Cronache del Ventennale / 5: 
 
Articoli di Contropiano
 
1) Quelle frattaglie lanciate su via delle Botteghe Oscure contro la guerra alla Jugoslavia (Rete Dei Comunisti)
2) Noi non dimentichiamo nulla. Venti anni fa le bombe della Nato sulla Jugoslavia (Sergio Cararo)
3) 24 marzo 1999 il giorno della vergogna di D’Alema, Berlusconi e Prodi, di Ue e Nato (di Giorgio Cremaschi – Potere Al Popolo)
4) Da Belgrado: “se nel 1999 la Russia fosse stata quella di oggi”… (Fabrizio Poggi)
 
 
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Quelle frattaglie lanciate su via delle Botteghe Oscure contro la guerra alla Jugoslavia

 
di Rete Dei Comunisti
 

Ricadono in questi giorni i venti anni dall’aggressione della Nato alla Federazione Jugoslava nel marzo del 1999. Le bombe su Belgrado segnarono con una guerra alle porte dell’Europa la fine dello scorso secolo e prepararono il terreno a quelle sull’Afghanistan e l’Iraq come inizio del XXI Secolo.

E’ importante, venti anni dopo, non lasciare niente all’oblìo di quella vergognosa aggressione della Nato costruita, sostenuta e realizzata, senza alcuna risoluzione dell’Onu, da una alleanza di governi liberali e progressisti. Negli Usa al governo c’era Clinton, dunque nè Bush né Trump; in Gran Bretagna c’era il laburista Toni Blair; in Francia il socialista Jospin; in Germania il socialdemocratico Schroeder con il verde sessantottino Joska Fisher come ministro degli esteri.
E in Italia? In Italia D’Alema aveva sostituito Romano Prodi al suo primo governo dell’epoca di Berlusconi e dell’antiberlusconismo. Un governo sostenuto da un partito comunista con propri ministri – il PdCI – guidato da dirigenti come Cossutta, Diliberto, Rizzo e prodotto di una scissione dal Prc.
Questi governi “progressisti”, misero a disposizione della Nato non solo bombardieri, forze armate, basi militari ma anche apparati di consenso.

Fu un “progressista francese”, Bernard Kouchner, a elaborare tramite l’organizzazione di cui era presidente – Msf – la dottrina della “guerra umanitaria”. E questa dottrina nel caso della Jugoslavia venne diffusa come dolorosa necessità da giornali, telegiornali, ong, associazioni, sindacati collaterali ai governi di sinistra o centro-sinistra in Europa.
Un primo esperimento era stato già fatto nel 1995, quando gli aerei della Nato bombardarono la zona serba della Bosnia, con il plauso anche di Rossana Rossanda..

Mentre si andava preparando l’aggressione alla Federazione Jugoslava, il governo D’Alema si era reso responsabile, durante le feste natalizie tra il 1998 e il 1999, di un altro episodio vergognoso. Il leader del Pkk Abdullah Ocalan, si era rifugiato in Italia ed aveva chiesto asilo politico al governo italiano. Dopo settimane di indugi, il governo italiano imbarcò Ocalan su un aereo della flotta aziendale dell’Eni e lo consegnò agli apparati repressivi della Turchia che gli davano la caccia.
Come risposta ci fu una manifestazione a Roma che assaltò con estrema determinazione la sede delle linee aeree turche. Un atto di forza che esprimeva una voglia di riscatto da parte dei movimenti contro la vergogna verso un governo che aveva tradito il diritto d’asilo e consegnato un leader politico di un popolo in lotta ai suoi carnefici. Ancora oggi Ocalan è sepolto vivo nel carcere sull’isola di Imrali.

A Ottobre del 1998, poco prima di essere destituito dal “fuoco amico” di D’Alema, Romano Prodi aveva già attivato l’ordine di attivazione nelle basi Nato presenti in Italia nella ipotesi di intervento militare nella ex Jugoslavia. Quando nella notte del 23 marzo 1999 gli aerei partiti dallebasi militari di Aviano, Gioia del Colle o dalle portaerei nell’Adriatico cominciarono a bombardare Belgrado, i suoi ponti, le fabbriche, le strade, tra molte compagne e compagni si disse che la misura era colma.

Giornali e telegiornali martellavano a sostegno dei bombardamenti, diffondendo notizie che si riveleranno clamorosamente false e alimentando un odio anti-serbo che richiamava per molti aspetti la slavofobia dello storico espansionismo aggressivo tedesco verso l’est. E mentre i mass media legittimavano la guerra umanitaria, il mondo dell’associazionismo, i sindacati confederali, le ong collaterali al governo di centro-sinistra si incaricavano di veicolare questi contenuti nella sinistra e nei movimenti. Poche settimane dopo lo stessa filiera si predisponeva a incassare i miliardi degli aiuti umanitari della Missione Arcobaleno in Kosovo.

LA CONTESTAZIONE IN VIA DELLE BOTTEGHE OSCURE: “RISCATTARE LA VERGOGNA DELL’AGGRESSIONE NATO CONTRO LA JUGOSLAVIA”

In questo contesto una manifestazione convocata a Roma contro la guerra e i bombardamenti su Belgrado, si diresse verso il centro della città. Arrivati a Piazza Venezia, un gruppo di compagni si sganciò dal corteo e lanciò alcuni chili di frattaglie sull’ingresso della storica sede di via delle Botteghe Oscure diventata la direzione dei Ds (Democratici di Sinistra) allora partito di governo. Un esplicito richiamo alla macelleria a cui il governo italiano si stava prestando partecipando attivamente ai bombardamenti sulla Federazione Jugoslava. Il corteo invece di proseguire deviò in massa proprio verso via delle Botteghe Oscure per sostenere la clamorosa contestazione. La polizia colta alla sprovvista fu costretta a sparare i lacrimogeni per cercare di sciogliere la manifestazione, al termine della quale tre compagni vennero arrestati.

La sera stessa, quando l’allora segretario dei Ds, Walter Veltroni, venne intervistato dal Tg1 proprio sulla contestazione avvenuta su un luogo storico come la sede di via delle Botteghe Oscure, tutti capirono il segno e il peso politico di quell’azione. 

