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Returning Western foreign fighters: The case of Afghanistan, Bosnia and Somalia (by Jeanine de Roy van Zuijdewijn and Edwin Bakker – ICCT Background Note June 2014)
ABSTRACT: Authorities are increasingly worried about the large number of Western foreign fighters present in Syria. The fear is that these fighters will return radicalised, battle hardened and with extensive radical networks that might encourage them to commit a terrorist attack in the home country. The recent attack on the Jewish Museum in Brussels – allegedly by a returned foreign fighter from Syria – seems to be a case in point. However, the conflict in Syria is not the first to attract foreign fighters. In this Background Note, Jeanine de Roy van Zuijdewijn and Edwin Bakker investigate three historical cases of foreign fighting: Afghanistan (1980s), Bosnia (1990s) and Somalia (2000s). In this paper they aim to give insight into what happened to these foreign fighters after their fight abroad had ended. The authors distinguish eight possible pathways for foreign fighters that can help to contribute to a more nuanced understanding of this complex phenomenon.
https://www.academia.edu/12629917/Returning_Western_foreign_fighters_The_case_of_Afghanistan_Bosnia_and_Somalia
ABSTRACT: Authorities are increasingly worried about the large number of Western foreign fighters present in Syria. The fear is that these fighters will return radicalised, battle hardened and with extensive radical networks that might encourage them to commit a terrorist attack in the home country. The recent attack on the Jewish Museum in Brussels – allegedly by a returned foreign fighter from Syria – seems to be a case in point. However, the conflict in Syria is not the first to attract foreign fighters. In this Background Note, Jeanine de Roy van Zuijdewijn and Edwin Bakker investigate three historical cases of foreign fighting: Afghanistan (1980s), Bosnia (1990s) and Somalia (2000s). In this paper they aim to give insight into what happened to these foreign fighters after their fight abroad had ended. The authors distinguish eight possible pathways for foreign fighters that can help to contribute to a more nuanced understanding of this complex phenomenon.
https://www.academia.edu/12629917/Returning_Western_foreign_fighters_The_case_of_Afghanistan_Bosnia_and_Somalia
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REPORTAGE: JIHAD IN BOSNIA
di Valentina Cominetti, 10 luglio 2015
Attraversare la Bosnia a vent’anni dalla fine del conflitto conclusosi nel 1995 con gli accordi di Dayton significa incontrare spaccature vecchie, mai rincollate, e nelle quali -mano a mano- si sono insinuate crepe nuove, di cui l’Europa si accorge solo oggi. Preoccupa la situazione dei Balcani e preoccupa soprattutto per il fenomeno più terrificante e attuale del nostro tempo, la diffusione internazionale del terrorismo jihadista.
Eh sì perché la Bosnia, con 350 combattenti all’estero, è il primo esportatore di foreign fighters al mondo, seguita da Kosovo, Belgio e Albania. La zona è un fertile bacino di reclutamento per lo Stato Islamico, ma questa fecondità è frutto di un processo lungo che potremmo definire addirittura un’islamizzazione programmata.
“Non trova un paradosso ritrovarsi oggi a punire o a tenere sotto controllo proprio quelle persone che ieri abbiamo usato per combattere?”. Gojko Vasic, direttore della polizia della Repubblica Srpska (nella foto a sinistra), ci accoglie nel suo ufficio all’interno della sede dell’unità antiterrorismo di Banja Luka. La sua prima premura è quella di fornirci una lista degli ex-mujhaidin ancora residenti in Bosnia e ci spiega che in quell’elenco stanno le radici della diffusione del jihadismo nel Paese (secondo stime al ribasso di Sarajevo, sarebbero almeno 3 mila i fondamentalisti).
La Bosnia, in effetti, prima della guerra era estranea a ogni forma di estremismo islamico. Se oggi il Paese è disseminato di comunità wahabite (ultraconservatrici) è perché negli anni ’90 molti mujahidin (combattenti islamici impegnati nel jihad) sono accorsi da paesi come l’Afghanistan, l’Arabia Saudita e la Cecenia per soccorrere i loro fratelli musulmani, hanno ricevuto in cambio onorificenze e cittadinanza bosniaca e sono rimasti.
