Proseguendo il nostro impegno (si veda qui e qui) nel contrastare le narrazioni mistificatorie che il Giorno del Ricordo porta ogni anno alla ribalta, proponiamo un’intervista alla storica Claudia Cernigoi, da anni in prima linea in quella che possiamo definire senza mezzi termini una vera e propria battaglia culturale contro il revisionismo storico delle “verità ufficiali” sulle foibe e i crimini italiani al confine orientale. Claudia Cernigoi, giornalista e ricercatrice storica indipendente, da diversi anni si occupa delle vicende riguardanti il confine orientale, soprattutto durante il secondo conflitto mondiale. Fra i suoi saggi ricordiamo: “Operazione foibe. Tra storia e mito”1, “La ‘banda Collotti’. Storia di un corpo di repressione al confine orientale d’Italia”2, “Operazione Plutone. Le inchieste sulle foibe triestine”3e altri; inoltre, cura insieme ad Alessandra Kersevan, Alessandro Volk e altri, l’importante sito di documentazione relativo alle foibe e i crimini italiani al confine orientale DieciFebbraio. Con lei proveremo – oltre a chiarire le questioni salienti della propaganda ufficiale sulle foibe – ad ampliare lo sguardo verso il lavoro del ricercatore in un clima di generale mistificazione della memoria e revisionismo storiografico, spesso dettato dall’anticomunismo, e di come quest’ultimo necessiti una inequivocabile opposizione da parte di chi si propone di cercare la verità storica nei fatti reali e non nelle idee preconfezionate.
La narrazione relativa alle foibe, a livello nazionale, si muove sulla traccia di un costante “fare chiarezza”. La retorica dalla quale muove è che determinati eventi nel corso della storia italiana siano stati coscientemente insabbiati o distorti da determinate parti politiche (di sinistra) e che solo ora sia possibile fare chiarezza. Pensando a lavori di “divulgazione” diventati popolari come quelli di Pansa, Vespa, etc., ciò che emerge è un tentativo di “processare la resistenza” che sarebbe stato impensabile fino a qualche decennio fa. In questo senso, è possibile rintracciare uno schema comune che ci permetta di leggere tale fenomeno di processo alla resistenza e all’antifascismo in generale anche in relazione alla narrazione revisionista e irredentista, ora istituzionale, sulle foibe? E, se sì, da quando possiamo definirlo in atto?
Va premesso che quanto risulta dai più recenti lavori di “divulgazione”, come quelli citati di Pansa e Vespa – ma io aggiungerei anche quelli di Gianni Oliva e persino di colui che viene considerato, anche dalla maggioranza degli antifascisti, lo storico più attendibile in materia di foibe, e cioè Raoul Pupo – non fa sostanzialmente che riprendere quanto fino agli anni ’90, e da più di quarant’anni, era stato patrimonio della propaganda della destra anticomunista e spesso neofascista, e cioè la definizione di “infoibati”. Essa comprende sia i civili vittime di vendette personali, sia i militari ed i gerarchi fascisti uccisi nel corso del conflitto (o subito dopo, in seguito a processi celebrati nei tribunali militari jugoslavi), partendo dal presupposto antistorico e del tutto mistificante che nega alla Jugoslavia il ruolo che ebbe di potenza alleata, e di conseguenza non riconosce che gli jugoslavi avevano il pieno diritto, al pari degli altri Alleati, di arrestare i presunti criminali di guerra e di internare i militari nei campi di prigionia. In questo modo si è potuto trasformare quello che fu un “normale” fenomeno bellico e post-bellico – tutte le forze alleate fecero prigionieri ed uccisero militari nemici, ed i partigiani in tutta Europa uccisero i nazifascisti, e le giustizie sommarie alla fine del conflitto non avvennero solo al confine orientale d’Italia –in un “crimine” ai danni del popolo italiano, attribuendo agli jugoslavi, spesso sbrigativamente e con disprezzo definiti “titini”, la volontà di annientare la presenza italiana in territori multilingue, e comunque di voler perseguitare tutti gli oppositori politici, non solo i fascisti. Una volta accettata questa visione falsata della storia del confine orientale, è facile allargare al movimento comunista in genere, e poi a tutta la Resistenza di classe italiana, la condanna per avere condotto in prima persona una lotta armata che non fu solo di liberazione ma anche per un riscatto sociale, invece di attendere la “liberazione” dagli eserciti angloamericani. La condanna della Resistenza jugoslava è stata il grimaldello che ha permesso la successiva campagna di criminalizzazione della lotta di liberazione in Italia, con l’amplificazione e l’esagerazione del fenomeno degli episodi di giustizia sommaria avvenuti nel dopoguerra, e addirittura (come nei testi di Pansa) della riabilitazione dei militi fascisti che furono uccisi dai partigiani nel corso del conflitto. In quanto tali, questi atti di lotta armata vengono visti come crimini comuni e non come azioni commesse durante una guerra che non fu, peraltro, iniziata dai comunisti né dai partigiani, ma imposta dall’imperialismo nazifascista.