Quella guerra e la contestazione a via delle Botteghe Oscure furono uno spartiacque nella lotta contro la guerra ma anche tra chi aveva maturato consapevolezza sulla funzione del centro-sinistra una volta al governo e chi ha continuato a illudersi di poterne essere il paracarro “a sinistra”. L’illusione si è prolungata fino al 2008 con il secondo governo Prodi.

Nel primo caso, la contestazione del marzo 1999 è stato una sorta di battesimo in piazza della Rete dei Comunisti (registrata perfino da La Repubblica), nel secondo caso (2008 e la dissoluzione della sinistra filo centro-sinistra affondatasi con la lista Arcobaleno), fu la scelta di mettere in campo una ipotesi politica a tutto campo per chi non intende più campare di illusioni e logorarsi ancora con la logica del meno peggio.

Rete dei Comunisti, marzo 2019

 
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Noi non dimentichiamo nulla. Venti anni fa le bombe della Nato sulla Jugoslavia

 
di Sergio Cararo, 23 Marzo 2019
 

La notte tra il 23 e il 24 marzo 1999, la NATO dette inizio ai bombardamenti aerei sulla Serbia. I raid continuarono per 78 giorni, fino al 10 giugno, infliggendo danni per miliardi di dollari, distruggendo le strutture industriali, i ponti sul Danubio, i servizi essenziali del paese e causando la morte di centinaia di civili. Sabato 6 aprile se ne discuterà in un convegno nazionale a Bologna e ci saranno dibattiti in diverse città nei prossimi giorni. Il motivo? Non essere complici dell’oblìo su quella guerra in Europa, voluta e attuata dalle potenze della Nato ed anche dall’Italia. Una guerra pretestuosa funzionale agli Usa e alla Ue per ridisegnare la mappa geopolitica non solo dei Balcani ma dei corridoi strategici che vanno da est a ovest, e viceversa..

In una pubblicazione di quelle settimane e cercando di chiarire la posta in gioco in quel conflitto, scrivevamo che: “I bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia, sembrano essere un passaggio brutale della guerra tra Stati Uniti ed Europa per la spartizione dei mercati dell’Est. Da un lato l’aperto ostracismo degli USA contro la Serbia ha ottenuto anche il risultato di interdire i progetti europei, dall’altro l’asse anglo-americano dentro la NATO non fa mistero delle sue ambizioni al controllo strategico dei punti vitali della regione balcanica.
Gli USA hanno sabotato il progetto originario del Corridoio nr.10 ponendo il veto sull’attraversamento della Serbia. A tale scopo hanno pagato 100 milioni di dollari alla Romania per convincerla a far passare gli oleodotti più a nord (in Ungheria) invece che sul territorio jugoslavo da dove sarebbero arrivati a Zagabria, in Slovenia e poi in Germania.L’obiettivo è duplice : tagliare fuori la Jugoslavia dalle nuove rotte dell’economia e ostacolare qualasiasi interesse della Russia nei Balcani del Sud.
In secondo luogo, l’ENI aveva previsto una pipeline da Pitesti (Romania) alla raffineria di Pancevo (Jugoslavia) per la raffinazione del greggio per farlo poi arrivare con un oleodotto di 250 chilometri al terminale di Trieste. L’accanimento con cui la NATO (e gli aerei inglesi e americani) hanno distrutto la raffineria di Pancevo, confermano l’obiettivo statunitense di sabotare in ogni modo la funzione strategica di questo corridoio.


A chiarire gli obiettivi della NATO nell’area balcanica, è l’illuminante intervista rilasciata ad Alberto Negri da Sir Mike Jackson, il generale inglese che comanda la Forza di Reazione Rapida della NATO installata prima in Macedonia ed ora nel Kossovo.

Intervistato da Negri dopo tre settimane di guerra dal Sole 24 Ore, il gen. Jackson ha affermato testualmente : “Sono cambiate le circostanze che ci hanno portato qui. Oggi è pressante la necessità di garantire la stabilità della Macedonia e il suo ingresso nella NATO. Ma resteremo sicuramente a lungo anche per tutelare la sicurezza dei corridoi energetici che passeranno attraverso questo paese”. Il quotidiano economico italiano preciserà ulteriormente : “E’ chiaro il riferimento di Sir Jackson all’Ottavo Corridoio, cioè all’asse Est-Ovest che dovrà convogliare con le pipeline le risorse energetiche dell’Asia centrale dai terminali del Mar Nero all’Adriatico, saldando l’Europa all’Asia. Questo spiega perchè grandi e medie potenze, in primo luogo la Russia, non vogliono essere escluse dal regolamento dei conti nei prossimi mesi nei Balcani. E’ evidente anche l’interesse della Turchia”.

Oggi, di fronte alle conseguenze delle guerre nel XXI Secolo, ed a quello a cui stiamo assistendo intorno al progetto della “Nuova Via della Seta”, alcune cose diventano assai più e drammaticamente chiare.

E’ importante ricordare che il primo progetto strategico sulla Via della Seta fu messo in campo dagli Stati Uniti  nel 1997 (Il “Silk Road Strategy Act”) e con ambizioni decisamente opposte a quelle della Cina. Nello stesso anno, e due anni prima di quella guerra nella zona di passaggio tra Europa e Asia, Zbignew Brzezinski aveva profetizzato che: “La capacità degli Stati Uniti di esercitare un’effettiva supremazia mondiale, dipenderà dal modo in cui sapranno affrontare i complessi equilibri di forza nell’Eurasia, scongiurando soprattutto l’emergere di una potenza predominante e antagonista in questa regione”. 

In un altro capitolo Brzezinski sottolinea con decisione come: “E‘ ormai tempo che gli Stati Uniti perseguano un coerente disegno geostrategico d’ampio respiro per l’intera Eurasia. Questa necessità sorge dall’interazione fra due realtà basilari: gli USA sono oggi l’unica superpotenza globale e l’Eurasia è il terreno sul quale si giocherà il futuro del mondo. L’equilibrio di forze che prevarrà su questo continente deciderà dunque il destino della supremazia americana e della sua missione storica. La durata e la stabilità di tale supremazia dipenderanno soprattutto da come gli Stati Uniti muoveranno le principali pedine del gioco su questa scacchiera, controllandone le zone cardine dal punto di vista geopolitico” (da “The Great Chessboard, tradotta in Italia da Rizzoli con il titolo “La Grande Scacchiera”).

