Informazione


Privatizzazioni in Serbia

1) Aggiornamenti sulle privatizzazioni e la Legge sul Lavoro
2) La UE impone la privatizzazione dei media in Serbia


Si veda anche tutta la documentazione raccolta alla nostra pagina tematica:


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Aggiornamenti sulle privatizzazioni e la Legge sul Lavoro in Serbia

Fonte: Sindacato Samostalni Kragujevac e Non Bombe Ma Solo Caramelle ONLUS, fine agosto / inizio settembre 2014 
(traduzioni a cura di Samantha M., Fulvio P. e Gilberto V.)

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Il 15 agosto l’Agenzia per la Privatizzazione ha annunciato una gara d'appalto pubblica per la privatizzazione di 502 imprese tra cui la più grande cooperativa Agricola, Combine BELGRADO, Kovin, Azotara Pancevo, FARMACO Galenika ... Alcune aziende hanno maggiori responsabilità per la dimensione delle proprietà.

Questo gruppo comprende 156 aziende in ristrutturazione che nel 2013 avevano in bilancio meno di 310.000.000 Euro ed un indebitamento complessivo ad oggi verso lo stato di 2,4 miliardi. Inoltre, ogni anno in termini di sovvenzioni, queste aziende hanno bisogno di circa 750 milioni di euro. Il primo ministro serbo Aleksandar Vucic, in una conversazione con il presidente dei sindacati indipendenti della Serbia Ljubisav ORBOVIĆ, ha detto che potrebbe esserci una soluzione per circa 40 aziende; tra queste la fabbrica IMT trattori e la fabbrica IMR motori che verrebbero acquistate da TAFE, produttore indiano di trattori; l’azienda di coltivazione di vigneti Vrsac dalla Bonolo Italia; l’azienda ŽUPA di Krusevac ha un cliente dall'Inghilterra; Zelezara di Smederevo è di interesse per il gigante russo OTTOBRE ROSSO ...
Il periodo necessario per la privatizzazione di queste imprese, che occupano 93.000 lavoratori, si concluderebbe alla fine del 2015. Riguardo il metodo adottato dal Ministero dell'Economia (per la privatizzazione) e per ogni società, sarà richiesta una soluzione specifica: un bando pubblico, o una vendita all’asta, o una partnership strategica oppure ancora la vendita parziale della proprietà. Per le aziende che non troveranno un’acquirente si procederà al loro fallimento o alla liquidazione delle società. I dipendenti saranno licenziati ed accederanno al programma sociale che prevede una indennità pari a 300 EUR per ogni anno di lavoro svolto.
Si prevede che circa 40.000 lavoratori perderanno il lavoro. La grande questione è se lo stato ha il denaro necessario, circa mezzo miliardo di euro per il numero di lavoratori licenziati che entreranno nel programma sociale, mentre sappiamo che il bilancio dello Stato Serbo presenta un deficit di 1,5 miliardi di euro all'anno.
Il bando pubblico per la privatizzazione non si dovrebbe applicare alle aziende che impiegano persone con disabilità e per le aziende del settore della difesa militare.

Ciò che certamente ricadrà su un numero enorme di famiglie saranno le misure del governo serbo, che comprendono la riduzione degli stipendi dei dipendenti della pubblica amministrazione e delle pensioni di circa il 10%.
Inoltre, con una nuova legge sul lavoro, molte persone subiranno una riduzione di stipendio a partire da agosto a causa del nuovo calcolo del lavoro passato, che azzera tutte le anzianità di lavoro precedenti e si considera solo l’anzianità del rapporto di lavoro del dipendente con l’ultimo imprenditore proprietario. Ad esempio, a tutti i lavoratori della FIAT che si sono spostati da Zastava Auto e avevano più di 30 anni di anzianità aziendale derivante dal lavoro passato, verranno considerati solo i 2-3 anni di lavoro presso la nuova società!
Tutto questo mentre si annunciano nuovi aumenti dei prezzi dell'energia elettrica di almeno il 10-15%, che, come possiamo prevedere, comporteranno i conseguenti aumenti di tutti i prodotti il cui prezzo è influenzato dall’uso di energia!

Non ci sono ancora effetti sull'inflazione ed i primi risultati sono attesi in uno o due mesi, in particolare in settembre quando inizierà la scuola e saranno necessari i materiali scolastici per i bambini e quando si cominceranno ad acquistare i cibi per l'inverno.