Lei ha portato avanti nel corso degli anni una ricerca che si può definire “impopolare” per quanto attiene al comune discorso mediatico, tra l’altro, provenendo proprio da Trieste, città che fu parte degli avvenimenti su cui lei ha concentrato la sua ricerca. Ha mai incontrato da parte del mondo accademico e istituzionale ostilità politica al suo lavoro?
Da parte del mondo accademico ho trovato, più che ostilità soprattutto censura, vengo ignorata. I miei libri non vengono inseriti nelle bibliografie (neppure Eric Gobetti ha ritenuto di farlo, nel suo ultimo lavoro), se non per indicarli come “negazionisti” o “riduzionisti e giustificazionisti”. Le mie ricerche sui crimini commessi dalla formazione repressiva fascista, poi collaborazionista con i nazisti, Ispettorato Speciale di PS – cui ho dedicato un libro, “La Banda Collotti”, pubblicato nel 2013, nel quale ho ricostruito anche, in parte, la storia della resistenza a Trieste e dintorni – vengono sistematicamente ignorate, nonostante sia stata la prima e l’unica ad avere fatto uno studio organico sull’argomento. E non mi dilungo sulle minacce, anche di morte, ricevute da diversi “anonimi” e sulle campagne di denigrazione attivate nei miei confronti da settori sia chiaramente fascisti, sia facenti riferimento agli ambienti dell’associazionismo degli esuli istriani, sviluppatesi a livello di stalking mediatico in un modo francamente inaccettabile in un consesso democratico, ma che non hanno prodotto, nella “società civile”, reazioni neanche minimamente simili alla solidarietà che ho visto espressa in questi giorni a Giorgia Meloni anche da settori dell’antifascismo.
Nel 2019 lei è stata censurata da Facebook, che ha chiuso la pagina della rivista “La nuova alabarda“, a poca distanza dall’uscita del suo “Operazione Plutone”. Si trattava di un libro così scomodo da provocare quel tipo di reazione? Su che basi è stata giustificata questa censura, come valuta questo clima nei confronti di chi, dati alla mano, cerca di contrastare le narrazioni tossiche in campo storiografico diventate ormai verità ufficiali; si può parlare di una sorta di “caccia alle streghe” verso chi non accetta la vulgata comune sulla vicenda delle foibe?