In questo senso la guerra in Jugoslavia è stata ancora più strategica di quella in Iraq e Afghanistan. E’ stata solo meno sanguinosa per gli Stati Uniti e le potenze della Nato, alimentando l’illusione che le guerre potessero essere tutte vinte, le aggressioni impunite, a costo zero e che la mappa del mondo poteva essere riscritta a proprio piacimento. I fatti ci dicono che non è andata così.

Il ruolo dell’Italia

Per l’Italia l’aggressione del marzo 1999 alla Federazione Jugoslava (costituita da Serbia e Montenegro) ha rappresentato invece uno spartiacque storico e politico.

In Italia D’Alema aveva sostituito Romano Prodi al suo primo governo nell’epoca di Berlusconi e dell’antiberlusconismo. Un governo costituito e sostenuto anche da un partito comunista con propri ministri – il PdCI – guidato da dirigenti come Cossutta, Diliberto, Rizzo e prodotto di una scissione dal Prc. L’autocritica per quella scelta di sostenere il governo del centro-sinistra anche nella e durante la guerra è arrivata, tardivamente, solo diversi anni dopo.

Prima di D’Alema (che gli farà le scarpe e gli tolse lo scranno di premier, ndr) l’allora capo del governo Romano Prodi, già ad ottobre 1998 aveva avviato “l’activaction order” per le basi Nato presenti in Italia. Piero Fassino, prima come viceministro degli Esteri e poi come Ministro del Commercio Estero sostemeva che: “Troppi nel nostro paese – soprattutto nella classe politica – sottovalutano che l’Europa centrale e sud-orientale è per l’Italia un’area strategica di interesse vitale… Sono queste le ragioni per cui il governo Prodi ha individuato nell’Europa centrale e orientale e nei Balcani una priorità fondamentale della politica estera italiana, sviluppando una vera e propria “Ost-Politik” italiana che non solo corrisponde agli interessi del nostro paese, ma consente all’Italia di svolgere un’essenziale e riconosciuta funzione nella costruzione della nuova Europa”. 

L’Italia di D’Alema, Fassino, Prodi scelse quindi consapevolmente di stare nella partita dell’aggressione alla Federazione Jugoslava come asset da giocarsi nelle relazioni europee.

Di fronte alla vergogna dei bombardamenti e della complicità attiva dell’Italia, l’allora segretario della Cgil Cofferati legittimò pienamente quei bombardamenti come una  “dolorosa necessità” e rifiutò di far scioperare la Cgil contro la guerra. Cgil Cisl Uil revocarono uno sciopero dei trasporti già convocato, mentre solo i sindacati di base (allora RdB, Cobas, Cub) convocarono il 13 maggio un riuscito sciopero generale contro la guerra in Jugoslavia.

Contemporaneamente negli ambiti della sinistra di governo e dell’associazionismo collaterale prendeva corpo la legittimazione della “guerra umanitaria” ispirata dal suo ideatore Bernard Kouchner, allora presidente di Msf, diventato poi ministro degli Esteri con Sarkozy. Furono molte le Ong e l’associazionismo collaterale al centro-sinistra che si arruolarono in quella “guerra umanitaria”, fiancheggiando apertamente l’intervento militare della Nato, ad esempio attraverso la Missione Arcobaleno per gli “aiuti umanitari” in Kosovo, sulla quale anni dopo esplose lo scandalo e una inchiesta giudiziaria poi finita in prescrizione nel 2012.

Le manifestazioni di protesta. Sinistra e movimenti divisi

Immediatamente dall’inizio dei bombardamenti della Nato su Belgrado, a Roma una enorme manifestazione di rabbia e di protesta per la vergogna di quella aggressione militare contro la Serbia, sfilò per il centro, arrivando a lanciare delle frattaglie sulla sede di via delle Botteghe Oscure, allora direzione dei Democratici di Sinistra, il principale partito al governo. La manifestazione venne dispersa a colpi di lacrimogeni dalla polizia e tre compagni vennero arrestati. Ma non era l’unica vergogna da cui riscattarsi. Solo pochi mesi prima il governo D’Alema aveva consegnato ai servizi di sicurezza turchi il leader del curdo Abdullah Ocalan, rifugiatosi a Roma, negandogli l’asilo politico in Italia. Il segnale di riscatto e indignazione  di quella contestazione in via della Botteghe Oscure, simbolo della direzione del partito di governo, fu chiaro e forte e rimbalzò in tutti i telegiornali della sera e sui giornali del giorno successivo.

Nelle settimane successive, le diverse valutazioni nella sinistra sull’aggressione Nato contro la Federazione Jugoslava, divennero visibili. Furono organizzate ben tre manifestazioni nazionali in tre settimane diverse: la prima dell’associazionismo pacifista collaterale al governo centro-sinistra, la seconda da Rifondazione Comunista, la terza dai sindacati di base, dai movimenti sociali e dalla sinistra antagonista.

L’aggressione e i bombardamenti contro la Federazione Jugoslava (quella tra Serbia e Montenegro), furono l’ultima guerra del XX Secolo e la “prima guerra in Europa” alla vigilia del nuovo secolo. Non fu responsabilità solo degli Stati Uniti, perchè tutte le maggiori potenze europee (Germania, Italia, Gran Bretagna, Francia) presero parte attivamente all’aggressione attraverso una risoluzione della Nato che avevano aggirato ogni eventuale ostacolo da parte dell’Onu.

Questa aggressione porta la responsabilità di quello che fu definito “l’Ulivo mondiale”, infatti i capi di stato dell’epoca erano tutti dell’area liberal e socialdemocratica: Clinton, Schroeder, Jospin, Blair e D’Alema.

Per la nascente Unione Europea, l’aggressione alla Jugoslavia fu una sorta di “guerra costituente” nella quale le potenze europee – Germania e Francia soprattutto – non intesero lasciare tutto lo spazio di manovra agli Stati Uniti per una guerra sostanzialmente alla periferia dell’Europa. In questo senso l’aggressione alla Jugoslavia diventerà uno spartiacque tra un prima e un dopo nelle relazioni transatlantiche (la cui crisi diventerà più leggibile quattro anni dopo con lo smarcamento di Francia e Germania dall’invasione Usa dell’Iraq).