Rajko Blagojevic (sindacato Samostalni di Kragujevac)

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Ecco i dati sulla Legge sul Lavoro entrata in vigore il 29 luglio u.s. 
Le differenze più importanti tra la proposta precedente e la Legge attuale sono:

• Il lavoro a tempo determinato al massimo può durare fino ai 24 mesi (se l’azienda esiste meno di un anno allora può durare fino ai 36 mesi). Finora al massimo erano 12 mesi.
• Per il lavoro a turni (1.e 2. turno) nella Legge precedente il salario veniva aumentato di 26 %. Questa possibilità non è prevista dalla Legge attuale però ora questi 26 % vengono dati solo per il 3. turno (turno di notte) come era anche prima (quindi non c’è aumento per 1. e 2. turno). Il 3. turno si intende solo dalle ore 2200 alle 0600.
• Liquidazione per la pensione – nella Legge precedente erano previsti 3 salari lordi, ora solo 2.
• Aumento per gli scatti di anzianità (anni di lavoro compiuti) pari allo 0,4 % – rimane uguale come prima ma ora vale solo per gli anni compiuti dall’ultimo datore di lavoro (prima si contavano tutti gli anni compiuti dal primo impiego). Per es.: il lavoratore che ha lavorato 30 anni alla Zastava ed è passato alla Fiat ha perduto aumento per 30 anni di lavoro, per cui se ne è approfittata solo la Fiat.
• Assenza pagata per matrimonio, nascita di bimbo, morte del familiare, trasloco: è diminuita dai 7 ai 5 giorni.
• Se il lavoratore al lavoro diventa invalido di lavoro ed il datore di lavoro non riesce a trovargli il posto di lavoro adeguato alle sue capacità lavorative, il lavoratore può essere licenziato. Nella Legge precedente il datore di lavoro era assolutamente obbligato a trovargli un posto di lavoro.
• Se il datore di lavoro licenzia il lavoratore ed il Tribunale decide che non è stata rispettata la Legge, il datore di lavoro deve versare al lavoratore 6 salari lordi come penalità ma non è obbligato a riassumerlo al lavoro. Nella legge precedente era anche obbligato a riassumerlo.
• Quando cessa il rapporto di lavoro (al di là del motivo) il datore di lavoro ha il diritto di tenere il libretto di lavoro fino ai 15 giorni, nella Legge precedente era obbligato a consegnarlo al lavoratore all’ultimo giorno di lavoro.
• Il rappresentante sindacale può essere licenziato subito dopo la scadenza della sua funzione sindacale. Nella Legge precedente il rappresentante sindacale era protetto dal licenziamento per un anno dopo la scadenza della funzione sindacale.

Ora aggiungiamo il punto 10 che è molto importante:
• Nella Legge di lavoro precedente il datore di lavoro poteva tenere il lavoratore a casa al massimo per 45 giorni in un anno con 60 % del salario, nella Legge attuale può mandarlo a casa per il periodo senza limite sempre con approvazione del Ministro dell'Economia (la motivazione addotta è che ora ci saranno meno licenziamenti).

(a cura del Sindacato Samostalni, Kragujevac)


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http://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/La-privatizzazione-dei-media-serbi-154966/(from)/newsletter

La privatizzazione dei media serbi

Dragan Janjić | Belgrado 12 agosto 2014

La Serbia ha recentemente adottato un set di leggi sui media, in particolare sul servizio pubblico, che prevedono l'uscita dello stato dalla proprietà dei media. Secondo le associazioni di categoria la nuova normativa è buona, ma [SIC] è stata introdotta grazie alle spinte di Bruxelles

La nuova legislazione sui media che il parlamento serbo ha recentemente adottato con procedura d’urgenza offre un quadro legislativo soddisfacente per questo settore. Così la pensano le associazioni dei media e la maggior parte degli esperti in materia.
Con l’adozione di questa normativa si è posto termine all’annosa battaglia condotta in questo settore dalle maggiori associazioni dei media, sostenute da Bruxelles, con i vari governi serbi.
Il nuovo corpus di leggi è composto dalla Legge sull’informazione pubblica e dalla Legge sul servizio pubblico. Le nuove leggi prevedono che lo stato, entro il 1° luglio 2015, si ritiri dalla proprietà dei media, e che entro tale termine cessi di finanziare i media direttamente dal bilancio statale. Il denaro per finanziare il servizio pubblico (la Radio televisione della Serbia, RTS, e la Radio televisione della Vojvodina, RTV) dovrà essere garantito con tasse apposite.
La questione principale era capire quanti e quali strumenti avrà lo stato per influire sulla politica redazionale dei media. Le associazioni di categoria volevano ridurre lo spazio di influenza, mediante il totale ritiro dello stato dalla proprietà e introducendo meccanismi in grado di imporre la trasparenza delle risorse investite nell’informazione pubblica da comuni, città, provincia autonoma della Vojvodina e repubblica della Serbia. Almeno per quel che riguarda la normativa di legge, gli sforzi sono stati premiati.
Oltre al fatto che le associazioni dei media si sono unite e hanno agito insieme, al successo della normativa ha contribuito in modo determinante il sostegno di Bruxelles. La Serbia infatti è entrata nella fase di negoziazioni per l’adesione all’UE, e Bruxelles ha posto come uno dei criteri base del processo di adesione proprio la libertà dei media e la sistemazione del panorama mediatico serbo. Senza i “suggerimenti” dell’UE, difficilmente il governo serbo avrebbe accolto i cambiamenti in questione.

