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Antipolitika i skepticizam u vezi sa vakcinacijom u bivšim socijalističkim zemljama
 
1) Mladen Kovačević: Priča o epidemiji variole vere i danas je relevantna / Jugoslavia e vaiolo: un documentario, il presente. "Un'altra primavera" [Još jedno proleće] del regista Mladen Kovačević racconta come la Jugoslavia socialista vece fronte ad un'epidemia di vaiolo (Željko Luketić, 27/07/2022)
 
2) COVID-19 : pourquoi les pays d’Europe de l’Est sont-ils réfractaires à la vaccination ? / Socijalističko nasljeđe nije uzrok niske stope vakcinacije na istoku (Bilten | Par Vuk Vuković | vendredi 24 décembre 2021)

 
Vedi anche i seguenti FLASHBACKS:
 
na JUGOINFO-u:
[9264] "This is Our Backyard!" (I+II) (22 Novembre 2021)
[9219] Koronavirus (5 Marzo 2021)
 
VACCINI: L'AUTOGOL DELL'UE DELUDE I BALCANI (04/03/2021 -  Željko Pantelić)
Chi più si era affidato al programma di approvvigionamento dell'Unione europea rimane ora come fanalino di coda nei programmi di vaccinazione. I paesi dei cosiddetti Balcani occidentali si sentono abbandonati dall'Europa in un momento quanto mai drammatico
 
još na JUGOINFO-u:
[9152] Covid-19 na Balkanu (15 Maggio 2020)
[9143] Otto aerei di aiuti dalla Serbia all'Italia per il coronavirus (25 Aprile 2020)
[9135] Koronavirus (31 Marzo 2020)
 
 
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na hrvatskosrpskom:
Mladen Kovačević: Priča o epidemiji variole vere i danas je relevantna (Željko Luketić, 27/07/2022)
... "Još jedno proleće" govori o epidemiji velikih boginja u Jugoslaviji 1972. godine, epizodi socijalističke povijesti koja je danas opet globalno aktualna...
 
 
 
Jugoslavia e vaiolo: un documentario, il presente
 

"Un'altra primavera" [Još jedno proleće] del regista Mladen Kovačević racconta come la Jugoslavia socialista vece fronte ad un'epidemia di vaiolo. E fa riflettere sul momento presente, sulle pandemie, sul crollo di fiducia nelle istituzioni

12/08/2022 -  Željko Luketić

(Originariamente pubblicato da Novosti  , il 27 luglio 2022)

Dopo aver visto Još jedno proleće  [Un’altra primavera], una domanda sorge spontanea: perché sembra che dobbiamo ancora spiegare a certe persone che il vaiolo è la prova più tangibile del progresso della medicina, ossia dell’efficacia dei vaccini? Come mai oggi, nell’era dei social, siamo giunti al punto di dover discutere nuovamente di dati scientifici comprovati, cercando di liberarci dalle grinfie degli algoritmi di Facebook e Twitter che alimentano determinate convinzioni?

Non ho nulla contro discussioni informate, ritengo però problematico uno scambio di opinioni tra esperti e dilettanti, in cui questi ultimi sembrano più sicuri di sé rispetto agli esperti. La necessità di mettere tutto in dubbio e poi di prendere in considerazione quelle che, in un dato momento, sembrano essere le spiegazioni migliori, è l’essenza dell’approccio scientifico.

Ad esempio, è un dato di fatto che [allo scoppio dell’epidemia di vaiolo in Jugoslavia] il vaccino contro il vaiolo, seppur non privo di rischi, era in uso ormai da cent’anni e la sua efficacia era ormai comprovata, a differenza dei vaccini anti-Covid, che, oltre ad essere meno efficaci, sono anche meno affidabili. Ma anziché un dibattito finalizzato allo scambio di conoscenze in modo da poter sviluppare un vaccino più efficace e garantire una distribuzione migliore, più equa del vaccino, magari avviando al contempo anche un dibattito più ampio sul funzionamento delle istituzioni, oggi prevalgono ipotesi infondate che nel discorso pubblico hanno assunto un’importanza paragonabile a quella delle teorie scientifiche e delle opinioni degli esperti.

