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L'Ispettore De Marco E La Pubblica Sicurezza Sul Confine Orientale

A PROPOSITO DELLA PUBBLICA SICUREZZA SUL CONFINE ORIENTALE.

In seguito alla pubblicazione, avvenuta nel marzo del 2006, degli
elenchi di persone arrestate nell’immediato dopoguerra nel territorio
di Gorizia dalle autorità jugoslave (e che vengono sbrigativamente ed
incongruamente definite “infoibate”, nonostante risulti chiaramente
da questa documentazione che nessuna delle persone comprese in questi
elenchi è stata uccisa e gettata in qualche foiba), abbiamo avuto
modo di leggere, sul “Piccolo” del 13/3/06, una presa di posizione
del “segretario provinciale della Confederazione sindacale autonoma
di Polizia” (Consap), l’ispettore goriziano Mario De Marco (che dalle
note di copertina di un suo libro di cui parleremo più avanti risulta
essere stato già segretario provinciale del LI.SI.PO., il Libero
Sindacato di Polizia), il quale lamenta che “nell’elenco risultano
numerosi errori e mancanze per lo meno riguardo ai poliziotti
scomparsi da Gorizia”. Nella fattispecie, egli segnala i nomi di
Guido Antonelli, Marino Bosdaves, Placido Candido, Benvenuto
D’Agostina, Antonio Gobbo, Ermes Passoni, Giovanni Puglisi e l’allora
questore di Gorizia (di nomina nazifascista) Vito Genchi.
Duole a questo punto dover constatare che vi sia così scarsa
attenzione nella lettura di documenti, obiettivamente importanti, da
parte di un funzionario dello Stato, ispettore di PS, dato che
nell’elenco reso pubblico dalla stampa noi abbiamo trovato quantomeno
i nominativi di Gobbo e Passoni. Dobbiamo però aggiungere che, tranne
Bosdaves, Genchi e Puglisi, gli altri nomi indicati da De Marco non
si trovano neppure nel testo curato dall’Istituto Friulano per la
storia del movimento di liberazione “Caduti, dispersi e vittime
civili dei comuni della regione Friuli-Venezia Giulia nella seconda
guerra mondiale”, (Udine 1991) riguardante la provincia di Gorizia.
Se poi consultiamo altri elenchi, troviamo che nella lista del
Ministero degli Interni riguardante il “personale di PS infoibato ed
ucciso da elementi partigiani slavo-comunisti”, non c’e nessuno di
questi nomi; mentre nell’elenco del personale di PS “irreperibile”
dopo l’1/5/45 troviamo Gobbo, Puglisi e Bosdaves (ambedue questi
elenchi sono stati pubblicati in copia anastatica nel testo di Marco
Pirina ed Annamaria D’Antonio, “Adria Storia 1”, ed. Silentes
loquimur, 1993). Bisogna qui precisare che non sempre la dicitura
“irreperibile” significa che la persona è stata arrestata ad opera
delle autorità jugoslave e poi giustiziata, od uccisa per vendette
personali: molti agenti di PS, soprattutto quelli che si erano
macchiati di crimini collaborando con i nazisti, preferirono rimanere
nascosti e non presentarsi più sul posto di lavoro, neanche dopo la
fine dell’amministrazione jugoslava a Trieste e Gorizia. Una prova di
questo si riscontra nel caso di Giovanni Codeglia, torturatore
dell’Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia (la famigerata
“banda Collotti), che risulta “irreperibile” negli elenchi di cui
sopra ed il cui nome era addirittura inserito sulla lapide nell’atrio
della Questura di Trieste tra i poliziotti caduti in servizio. Dopo
la caduta del nazifascismo, infatti, Codeglia rimase nascosto e non
rientrò in polizia neanche al ritorno dell’Italia; morì negli anni
‘80 in un incidente stradale in Istria. Va qui dato atto al questore
di Trieste nel 1996, dottor Cernetig, di essersi operato, dopo essere
stato notiziato del caso, per togliere il nominativo di Codeglia
dalla lapide, nominativo che infatti oggi non c’è più.
Passiamo allo studio curato dall’ispettore De Marco, intitolato “La
Pubblica Sicurezza sul confine orientale 1943-1945. Inediti di una
tragedia annunciata”. Non possiamo essere più precisi sulla
reperibilità di questo testo (da noi acquistato in una grossa
libreria di Trieste), perché non riporta indicazione né dello
stampatore né dell’editore, né il luogo e la data di stampa.
Riteniamo che un ispettore di PS dovrebbe essere edotto delle norme
che disciplinano le pubblicazioni, e quindi anche del fatto che, per
non incorrere nel reato di stampa clandestina, ogni pubblicazione
deve portare le indicazioni che abbiamo specificato più sopra.