Proprietà

La parte che ha fatto più discutere è stata il totale ritiro dello stato dalla proprietà dei media. In realtà la maggior parte dei media, compresi i più influenti, non è di proprietà statale. Tutte le radio e le tv con copertura nazionale, eccetto i servizi pubblici (RTS e RTV) sono di proprietà privata. Privati sono pure i tabloid ad alta tiratura e tutti gli altri quotidiani e settimanali eccetto Politika eVečernje novosti, nei quali lo stato continua ad avere quote di capitale (Politika il 50% e Novosticirca il 30%).
Di proprietà pubblica sono rimaste circa 80 radio-tv locali e regionali, dalle quali sono giunte le più accese critiche e resistenze alle leggi in questione. Le amministrazioni locali, infatti, non desideravano affatto rinunciare al controllo della politica editoriale dei media locali che finanziavano direttamente. Questi media sono stati concepiti come aziende pubbliche con voci di bilancio annuali e budget locali, cosa che garantiva loro un regolare finanziamento, ovviamente a condizione che le amministrazioni locali fossero soddisfatte delle notizie date.
Verrà privatizzata anche l’agenzia stampa Tanjug, che dallo stato annualmente riceve 1.7 milioni di euro: cifra che equivale a due terzi delle entrate di questa agenzia. Allo stesso tempo sul mercato serbo figurano altre due agenzie private, Beta e Fonet, che non ricevono alcun finanziamento pubblico. Queste due agenzie da anni ormai chiedono un equilibrio del mercato, ritenendo appunto di essere sottoposte a una concorrenza sleale.
Per il funzionamento dei media di proprietà statale e per il funzionamento di quelli di proprietà delle amministrazioni locali venivano spesi circa 25 milioni di euro all’anno. Si tratta di una cifra ingente, tenuto presente che l’intero mercato dei media in Serbia ha registrato lo scorso anno un volume di circa 140 milioni di euro. Le entrate dirette provenienti dal bilancio potevano in effetti creare una concorrenza sleale.
Il Partito progressista serbo (SNS) del premier Aleksandar Vučić gode della maggioranza assoluta al parlamento serbo e senza difficoltà è riuscito a superare le resistenze, facendo adottare le leggi sui media. I membri del parlamento provenienti dalle città e dai comuni che erano contrari alla privatizzazione non hanno accettato ben volentieri i cambiamenti, ma alla fine hanno dovuto accogliere le richieste del partito di governo.

Denaro

La modifica alle leggi sui media, di per sé, non porterà ad un veloce ed efficace miglioramento della situazione né ridurrà direttamente l’influenza dei circoli governativi sulla politica editoriale. I tabloid privati ormai da tempo sono i principali sostenitori del potere, e l’influenza su questi media viene esercitata indirettamente, per lo più mediante il mercato delle inserzioni. L’influenza del mercato delle inserzioni è un valido strumento anche per influenzare le scelte editoriali di tutti gli altri media privati.
Il servizio pubblico non verrà tuttavia finanziato dagli abbonamenti pagati dai cittadini, ma lo stato applicherà speciali tasse in questo settore. Lo stato dovrà inoltre uscire dalla proprietà dei quotidiani Politika e Večernje novosti, ma manterrà il potere di dire la sua su chi sarà l’acquirente delle azioni di suddetti media. Anche negli scorsi anni lo stato ha avuto voce in capitolo nella scelta del compratore del 50% delle azioni di Politika e del circa 70% di quelle del Novosti.
Le associazioni dei giornalisti, consapevoli di non poter influire sul corso del denaro e impedire l’influenza sulle scelte editoriali, si sono focalizzate sullo sforzo di ridurre quanto possibile lo spazio di manovra e manipolazione effettuato col bilancio delle amministrazioni locali e dello stato. L’introduzione del divieto per legge del finanziamento dei media tramite il bilancio statale o locale è forse il loro maggior successo.
I comuni dovranno passare al project financing di pubblico interesse per i media di cui erano proprietari. Sarà la legge a definire cosa è di pubblico interesse, e i comuni dovranno indire bandi e formare commissioni indipendenti che decideranno sulla qualità dei progetti proposti. Ai concorsi, ovviamente, possono partecipare tutti i media locali.
Ovviamente spazio per eventuali manipolazioni esiste anche con questa procedura, e c’è quindi da aspettarsi che i comuni e le città cercheranno di “pilotare” i concorsi così che i media che sono più fedeli ricevano i finanziamenti. Questo sarà inizialmente facilitato dal fatto che il governo non ha prescritto meccanismi per consentire il passaggio al project financing. Resta tuttavia il fatto che, nelle nuove condizioni, i media privati, in particolare a livello locale, saranno in una situazione più equilibrata.