Debbo chiarire una cosa. È vero che sono stata più volte “segnalata” in modo massiccio dai miei “detrattori”, questo fatto ha causato il blocco delle mie pagine Facebook per diversi mesi, blocco attivato grazie ad un modo del tutto pretestuoso: dato che per fare informazione antifascista mi era capitato di postare anche foto di simboli fascisti o di CasaPound, l’algoritmo di Facebook non sembra essere in grado di distinguere tra chi pubblica simboli fascisti per fare apologia e chi li pubblica per antifascismo. Questo ha causato la chiusura della mia pagina personale nell’ottobre dell’anno scorso (con la perdita di moltissimi articoli che avevo pubblicato, per fortuna la maggior parte ancora reperibili, al di fuori di Facebook, nel sito DieciFebbraio). La cancellazione della pagina della Nuova Alabarda invece non è stata causata dalle mie ricerche storiche, ma perché avevo pubblicato nel giorno del Newroz (il capodanno curdo), gli auguri con i colori del Kurdistan, e Facebook censura regolarmente tutto ciò che ha a che fare con la resistenza del popolo curdo. Quindi non posso dire che vi sia stato un collegamento tra questa censura con “Operazione Plutone”, anche se nel periodo in cui ho girato l’Italia per presentare il libro ho dovuto subire pesanti attacchi da parte di persone legate all’Unione degli Istriani. Costoro scrivevano alle amministrazioni delle città in cui dovevo parlare per chiedere che mi venisse negata la sala dove avrebbe dovuto avere luogo le presentazioni (si veda, per esempio, qui e qui – ndr). Richieste, queste, che spesso venivano accolte, per cui gli organizzatori hanno dovuto trovare posti alternativi all’ultimo momento, per permettere lo svolgimento dell’iniziativa. Analogamente ho dovuto subire, in più di una occasione, anche una sorta di “assedio” di militanti neofascisti davanti alle sale in cui parlavo. Per valutare la “pericolosità” del mio libro cito come esempio uno dei giornalisti più “scatenati” sui temi delle foibe e dell’esodo, autore di svariata pubblicistica disinformativa: Fausto Biloslavo de Il Giornale. Biloslavo ha definito “negazionista” anche “Operazione Plutone” perché in esso dimostro che i responsabili dell’unico vero e proprio eccidio (18 persone uccise) con infoibamenti a Trieste nel maggio ’45 non furono né jugoslavi né comunisti, ma criminali comuni italiani (alcuni dei quali ex-collaborazionisti), che si erano infiltrati nella Guardia del Popolo e che furono poi anche arrestati dalle autorità jugoslave. Il solo fatto di avere dimostrato che gli “slavocomunisti” in questo contesto non fossero colpevoli di “infoibamenti” viene quindi considerato “negazionismo” da chi non fa storia ma propaganda. Devo anche aggiungere l’assordante silenzio su questo libro da parte degli storici accademici e dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia stessa, a dimostrazione che su questi argomenti non interessa fare ricostruzione storica portando elementi nuovi per comprendere come si svolsero gli eventi, ma solo ribadire, parlando quindi di politica e non di storia, che bisogna condannare aprioristicamente il cosiddetto “fenomeno delle foibe”, senza cercare di conoscere meglio i fatti.
Da anni, lei, insieme a chiunque provi ad approcciarsi al tema delle foibe in maniera divergente rispetto alla narrazione istituzionale – si pensi ad Alessandra Kersevan, Sandi Volk, da ultimo Gobetti e altri ancora – è stata spesso oggetto di attacchi da parte di giornali e di minacce ricevute da ambienti dell’estrema destra italiana. Ha notato un aggravarsi della situazione dopo l’istituzione del cosiddetto “Giorno del Ricordo”? La legittimazione inevitabilmente fornita dalle istituzioni, con questa celebrazione, alla narrazione dell’estrema destra, ha portato sul piano politico ad un pericolo maggiore, anche a livello di sicurezza personale, nel condurre il lavoro di ricerca? Se sì, ha incontrato solidarietà per gli attacchi personali ricevuti?
Dopo l’istituzione del Giorno del Ricordo l’argomento “foibe” è diventato una specie di, passatemi il termine, gallina dalle uova d’oro per autori ed editori. Ad un certo punto si sono moltiplicate, in modo oserei definire abnorme, le pubblicazioni sull’argomento: articoli, libri, spettacoli teatrali, addirittura una “graphic novel” sulla storia di Norma Cossetto. Giornalisti o semplici opinionisti, privi di preparazione storica, si sono sentiti autorizzati a scrivere di “foibe”, basandosi sostanzialmente sul mero “copiaeincolla” dalle vecchie pubblicazioni di propaganda, reperibili in rete, e la pubblicistica sull’argomento è ormai diventata una montagna di testi che presentano tutti le stesse informazioni, per lo più sbagliate. Infatti, se il primo ad essere citato ha scritto una cosa falsa, le decine di opere che lo citano acriticamente continuano a diffondere notizie false, che, però, data la ricchezza di produzione sull’argomento, sono diventate patrimonio della cultura generale, nonostante la maggior parte di esse sia stata da noi smentita già vent’anni fa.
Parlo della questione della “foiba” di Basovizza, monumento nazionale, dove si dice tutt’oggi che furono “infoibate” centinaia di persone, anche se noi abbiamo pubblicato, vent’anni fa, i documenti che dimostrano che in quel luogo non avvenne alcun massacro.