È chiaro che l’ampliamento della sfera pubblica, come conseguenza dell’utilizzo massiccio di Internet, e la tendenza a chiudersi all’interno delle bolle create dagli algoritmi, stanno avendo un impatto sull’umanità destinato a durare nel tempo, e quindi ci troviamo a dover discutere, tra l’altro, anche il concetto di post-verità. Credo però che il problema non stia tanto negli individui quanto nelle istituzioni e nella politica che le governa. Il film Un’altra primavera mette in luce proprio questo aspetto.

Riesce ad immaginare cosa sarebbe accaduto se durante l’epidemia di vaiolo in Jugoslavia qualcuno avesse avviato un dibattito sugli effetti nocivi del vaccino? L’obbligo di vaccinazione fu stabilito dalla legge e, contrariamente alla prassi consueta, nemmeno le donne in gravidanza ne furono esentate...

Ci si fidava delle istituzioni, che non erano certo perfette, ma sicuramente erano migliori di quelle attuali. All’interno delle istituzioni jugoslave furono gli esperti a prendere decisioni e nessuno dubitava che quelle decisioni fossero state adottate per il bene comune. Alcune delle decisioni si rivelarono impopolari e chi le aveva prese ne era consapevole, ma, seppur impopolari, erano basate sui fatti.

Per quanto riguarda le donne in gravidanza e il vaccino contro il vaiolo, si era giunti alla conclusione che i rischi connessi alla vaccinazione erano di gran lunga inferiori ai rischi di contagio. Parliamo delle regioni in cui la probabilità di contagiarsi era molto alta. La decisione [di estendere l’obbligo vaccinale alle donne in gravidanza] fu presa a seguito delle consultazioni con l’Organizzazione mondiale della sanità, basandosi su un’attenta analisi dei dati disponibili. Lo stesso valse per i neonati. Durante l’epidemia del 1972 il tasso di mortalità dei neonati non vaccinati aveva raggiunto il 67%.

Nonostante nel film lei abbia raccontato entrambe le fasi dell’epidemia del 1972 – la fase iniziale, immediatamente successiva allo scoppio dell’epidemia, in cui le autorità si erano mosse in modo confuso, e poi la campagna vaccinale nel corso della quale furono vaccinati quasi 18 milioni di cittadini jugoslavi – si ha l’impressione che abbia prevalso l’idea di un programma di eradicazione della malattia basato su decisioni informate, efficace e regolato dalla legge...

Per quanto riguarda la fase iniziale dell’epidemia del 1972, si può rimproverare molto alle autorità jugoslave, soprattutto il fatto di essersi rese conto della presenza del virus solo un mese dopo la comparsa del primo caso nel paese, permettendo così che per un intero mese il virus si diffondesse indisturbato. Tralasciando la questione relativa ai cambiamenti nella distribuzione dei poteri e i controlli meno efficaci, quella svista può essere spiegata col fatto che erano trascorsi ormai quarantanni dall’ultimo caso di vaiolo nel paese, nessuno si aspettava che il virus potesse ricomparire, anche i medici non si ricordavano più come si manifestava.

Tuttavia, dal momento della scoperta della presenza del virus nel paese, le reazioni delle istituzioni, a tutti i livelli, hanno superato ogni aspettativa e la vicenda è entrata negli annali della storia della medicina mondiale come esempio di una lotta efficace contro l’epidemia. Oggi, invece, a determinare le opinioni personali, ma anche le decisioni istituzionali, sono la relativizzazione della scienza, l’incapacità, la corruzione e il timore dei politici di perdere popolarità.

Lei aveva già utilizzato materiale d’archivio nel suo film 4 godine u 10 minuta   [Quattro anni in dieci minuti] del 2018. Nel suo nuovo film il materiale d’archivio diventa un elemento dominante, tanto che, dal punto di vista estetico, potremmo definire Un’altra primavera un documentario sperimentale found footage...