(italiano / castillano / srpskohrvatski / english)

EU leaders use WWI commemoration to press for new wars

1) SEGNALAZIONI
– Roma, 21 settembre 2014: CONFERENZA NAZIONALE SULLA GRANDE GUERRA
– Grande Guerra, cerimonia di commemorazione a Lubiana
– LINKS: Film "A un solo disparo" / Catalinotto on J. Jaurès / Gattei sulla preveggenza di F. Engels / D. Moro / Dalla parte di Gavrilo

2) European leaders use World War I commemoration to press for new wars

3) The return of German Great Power politics and the attacks on the historian Fritz Fischer


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1914 - 2014 AD UN SECOLO DAL MASSACRO  DELLA GRANDE GUERRA
Gli apprendisti stregoni dell’imperialismo portano di nuovo alla Guerra
 
CONFERENZA NAZIONALE
DOMENICA 21 SETTEMBRE, 0RE 10
ROMA - CASA DELLA PACE, VIA MONTE TESTACCIO, 22
 
INTRODUCE:
Mauro Casadio - Rete dei Comunisti
Interventi di:
Giuseppe Aragno - Storico
Giorgio Gattei - Docente di Storia dell’economia, Università di Bologna
Seguirà il dibattito con attivisti politici e sociali
 
Organizza: RETE DEI COMUNISTI


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da www.viedellest.eu

Slovenia - 10 settembre 2014

Grande Guerra, cerimonia di commemorazione a Lubiana

E’ la pace l’eredità più importante lasciataci dalle vittime della prima guerra mondiale: "Le decine di milioni di morti hanno silenziosamente avanzato una richiesta di pace perpetua come risarcimento per il mare di lacrime sparso. Ma è successo l'opposto. A distanza di appena due decadi è stato nuovamente versato sangue di innocenti". Lo ha detto il presidente sloveno Borut Pahor nel corso della cerimonia di commemorazione per i cento anni dallo scoppio della prima guerra mondiale che si è svolta presso l'ossario dei caduti al cimitero Zale di Lubiana e delle quale è stato promotore. All'iniziativa hanno preso parte i Comitati Nazionali per le commemorazioni della prima guerra mondiale di Slovenia, Italia, Austria, Ungheria e Croazia. A rappresentare l'Italia è stato il presidente del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale, senatore Franco Marini. Pahor, che nel suo discorso ha posto la questione dell’inevitabilità della guerra, ha trovato la risposta nel potere decisionale dell'uomo: "La guerra inizia perché chi ha il potere di sventarla ha deciso diversamente. La pace non è solo il tempo in cui c'è un'assenza della guerra, ma anche il tempo in cui l'umanità deve impegnarsi a eliminare tutte le ragioni e le scuse che possono far scaturire la guerra".
Europa - 10 settembre 2014


--- LINKS:

"A UN SOLO DISPARO / НА ПУЦАЊ ОДАВДЕ"
dokumentarni film o sarajevskom atentatu na spanskom (srpski titlovi)
VIDEO: http://www.semanarioserbio.com/disparo/
1: http://www.youtube.com/watch?v=j6fjYa0zyRQ 
2: http://www.youtube.com/watch?v=AN5YrKhl3Ao
3: http://www.youtube.com/watch?v=CwsNJoj6JVM
¿Porque el Rey Alfonso XIII tiene una calle con su nombre en Banja Luka, capital de la República Serbia de Bosnia? Tercera parte del documental "A UN SOLO DISPARO” sobre el atentado de Sarajevo y orígenes de la I Guerra Mundial que habla sobre “Bosnia Joven”, la organización estudiantil que asesinó al Archiduque Francisco Fernando. 
Зашто једна улица у Бања Луци носи име шпанског краља Алфонса XIII?
Трећи део документарног филма "НА ПУЦАЊ ОДАВДЕ" о сарајевском атентату и узроцима Првог светског рата који говори о Младој Босни.