Parlo, inoltre, della questione del “sopravvissuto alle foibe”: Graziano Udovisi, che ancora oggi viene citato come testimone per dimostrare come avvenivano gli “infoibamenti”, nonostante in un testo pubblicato sempre dalla Kappa Vu, “La foiba dei miracoli”, siano smentite tutte le dichiarazioni di questa persona, che s’è inventato di sana pianta quanto ha narrato. Oppure, ancora, del caso di Norma Cossetto, che si dice essere stata torturata e stuprata prima di venire infoibata ancora viva, nonostante non esista alcuna testimonianza né alcun documento a riguardo, ma soltanto affermazioni per sentito dire, nate probabilmente da dicerie di paese e dei familiari, che sono nel tempo diventate “verità rivelate” in spregio delle più elementari norme di deontologia storiografica.
Ovvio che in tale contesto, quando ci si mette a lottare contro un mainstream composto di bufale, chi si vede contraddetto in base ad argomentazioni valide a fronte delle sue falsità, non può che controbattere in modo aggressivo e non con il dialogo. Perciò ho subito (e continuo a ricevere messaggi intimidatori ed offensivi) le minacce di cui ho parlato prima. Solidarietà, invece, ne ho ricevuta soprattutto da singoli che mi stimano e dalle associazioni della stampa, ma non dagli istituti storici e dall’ANPI nazionale, mentre ne ho ricevuta da singole sezioni dell’ANPI, con cui ho collaborato (fuori Trieste).
Negli ultimi tempi il revisionismo storico in chiave anticomunista, che in Italia vede nella questione foibe uno dei suoi cavalli di battaglia, si sta affermando sempre di più anche a livello internazionale. Se in Italia personaggi fascisti, che subirono la giustizia partigiana e jugoslava per i loro crimini, vengono ricordati fra le vittime delle foibe oppure insigniti con riconoscimenti (come per il prefetto di Zara Serrentino), cose non molto dissimili accadono in Europa. Dall’equiparazione nazismo-comunismo votata al Parlamento europeo al più eclatante caso dell’Ucraina, dove i collaborazionisti fascisti delle SS Galizia e i loro caporioni non solo vengono equiparati ai soldati dell’Armata Rossa, con tanto di pensioni e trattamenti da veterani (torna alla mente la richiesta di certi ambienti di destra di voler equiparare ufficialmente repubblichini e partigiani), ma sono stati anche pienamente riabilitati con tanto di monumenti, strade intitolate e conferimento delle più alte onorificenze. Per giustificare l’ultra-nazionalismo contemporaneo e i nazifascisti locali è in corso una “decomunistizzazione” che non lascia scampo nemmeno alla memoria degli eroi dell’Armata Rossa. In questo senso quale pericolosità può rivestire l’uso disinvolto delle manipolazioni storiche – dall’equiparazionismo alla riabilitazione manifesta del fascismo – soprattutto a fini politici?
È un’operazione molto pericolosa, perché continuando a criminalizzare gli antifascisti per ciò che hanno fatto nei confronti dei nazifascisti, è ovvio che alla fine i nazifascisti appaiano come vittime e gli antifascisti carnefici, al di là di qualunque coerenza storiografica; come se la Resistenza non fosse stata la conseguenza logica del fascismo e delle guerre di aggressione italiane e della conseguente occupazione nazista dei territori all’epoca italiani.
L’operazione di conferimento di riconoscimenti agli “infoibati”, contenuta nella legge sul Giorno del ricordo, ha già di fatto non solo riabilitato, ma elevato a rango di “eroi”, anche per la Repubblica “nata dalla Resistenza”, centinaia di persone che combatterono per il Reich e per Salò e, nel caso di Serrentino, anche un criminale di guerra che avrebbe dovuto essere processato e condannato dallo stesso stato italiano.
Vorrei ricordare che Vincenzo Serrentino era stato anche giudice a latere del Tribunale Straordinario della Dalmazia, cui si devono una serie di condanne con esecuzioni capitali prive di qualsivoglia rigore giuridico, e che l’altro giudice a latere era Pietro Caruso che divenne questore di Roma sotto l’occupazione nazista e fu poi condannato a morte e fucilato. Quale reazione avrebbero gli antifascisti se anche Pietro Caruso venisse onorato post-mortem come il suo collega Serrentino?