Nel film Quattro anni in dieci minuti avevo utilizzato alcuni materiali privati [appartenenti al protagonista del film] che erano rimasti chiusi nel cassetto per diciotto anni. Nemmeno il protagonista aveva visto il materiale montato prima della première del film. Invece il materiale, girato su pellicola, utilizzato nel film Un’altra primavera, è custodito nell’archivio della Radiotelevisione della Serbia, e per l’occasione è stato trasferito per la prima volta su un supporto digitale. Per me è stato un privilegio poter lavorare su questi materiali.

In entrambi i casi, il materiale è stato reinterpretato in modo da poterlo innestare nella logica interna del film, rimanendo, al contempo, fedele alla verità sostanziale in esso contenuta. Nel film Quattro anni in dieci minuti ho utilizzato il fermo immagine, sovrapponendovi alcuni frammenti tratti da un diario [del protagonista], mentre nel nuovo film le scene d’archivio sono state riprodotte in slow motion per farle apparire come ricordi, perché la narrazione viene costruita attraverso le reminiscenze intime del professor Zoran Radovanović. L’unica eccezione è rappresentata dalle interviste e dai servizi televisivi d’epoca – che ci permettono di leggere gli eventi del 1972 in una prospettiva sincronica – dove non siamo intervenuti in alcun modo né sui suoni né sulla immagini. Lo slow motion sottolinea l’incombente atmosfera da thriller, la minaccia rappresentata da una malattia terrificante. L’idea era quella di realizzare gli interventi che discendessero organicamente dal materiale d’archivio utilizzato e dalla tensione drammaturgica che permea l’intero film.

Trovo curiosa la sua decisione di non far vedere mai il narratore, l’epidemiologo Zoran Radovanović. Lui parla con voce pacata, esponendo vari dettagli, ma non lo vediamo mai...

Inizialmente pensavo di inserire nel film anche alcuni frammenti della vita quotidiana del professor Radovanović durante la pandemia. Criticando l’operato delle istituzioni e l’intera gestione della pandemia, Radovanović era diventato una voce molto presente nel dibattito pubblico, voce che i cittadini ascoltavano, in cerca della verità, finendo però per essere praticamente bandito dai media statali. Tuttavia, man mano che il montaggio del film e la pandemia avanzavano, un ancoraggio letterale al presente iniziava ad apparire superfluo. Quindi, abbiamo deciso di situare ogni elemento narrativo al passato, l’unico legame con il presente è la voce del vecchio professore che ricorda gli eventi accaduti all’inizio della sua carriera scientifica. Credo che la storia dell’epidemia di vaiolo in Jugoslavia sia rilevante anche al di fuori dell’attuale momento storico.

Nel film lei non ha esitato a mostrare alcune immagini esplicite dei pazienti colpiti da vaiolo e di persone sfigurate a causa delle cicatrici. Questo approccio è principalmente finalizzato a scioccare o a informare gli spettatori?

Non ho un’idea chiara di cosa si debba mostrare, non so nemmeno se le scene che ci lasciano stupiti e sconcertati possano anche educarci. Non so se qualcuno possa cambiare il proprio atteggiamento nei confronti della salute pubblica dopo aver osservato a lungo le immagini delle malattie infettive. Negli anni Novanta sui nostri schermi si susseguivano continuamente le scene di guerra terrificanti, ma ciò non era bastato a spingerci verso la pace.

Tuttavia, in un film che contiene elementi di un thriller medico, se non addirittura di un horror, è necessario ricorrere a immagini esplicite per dare corpo all’esperienza cinematografica, che per me è sempre più importante della trama. Così lo spettatore può riflettere e discutere, ispirato dall’esperienza cinematografica, allo stesso modo in cui riflette e discute di un’esperienza realmente vissuta.

Anche il film Variola Vera  di Goran Marković del 1982, dedicato all’ultima grande epidemia di vaiolo in Europa, è rimasto impresso nella memoria collettiva dei popoli dell’ex Jugoslavia. Questo film ha influito in qualche modo su di lei durante la realizzazione di Un’altra primavera?