AN ASSASSINATION THAT ANNOUNCED WORLD WAR I 
By John Catalinotto / WW, on August 8, 2014

“OLD” ENGELS E LA GRANDE GUERRA EUROPEA (Giorgio Gattei, 10 Luglio 2014)

IL CENTENARIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE E LE ANALOGIE CON IL PRESENTE (Domenico Moro, 28/07/2014)

DALLA PARTE DI GAVRILO / NA GAVRILOVOJ STRANI


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http://www.wsws.org/en/articles/2014/08/06/lieg-a06.html

European leaders use World War I commemoration to press for new wars

By Stefan Steinberg 
6 August 2014


Political and military leaders from Europe and the US used commemorations marking the 100th anniversary of the outbreak of World War I to press for new wars.

August 4, 1914 marks the day on which the British government declared war on Germany following the latter’s invasion of Belgium. On the same day, German parliamentary deputies, including all the representatives of the Social Democratic Party, voted unanimously for war credits to fund Germany’s war effort. The ensuing war between European powers claimed a total of nearly 40 million casualties.

Attending the two days of commemorations on Monday and Tuesday in the Belgian city of Liège were representatives from 83 countries, including kings, presidents and military leaders from many of the countries involved in World War I. The US was in attendance with a delegation led by the Secretary of the Army, John M. McHugh.

The region around Liège saw some of the bloodiest fighting in World War I, with an estimated 4 million soldiers losing their lives in years of bitter trench warfare. It was against this background that the French President François Hollande gave his keynote speech on Monday, declaring to the assembled European and international dignitaries that the main lesson to be drawn from the war was that “today neutrality is no longer appropriate.”

Referring directly to the conflicts raging in Ukraine and the Middle East, Hollande made clear that French imperialism was preparing to engage in fresh military confrontations. Allegedly departing from his prepared speech, Hollande stated: “How can we stay neutral when a people, not far from Europe, is fighting for its rights and territorial integrity? How to stay neutral when a civilian aircraft can be shot out of the sky? When there are civilian populations being massacred in Iraq, minorities being persecuted in Syria?”

Hollande then continued: “When in Gaza a murderous conflict has been going on for over a month … we cannot stay neutral, we have an obligation to act. Europe has to take its responsibility to act, along with the UN.”

Hollande concluded from the slaughter of millions in World War I that new military interventions and wars had to be prepared: “We cannot simply invoke a cult of memory, we have to take our responsibilities.”

Hollande went onto praise the European Union as a “crazy idea of creating a model of cooperation and progress,” while warning of the risk of “national selfishness.”

Hollande’s invocation of the responsibility of major powers was repeated by German President Joachim Gauck in his own speech in Liège.

“Millions of people today suffer from violence and terror as a result of the instrumentalization of political, ethnic and religious beliefs,” Gauck declared. “Therefore, we are united today as representatives of so many countries not only in memory, but also remembering that together we have a responsibility for the world.”

Speaking on behalf of the British government, Prince William also raised the events in Ukraine which “testify to the fact that instability continues to stalk our continent.” He went on to praise the collaboration between former European adversaries, working together “for three generations to spread and entrench democracy, prosperity and the rule of law across Europe, and to promote our shared values around the world.”

The comments by Hollande, Gauck and Prince William testify to the utter bankruptcy of European capitalism. They take the occasion of the commemoration of the mass slaughter of World War I to press for aggressive policies that threaten to unleash an even greater global military conflagration.

The US and Germany, with the backing of France and Britain, whipped up far right and nationalist militias to overturn the elected government in Ukraine in February and provoke the current escalating military confrontation with Russia.

Just last week, the European Union joined the US in imposing drastic economic sanctions on Russia. Meanwhile, the EU continues to arm Ukraine despite an official resolution, passed earlier this year, banning such weapons exports.

In the Middle East, the US and European powers have backed the most right-wing Islamic forces throughout the Middle East, in order to overturn elected governments. In so doing, they have plunged the entire region into chaos.

Over the past month, the same powers have provided unequivocal backing to the Israeli government in its campaign to terrorise the Palestinian people.

In France, Hollande has banned demonstrations against the war in Gaza, while in Germany Gauck has led the campaign to slander those opposed to the Israeli massacre of Palestinians in the Gaza Strip as “anti-Semites.” On the same day that Hollande and Gauck spoke in Liège, the total number of casualties in the Zionist regime’s war in the Gaza Strip rose to over 1,800.