Il testo si apre con alcune citazioni del “duce”, al secolo Mussolini
Benito: “Coloro che spesso con rischio della vita, applicano le leggi
contro gli elementi antisociali, parlo dei Reali Carabinieri, delle
Camicie Nere, degli Agenti di PS, meritano gran considerazione e
rispetto”. E, sempre dello stesso “autore”: “in ogni momento
ricordatevi che rappresentate la legge e che avete il dovere di
difendere il Re, il Regime e la Patria”.
Senza voler mancare di rispetto a chi, spesso con rischio della vita,
fa applicare le leggi, vorremmo però osservare che in democrazia le
leggi non dovrebbero più venire applicate contro gli elementi
“antisociali” (brutto termine, che veniva usato sotto il Reich di
Hitler per indicare chi doveva essere internato nei campi di
sterminio, ebrei, omosessuali, zingari, oppositori politici,
testimoni di Geova...); vorremmo poi ricordare che le Camicie Nere
(cioè la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale), oltre a reprimere
gli antifascisti italiani, si sono macchiate di orrendi crimini nel
corso dell’occupazione della Jugoslavia; ma soprattutto rileviamo che
nessuno di noi oggi ha “il dovere di difendere il Re ed il Regime”,
tanto meno gli operatori di PS che hanno giurato di rispettare e far
applicare le leggi della Repubblica italiana nata dalla Resistenza,
prima di tutte la Costituzione, che vieta, tra l’altro, la
ricostituzione del partito fascista e l’apologia del medesimo.
La ricerca è peraltro interessante, avendoci dato modo di sapere che
il primo dirigente dell’Ispettorato Speciale di PS nel 1942,
Fortunato Lo Castro, che guidava la repressione antipartigiana e che
(citiamo De Marco) “compare nella lista di collaboratori dell’OVRA
stilata nel dopoguerra dal Ministero dell’Interno come: Lo Castro
rag. Fortunato, commissario capo di PS dal 29/9/39 OVRA Milano in
servizio a Campobasso”, ciononostante fu poi, tra il 1950 ed il 1954,
questore di Gorizia, così come fu questore di Gorizia anche il dottor
Marcello Guida, che sotto il fascismo aveva diretto il confino di
Ventotene e che era questore di Milano quando avvenne la strage di
piazza Fontana e l’anarchico Pinelli precipitò dal quarto piano dove
aveva sede la squadra politica.
Non analizzeremo tutto il libro, ci limiteremo ad evidenziare alcuni
passi, lasciando da parte tutte le citazioni del “duce” (che De Marco
scrive senza virgolette e con la maiuscola) sparse nella
pubblicazione. Alla fine del testo ci sono elenchi di poliziotti che
sarebbero caduti in servizio: usiamo il condizionale perché, come
detto prima, spesso viene considerata la dichiarazione di
“irreperibilità” come dichiarazione di scomparsa, mentre dobbiamo
constatare che, ad esempio, Ciro Ferri, membro dell’Ispettorato
Speciale di PS, che De Marco (citando l’Albo d’Oro di Luigi Papo) dà
come ucciso dai partigiani a Carbonera di Treviso assieme al
dirigente l’Ispettorato, il commissario Collotti il 28/4/45, ci
risulta invece essere stato ancora vivo nel 1947, dato che fu sentito
come testimone nel corso dell’inchiesta per gli “infoibamenti” della
Plutone.
Leggendo questi elenchi dobbiamo purtroppo nuovamente constatare la
scarsa attenzione posta dall’ispettore De Marco nella loro
compilazione; ad esempio, trovandosi a poche righe di distanza
“Mangeri Luigi di Angelo, nato ad Enna il 25/9/03, guardia di PS in
servizio a Trieste, irreperibile dal 1/5/45” (n. 97), e “Maugeri
Luigi di Angelo (...) nato ad Aidone (EN) il 25/9/03, residente a
Trieste (...) prelevato in data 1/5/45, deportato e disperso” (n.
105), a noi il dubbio che si tratti della stessa persona salta
all’occhio, mentre non sembra che all’ispettore questo dubbio sia
venuto. Così come successivamente De Marco nomina Runce Giuseppe,
deportato e disperso che “secondo Papo” sarebbe riportato anche Runge
e Runer” (n. 173), il che non gli impedirà di mettere al n. 174 della
lista Runer Giuseppe.