Variola Vera di Goran Marković è un grande film, ormai diventato un cult. Credo però si tratti di un cinema di genere, di una metafora e, al contempo, una critica della società, mentre Un’altra primavera, pur basandosi sui ricordi di uno dei protagonisti della vicenda, è dopotutto un racconto fattografico. Dal momento che le circostanze sono cambiate, è cambiata anche la prospettiva, quindi la reazione delle istituzioni e dell’intera società jugoslava oggi appare come qualcosa a cui aspirare. Questo ovviamente senza voler paragonare i due film così diversi tra loro, le due malattie e i due vaccini, bensì limitandosi a mettere a confronto lo stato di allora e quello attuale, la società di allora e quella attuale.

Vi è però un altro aspetto che accomuna i due film: una musica elettronica sperimentale molto dark. La musica per il film Variola Vera fu composta da Zoran Smijanović, mentre la colonna sonora del suo film è firmata dall’ormai mitico Studio elettronico di Radio Beograd. Mi sembra una collaborazione del tutto naturale...

Si tratta di musica contemporanea, a comporla è stato Jakov Munižaba, a cui è stato affidato anche il sound design del film. La musica è stata registrata nello Studio elettronico di Radio Beograd ed è stata eseguita sullo stesso sintetizzatore analogico Synthi 100 sul quale fu eseguita anche la musica sperimentale jugoslava che abbiamo utilizzato durante il montaggio del film, fedeli all’idea che tutti gli elementi di un film d’archivio, compresa la musica, debbano appartenere al periodo in cui si svolge la storia. Tuttavia, durante la fase di post-produzione audio, abbiamo sostituito tutti i brani dell’epoca jugoslava, uno dopo l’altro, con la musica di Jakov. Tutto è accaduto spontaneamente.

Il film Un’altra primavera è composto interamente da materiali d’archivio, molti dei quali finora non sono mai stati presentati pubblicamente. È stato difficile accedere a questi materiali?

La maggior parte del materiale proviene dall’archivio cinematografico della Radiotelevisione della Serbia, ma abbiamo utilizzato anche alcuni materiali ripresi da Filmske novosti, Zastava Film e Televisione del Kosovo. Tutti i materiali legati all’epidemia di vaiolo sono stati inseriti, con molta precisione, nelle varie banche dati, quindi la sfida più difficile era ritrovare i materiali d’epoca non direttamente legati all’epidemia. La varietà delle fonti è molto evidente, ma – oltre all’utilizzo dei ralenti per quasi tutta la durata del film, un’operazione che però ha una funzione completamente diversa – con Jelena Maksimović, responsabile del montaggio, abbiamo deciso di non cercare di unificare visivamente il materiale, volendo così in un certo senso riconoscere anche il contributo individuale dei colleghi che avevano girato quelle scene.

Durante una masterclass tenuta lo scorso inverno a Zagabria in occasione della prima del suo film Sretan Božić, Yiwu  [Buon Natale, Yiwu], lei ha parlato anche di diversi interventi nel cinema documentario, sottolineando, tra l’altro, che nessun documentario, contrariamente a quanto si è soliti pensare, può essere oggettivo, veritiero e/o realistico, aggettivi che però spesso vengono utilizzati proprio per distinguere i film documentari dai lungometraggi...

Credo che anche nel cinema documentario il realismo venga costruito con diversi interventi intrapresi dal regista, creando così l’illusione di un flusso narrativo spontaneo. In un film documentario i protagonisti sembrano comportarsi spontaneamente, come se la telecamera non fosse presente, ma in realtà si comportano come è stato loro indicato dal regista. Quindi, fingono che non ci siano la telecamera e la troupe. Il regista interviene anche quando c’è un’interazione tra i protagonisti e la telecamera e si tratta sempre di interventi più o meno invasivi. Un film documentario è prima di tutto un film e solo in secondo luogo un documento. Così come un lungometraggio è sempre, in un certo senso, anche un documento.

Alcuni potrebbero interpretare Un’altra primavera come un film volto a suscitare timori legati alla salute, rivolto soprattutto ai cosiddetti no vax; altri invece potrebbero vedervi una rilettura di un’efficace campagna di contrasto all’epidemia messa in atto in un paese socialista che non c’è più, quindi come un omaggio al socialismo; altri ancora, sull’onda dell’attuale tendenza a creare verità alternative, potrebbero sostenere che il narratore del film forse non sappia proprio tutto...