“Comunità fondamentaliste wahabite e salafite sono disseminate in tutto il Paese: Buzim, Zenica, Velika Kladusa, Osve, Bocinya, Gornja Maoca, Potocansky, Kaleaija, Bosanska Bosna, e sono solo le più note. Noi possiamo tenere sotto controllo solo quelle che si trovano sul territorio di nostra competenza, ma avremmo bisogno di una collaborazione più stretta con la polizia della federazione croato-musulmana per agire efficacemente. Invece capita spesso che membri del Governo bosniaco intralciano le nostre indagini, o addirittura pagano gli avvocati per difendere potenziali terroristi, affermando che approfittiamo di incidenti per portare avanti una nuova forma di pulizia etnica”. Il direttore della polizia serba si riferisce alle polemiche sorte in seguito all’operazione Ruben, lanciata dalle forze di sicurezza di Banja Luka dopo all’attentato di Zvornik del 28 aprile, in cui hanno perso la vita l’attentatore e un poliziotto.
Le perquisizioni avvenute in 32 località del territorio sotto il controllo serbo hanno portato alla luce armi, munizioni e materiale di propaganda riconducibili a cellule del terrorismo islamico. Sono seguite polemiche della comunità bosniaca (Musulmani di Bosnia) e di Bakir Izetbegovic , membro della Presidenza della Bosnia Erzegovina, che sta pagando gli avvocati a coloro che sono stati accusati di terrorismo.
“Eppure la cooperazione sarebbe indispensabile perché la polizia musulmana può più facilmente interloquire con i leader wahabiti e può riconoscere più facilmente segni della presenza di cellule terroristiche. Quello che poi ci preoccupa è che la comunità internazionale sta sottovalutando il problema”.
La pensano così anche Predrag Ćeranić, professore dell’università di Banja Luka e capo dei servizi d’intelligence bosniaci durante la guerra, e Dževad Galijašević, noto analista musulmano bosniaco: lo scambio di informazioni tra le agenzie di sicurezza spesso non avviene o, se avviene, risulta inefficace, perché ci sono ancora troppe frizioni tra la polizia serba e quella bosniaca.
È quindi necessario il coinvolgimento della comunità internazionale. “Non ci si può limitare al rafforzamento delle collaborazioni bilaterali tra i singoli Paesi. Chiunque abbia un minimo di competenza è perfettamente consapevole che se cadrà Damasco, il jihad arriverà nei Balcani per poi diffondersi in tutta Europa”, afferma Ćeranić, quasi scocciato, come se fosse costretto a ripetere sempre le stesse cose a un interlocutore che si finge sordo.
Abbiamo ascoltato la versione serba, ma, consapevoli che non è esaustiva, andiamo alla ricerca di voci diverse e intraprendiamo la tortuosa strada che da Banja Luka porta a Sarajevo. Sono estesi i territori incontaminati e fitti i boschi sulle montagne: si capisce come sia difficile controllare queste zone, nonostante i continui sorvoli degli elicotteri delle forze dell’ordine. Intanto, allontanandosi dalla Repubblica Srpska, il paesaggio cambia: l’orizzonte è segnato dalle croci delle chiese cattoliche e ortodosse, ma sempre più frequentemente anche dallo svettare dei minareti che aumentano avvicinandosi alla capitale.
I musulmani devono pregare cinque volte al giorno e poter ascoltare bene la voce del muezzin. Per questo ogni villaggio, anche piccolo ha la sua moschea. Le croci, a mano a mano, diventano sempre meno.
“È vero abbiamo delle grandi difficoltà a ottenere le autorizzazioni necessarie per costruire le nostre chiese”, l’Arcivescovo Luigi Pezzuto (foto a sinistra), Nunzio Apostolico in Bosnia Erzegovina e Montenegro, ci apre subito le porte della Rappresentanza della Santa Sede a Sarajevo.