I bombardamenti su Belgrado e le altre città serbe (tra cui i ponti sul Danubio, lo stabilimento della Zastava di Kragujevac presidiato dagli operai, il petrolchimico di Pancevo che inquinè per anni tutta la regione), furono preceduti e seguiti da una imponente – e umiliante per molti giornalisti onesti – campagna mediatica volta a demonizzare la Serbia e la popolazione serba, a far credere all’ opinione pubblica mondiale che i Serbi stessero ponendo in atto, scientemente e con premeditazione, un tentativo di genocidio ai danni della popolazione kosovara di etnia albanese.

Pochissime le eccezioni come la diretta Tv di Michele Santoro dai ponti di Belgrado, dove la popolazione si affollava offrendosi come bersaglio per impedire che venissero bombardati dagli aerei e dai missili della Nato, alcune corrispondenze Rai di Ennio Remondino, qualche sussulto di Mentana (allora alla Mediaset). I cartelli e le spillette indossate dai civili serbi riproducevano l’immagine del “Target”, il bersaglio, che divenne ben presto il simbolo di chi si opponeva alla guerra.

La demonizzazione dell’avversario, la costruzione di prove fasulle, la manipolazione sistematica e spudorata della stampa e dei media in genere per ottenere il consenso nei confronti della politica aggressiva e imperialista, saranno una costante nella costruzione delle future aggressioni militari degli Stati Uniti in altri teatri (Afghanistan, Iraq, Siria) ma anche delle potenze europee (Libia).

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Per chi volesse approfondire

SCHEDA: Come è stata costruita l’aggressione Nato alla Serbia?

I colloqui di Rambouillet: un inganno per provocare la guerra

Il terreno politico, diplomatico e internazionale per i bombardamenti della Nato sulla Serbia, fu preparato con una vergognosa e falsificatrice campagna mediatica e con la farsa di colloqui che porteranno al trattato di Rambouillet. I colloqui iniziarono il 6 febbraio 1999 a Parigi e  culminarono, al contrario, nell’aggressione alla Serbia del successivo 24 marzo.
Nella bozza di accordo presentata dal Gruppo di contatto, formato da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Russia, non si accennò mai ad una possibile indipendenza del Kosovo ma solo ad un’autonomia che si sarebbe incarnata in un parlamento, un presidente, una costituzione e una corte costituzionale.
Il documento prevedeva ampi poteri ai verificatori dell’Osce, che sarebbero dovuti rimanere in Kosovo per un periodo di tre anni, il ritiro non totale delle forze di polizia e di sicurezza serbe, l’impossibilità per il Kosovo di avere un proprio esercito, una propria moneta e una propria politica estera (prerogative che sarebbero rimaste nelle mani del governo di Belgrado).
La bozza del Gruppo di contatto lasciò invece irrisolto lo status della Provincia del Kosovo allo scadere dei tre anni di “verifica”. Gli albanesi kosovari avrebbero voluto un referendum per l’autodeterminazione del Kosovo, i serbi insistettero che un’eventuale consultazione avrebbe dovuto riguardare anche i restanti abitanti della Federazione Jugoslava.

L’organizzazione armata kosovara, l’Uck, che inizialmente rifiutò il contenuto dell’accordo, dietro chiare pressioni statunitensi decise di accettarne una formula così limitata e la sua delegazione a Rambouillet assunse un’importanza ben superiore a quella dello stesso “moderato” Rugova.
Durante i 17 giorni dei colloqui svoltisi all’interno del castello, la rappresentanza serba non s’incontrò mai con quella albanese; la conferenza venne preparata a Londra in una riunione del 29 gennaio del Gruppo di contatto e da una successiva consultazione del 30 gennaio a Bruxelles, durante la quale il Consiglio Atlantico conferì al segretario generale della NATO, Javier Solana, l’autorizzazione ad interventi aerei contro la Serbia nel caso quest’ultima si fosse rifiutata di firmare l’accordo.

In Italia, occorre rammentare che già ad ottobre del 1998 il Presidente del Consiglio Romano Prodi (poi sostituito da D’Alema) aveva dato “l’activation order” per le basi Nato presenti in Italia.
Gli albanesi presentarono ai colloqui una delegazione con 17 negoziatori, dei quali 9 appartenenti all’UCK e solo 4 del movimento “non violento” di Rugova.

Chi erano gli “accompagnatori” della delegazione kosovara ai colloqui di pace? Marshall Harris e Paul Williams (ex funzionari del Dipartimento di Stato americano), Morton Abramowitz (noto esponente dell’International Crisis Group), Filippo di Robilant (già portavoce di Emma Bonino in seno alla Comunità europea e rappresentante della Coalition for International Justice) e alcuni ufficiali della NATO in borghese.
La delegazione della Serbia, guidata dal suo presidente Milan Milutinovic, era composta da 15 persone, tra le quali sette rappresentanti della comunità islamica, turca e gorana, rom ed egiziana, insieme a due esponenti di piccoli partiti della minoranza albanese (l’Iniziativa democratica del Kosovo e il Partito delle riforme democratiche degli albanesi).
Come detto, le trattative si svolsero tramite canali separati, stante l’impossibilità di far comunicare direttamente delegati serbi ed albanesi (un impasse che però il presidente jugoslavo Milutinovic attribuì alla cattiva volontà dei mediatori). La delegazione jugoslava trovò inaccettabili alcuni allegati del Trattato (vedi più avanti) mentre alla delegazione albanese/kosovara non piacque il mancato riferimento ad un possibile referendum allo scadere dei tre anni.
Per firmare il documento, il capo militare dell’Uck, Hashim Thaci, indirizzò una lettera all’allora segretario di Stato Usa Madeleine Albright, in cui ribadì che ella doveva “comprendere che alla fine dei tre anni la popolazione del Kosovo eserciterà la sua volontà”. Si tratta di una precisazione molto importante, perché lasciò intendere che la consultazione popolare non avrebbe riguardato i restanti abitanti della Federazione Jugoslava.
Agli albanesi la diplomazia internazionale fece ulteriori concessioni, parlando della possibilità di emanare leggi senza l’autorizzazione di Belgrado, di legiferare in materia fiscale per instaurare programmi economici, scientifici, tecnologici, regionali e di sviluppo sociale.
Alle autorità di Pristina si ventilò la possibilità di sviluppare una politica estera all’interno delle sue aree di responsabilità, mentre all’esercito serbo si confermò la necessità di un suo ritiro dal territorio del Kosovo, ad eccezione di un limitato contingente militare di frontiera.