Ogni film può essere interpretato in tanti modi diversi quante sono le persone che lo hanno visto. Alcuni film suscitano discussioni, rendendo più evidenti le varie opinioni. Un’altra primavera è forse uno di questi film. Certamente è un omaggio alla Jugoslavia ed è legato all’attuale momento storico nella misura in cui ci spinge a guardare dentro di sé e a mettere in dubbio, come individui, le proprie idee, ma anche a chiederci perché le attuali istituzioni, a differenza di quelle jugoslave, non ispirino fiducia nelle persone comuni.

Zoran Radovanović un narratore affidabile che ha ripercorso i suoi ricordi innumerevoli volte, confrontandoli con i fatti, quindi i suoi ricordi si intrecciano e si integrano con le interviste d’epoca. Dal punto di vista formale, Un’altra primavera non è un film polemico, racconta le versione ufficiale degli eventi che, ovviamente, può essere messa in dubbio.

 
 
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En français:
COVID-19 : POURQUOI LES PAYS D’EUROPE DE L’EST SONT-ILS RÉFRACTAIRES À LA VACCINATION ? (Bilten | Par Vuk Vuković | vendredi 24 décembre 2021)
Tous les pays d’Europe de l’est sont réfractaires à la vaccination, avec des « records » battus en Bulgarie, en Roumanie ou en Ukraine. À qui la faute ? À l’héritage du socialisme, ou bien aux trente années de « transition » qui ont dévasté les services publics de santé et imposé l’individualisme comme valeur suprême ?
 
 
 
Socijalističko nasljeđe nije uzrok niske stope vakcinacije na istoku
 
VUK VUKOVIĆ / 23.11.2021.

Po izbijanju pandemije, na zapadu se niža razina incidencije na europskom istoku uglavnom tumačila socijalističkim nasljeđem: poslušniji su i prijemčiviji za naredbe. Danas se pak niska stopa vakcinacije tumači također socijalizmom, ali obrnuto: ne slušaju državu upravo zbog iskustva socijalizma. Pored raskrinkavanja ove orijentalističke vizure, Vuk Vuković ukazuje i na uvjerljivije razloge slabije razine procijepljenosti na istoku.
 

proleće 2020. godine, dok je pandemija korona virusa zahvatala stari kontinent, njegov istok kao da je konačno uspeo da se izmigolji iz uobičajenih stereotipa o nazadnosti, zaostalosti i bedi kako duhovnoj, tako i materijalnoj. Stope smrtnosti u zemljama srednje i istočne Evrope bile su dosledno i značajno niže nego na zapadu kontinenta, uprkos generalno slabijim i ranjivijim zdravstvenim sistemima i višestrukim razlozima za suprotna očekivanja. Dok su Španija, Velika Britanija i Francuska u tim danima beležile desetine smrtnih slučajeva, primera radi, Češka i Slovačka su beležile oko dva i manje od jednog smrtnog slučaja (tim redosledom) na stotinu hiljada stanovnika. Suočeni s ovako neočekivanim rezultatom, mnogi zapadni komentatori nisu odoleli iskušenju da to ipak oslikaju stereotipnim i protivrečnim bojama – usled života pod komunističkom diktaturom, građani tih zemalja su poslušniji i slabi na autoritet; totalni lockdown u početku je lakše prihvaćen zbog nepoverenja u (zdravstveni) sistem; to su kolektivistička društva gde se autoritet vlasti ne dovodi u pitanje; i tako dalje. Retki su bili oni glasovi koji su pokušali da ustanove šta je zaista iza ovako uspešnog odgovora na prvobitni pandemijski šok: od veće usaglašenosti svih javnih aktera u komunikaciji sa stanovništvom (što, ipak, nije bio slučaj u svim zemljama), manje gustine stanovništva, do slabijih poslovnih i saobraćajnih veza sa ostatkom sveta.