Ma lasciando da parte questi particolari che hanno un’importanza
relativa nell’ambito dell’intero studio, ciò che secondo noi è grave
è l’impostazione generale dell’autore (funzionario della Polizia di
Stato del nostro Paese, ricordiamolo) che sta alla base di questo suo
lavoro. Quando egli scrive che i poliziotti goriziani compirono il
loro dovere restando al loro posto a “proteggere la popolazione
civile” invece di “andare nei boschi esponendo i propri familiari
alle rappresaglie”, mentre i “vincitori” uccisero “a guerra finita”,
e fra questi vi era “una larga rappresentanza di chi, per ragioni
ideologiche, voleva annettere la nostra regione ad un paese straniero
(...) e che lottava per un’ideologia non certo di libertà e
democrazia”, ci chiediamo perché mai l’ideologia fascista, che aveva
preso il potere in Italia con un colpo di mano, e che successivamente
aveva permesso che la nostra regione fosse di fatto annessa ad un
paese straniero, com’era la Germania di Hitler, abbia l’approvazione
di De Marco per essere difesa dalla polizia italiana, anche a prezzo
di efferate violenze contro gli oppositori politici, mentre nessuna
giustificazione egli trova in chi lottava per il comunismo, ed alla
fine della guerra ha inteso, forse erroneamente, di fare giustizia di
coloro che riteneva criminali di guerra per l’operato da essi svolto.
A pag 54 leggiamo che “i poliziotti goriziani furono impiegati per
far rispettare le leggi dell’epoca, per cui anche quelle razziali del
1938, e pare che in seguito, durante la guerra, avessero collaborato
con i tedeschi agli arresti avvenuti nel locale ghetto (...)”. Giova
qui ricordare che la comunità ebraica di Gorizia fu completamente
sterminata dai nazifascisti, e gli ebrei goriziani che sopravvissero
alla Shoah furono meno di dieci.
Ma è anche scandaloso come De Marco tratta (pag. 48 e seguenti) la
questione dell’Ispettorato Speciale di PS, diretto da Gueli,
soffermandosi soltanto a descriverne la composizione, la dislocazione
dei vari Nuclei mobili in cui esso si divideva, elogiando la capacità
di coordinazione di Gueli ed anche riportando il fatto che “nel corso
di un’operazione antipartigiana si guadagnò la medaglia di bronzo al
valor militare il vice commissario Gaetano Collotti”. Non una parola,
da parte di De Marco, sul modo di Collotti di interrogare le persone
sospette di attività partigiana che gli capitavano tra le mani, sulle
violenze cui sottoponeva uomini e donne, anche incinte, anziani e
ragazzini; o sul fatto che in epoca nazifascista la maggior parte
degli arrestati dall’Ispettorato di Gueli e Collotti, se non morivano
a causa delle torture, venivano poi consegnati ai nazisti ed
internati nei lager (dove trovavano la morte) oppure venivano
direttamente uccisi nella Risiera di San Sabba. Un modo curioso di
“proteggere la popolazione civile”, quello di rastrellare, torturare
e far deportare in Germania, oppure uccidere i civili sospettati di
collaborazione coi partigiani.
Anche questa era la Pubblica Sicurezza al confine orientale, in epoca
fascista e poi nazifascista, e non possiamo accettare che certi
comportamenti vengano giustificati con il fatto che “chiunque indossa
una divisa deve eseguire gli ordini del proprio superiore gerarchico,
rispettare e far rispettare le leggi vigenti, al di là della propria
opinione personale”. Al di là del fatto che chi “indossa una divisa”
può rifiutarsi di obbedire ad un ordine che considera illegittimo (e
dovrebbe essere considerato illegittimo l’ordine di fare violenza
sugli arrestati), ricordiamo che stiamo parlando di leggi fasciste
(come quelle razziali) che dovrebbero essere state cancellate nel
dopoguerra; ma soprattutto ricordiamo per far rispettare queste leggi
taluni agenti e funzionari di PS si macchiarono di orrendi delitti,
condannati oggi dalle convenzioni internazionali che vietano l’uso
della tortura. Ed infine ricordiamo che da un certo momento le leggi
erano amministrate non dal legittimo governo italiano, quello di
Roma, ma dal golpista governo di Salò, che oltretutto (a Gorizia come
a Trieste) aveva lasciato l’amministrazione dell’Adriatisches
Küstenland ai nazisti, che avevano annesso il territorio al Reich di
Hitler. Era al Reich di Hitler che obbedivano le forze dell’ordine al
confine orientale dopo l’8/9/43, non al governo legittimo italiano.
Fu per questo motivo che ad un certo punto l’amministrazione
germanica decise di sciogliere nella Venezia Giulia l’Arma dei
Carabinieri, proprio perché i Carabinieri, avendo giurato fedeltà al
Regno d’Italia, si rifiutavano di obbedire totalmente agli ordini del
Reich, e di conseguenza molti carabinieri furono deportati nei lager
nazisti dove spesso trovarono la morte. Altri scelsero la Resistenza,
come scelsero la Resistenza anche alcuni (non molti, purtroppo)
poliziotti, tra i quali vogliamo ricordare la figura di Adriano
Tamisari, nominato anche da De Marco perché aveva svolto per un
periodo servizio a Gorizia. Tamisari collaborò a Trieste con i GAP,
fu arrestato da suoi colleghi poliziotti dell’Ispettorato Speciale ed
ucciso nella Risiera di San Sabba nel settembre 1944.