Al capo della Missione di Implementazione Civile sarebbe andata l’autorità di emettere direttive vincolanti alle parti su ogni argomento ritenuto importante, inclusa la nomina e la rimozione di ufficiali e aderenti alle istituzioni”.
C’era poi la parte economica sul futuro del Kosovo, un vero e proprio capolavoro ultraliberista: “L’economia del Kosovo funzionerà secondo i principi del libero mercato. Non vi sarà alcuna restrizione alla libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali, ivi compresi quelli di origine internazionale”.
Mentre il 23 febbraio la conferenza di Rambouillet si concluse con un nulla di fatto, Hashim Thaci, venne riconvocato per nuovi incontri a Parigi fissati il 15 marzo, ma decise di recarsi prima in Kosovo nella valle della Drenica, dove, sotto scorta statunitense, riuscì a strappare l’assenso dei capi militari dell’UCK.
La rappresentanza serba, invece, rifiutò l’intesa anche a Parigi, fornendo il pretesto alla NATO per i bombardamenti che iniziarono il successivo 24 marzo.

Pochi giorni dopo la conclusione di Rambouillet, infatti  avrebbe dovuto tenersi a Parigi una sessione non politica finalizzata a stabilire gli aspetti attuativi e organizzativi dell’accordo, ma la delegazione serba sin dall’inizio  abbandonò  le sedute rimettendo in discussione gli esiti  di tutta la trattativa, dichiarando che non accettava più quella che considerava una indipendenza di fatto mascherata da autonomia. I Serbi si sentivano presi in giro e provocati.  Che cosa era successo? La parte Serba fu di fatto costretta ad abbandonare il negoziato a seguito di due elementi-chiave introdotti, su input degli Stati Uniti, alla vigilia della firma dell’accordo.

In primo luogo, il 22 febbraio, il Segretario di Stato USA, Madeleine Albright, (con il famoso “bacio di Madelein al rappresentante kosovaro Surroi) si impegnò, verso la parte kosovara, a garantire, entro tre anni, il distacco del Kosovo dalla Federazione; in secondo luogo, fu introdotto un’appendice (l’Allegato B) alla parte militare dell’Accordo che prevedeva, di fatto, l’occupazione militare dell’intera Federazione Serbia da parte della NATO.

Gli articoli 8-9-10-11 dell’ Annesso B che infatti recitavano:

Articolo 8

Il personale della Nato, i suoi veicoli, navi, aerei ed equipaggiamenti dovranno beneficiare di un libero passaggio e senza restrizioni all’interno della Rfj e di un accesso senza ostacoli allo spazio aereo e fluviale. Questo include il diritto dei bivacchi e delle manovre all’acquartieramento e l’utilizzazione delle aree necessarie per facilitare il sostegno e la realizzazione delle operazioni.

Articolo 9

La Nato sarà esonerata da tutti i dazi, le imposte e altre tassazioni, dai regolamenti e dalle ispezioni doganali, compreso quelle dell’approvvigionamento degli stock, e altri documenti doganali di routine, questo per il personale, i veicoli, le navi, gli aerei, gli equipaggi e gli approvvigionamenti entranti, uscenti o circolanti attraverso il territorio della Rfj, in appoggio alle operazioni.

Articolo 10

Le autorità della Rfj dovranno facilitare, accordandone la priorità e utilizzando tutti i mezzi appropriati, tutti i movimenti del personale, i veicoli, le navi, gli aerei, gli equipaggi e gli approvvigionamenti, attraverso o dentro gli spazi aerei, portuali, aereoportuali e stradali. Nessun compenso dovrà essere pagato dalla Nato per la navigazione aerea, l’atterraggio e il decollo degli aerei che siano essi governativi o meno. Ugualmente alcuna quota o tassa o pedaggio potrà essere riscosso all’arrivo o alla partenza delle navi o dei battelli della Nato, che siano essi governativi o meno. I veicoli, i battelli e gli aerei utilizzati in appoggio alle operazioni non dovranno essere sottomessi ad alcuna procedura per ottenere licenze d’uso, di registrazione o di assicurazione commerciale..

Articolo 11

La Nato ha la garanzia di utilizzo degli aereoporti, delle strade, delle strade ferrate e dei porti senza dover pagare tasse, pedaggi o altro (…).

In pratica una vera e propria occupazione militare da parte della Nato del territorio della Federazione Jugoslava. Inoltre alle truppe Nato stanziate sul territorio della Serbia doveva essere assicurata la totale impunità sul piano legale. Vedi gli articoli  6 -7

Articolo 6

  1. La Nato sarà protetta contro tutti i processi legali, che siano essi civili, amministrativi o criminali.
  2. Il personale della Nato in ogni circostanza e in ogni momento sarà protetto contro le parti (serbe e kosovare – ndr), contro la giurisdizione per tutti i delitti civili, amministrativi o criminali che essi potranno commettere all’interno della Repubblica federale jugoslavia (Rfj). Le Parti dovranno appoggiare gli stati partecipanti alle operazioni (…).
  3. Nonostante ciò che precede e con l’accordo formale, in ogni caso, con il comandante della Nato, le autorità della Rfj potranno eccezionalmente esercitare il loro potere giudiziario, ma unicamente sul personale contravvenente, che potrà allora non più essere sottomesso alla legislazione della nazione di cui porta la cittadinanza.

Articolo 7

Il personale della Nato dovrà essere protetto contro tutte le forme di arresto, di indagine o di detenzione da parte della Rfj. Il personale della Nato arrestato o ritenuto erroneamente colpevole dovrà essere immediatamente liberato e consegnato alle autorità della Nato.

Dunque Rambouillet si configurò come una vera e propria “trappola” in cui volutamente gli Stati Uniti e la NATO posero ai serbi condizioni così punitive proprio per ottenere il loro rifiuto a sottoscrivere gli accordi ed avere il pretesto per attaccare

In effetti  non era mai esistita alcuna “negoziazione”:  il governo statunitense e quelli europei – in particolare il Segretario di Stato Madeleine Albright  e il ministro degli esteri tedesco Joska Fisher – avevano  in pratica presentato al governo di Belgrado un vero e proprio diktat. La Serbia rifiutò e la notte del 24 marzo 1999 i bombardieri della Nato (statunitensi, tedeschi, italiani, francesi, britannici) cominciarono a sganciare le bombe su Belgrado e le altre città serbe.