S iščezavanjem noviteta pandemijske situacije, stvari su se polako vratile u stari kolotrag, a istočnu Evropu opet bije stari glas. Najniže stope vakcinacije u Evropi mogu se pronaći baš ovde: od oko 26% u Bugarskoj i 40% u Rumuniji, do 20% u Ukrajini i 36% u Rusiji, naspram proseka Evropske unije od oko 75% vakcinisanih s obe doze. Očekivano, skoro svuda je veća i stopa zaraze i smrtnih slučajeva, koji se u nekim zemljama beleže u stotinama na dnevnom nivou i ozbiljno ugrožavaju zdravstveni sistem. Bolničkih kreveta, kao i na početku pandemije, ima određeni broj, i to skoro izvesno nedovoljan, a mutacije predstavljaju poseban problem. Zašto je stopa vakcinacije toliko niska u srednjoj i, u još većoj meri, istočnoj Evropi?

“Izloženost sovjetskom komunizmu”

Jedan stari sovjetski vic pripoveda da je Staljin na samrti rekao Hruščovu da mu je ostavio dve koverte u radnom stolu, da mu se nađu kad upadne u neizbežne probleme u rukovođenju Sovjetskim savezom. “Kad se prvi put nađeš u problemu, otvori prvu kovertu, a kad se opet nađeš u teškom položaju, ti otvori drugu”. I tako i bi, ide pripovest – kad se Hruščov prvi put suočio s problemima, otvorio je prvu kovertu a u njoj je pisalo – “Kaži da sam ja kriv za sve”. Hruščov je poslušao savet i okrivio Staljina i kult njegove ličnosti za sve, i neko vreme su stvari išle glatko. Nije prošlo mnogo vremena, međutim, i Hruščov je bio prinuđen da otvori drugu kovertu – a u njoj je stajalo “Nađi dve koverte i počni da pišeš”.

Tako nekako ovih dana postupaju mnogi, uglavnom zapadni komentatori, kada pokušavaju da objasne uzroke niskih stopa vakcinacije na istoku Evrope. Za sve je kriv taj komunizam, ta avet prošlosti, kada se država pitala za sve, a građani ništa, i kada je država bez otpora mogla da sprovodi svoje naume, pa zato danas ljudi nemaju poverenja u zdravstveni sistem. Na standardu paletu šovinističkih kvalifikacija o zaostalim istočnjacima ne treba trošiti reči, osim što valja primetiti da se ona odavno primila i među samim “istočnjacima”. Jedna nedavna studija sa cenjenog britanskog LSE (London School of Economics) doslovno počinje sledećim istraživačkim pitanjem: “kako na poverenje u vakcine utiče izloženost sovjetskom komunizmu?” Izloženost sovjetskom komunizmu – kao da je u pitanju izloženost smrtonosnoj radijaciji ili otrovnim hemijskim supstancama, a ne život u jednom društvenom uređenju koje većina građana te iste istočne Evrope i dalje ocenjuje kao bolje u poređenju sa tranzicijskim i post-tranzicijskim iskustvima. Tako ova studija sugeriše da je osnova nepoverenja u vakcine zapravo šire nepoverenje u javne institucije, izazvano izloženošću sovjetskom komunizmu. Šta se desilo u onih trideset godina između prestanka izloženosti toj opakoj bolesti i današnje posustale vakcinacije – ko će ga znati! Međutim, upravo se u zbivanjima u tih trideset godina i njihovim posledicama krije rešenje zagonetke današnjih niskih stopa vakcinacije.

Iako je mnogima s našeg podneblja uspeh Jugoslavije u suzbijanju epidemije velikih boginja 1972. godine – kada je za svega nekoliko sedmica vakcinisano oko 18 miliona građana – prvi na pameti prilikom poređenja ondašnjeg i današnjeg iskustva, za ostatak istočne Evrope je nezaobilazna borba protiv dečje paralize pedesetih godina prošlog veka. Ta, za razliku od socijalizma zaista opaka bolest, relativno je brzo suzbijena masovnim kampanjama obavezne vakcinacije i skoro vojničkim rukovođenjem zdravstvenim sistemom u kriznim trenucima. SSSR je u roku od nekoliko meseci uspeo da vakciniše skoro 80 miliona dece i mladih. Čehoslovačka je bila prva zemlja u svetu koja je uspela da u potpunosti iskoreni dečju paralizu 1960. godine, a iskustva sovjetske Mađarske u godišnjim kampanjama vakcinacije (uporediti te godišnje kampanje sa današnjom “strašnom” perspektivom takođe periodične vakcinacije protiv korona virusa) poslužile su tek osnovanoj Svetskoj zdravstvenoj organizaciji (SZO) za osmišljavanje globalne strategije borbe protiv dečje paralize. Iako ima podataka da je i tada bilo skepse prema vakcinaciji, ona izvesno nije poprimala razmere koje danas ima na tlu istočne Evrope.