Now these European leaders, with blood on their hands and increasingly reviled in their own countries, ominously declare that European powers must exert even more “responsibility” for the world. Their remarks make clear that new military catastrophes are being prepared for the working masses in Europe and throughout the world.

This is the significance of Hollande’s appeal in Liège for the rejection of a “cult of memory” with regard to WWI . As they seek to justify the imperialist bloodshed of the 21st century, they view as their most important task the wiping clean of historical memory of the imperialist crimes of the 20th century.



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The return of German Great Power politics and the attacks on the historian Fritz Fischer


By Ulrich Rippert and Peter Schwarz 
5 August 2014


The hundredth anniversary of the First World War has unleashed a flood of articles, commentaries, book publications, special broadcasts and events of all kinds in Germany. They are not just limited to recounting “ the great seminal catastrophe” of the twentieth century; rather, there is a deliberate effort to revise the previous understanding of the causes of the war and of Germany’s responsibility, and to bring them into line with the new foreign policy goals of the German government.

A central role is being played by the fierce attacks on the Hamburg historian Fritz Fischer (1908-1999), who, since the 1960s, has been a major influence on the understanding of German war policy. Leading these attacks is Herfried Münkler, who teaches political theory at Berlin’s Humboldt University.

Münkler is conducting a veritable campaign against Fischer. He has published his attacks on the renowned historian in a broad spectrum of publications, stretching from the Blätter für deutsche und internationale Politik, a journal in the tradition of the Frankfurt School, to the leading news weekly Der Spiegel and the daily Süddeutsche Zeitung, right up to the elitist Rotary Magazin. He regularly appears in public discussions, speaks at official gatherings with the German president and advises political parties, the federal government and the armed forces.

Münkler’s attacks on Fischer are marked by their spiteful tone and lack of substance. He has accused a historian of international renown of findings that are “outrageous” and “untenable” and claimed that his “methodology would not be accepted in any introductory seminar today.” He resorts to distortions and lies, and ascribes views to Fischer that he never held and had repeatedly rejected.

Münkler likes referring to a “scientific approach” and “the latest results of scientific research,” but in reality, there is not a trace of science in Münkler’s tirades against Fischer. He presents dozens of allegations without any supporting sources. All the more obviously, Münkler is pursuing a political agenda: he vehemently defends the return to an aggressive imperialist German foreign policy.

At the beginning of the year, the German president, the foreign minister and the defence minister announced that the time for military restraint was over, Germany would, in the future, once again intervene self-confidently and independently in the crisis regions of the world. Münkler has helped to prepare this change in foreign policy and has promoted it ever since in numerous lectures and articles.

In May, he published an article on the web site Review 2014, an official foreign ministry site that calls for more “German leadership” in Europe and the world. In his article, Münkler speaks out for a foreign policy that is less based on German values than on German interests. He urgently advises the government to argue more aggressively for these interests. This was the only way to reduce the “democratic vulnerability” of German politics, which arises out of the “discrepancy between its public presentation and its real orientation.”

In this essay, Münkler determines “Germany’s specific interests” in a similar way to the propagandists of German imperialism at the beginning of the last century: they arise out of Germany’s role “as a ‘trading nation’, or rather an exporting nation, from the implications of Germany’s geopolitical ‘central position’ in Europe, and from the enhanced need to pay security-political attention to the European periphery.”

Münkler’s attacks on Fritz Fischer and his advocacy of a more aggressive imperialist foreign policy are closely linked. To prepare new crimes, German imperialism’s historic crimes—to whose understanding Fischer has greatly contributed—must be played down and glossed over.

In the 1960s, Fritz Fischer initiated the first great Historikerstreit (historians’ dispute) in post-war West Germany. It concerned German responsibility for the First World War, as well as the continuity of German war aims in the First and Second World Wars. The second historians’ dispute arose in 1986, when Ernst Nolte tried to play down the crimes of Nazism and presented them as an understandable reaction to Bolshevism.

In both controversies, historians prevailed who agreed that Germany either shared or bore the main responsibility for the two world wars: in the first, Fritz Fischer, influencing a younger generation of historians who contributed considerably to the understanding of the First World War and its causes; in the second, the opponents of Ernst Nolte, who rejected a relativisation of Nazi crimes.

This is all now to be changed. Historical understanding is to be brought into accord with the new aims of German foreign policy. Professor Münkler shares this work with his colleague Jörg Baberowski, head of the Department of Eastern European History at the Humboldt University. While Münkler attacks Fritz Fischer, Baberowski has taken on the task of rehabilitating Ernst Nolte. “Nolte was done an injustice. Historically speaking, he was right,” he said in February to Der Spiegel.