 
 
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24 marzo 1999 il giorno della vergogna di D’Alema, Berlusconi e Prodi, di Ue e Nato

 
di Giorgio Cremaschi (Potere Al Popolo), 24 Marzo 2019
 

Sono stato invitato dal Forum di Belgrado alla conferenza internazionale che si terrà in questi giorni nella capitale della Serbia, per ricordare la guerra criminale che la NATO scatenò contro quel paese esattamente venti anni fa. Non potrò essere presente ma voglio qui condividere ciò che avrei detto in quella sede, anche per conto di Potere al Popolo che condivide le ragioni e i temi alla conferenza.

Il 24 marzo 1999, violando ogni legalità internazionale e ogni diritto umano, i bombardieri della NATO iniziarono i loro raid contro quella che allora si chiamava Repubblica Federale Jugoslava di Serbia e Montenegro. Il governo italiano, guidato da D’Alema, sostenuto da Cossutta e Cossiga, appoggiato in questo caso da Berlusconi, con il consenso del presidente della Repubblica Scalfaro, decise di partecipare alla guerra. In realtà la decisione l’aveva già presa il governo Prodi, che prima di cadere per il venir meno del sostegno di Rifondazione Comunista, aveva deliberato l’Act Order con il quale si predisponevano le nostre forze armate alla guerra sotto comando NATO. 

Così i bombardieri italiani ebbero l’onore, D’Alema ha sempre rivendicato l’impresa, di partecipare alla prima guerra europea dal 1945, al primo bombardamento aereo di una capitale europea, Belgrado, dalla sconfitta del fascismo.

Non c’erano risoluzioni ONU che neppure lontanamente autorizzassero l’intervento della NATO. La guerra avveniva in brutale violazione del diritto internazionale e per noi in spregio dell’articolo 11 della Costituzione. Allora per giustificarla comparve per la prima volta quel termine “comunità internazionale” che poi è diventato di uso comune – fino ai giorni nostri, fino all’aggressione al Venezuela – per giustificate le guerre banditesche di USA, NATO, e Unione Europea. 

Comunità internazionale vuol dire che un gruppo di paesi ricchi e potenti, in minoranza tra gli stati del mondo, si arrogano il diritto di usare la loro forza militare per dominare il mondo. Comunità internazionale è l’esatto opposto di legalità internazionale, sta ad essa come la licenza di sparare di Salvini sta al nostro diritto costituzionale.

L’aggressione chiamata Allied Force durò fino a giugno 1999, per 78 giorni i bombardieri NATO compresi quelli italiani scaricarono morte e alla fine migliaia di civili vennero uccisi, centinaia di migliaia rimasero senza casa e senza lavoro, le officine Zastava vennero rase al suolo come tante altre fabbriche, lasciando in miseria per decenni intere comunità.

Tutto il territorio di Serbia e Montenegro fu avvelenato da tonnellate di uranio impoverito sparato dalle forze NATO, che ancora oggi mietono vittime tra la popolazione e anche tra i militari NATO, compresi quelli italiani, che da allora presidiarono il Kosovo. 

Il Kosovo, fu per quella terra a maggioranza albanese, formalmente parte della Serbia, che si scatenò la guerra. Le forze indipendentiste di quel paese guidate dall’UCK, organizzazione che si finanziava anche col commercio della droga ed il traffico di organi umani, avevano scatenato la guerriglia alla quale aveva risposto l’intervento militare serbo. 

Era l’ultimo atto della lunga guerra civile che dal 1992 aveva smembrato la Jugoslavia. La cui frantumazione era stata spinta dalla Germania, dalla nascente Unione Europea, dal Vaticano di Papa Giovanni II e ovviamente dagli USA. Per interessi diversi ma convergenti, di fronte al crollo del socialismo reale, tutti volevano economicamente, politicamente e persino sul piano religioso giungere alle frontiere con la Russia.

L’espansione verso est dell’Unione Europea e della NATO scelse come vittima sacrificale la Jugoslavia, alimentandone e armandone ogni separatismo.

Le stesse forze politiche di centrodestra e centrosinistra che oggi approvano la repressione dello stato spagnolo contro la pacifica Catalogna, in Yugoslavia sostennero le forze separatiste più violente. E oggi UE e NATO tengono in piedi il governo ucraino con ministri nazisti, mentre il Parlamento europeo ha appena votato una risoluzione di rottura con la Russia ed i paesi che confinano con essa si armano. 

La sostituzione della comunità internazionale occidentale alla legalità internazionale, la marcia verso est di Germania e USA, UE e NATO sono due componenti fondamentali della guerra alla Jugoslavia, che giungono fino al mondo di oggi. Ma non sono le sole. Ce ne è anche una terza che venne messa in campo allora e che oggi domina il nostro mondo: la diffusione da parte del potere di fakenews determinanti per giustificare e propagandare la guerra. 

Il casus belli di allora fu il cosiddetto massacro di Račak , un combattimento tra UCK e forze militari serbe che la propaganda mediatica USA trasformò in una strage di donne e bambini. Quella strage, di cui oggi è dimostrata l’invenzione, imperversò sui nostri mass media e nel suo nome partirono i bombardamenti “umanitari”. In Italia anche CGILCISLUIL si schierarono con la guerra, giustificata ipocritamente come “contingente necessità”. Si metteva in moto allora quella macchina delle bugie che poi abbiamo visto in azione in Iraq, in Siria, in Libia in ogni guerra occidentale, ultima quella che si sta montando contro il Venezuela. 

Sì, dobbiamo ricordare la sporca guerra di venti anni fa perché essa ha dato il via alla terza guerra mondiale a pezzi denunciata da Papa Francesco. 

Il centro sinistra mondiale di allora, da Clinton a Prodi a D’Alema, fu uno dei principali responsabili dell’avvio di questa stagione di guerre e anche, e non è un caso, della distruzione della sinistra e del ritorno in campo della destra reazionaria. Il bombardamento di Belgrado fu un crimine e diffuse un veleno politico che continuerà ad intossicare il mondo occidentale. Finché la UE e la NATO non verranno messe in discussione, proprio nel nome di quei principi di democrazia e umanità che per esse sono diventati solo slogan da appiccicare sulle ali dei bombardieri.