Successivamente De Marco sostiene che: “con un’attenta valutazione e
lettura della storia (...) si potrebbero cambiare molte cose, basti
pensare a quanto succede oggi in Kossovo (sic). Quella pulizia etnica
sembra ricordare molto da vicino quella di 50 anni fa in Istria ai
danni degli italiani (...)” e giunge a queste agghiaccianti
conclusioni: “Molte volte mi sono chiesto se fosse ugualmente ciò che
sta succedendo nel Kossovo, se invece di perseguire solo i criminali
nazisti si fosse perseguito anche chi uccise e torturò in Jugoslavia
(...) quale migliore esempio se non l’impunità degli infoibatori
poteva essere sprone per nuove fosse comuni (...)”.
Quindi l’ispettore si basa su un dato storico falso (una “pulizia
etnica” che, ricordiamo, non fu messa in atto dalla Jugoslavia), per
avallare un altro dato storico falso, la “pulizia etnica” che mai è
esistita in Kosovo (noi lo scriviamo con la grafia corretta),
quantomeno non ai danni dell’etnia albanese e non operata dal governo
jugoslavo. Tutto il testo di De Marco sembra, da questo punto di
vista, redatto non tanto per raccontare la storia di un corpo di
polizia, quanto allo scopo di criminalizzare il movimento partigiano,
soprattutto jugoslavo, basandosi, per questa criminalizzazione, sulle
falsità storiche che sono state diffuse negli anni a proposito delle
“foibe”, dove De Marco fa riferimento non tanto a pubblicazioni
storiche serie (che vengono citate solo di sfuggita), ma a quelle
propagandistiche di Marco Pirina, di Luigi Papo, delle associazioni
irredentiste come il Centro Studi Adriatici. E dato che lo studio si
basa su un periodo storico preciso, quello del fascismo e della
seconda guerra mondiale, quando la PS fu al servizio di due regimi
totalitari (fascismo prima e nazifascismo poi), e sul cui
comportamento nell’ambito della repressione degli oppositori politici
De Marco non trova nulla da ridire, ribadendo il concetto che si
trattava di “eseguire gli ordini”; e per il fatto che il testo sia
infarcito di così tante citazioni del “duce”, alla fine della lettura
un dubbio c’è venuto: sarà mica stato a Genova nel luglio 2001,
l’ispettore De Marco?

Maggio 2006

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Note sull'Ispettorato Speciale di PS (Banda Collotti)

Galleria fotografica: http://www.nuovaalabarda.org/foto-gallery/
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L’ISPETTORATO SPECIALE DI PUBBLICA SICUREZZA.

È in fase di pubblicazione uno studio sull’Ispettorato Speciale di
Pubblica Sicurezza, curato dalla responsabile di questo sito, Claudia
Cernigoi. In questo articolo presentiamo un breve sunto sull’attività
di questo corpo speciale che si macchiò di orrendi delitti,
rimandandovi alle gallerie fotografiche dove troverete alcune
immagini relative all’Ispettorato.
Nell’aprile del 1942 il Ministero degli Interni costituì a Trieste un
Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, il cui scopo era la
repressione dell’attività antifascista con particolare riguardo a
quella slava. Bisogna precisare che nessun’altra provincia italiana
conobbe un’istituzione del genere.
Non fu certo l’arrivo dei nazisti a rendere particolarmente efferati
i metodi repressivi dell’Ispettorato Speciale, difatti la maggior
parte delle testimonianze raccolte nel corso dei processi, celebrati
nel dopoguerra, contro i suoi appartenenti risale a periodi
antecedenti il 25 luglio 1943 (destituzione di Mussolini).
All’8 settembre 1943 l’Ispettorato aveva sede a Trieste in via
Bellosguardo 8 in quella che era già nota come la famigerata “Villa
Triste”; era comandato dall’ispettore generale Giuseppe Gueli e
comprendeva 180 uomini. La villa, che era stata requisita ad una
famiglia ebraica, fu demolita nel dopoguerra ed al suo posto fu
edificata una palazzina residenziale. È stata quindi in tal modo
eliminata la possibilità di utilizzarla quale “memento” di un passato
che non dovrebbe più ritornare. Troverete nella “galleria” foto e
piantine della villa.
