Hezbollah. “Hezbollah, like clockwork, was instigating something small every month or two,” the U.S. government consultant with ties to Israel said. Two weeks earlier, in late June, members of Hamas, the Palestinian group, had tunnelled under the barrier separating southern Gaza from Israel and captured an Israeli soldier. Hamas also had lobbed a series of rockets at Israeli towns near the border with Gaza. In response, Israel had initiated an extensive bombing campaign and reoccupied parts of Gaza.
The Pentagon consultant noted that there had also been cross-border incidents involving Israel and Hezbollah, in both directions, for some time. “They’ve been sniping at each other,” he said. “Either side could have pointed to some incident and said ‘We have to go to war with these guys’—because they were already at war.”
David Siegel, the spokesman at the Israeli Embassy in Washington, said that the Israeli Air Force had not been seeking a reason to attack Hezbollah. “We did not plan the campaign. That decision was forced on us.” There were ongoing alerts that Hezbollah “was pressing to go on the attack,” Siegel said. “Hezbollah attacks every two or three months,” but the kidnapping of the soldiers raised the stakes.
In interviews, several Israeli academics, journalists, and retired military and intelligence officers all made one point: they believed that the Israeli leadership, and not Washington, had decided that it would go to war with Hezbollah. Opinion polls showed that a broad spectrum of Israelis supported that choice. “The neocons in Washington may be happy, but Israel did not need to be pushed, because Israel has been wanting to get rid of Hezbollah,” Yossi Melman, a journalist for the newspaper Ha’aretz, who has written several books about the Israeli intelligence community, said. “By provoking Israel, Hezbollah provided that opportunity.”
“We were facing a dilemma,” an Israeli official said. Prime Minister Ehud Olmert “had to decide whether to go for a local response, which we always do, or for a comprehensive response—to really take on Hezbollah once and for all.” Olmert made his decision, the official said, only after a series of Israeli rescue efforts failed.
The U.S. government consultant with close ties to Israel told me, however, that, from Israel’s perspective, the decision to take strong action had become inevitable weeks earlier, after the Israeli Army’s signals intelligence group, known as Unit 8200, picked up bellicose intercepts in late spring and early summer, involving Hamas, Hezbollah, and Khaled Meshal, the Hamas leader now living in Damascus.
One intercept was of a meeting in late May of the Hamas political and military leadership, with Meshal participating by telephone. “Hamas believed the call from Damascus was scrambled, but Israel had broken the code,” the consultant said. For almost a year before its victory in the Palestinian elections in January, Hamas had curtailed its terrorist activities. In the late May intercepted conversation, the consultant told me, the Hamas leadership said that “they got no benefit from it, and were losing standing among the Palestinian population.” The conclusion, he said, was “ ‘Let’s go back into the terror business and then try and wrestle concessions from the Israeli government.’ ” The consultant told me that the U.S. and Israel agreed that if the Hamas leadership did so, and if Nasrallah backed them up, there should be “a full-scale response.” In the next several weeks, when Hamas began digging the tunnel into Israel, the consultant said, Unit 8200 “picked up signals intelligence involving Hamas, Syria, and Hezbollah, saying, in essence, that they wanted Hezbollah to ‘warm up’ the north.” In one intercept, the consultant said, Nasrallah referred to Olmert and Defense Minister Amir Peretz “as seeming to be weak,” in comparison with the former Prime Ministers Ariel Sharon and Ehud Barak, who had extensive military experience, and said “he thought Israel would respond in a small-scale, local way, as they had in the past.”
Earlier this summer, before the Hezbollah kidnappings, the U.S. government consultant said, several Israeli officials visited Washington, separately, “to get a green light for the bombing operation and to find out how much the United States would bear.” The consultant added, “Israel began with Cheney. It wanted to be sure that it had his support and the support of his office and the Middle East desk of the National Security Council.” After that, “persuading Bush was never a problem, and Condi Rice was on board,” the consultant said.
The initial plan, as outlined by the Israelis, called for a major bombing campaign in response to the next Hezbollah provocation, according to the Middle East expert with knowledge of U.S. and Israeli thinking. Israel believed that, by targeting Lebanon’s infrastructure, including highways, fuel depots, and even the civilian runways at the main Beirut airport, it could persuade Lebanon’s large Christian and Sunni populations to turn against Hezbollah, according to the former senior intelligence official. The airport, highways, and bridges, among other things, have been hit in the bombing campaign. The Israeli Air Force had flown almost nine thousand missions as of last week. (David Siegel, the Israeli spokesman, said that Israel had targeted only sites connected to Hezbollah; the bombing of bridges and roads was meant to prevent the tran
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