 
 
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Da Belgrado: “se nel 1999 la Russia fosse stata quella di oggi”…

 
di Fabrizio Poggi, 25 Marzo 2019
 

Il 24 marzo 1999, il Segretario generale della NATO, il socialista spagnolo Javier Solana, ordinava al comandante delle forze NATO in Europa, il generale USA Wesley Clark, di avviare l’operazione “Allied Force” contro la Jugoslavia. Sottoposte ad attacchi aerei Belgrado, Priština, Užitse, Novi Sad, Kragujevats, Pančevo, Podgoritsa e altre città della Jugoslavia.

E’ sempre bene ricordare come anche il governo D’Alema, con il plauso delle forze “democratiche” italiane, partecipasse all’aggressione, in cui si calcola che siano stati lanciati tremila missili da crociera, circa 80mila tonnellate di bombe, comprese quelle a grappolo e con uranio impoverito, tanto che ancora oggi, su 7 milioni di popolazione, ci sono in Serbia 40mila malati di cancro e l’incidenza del male nei bambini è di 2,5 volte superiore alla media europea.

Secondo i dati serbi, i bombardamenti provocarono oltre mille morti tra i militari e 4mila civili, tra cui circa 90 bambini, con oltre diecimila feriti. La rivista russa “Vita internazionale” ricorda come i bombardieri NATO (di USA, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Canada, Turchia, Italia e Germania) decollati dalle basi in Italia, e i missili lanciati da navi e sommergibili della VI Flotta in Adriatico e Ionio, colpissero non solo obiettivi militari, ma soprattutto edifici residenziali, amministrativi e governativi, radio e giornali, scuole, ospedali, ponti, treni passeggeri e autobus, strutture industriali, chiese, mercati. Con l’inizio dell’aggressione, i terroristi albanesi lanciarono in Kosovo un attacco generale, equipaggiati con armamenti e le più recenti attrezzature di comunicazione satellitare, lasciate loro dalla missione OSCE, riparata in Macedonia prima dell’inizio dei bombardamenti.

All’epoca, i canali televisivi occidentali parlavano di colonne di rifugiati albanesi, “cacciati dal Kosovo dalle forze serbe” scrive “Vita internazionale”, quando in realtà “fuggivano dalle bombe NATO, che non distinguevano in base all’etnia: il 14 aprile, aerei NATO colpirono due volte un convoglio di profughi albanesi sulla strada Prizren-Đakovitsa, uccidendo più di 75 civili”.

bombardamenti sulla Jugoslavia sono un crimine contro l’umanità, scriv su News Front-Serbiail professor Zoran Miloševič (di sfuggita: inserito nella “lista nera” del sito nazista ucraino “Mirotvorets”): “L’aggressione della NATO capovolse verso occidente le politiche serbe e montenegrine, nel senso che iniziò il disfacimento dell’esercito e il trasferimento delle risorse economiche chiave, la penetrazione dei valori occidentali nel nostro sistema educativo, la subordinazione dei media”. 

In occasione dell’anniversario, il Ministero degli esteri russo ha rilasciato un comunicato in cui si afferma che la NATO “non aveva legittime basi per tali azioni: non un mandato ONU. Con quell’atto di aggressione si violarono i principi fondamentali del diritto internazionale sanciti dalla Carta ONU, dall’Atto finale di Helsinki e dagli obblighi internazionali degli Stati membri del blocco”. 

Mosca ricorda anche come, sostenuti dai “bombardamenti NATO, gli albanesi del Kosovo commettessero crimini mostruosi, pulizie etniche, distruzione di chiese, rapimento di serbi per il commercio di organi: tutti fatti rivelati dalla relazione del senatore svizzero Dick Marty all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del dicembre 2010”.

L’attuale Presidente dell’Ingušetija, Junus-Bek Evkurov, all’epoca maggiore paracadutista del GRU (l’intelligence militare) russo, tra i protagonisti della famosa “marcia-lancio su Priština” del 11 giugno 1999, con una ventina di uomini tenne sotto controllo l’aeroporto Slatina (quattro giorni fa è uscito nelle sale russe il film “Linea balcanica”, dedicato all’impresa) in attesa del battaglione russo dalla base SFOR in Bosnia-Erzegovina, che bruciò sul tempo una colonna corazzata britannica. Evkurov ricorda come della sua squadra facessero parte militari russi, “ma la maggioranza erano serbi, albanesi, croati. Persone di nazionalità diverse, di fedi diverse. Voglio sottolineare che c’erano molti albanesi, colpiti dalle azioni dei nazionalisti radicali albanesi e croati contro i civili”.

Se quel successo militare locale si fosse concretizzato in una volontà politica, dice Evkurov, forse ora la “situazione in Kosovo sarebbe diversa. Ma non è avvenuto. La Russia non era la stessa oggi; non aveva le stesse possibilità; i partner occidentali capivano che essa era fuori gioco e quindi si comportarono in modo così spudorato. Sono convinto che l’attuale politica estera venga condotta anche tenendo conto degli errori del 1999”.

Un anno fa, nel 19° anniversario dell’aggressione NATO, rispondendo alla domanda se questa si ripetesse oggi, a suo parere, la Russia interverrebbe nel conflitto, il Ministro degli esteri serbo Ivitsa Dačič aveva risposto: “Ne sono convinto. La Russia è in Siria su invito del governo siriano. Ora, immaginiamo come sarebbe andata la storia se nel 1999 fosse stato presidente Putin, la Russia fosse stata la stessa di oggi e la nostra leadership avesse chiesto aiuto”. 

E Andrej Medvedev scrive oggi su iarex.ru che “con l’esempio della piccola Serbia, l’Occidente ci ha mostrato cosa sarebbe successo a noi; solo una circostanza non ha loro permesso di condurci sullo scenario jugoslavo: l’arma nucleare. La Jugoslavia è un esempio di ciò che si fa con i deboli e gli indifesi; di ciò che accade a un paese con un leader debole e un’élite filo-occidentale”. 

D’altronde, per ricordare i legami, non solo ideali, tra serbi e russi, non è necessario andare troppo indietro nei secoli. Nei primi mesi del 1994, la Pravda pubblicava numerose lettere di volontari (militanti di formazioni nazionaliste russe, o veterani di Afghanistan, Transnistria, Abkhazija) che chiedevano informazioni su come entrare in contatto “con reparti russi che si battono nelle file dei difensori della Serbia”. 