Dopo l’8 settembre l’Ispettorato fu temporaneamente sciolto dal
governo repubblichino, ma fu presto ricostituito come Ispettorato
Speciale al cui comando rimase sempre Gueli, che però si teneva in
disparte lasciando che si facesse notare pubblicamente il giovane ed
ambizioso vicecommissario Gaetano Collotti. Va qui ricordato che
Gueli s’era trovato a fare parte del corpo di sorveglianza di
Mussolini quand’era prigioniero al Gran Sasso: lo sorvegliò così bene
che, com’è noto, il “duce” fu liberato da un commando tedesco e
portato al Nord. In seguito diversi agenti che avevano fatto parte
del corpo di sorveglianza seguirono Gueli a Trieste quando questi fu
rimesso a capo del ricostituito Ispettorato. Il corpo era alle
dirette dipendenze del Ministero dell’Interno della Repubblica di
Salò, ma era posto sotto il controllo del comando SS di Trieste.
Nel febbraio del 1944 il prefetto di Trieste Tamburini nominò
maresciallo lo squadrista Sigfrido Mazzuccato, incaricandolo di
costituire un reparto di polizia ausiliaria (la squadra politica che
avrà sede nella via San Michele, nota anche come “squadra Olivares”,
dal nome della sede del gruppo fascista rionale, intitolata ad
Alfredo Olivares, fascista morto nel corso di scontri nel 1921)
all’interno dell’Ispettorato stesso. Di questo corpo fecero parte
circa 200 ausiliari, per lo più squadristi locali; di essi 170 erano
pregiudicati per reati comuni. Il reparto fu sciolto nel settembre
del ‘44 per ordine delle autorità germaniche e lo stesso Mazzuccato
fu spedito in Germania. Così scrive lo storico Galliano Fogar:
“Mazzuccato finisce deportato dagli stessi tedeschi venuti a
conoscenza di alcune malversazioni da lui compiute” (“Sotto
l’occupazione nazista nelle province orientali”, Del Bianco 1968).
Leggiamo ora alcune testimonianze tratte dagli atti del processo
Gueli, conservate presso l’archivio dell’Istituto Regionale per la
Storia del Movimento di Liberazione di Trieste (all’epoca del
processo Gueli, Ercole Miani, il dirigente del CLN triestino e
fondatore della Deputazione di Storia del Movimento di Liberazione,
poi diventata Istituto Regionale, trascrisse una parte delle
testimonianze e le raccolse in un dattiloscritto denominato
“carteggio processuale Gueli”, n. d’archivio XIII 915).
Cominciamo dalla testimonianza del dottor Paul Messiner, austriaco,
che nel 1944 ricopriva la carica di capo-sezione Giustizia del
Supremo Commissariato della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico:
“Mi è stato riferito che nell’anno 1944 l’Ispettorato di PS di via
Bellosguardo, trasferitosi dopo in via Cologna, procedette
all’arresto dei fratelli Antonio e Augusto Cosulich (armatori che
avevano finanziato il CLN, n.d.a.). Il barone Economo si rivolse al
Supremo Commissario dott. Rainer per ottenere l’immediato
trasferimento dei detenuti dall’Ispettorato alla sede delle SS di
piazza Oberdan, a causa dei noti sistemi di tortura dei detti agenti
italiani, usati contro patrioti. Il Supremo Commissario accolse
subito la richiesta e disse che la polizia tedesca non usava i metodi
crudeli e le sevizie escogitati dall’Ispettorato. Ho saputo da
diverse persone e tra queste dall’avv. Toncic, che la polizia
italiana usava metodi barbari e sadici contro i detenuti. Ho parlato
e fatto rapporto scritto al dott. Rainer... Mi sono state date
assicurazioni in merito. (...) Il giudice Anasipoli sa che ho fatto
arrestare due agenti dell’Ispettorato pur non rientrando nelle mie
attribuzioni. (...) Ho dato ordine che i tribunali provinciali
italiani non potessero giudicare antifascisti e che se avessero
violato tale ordine sarebbero stati arrestati”.
Ecco la testimonianza del giudice Anasipoli, allora giudice di
collegamento tra la Corte di Appello, Procura Generale, e la sezione
giudiziaria retta dal dott. Messiner:
“Ricordo che un giorno il dott. Messiner ebbe casualmente a
comunicarmi di essere stato costretto a far arrestare due funzionari
di PS dei quali ricordo il nome del Mazzuccato Sigfrido (l’altro era
Miano Domenico, n.d.a.). E ciò in seguito a numerose lagnanze
presentategli relativamente a maltrattamenti violenze, percosse usate
da detti agenti contro persone arrestate”.