The Fischer controversy

Until the beginning of the 1960s, history teaching and historiography in West Germany were dominated by right-wing conservative historians, who had already been teaching in the Weimar Republic and also in Hitler’s Third Reich.

The first chairman of the German Historians Association, and later the main adversary of Fischer, the Freiburg historian Gerhard Ritter (1888-1967), had fought on the front in the First World War. Afterwards, he supported German nationalist parties that rejected the Weimar Republic, supported the return of the monarchy and initially welcomed Hitler’s policies. Later, he was close to the conservative opposition to Hitler, but took no active part in the resistance. Ritter held to his right-wing conservative views even after the war. In his view, the Weimar Republic had failed due to too much democracy; had the Kaiser remained, Hitler would not have come to power.

The official doctrine on the First World War at the time was that it was forced on Germany, that the country had conducted a defensive war. There was no connection between the war and the imperialist “world power policy” that the Reich had propagated and pursued since the end of the nineteenth century .At best, it was admitted that Germany had “slithered” into the war without the responsible politicians or military leaders consciously wanting it.

Above all, any connection between the war aims of the Reich and those of the Nazi dictatorship was denied categorically. The Hitler regime was regarded as an “accident” of German history, which had nothing to do with previous or subsequent events.

This question was of extraordinary political explosiveness. The continuity of the German elites in business, state and politics in the post-war period was obvious. The larger enterprises were returned to their old owners, who had financed Hitler. Many supporters and fellow travellers of the Nazi dictatorship sat in high state and government offices, in the judiciary and in the universities, some of whose careers reached back to the days of the Kaiser. The recognition of a continuity of Germany politics, reaching from Kaiser Wilhelm II to Hitler, would have discredited the entire ruling elites, collapsing like a house of cards the assertion that only Hitler and his closest confidantes had been responsible for the crimes of the Nazis.

Fritz Fischer broke through this official consensus. In October 1961, when he presented his book Griff nach der Weltmacht (“The Grab for World Power”, the English edition was published under the original subtitle, Germany’s Aims in the First World War), he unleashed a storm of indignation and was treated with extreme hostility by conservative historians and politicians.

Fischer’s work, dealing with the war aims of imperial Germany from 1914 to 1918, showed in minute detail that there was a direct link between the “world power politics”, which formulated the global aspirations of an economically rapidly expanding German Reich, the outbreak of war in the summer of 1914 and the aims pursued by Germany during the war. It rested on thorough research and the systematic evaluation of a multitude of new sources. Fischer was one of the first German historians to have access to the files of the foreign ministry and the imperial chancellery, which the Allies had kept under lock and key, and, with the permission of the East German government, to the Potsdam Central Archive.

In the first chapter, titled “German imperialism: From Great Power policy to world power policy”, Fischer sketches in 50 pages the rise of German imperialism from the formation of the Reich in 1871.

He looks at the relationship between the rapid economic expansion of Germany and its claim to world power that brought it into conflict with its imperialist rivals who had already divided the world among themselves: “As the volume of Germany’s production grew, the narrowness of the basis of her raw materials market became increasingly apparent, and as she penetrated more deeply into world markets, this narrowness became increasingly irksome.”

Fischer describes how, “the link between business and politics grew progressively closer in the opening years of the new century, as the basic political outlook of the leading industrialists, bankers and officers of the employers’ associations came to conform more closely with that of the intellectual bourgeoisie, the higher bureaucracy and army and navy officers.” He shows how “economic calculation, emotions and straining after world power interacted mutually” and found expression in the broad agreement for the building of a war fleet and in the agitation of the Navy League (Flottenverein). This state-directed and state-supported league had the task of mobilising support for militarism among civil servants, teachers and other parts of the middle class.

Fischer also deals with the domestic political function of militarism: the diversion of growing class tensions abroad and the suppression of the socialist workers’ movement. He cites a directive that Kaiser Wilhelm, who feared the spread of the Russian revolution to Germany, sent to Chancellor Bülow after the bloody suppression of the Moscow workers’ uprising in December 1905: “Shoot down, behead and eliminate the Socialists first, if need be, by a blood-bath, then war abroad.”

As it turned out in August 1914, Wilhelm did not have to behead the Socialists. In the intervening period, the SPD had identified so broadly with the aims of German imperialism that it betrayed its own programme and supported the war.

Under the sub-heading “The Inevitable War”, Fischer describes how the international crises (in Morocco, in the Balkans) intensified in the years before the outbreak of war, and leading representatives of the ruling elites came to the conclusion that a world war was not only unavoidable but also necessary.