Come ieri a Dubossary, si diceva, così oggi a Sarajevo o a Goradze, “si tratta di combattere contro l’aperto attacco a slavi e ortodossi”. La Pravda calcolava in circa tremila il numero di volontari – “non mercenari”, si sottolineava – che, con ripetute permanenze al fronte di tre-quattro mesi, combattevano in Bosnia a partire dall’estate del ’92 “per la fede ortodossa, per i fratelli serbi, per salvare il popolo serbo dal genocidio scatenato dalle bande musulmane e dai loro protettori americani”.

Lo scorso 18 marzo, il Presidente serbo Aleksandr Vučič ha dichiarato che la Serbia “può perdonare l’aggressione NATO, ma non può dimenticarla. Desideriamo buoni rapporti con la NATO, ma non vogliamo entrarvi”. La morte di oltre 90 bambini, ha detto, “è il simbolo di quell’orrendo crimine compiuto contro la Jugoslavia e il suo popolo”. La Tass ricorda come, un anno fa, i sondaggi indicassero che il 62% dei serbi non ha perdonato l’aggressione NATO e non accetterebbero nemmeno le scuse, mentre l’84% è contrario all’adesione all’Alleanza atlantica.

La politologa moscovita Elena Ponomareva dichiara che l’aggressione NATO del 1999 non fu che “la fase finale della strategia per il controllo totale dell’Occidente sui Balcani. La Casa Bianca aveva messo a punto i piani per la distruzione della Jugoslavia, come stato più ricco e strategicamente più importante della regione, molto prima del 1999. Nel 1984, l’amministrazione Reagan aveva emesso la direttiva NSC n. 133 per una “tacita rivoluzione” volta a rovesciare i governi comunisti e “far rientrare i paesi dell’Est europeo nell’orbita del mercato mondiale”. 

Poi, proprio “da Belgrado, nell’ottobre 2000, iniziò la serie delle “rivoluzioni colorate” nell’area postsovietica”. Di più: nella creazione dello “stato del Kosovo” sono confluiti gli “interessi del governo USA, delle multinazionali americane e quelli della mafia albanese e del terrorismo internazionale”. Per la Russia, afferma Ponomareva, la “lezione jugoslava” fornisce preziose informazioni, dato che la politica balcanica dell’Occidente riflette i suoi principi geopolitici e interessi più profondi, in cui non c’è posto per la Russia, né per la Serbia, né altri paesi che abbiano una visione autonoma del proprio futuro”. 

Pochi giorni fa, il sito colonelcassad riportava la testimonianza dell’ex agente della CIA Robert Baer al giornale bosniaco WebTribune, secondo cui negli anni 1991-’94 la sua sezione disponeva di milioni di dollari per le attività in Jugoslavia, in particolare per finanziare ONG e partiti di opposizione, a favore della secessione delle varie repubbliche. 

La prima operazione, dice Baer, fu nel gennaio ’91, contro “presunti terroristi serbi” a Sarajevo, che avrebbero dovuto “contrastare le ambizioni separatiste bosniache. Ma tale gruppo di terroristi non esisteva affatto” e Baer sostiene di esser stato “ingannato dai vertici della CIA, che miravano ad attizzare gli odii interetnici in Jugoslavia; si doveva scegliere un capro espiatorio da incolpare di guerra e violenza: fu scelta la Serbia, in qualche modo successore della Jugoslavia”. Alla domanda su quali esponenti bosniaci fossero al soldo della CIA, Baer fa i nomi di “Stipe Mesič, Franjo Tudžman, Alija Izetbegovič”, ma anche “molti funzionari e membri del governo in Jugoslavia, generali serbi, giornalisti, ecc.; per qualche tempo pagammo anche Radovan Karadžič, ma lui smise di prendere soldi quando capì di poter essere sacrificato e accusato dei crimini in Bosnia, organizzati in realtà dall’amministrazione statunitense”. 

A proposito di Srebrenitsa, Baer afferma che il “numero delle vittime serbe non fu inferiore a quello di altre nazionalità, ma Srebrenitsa doveva essere un “marketing politico”. Un mese prima del presunto genocidio, il mio boss disse che la città sarebbe stata la principale notizia in tutto il mondo e ci ordinò di contattare i media. Srebrenitsa ricade su bosniaci, serbi e americani; ma, di tutto furono accusati i serbi. Molte delle vittime sepolte come musulmani erano serbi e di altre nazionalità. Alcuni anni fa, un altro ex agente della CIA che ora lavora per il FMI, ha affermato che Srebrenitsa fu il risultato di un accordo tra il governo USA e i politici bosniaci. Srebrenitsa fu sacrificata per dare all’America il pretesto per attaccare i serbi: fu la “linea rossa” di Bill Clinton”.

La giustificazione ufficiale dell’aggressione del 1999 continua a essere quella della “difesa della popolazione albanese del Kosovo”, ma lo scorso ottobre, il Segretario generale NATO, Jens Stoltenberg, ammise candidamente che essa fu compiuta “per prevenire ulteriori azioni del regime di Miloševič”, fatto morire in carcere nel marzo 2006. Sono “giustificazioni abbastanza risibili” aveva commentato la storica russa Irina Rudneva, che “risuonano da venti anni. Ogni volta, cercano di convincere i serbi che tutto è stato fatto per il loro bene. Iniziarono con la frase “catastrofe umanitaria”; poi cominciarono a dire che lo avevano fatto per salvare gli albanesi. E ora viene effettivamente espressa la versione secondo cui USA e loro alleati avevano semplicemente deciso di rimuovere Miloševič con la forza e sostituirlo con un altro, più adatto”.

Oggi, a distanza di 20 anni, allorché si fanno sempre più sfacciate le manovre CIA per una “rivoluzione colorata” a Belgrado e la NATO insiste sulla “legittimità” e “necessità” dell’aggressione del 1999, nessuno crede a una casualità nella trasformazione in ergastolo, decisa proprio ora, della precedente condanna a 40 anni inflitta nel 2016 all’ex Presidente della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina, il 74enne Radovan Karadžič, accusato dal cosiddetto tribunale de L’Aja di genocidio nei confronti di musulmani bosniaci a Srebrenitsa nel 1995.

 

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