Ako se imaju na umu uspesi javnog zdravstva u bivšim socijalističkim državama, kao i neka sociološka istraživanja koja pokazuju da je ozbiljan pad poverenja u zvanične “institucije sistema” u zemljama Varšavskog pakta tokom i nakon tranzicije bio praćen i padom međusobnog poverenja1 , sumanuto je i neoprezno uzroke niskih stopi vakcinacije danas ne potražiti u ovim procesima. Prema jednom novijem istraživanju, u periodu od 1990. do 2013. godine poverenje u političke institucije u zemljama srednje i istočne Evrope se prepolovilo. No, krenimo redom – od činilaca koji deluju neposredno u sadašnjosti ka onima koji su nešto dužeg trajanja. Ostavićemo po strani već poznate faktore kao što su aktivne kampanje dezinformisanja, vršljanje kojekakvih ekstremnih desničara, kako domaćih tako i iz uvoza, po istočnoj Evropi i reakcionarnost zvaničnih religijskih autoriteta (u Srbiji su neki sveštenici SPC svojevremeno agitovali protiv ličnih karata s elektronskim čipom jer to – naravno – žig zveri).

Orijentalistička vizura

Na prvom mestu, upravljanje pandemijom u srednjoj i istočnoj Evropi, nakon uspešnog perioda lockdown-a, postalo je žrtva političkih borbi i manipulacija, i po tome ovaj deo sveta nije ništa drugačiji od razvijenog Zapada. Baš kao što je vlast u Srbiji “šišala” brojke pred izbore i aktivno umanjivala opasnost od novog talasa, u Poljskoj je vladajuća konzervativna partija činila isto, u nadi da neće morati da odloži majske predsedničke izbore. Iako je poljska opozicija u početku kritikovala vlasti zbog ovoga, i sama je zagrizla udicu kada su izbori odloženi za šest nedelja, pa su samim tim navodno porasle i šanse za njenu pobedu (nije se desilo). U Češkoj je sada odlazeća vlada tajkuna Andreja Babiša bila žrtva sopstvene iluzije o izuzetnosti Češke i njenih prvih uspeha u borbi protiv pandemije. Vlasti u Rumuniji, ozbiljno uzdrmane nizom korupcionaških i ekoloških skandala, uz prateću krizu u pravosuđu, nisu imale šansu da sprovedu ozbiljniju kampanju. Stvar je još gora u Bugarskoj, gde je niz parlamentarnih izbora rezultirao u nerešenoj situaciji i političkoj nestabilnosti. Bivši premijer Bojko Borisov nije oklevao da okrivi prelaznu vladu predsednika Radeva za neuspeh u vakcinaciji, tvrdeći još i da su vakcine distribuirane po isteku roka trajanja. Naravno, ni ministar zdravlja u privremenoj vladi nije ostao dužan Borisovu i trend uzajamnih optužbi se nastavio na štetu javnog zdravlja. Poslednja iteracija ovakve prakse je, mora se tako reći, glupiranje hrvatskog predsednika Zorana Milanovića spram mera kako u Hrvatskoj, tako i u susednoj Austriji, što čini HDZ neočekivanim glasom razuma i strankom prosvećenosti.

Nit koja povezuje sve ove tragične poteze i situacije nije neki naročit “kukavičluk političara” koji su, eto, javno zdravlje žrtvovali na oltaru sopstvenih političkih ambicija – osim u meri u kojoj je to neophodno za politički uspeh u predstavničkim demokratijama. Radi se o tome da je udeo biračkog tela koji je “skeptičan prema vakcinaciji” sad već ozbiljno narastao i, štaviše, čini nezanemarljiv deo glasačke baze konzervativnih političkih partija koje, uz neke izuzetke, već dugo vladaju evropskim istokom.