Qui potrebbe addirittura sembrare che i nazisti tutelassero i diritti
civili a Trieste, ma in realtà, se proseguiamo nella lettura delle
testimonianze contenute nel “Carteggio processuale Gueli”, come
quella dell’avvocato Toncic, vediamo che la situazione era ben diversa:
“Slavik mi disse di aver fatto un esposto al capo della sezione
giustizia dell’ex-Commissariato dott. Paul Messiner e me lo mostrò.
In tale esposto oltre a narrare quanto contro di lui era stato
commesso dagli agenti (dell’Ispettorato, n.d.a.), espose anche i
maltrattamenti e le violenze carnali commesse ai danni di una ragazza
diciassettenne e di una signora di Trieste. Il dott. Slavik fu
arrestato poco tempo dopo dalle SS germaniche e deportato a
Mauthausen dove purtroppo trovò la morte”.
Racconta invece Pietro Prodan, che fu arrestato sedicenne, nel 1944,
assieme alle sorelle Nives e Nerina: “Tra i poliziotti che
procedettero al nostro arresto c’era anche Sigfrido Mazzuccato”. Dopo
un mese e mezzo di sequestro in via Bellosguardo, dove furono
picchiati tutti e tre, anche da Collotti in persona, “mi hanno
portato in Germania al campo di Buchenwald dove sono stato liberato
dagli alleati. Nello stesso campo di concentramento è venuto nel
novembre del 1944 anche il maresciallo Mazzuccato che la vigilia di
Natale è stato, verso mezzanotte, trasportato nel forno crematorio e
gettato in esso. Ho visto coi miei occhi la cartella scritta dai
tedeschi in cui si diceva: “Mazzuccato, deceduto per catarro
intestinale il 24 dicembre 1944”.
Così dunque morì Mazzuccato, in un finale quasi biblico. Quanto a
Miano, fu arrestato dalla Gestapo di Verona il 10/5/44 e dopo cinque
mesi nelle celle sotterranee (pare sia anche stato torturato), fu
deportato a Flossenburg, da dove fu liberato il 23/4/45.
Sui crimini e misfatti commessi dall’Ispettorato fin dall’inizio
della sua “attività” (violenze e torture, ma anche rastrellamenti ed
esecuzioni di partigiani, come pure rapine e furti ai danni degli
arrestati), esistono moltissime testimonianze, trascritte in più
libri e facenti parte, come quelle da noi riportate nelle righe
precedenti, degli atti dei processi Gueli e Ribaudo ed anche di
quello della Risiera di S. Sabba. Le violenze e le torture erano
pratica comune e notoria, al punto che lo stesso vescovo Santin, già
nel 1942, aveva cercato di intervenire per far cessare le vessazioni,
pur sostenendo che all’inizio non aveva preso sul serio le
testimonianze che parlavano delle sevizie inflitte agli arrestati.
Inoltre l’ispettore Umberto De Giorgi, della Polizia Scientifica,
firmò in data 18/1/46 una “perizia sui metodi di tortura
dell’Ispettorato Speciale”. Tale perizia, richiesta dal Procuratore
Generale Colonna per conto della Corte d’Assise Straordinaria di
Trieste (istituita dal Governo Militare Alleato che amministrò la
città nell’immediato dopoguerra per punire i crimini nazifascisti)
descrive, tra le altre cose, i metodi di tortura della “cassetta” e
della “sedia elettrica”. Leggiamone le descrizioni: “stando alle
deposizioni testimoniali, allorquando la vittima non confessava
(nonostante il dolore provocato dalla distensione forzata di tutto il
corpo mediante trazione delle corde fissate agli arti e fatte
scorrere negli anelli infissi al pavimento, che spesso provocavano la
lussazione delle spalle), era costretta a subire l’introduzione
nell’esofago del tubo dell’acqua, che le veniva fatta ingoiare fino a
riempimento totale dello stomaco; indi per azione di compressione
esercitata da un segugio sul torace, le veniva fatta rigurgitare a
mo’ di fontana, che, stante la posizione supina, spesso doveva
minacciare di soffocamento la vittima stessa; ed allorquando entrambe
le azioni combinate non bastavano a farli confessare, gli interrogati
vi venivano costretti, mediante l’azione termica di un fornello
elettrico collocato sotto la pianta dei piedi denudati (...) la sedia
elettrica consisteva in una sedia-poltrona, a spalliera alta, con
leggera imbottitura in cuoio, a bracciuoli, su cui venivano legati
gli avambracci della vittima ad uno dei quali veniva fissato un
bracciale metallico unito al polo negativo di un apparecchio
conduttore elettrico regolabile, a reostato. Al polo positivo era
collegato una specie di pennello con manico isolato, e frangia
metallica che serviva per chiudere il circuito su qualsiasi parte non
isolata del corpo della vittima il quale veniva così attraversato
dagli impulsi della frequenza della corrente elettrica. Questo
metodo, apparentemente molto impressionante, non poteva produrre
lesioni organiche o conseguenze dannose sul corpo umano. Tuttavia è
noto che anche volgarissimi pregiudicati rotti a tutte le astuzie e
raffinatezze per sfuggire agli interrogatori, si abbandonarono ad
esaurientissime confessioni, che trovarono conferma nei fatti, alla
sola visione dell’apparato, senza essere stati sottoposti alla sua
azione” (relazione conservata nell’Archivio IRSMLT n. 913).