“Una parte della questione è dovuta a ragioni burocratiche, ma non credo che questo sia il problema da risolvere. Dobbiamo lavorare sulle menti delle persone. Dobbiamo con loro approfondire il diritto alla libertà religiosa. Io ci sto lavorando molto.
La Chiesa in quanto edificio non serve se prima non viene riconosciuto il diritto”, ci spiega con il tatto diplomatico che si addice al suo ruolo. Meno cauto è invece il Cardinal Vinko Puljic, Arcivescovo di Sarajevo che da anni denuncia l’islamizzazione forzata della Bosnia: “Non riusciamo a costruire le nostre chiese, mentre negli ultimi anni sono nati più di 70 centri di culto musulmano solo a Sarajevo e in tutto il Paese più di 100 moschee”. La colpa, a detta del Cardinale non è solo della leadership politica bosniaca, ma anche e soprattutto dell’Europa e dell’intero Occidente che assistono inermi a un processo che invece li riguarda da vicino.
“Se finalmente si sente parlare della diffusione dell’integralismo e dell’estremismo islamico in Bosnia, è solo perché la visita del Santo Padre ha fatto sì che questo Paese, quasi sempre ignorato dai media, sia tornato a esistere per la comunità internazionale. Sono vent’anni che mi impegno personalmente per denunciare l’islamizzazione sistematica in Bosnia, che comincia con la guerra civile e non si è mai arrestata.
L’Arabia Saudita ha fortemente nutrito le comunità wahabite e finanziato la costruzione di luoghi di riunione e di culto. Tutto è in mano agli islamici che cercano di costringere i cattolici a lasciare il Paese: il datore di lavoro musulmano difficilmente assume un cattolico, e così ancora oggi tanti giovani sono costretti a emigrare. Non basta che ci siamo dimezzati, dal ’91 a oggi” (oggi i cattolici in Bosnia sono circa 430mila, prima del conflitto erano più di 800mila – ndr).
Per quanto riguarda il diffondersi del terrorismo jihadista, Puljic ritiene che sia “tardi per intervenire perché qui l’estremismo è un fenomeno ormai troppo radicato e quindi difficile da estirpare più qui che altrove”.
Per quanto riguarda il diffondersi del terrorismo jihadista, Puljic ritiene che sia “tardi per intervenire perché qui l’estremismo è un fenomeno ormai troppo radicato e quindi difficile da estirpare più qui che altrove”.
E in effetti per vedere le donne col niqab e gli uomini barbuti di cui tanto si parla negli ultimi mesi, non occorre arrivare in villaggi sperduti abitati da comunità chiusissime. Basta passeggiare a Vrelo Bosne, località turistica a pochi chilometri da Sarajevo per trovarsi catapultati in una realtà quasi totalmente islamizzata. Donne copertissime accanto a uomini con la barba lunga passeggiano sulle rive delle sorgenti del fiume Bosna o si godono un giro su una carrozza condotta da un cavallo bianco. Molti sono turisti, ma tanti altri vivono qui. E a quanto pare altrettanti verranno a viverci, dato che i cartelli di vendita delle proprietà, spesso, sono scritti solo in arabo.
I sauditi quindi comprano anche ville e non solo terreni agricoli serbi in villaggi sperduti. Per chiarirci le idee, decidiamo di andare a trovare Esad Hecimovic, esperto di terrorismo ed editor della televisione OBN (uno dei principali canali televisivi bosniaci).
Ha appena terminato di registrare il servizio sulla visita di John Allen, inviato speciale del presidente americano per la coalizione che combatte lo Stato Islamico. Il giornalista spiega che a suo parere il processo di islamizzazione e il terrorismo non sono la stessa cosa, e che se i sauditi comprano terreni non è detto che debbano per forza costruirci dei campi di addestramento al combattimento. Anzi in Bosnia di questi training camp di cui tanto si parla non ne sono mai stati trovati (lo confermano fonti istituzionali e di intelligence).