U neposrednoj vezi sa tim je i činjenica da je antikomunistička reakcija posle 1989. godine, u opštoj ofanzivi na “egalitarni sindrom”, “samoupravni mentalitet” i druge bauke, manje ili više uspešno zbrisala i svaki pojam zajednice, javnog i kolektivnog, čak i tamo gde bi takve prakse, veze, odnosi i ustanove bili od značaja i danas (od pandemije pa do veće otpornosti na neizbežne šokove koje će izazvati klimatske promene i istanjivanje globalnih robnih lanaca). Kakav god stav zauzeli o prirodi socijalizma u Evropi, nesporno je da nije u pitanju bila neka veštačka konstrukcija nakalemljena na inače čisto i homogeno nacionalno biće. Da je tako, ona bi se mogla bezbrižno oduvati tržišnim reformama i “strukturnim prilagođavanjem”, a nedirnuto biće nacije bi se projavilo u svoj svojoj čistoti. To je i bilo i ostalo obećanje nacionalnih intelektualaca, često konvertita. Snaga nostalgije u kolektivnom sećanju direktno je srazmerna praznini koju je ovaj krstaški pohod ostavio. Protivno tome, socijalizam kao postojeći sistem je u sebe inkorporirao čitave sklopove društvenih praksi, pogleda i običaja, i udarac sistemu bio je istovremeno udarac i ovim elementima društvene prakse. U tom smislu su istočnoevropska društva – mada je taj pojam sam po sebi nemoguć, jer objedinjuje isuviše različite entitete – strogo kolektivistička jedino u orijentalističkoj vizuri, jer u stvarnosti imaju izražene elemente individualizma, pojačane propadanjem i, štaviše, svesnim uništenjem kolektivnih praksi i institucija iz vremena pre i tokom socijalizma. Ako uzmemo da su individualizam i egoizam vrednosne i moralne osnove političkog pokreta protiv vakcinacije, zvanične medicine i javnog zdravlja, onda ne čudi zašto se on javlja u zemljama koje iz tranzicije nisu dobile mnogo, pa individualne strategije snalaženja postaju imperativ, kao ogledalni lik onog pada međusobnog poverenja tokom tranzicije.

U tom kontekstu, javno zdravlje nije samo još jedna nedovoljno finansirana, neproduktivna i zanemarena naučna disciplina. Ona se u Srbiji, a izvesno i drugde, izučava tek na nekolicini akademskih ustanova, a već dve decenije se odlaže osnivanje odgovarajućih institucija i tela za javno zdravlje. Ne treba zaboraviti ni nalaze da je tranzicija u istočnoj Evropi često rezultirala ne samo izuzetno dubokim i ozbiljnim recesijama, već i da je odgovorna za stotine hiljada smrti. I onda kada nam neko ponovo otkrije ime kao što je Andrija Štampar i pojam jedne narodne medicine koju je nemoguće misliti kao individualnu, mi nemamo drugog izbora nego da se opet suočimo s mučnim i nerazrešivim utiskom da je budućnost nešto što je bilo pre.

Čak i tako nerazrešiv i nepomirljiv, on i dalje ima više smisla nego posezanje za požutelom i izanđalom kovertom u kojoj piše – za sve je kriv komunizam. A još će manje koristi od toga imati društva evropskog istoka na udaru pandemije, ionako izmrcvarena i iscrpljena večitom tranzicijom i integracijom u evropski poredak čija je deviza razvoj nerazvijenosti.

 
1. Na osnovu razgovora obavljenih sa ispitanicima u 28 zemalja nekadašnjeg socijalističkog lagera, u sklopu istraživanja Evropske banke za obnovu i razvoj (EBRD) iz 2006. godine, pokazalo se da, nezavisno od zemlje i regiona, dve trećine ispitanika smatra da se u druge moglo imati više poverenja pre 1989. godine, a da tek trećina misli isto to u trenutku istraživanja, i to bez obzira na društveni i ekonomski položaj.