Probabilmente lo stesso estensore del rapporto si sarebbe
“abbandonato ad esaurientissime confessioni” se messo nella
prospettiva di dover subire la tortura della “sedia elettrica”.
D’altra parte è per noi una novità che un corpo umano sottoposto a
continue e potenti scariche elettriche non subisca alcuna conseguenza
da questo trattamento: basterebbe chiedere a qualcuno che è stato
torturato in questo modo.
Ma sempre a proposito di questo metodo di tortura, l’agente di PS
Giuseppe Giacomini dichiarò, nel corso del processo contro Gueli:
“L’apparecchio di tortura elettrico è stato portato nella sede
dell’Ispettorato da Collotti al quale venne regalato dalle SS secondo
quanto sentivo dire dagli agenti” (Archivio IRSMLT XIII 915).
Dopo lo scioglimento della “banda Olivares” di Mazzuccato rimasero in
forza all’Ispettorato 415 uomini: 100 effettivi, 209 ausiliari, 35
alle dirette dipendenze di Gaetano Collotti (la “banda Collotti” vera
e propria). Nell’autunno del 1944 l’Ispettorato si trasferì da via
Bellosguardo in via Cologna, già sede di una tenenza dei Carabinieri.
L’edificio di via Cologna è tuttora esistente; nella “galleria”
troverete una piantina di esso.
Presso l’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento
di Liberazione di Trieste è conservata una “foto-ricordo” della
“banda Collotti” (n. d’archivio 912, esposta anche al Museo della
Risiera di S. Sabba e pubblicata in alcuni libri, e che troverete
nella “galleria”). Questa foto è stata scattata a Borst-S. Antonio in
Bosco, (comune di Dolina-S. Dorligo della Valle, in provincia di
Trieste), dopo un’azione di rastrellamento che costò la vita a tre
partigiani nel gennaio del ‘45. Allegata alla foto v’è la
testimonianza di un agente di PS che identifica i tredici componenti
del gruppo.
I componenti del gruppo sono stati identificati come: Gaetano
Collotti e Rado Seliskar (fucilati dai partigiani a Carbonera presso
Treviso il 28/4/45 mentre cercavano di fuggire); Mauro Padovan (che
risulta ufficialmente morto come Guardia civica presso Monfalcone il
30/4/45, ma altre fonti lo danno o ucciso a Carbonera con Collotti
oppure nel palazzo di giustizia di Trieste, che era il quartier
generale di Globocnik, durante l’assedio operato dall’Esercito
jugoslavo); Bruno Pacossi, Salvatore Giuffrida, Nicola Alessandro
(che viene dato per ucciso a Carbonera, ma del fatto non abbiamo
riscontri anagrafici); Matteo Greco (fucilato e gettato nella foiba
“Plutone”); Dario Andrian (arrestato e disperso in Jugoslavia);
Antonio Iadecola, che pare si limitasse a fare da autista; Mirko
Simonic, che nel dopoguerra dichiarò di avere fatto parte del CLN;
Gustavo Giovannini e Gaetano Romano. Inoltre nella foto appare un SS
non identificato.
Oltre alla “lotta antipartigiana” i membri dell’Ispettorato si
occupavano anche di andare a prelevare gli Ebrei da deportare in
Germania: gli agenti si presentavano in casa delle persone da
prelevare, in genere in seguito a denunce di solerti vicini di casa o
bottegai della zona (va ricordato che i nazisti ricompensavano con
10.000 lire -dell’epoca!- i delatori per ogni denuncia che portava ad
un arresto), i prigionieri venivano poi portati in via Bellosguardo e
di lì “smistati” in Risiera. Forse gli Ebrei arrestati venivano prima
portati nella sede della “banda” per poterli derubare prima di
consegnarli alle SS? Sarebbe interessante sapere di quali
“malversazioni” si macchiò Mazzuccato a parere dei nazisti.