“Lo Stato funziona e la polizia fa il suo dovere. La visita di Allen e l’incontro con le autorità di oggi ne sono la dimostrazione: si rafforza la cooperazione per impedire il dilagare dell’ideologia jihadista. Ma finora qui non sono state scoperte reti terroristiche vere e proprie, solo episodi e individui isolati. Quelli che vanno a combattere all’estero, sì sono tanti, ma lo fanno per ragioni diverse, di cui quelle economiche sono solo le più ovvie. A
lcuni hanno la sindrome postraumatica da stress a causa della guerra, altri finiscono nelle moschee sbagliate, altri ancora vivono molto soli o molto isolati e per questo cercano risposte nel web finendo nelle reti dei reclutatori. Per capire meglio questo però parlate con lui, che ha tre cugini che sono andati in Siria”. Ci indica un ragazzo che lo ha accompagnato all’incontro con noi e che fino a questo momento è rimasto ad ascoltare in silenzio. Preferisce tenere riservata la sua identità, parla italiano e timidamente ci racconta di essere musulmano, di Visoko, una cittadina non molto distante da Sarajevo.
Anche i suoi cugini vivevano lì: “Non li vedevo spesso, ma come in ogni buona famiglia ci si frequenta nelle occasioni importanti. E quando abbiamo saputo che questi tre parenti erano partiti per la Siria non abbiamo potuto non chiederci cosa li avesse spinti, dato che nessuno di noi è un estremista. Nel Corano non c’è nessun appello alla guerra perché l’Islam è una religione di pace. Ma certo che la guerra, quella degli anni ’90 è rimasta indelebile nelle nostre menti.
Me la ricordo io che avevo 7 anni quand’è finita. E anche se ho superato qualunque pregiudizio, non riesco a fare a meno che il sangue non mi si geli nelle vene, se mi si presenta qualcuno che fa di cognome Milosevic. Figuriamoci mio cugino grande che con la guerra ci è cresciuto, che l’ha fatta e che non sapeva fare altro.
Quando è finita si è depresso, si sentiva perso e dopo poco ha deciso di andare a combattere in Cecenia. Lui credeva che per liberarsi di grossi problemi bisogna combattere, e si è sempre unito alle cause che riteneva giuste, tra cui quella siriana purtroppo. Poi non stava bene, quando era a Visoko sembrava un disadattato, lamentava sempre di sentirsi inadeguato.
Gli altri due invece sono giovani, uno un mio coetaneo, l’altro ha 24 anni. Entrambi senza lavoro, ma come tanti altri. L’unico segnale di stranezza che hanno mostrato è che hanno cominciato a frequentare la moschea e a pregare; i genitori che non praticano la religione, sono convinti che lo facessero per soldi. Ma possibile che solo per soldi abbiano deciso di andare a combattere? Bastano 2mila euro per convincere una persona a rischiare la propria vita? Io a questo non credo, ma ancora non ho trovato un’altra risposta”.
Si capisce che in un Paese come questo non faccia scalpore la diffusione da parte dell’Isis del “Messaggio al popolo dei Balcani” in cui albanesi kosovari e bosniaci radicalizzati incitano cruentemente i loro fratelli a vendicare “le umiliazioni subite dai musulmani” in questi Stati.
Così mentre i media internazionali impazzano, nessuno qui in Bosnia sembra sconvolgersi e, a noi, nel Centro Studi di Sicurezza di Sarajevo, il professor Denis Hadzovic, direttore dell’istituto, dice: “È da parecchio tempo che abbiamo a che fare con questi messaggi che incitano la gente a entrare a far parte dell’esercito dello Stato Islamico. Per cui non credo che questo filmato, nello specifico, avrà un grande effetto sul reclutamento di jihadisti nei Balcani”.
Come a dire che “quel che doveva essere fatto è già stato fatto”, l’islamizzazione della Bosnia è stata quasi portata a compimento: Europa e Occidente, sordi agli appelli che ricevono da anni, si allarmano solo adesso perché solo oggi la minaccia li riguarda direttamente e palesemente. Mancanza di lungimiranza? O interessi finanziari, come denunciano vari esponenti della Chiesa cattolica? In ogni caso, le toppe che si possono applicare ora saranno comunque poche e inadeguate per gli strappi che lacerano questo Paese.