Inoltre accade sempre più spesso che si proponga di dare anche un riconoscimento toponomastico a combattenti fascisti repubblichini in base al fatto che sono stati “premiati” nel Giorno del Ricordo, in quanto uccisi dagli jugoslavi, sia pure in azioni di guerra (chi conferisce queste onorificenze non fa alcun distinguo in merito). Anche qui vediamo come la legge sul Giorno del ricordo serva da apripista per la riscrittura della storia a scopo di riabilitazione del nazifascismo.
Ed in effetti è molto grave e preoccupante quanto accade in tutta Europa, con l’equiparazione del comunismo al nazismo – vorrei osservare che di fascismo si tende a non parlare, nonostante Mussolini abbia anticipato Hitler di molti anni – portata avanti anche da taluni settori che pure si dichiarano “antifascisti”. A ciò si aggiunge la richiesta di messa fuori legge del comunismo, e la contemporanea minimizzazione del pericolo nazifascista, in quanto è invalso l’uso di dire che “l’antifascismo è inutile in quanto non esiste più il fascismo” – argomento caro ai neofascisti, ma ripreso anche da Diego Fusaro ed i suoi seguaci.
Tornando al tema della domanda bisogna dire che: una volta aperto un vaso di Pandora come questo è praticamente impossibile tornare indietro, a meno di abrogare la legge sul Giorno del Ricordo ed invalidare ogni onorificenza conferita in base ad essa.
Quali sono a suo avviso le contromisure da adottare in questa vera e propria battaglia culturale? L’attività che svolge da anni insieme ad altri studiosi come Alessandro Volk e Alessandra Kersevan nella cura del sito DieciFebbraio, dedicato proprio all’informazione sulla questione del confine orientale italiano, rientra in questa battaglia che è innanzi tutto una battaglia di verità?
Non a caso il gruppo di cui faccio parte si chiama (l’idea è stata di Alessandra Kersevan) “Resistenza storica”, che è anche il nome della collana della Kappa Vu in cui vengono pubblicati i nostri studi. Il nostro è appunto un lavoro di resistenza, praticamente una guerriglia culturale che contrappone lo studio e la divulgazione di documenti, assieme ad analisi il più possibile rigorose, alla sempre più pressante campagna stampa basata su falsi storici elevati a verità in quanto condivisi nei discorsi ufficiali del Giorno del Ricordo, ad iniziare da quelli tenuti dai presidenti Napolitano prima e Mattarella poi.
In pratica la nostra battaglia di verità, basata sui fatti, si scontra con una concezione ormai condivisa a livello generale, e cioè che la verità storica è quella sancita dalla politica e non quella che risulta dalla ricerca.
Riuscire a spezzare questa deriva storicistica è molto difficile. Non abbiamo i mezzi economici né l’esercito di leoni da tastiera che si mobilitano sui social a sostegno delle organizzazioni propagandistiche di cui ho parlato prima. Inoltre, a causa della pandemia, è impossibile organizzare eventi in presenza in modo da coinvolgere più persone possibile per illustrare le nostre ricerche. Stiamo cercando, quindi, di potenziare la visibilità del sito DieciFebbraio, abbiamo partecipato ad alcuni dibattiti in streaming, tuttora visibili in rete. Sul web sono anche presenti diversi video che riprendono le nostre conferenze e presentazioni (segnalo il mio canale Youtube “Claudia Cernigoi”). Né si ferma la nostra produzione di testi: sono in fase di pubblicazione sia un mio studio sulla vicenda di Norma Cossetto, sia l’atteso libro di Alessandra Kersevan sui fatti di Porzus. È vero che, dovendo fare guerriglia culturale contro un regime di disinformazione, le armi sono un po’ come quelle di Davide contro Golia, ma devo ammettere che nei commenti dei lettori sui social vedo sempre più spesso condivise le nostre posizioni critiche; e ciò significa che, almeno un po’, abbiamo incrinato questa congiura del silenzio nei confronti nostri e della verità storica.
1 Claudia Cernigoi, Operazione foibe. Tra storia e mito, Edizioni Kappa Vu, Udine, 2005
2 Claudia Cernigoi, La “banda Collotti”. Storia di un corpo di repressione al confine orientale d’Italia, Edizioni Kappa Vu, Udine, 2013
3 Claudia Cernigoi, Operazione Plutone. Le inchieste sulle foibe triestine, Edizioni Kappa Vu, Udine, 2018