Uno dei membri dell’Ispettorato che, secondo le correnti teorie
storiche sulle “foibe”, viene considerato “infoibato” in quanto
incarcerato a Lubiana e probabilmente fucilato, è l’agente Alessio
Mignacca, specializzato nella ley de fuga, come leggiamo in alcuni
documenti raccolti nel “carteggio processuale Gueli”. Ad esempio
uccise Francesco Potocnik, che “rotto un vetro della finestra saltava
dal I piano nel cortile interno e cercava di fuggire. Fatto segno a
vari colpi di pistola da parte dell’agente Mignacca e raggiunto da un
proiettile cadeva ucciso” (Carteggio processuale Gueli, cit.); e ferì
gravemente Roberto Caprini che “tentava di darsi alla fuga saltando
da una finestra al primo piano nel sottostante giardino ove veniva
raccolto dalla guardia di PS Mignacca Alessio”. Mignacca partecipava
anche agli “interrogatori”, come nel caso di Umberta Giacomini, che
quando fu arrestata era incinta di quattro mesi: fu “interrogata” da
Collotti in persona, che la picchiò selvaggiamente assieme ad altri
agenti, tra i quali Mignacca, che la colpì con un calcio ed in
seguito a questo la donna abortì.
Quando nel dopoguerra fu celebrato il processo contro Gueli ed altri
membri dell’Ispettorato si discusse anche delle violenze subite da
Umberta Giacomini: la sentenza rileva che nella cartella clinica non
v’è “nessun cenno al preteso aborto” e che “per questa ragione e per
l’altra che non vi è nessuna prova della pretesa gravidanza della
Giacomini, non si può dire che esiste la circostanza aggravante”.
Inoltre, dato che la donna sostenne di essere stata picchiata da
Collotti, Brugnerotto, Sica e Mignacca, ma nel dibattimento “precisò
che mentre Mignacca la colpì con un calcio e gli altri con verghe, il
Brugnerotto la colpì solo (il corsivo è nostro, n.d.r) con schiaffi
(...) manca la prova certa che il Brugnerotto avesse agito con
attività associata e con le stesse intenzioni degli altri, i quali,
usando le verghe, cagionarono evidentemente le lesioni più gravi”,
motivo per cui Brugnerotto fu assolto per insufficienza di prove dal
reato di lesioni.
Nei ranghi dell’Ispettorato entrarono molti volontari, persone che
lasciarono il proprio lavoro per potersi permettere impunemente
violenze e saccheggi, come nel caso di Mario Fabian, che lasciò il
suo posto di tranviere, perché come membro dell’Ispettorato aveva
maggiori possibilità di guadagno. Fabian fu ucciso nei primi giorni
di maggio ‘45 ed è l’unica persona che risulta essere stata gettata
nel pozzo della miniera di Basovizza.
Molti furono poi anche i “collaboratori esterni” dell’Ispettorato,
delatori e collaborazionisti che conservavano il proprio posto di
lavoro e poi riferivano alla “banda Collotti” o direttamente alle SS.
Dei delatori triestini uno dei più noti è un certo Giorgio Bacolis,
impiegato al Lloyd Triestino di navigazione. Bacolis si spacciava
anche per pastore evangelico o valdese per poter raccogliere più
facilmente le informazioni da vendere poi ai nazifascisti. Fu pagato
100.000 lire per aver denunciato il capitano Podestà del CLN.
Abbiamo accennato prima che nel dopoguerra furono celebrati alcuni
processi contro membri dell’Ispettorato. Quello più importante vide
come imputati Giuseppe Gueli, Umberto Perrone, Nicola Cotecchia,
Domenico Miano, Antonio Signorelli, Gherardo Brugnerato e Udino
Pavan. Gueli fu condannato in seconda istanza ad otto anni ed undici
mesi, gli altri a pene minori, salvo Cotecchia e Perrone assolti.
Il processo contro Lucio Ribaudo, imputato di sevizie particolarmente
feroci, si concluse con la condanna a ventiquattro anni, poi ridotti
in sede di appello.
Quanto a Gaetano Collotti, che scappò da Trieste il 27 aprile 1945
assieme ad altri elementi della sua “banda” e la sua convivente, fu
intercettato da una brigata partigiana della quale faceva parte
l’avvocato triestino di Giustizia e Libertà Piero Slocovich.
Arrestato, fu fucilato assieme ai suoi a Carbonera presso Treviso, ma
nel dopoguerra ebbe addirittura l’onore di venire decorato con
medaglia di bronzo al valor militare dalla Repubblica Italiana “nata
dalla Resistenza” per le azioni antipartigiane da lui compiute prima
dell’8 settembre 1943, e nella fattispecie un’azione che ebbe luogo
il 10 aprile 1943 nella zona di Tolmino (Gazzetta Ufficiale n° 12 dd.
16/1/54).
Alle proteste elevate da più parti contro questa onorificenza, il
Ministero rispose a suo tempo che, una volta data, la medaglia non si
poteva revocare.
Con buona pace dei torturati e dei morti.

ottobre 2006