For example, the chief of the General Staff, Helmuth von Moltke, wrote in February 1913 to his Austrian colleague, Conrad von Hötzendorf, saying he “remains convinced that a European war is bound to come sooner or later, and then it will, in the last resort, be a struggle between Teuton and Slav .”

In 1912, the military historian Friedrich von Bernhardi published the best-seller Germany and the Next War, whose considerations and demands, according to Fischer, “epitomised the intentions of official Germany with great precision.” For Germany’s advance to the position of world power, three things were necessary according to Bernhardi: the “elimination of France”, the “foundation of a Central European federation under German leadership” and “the development of Germany as a world power through the acquisition of new colonies”.

In this context, Fisher examines the July crisis—the events between the assassination of Archuke Ferdinand in Sarajevo on June 28, 1914, and the declaration of war by Austria on Serbia on July 28. “The July crisis must not be regarded in isolation”, he writes. “It appears in its true light only when seen as a link between Germany’s ‘world policy’, as followed since the mid-1890s, and her war aims policy after August 1914.”

Fischer writes explicitly that there could be no talk of “slithering” into the war (the expression originates from the British politician David Lloyd George). Berlin had encouraged Vienna to declare war on Serbia, and gave Austria-Hungary a “blank cheque” promising German military support against Russia. This alone shows that the German leadership wanted war, or at least accepted it approvingly.

Fischer also substantiates this through the statements of several witnesses. He cites a diary entry of the pro-German Austrian politician Joseph Maria Baernreither describing German policy in July 1914 with the words: “So when the Sarajevo murder took place, Germany seized her opportunity and made an Austrian grievance her signal for action. That is the history of the war.”

In the remaining chapters that make up the core of the book, Fischer demonstrates extensively how the war aims that had been formulated before the war were pursued consistently until the German defeat.

An important source he cites is the September Programme by Theobald von Bethmann Hollweg. The German chancellor had had it prepared in the military headquarters in Koblenz, and in September 1914, when a French collapse at the Battle of Marne seemed imminent, sent it to his deputy in Berlin. Fischer had found the document, which had previously been kept secret, in the Potsdam archives.

The core of the September Programme was an economically unifiedMitteleuropa (Central Europe) under German hegemony. This goal had long been advocated by leading bankers and industrialists like Walther Rathenau, who argued that “only a Germany reinforced by ‘Mitteleuropa’ would be in a position to maintain herself as an equal world power between the world powers of Britain and the United States on the one side and Russia on the other.” Moreover, Germany should round off and expand its colonial possessions in Africa at the expense of France and Belgium.

German hegemony in Central Europe should be achieved through the ceding of territory by France, Belgium and Luxembourg; trade agreements bringing these countries under German dependence; the founding of a central European economic association including France, Belgium, Holland, Denmark, Austria-Hungary, Poland and eventually Italy, Sweden and Norway, as well as the thrusting back of Russia.

The September Programme was “no isolated inspiration of the Chancellor’s”, writes Fischer, “it represents the ideas of leading economic, political—and also military—circles” and was to remain “the essential basis of Germany’s war aims right up to the end of the war.”

The reactions to Fischer’s book were fierce. The controversy stretched over 10 years. It culminated in 1964, 50 years after the outbreak of the First World War, in an hours-long war of words at the German Historians Conference. Besides historians, leading politicians like Chancellor Ludwig Erhard, the president of parliament Eugen Gerstenmaier and the defence minister Franz Josef Strauß spoke openly against Fischer. A 1964 lecture tour in the US by Fischer at the invitation of the Goethe Institute was prevented because the foreign minister, Gerhard Schröder (Christian Democrat), at the behest of the historian Gerhard Ritter, withheld the already agreed funding.

Fischer’s opponents accused him of historical falsification. He had interpreted his sources wrongly or one-sidedly, and had failed to investigate Germany’s policy in connection with the policies of the other Great Powers, they claimed. Germany had been “encircled” through ententes and military alliances, and could not even think about grabbing world power. The main responsibility for the outbreak of war and the course of the war was borne by the two real world powers, England and Russia, they asserted.

The greatest taboo broken by Fischer in Germany’s Aims in the First World War, which he had only mentioned, but which flowed inevitably from his analysis, was the continuity of German history from the First to the Second World War. In the course of the debate, this issue moved more and more to the fore, and Fischer, in later books and articles, took an unequivocal position.

In 1969, he published an article in Der Spiegel, “Hitler was not an accident,” pointing out that Hitler’s aim—the conquest and colonisation of the East—had been the official objective of the German Reich since 1912-1913. He also discussed the relationship between Hitler’s hatred of Jews and the anti-Semitic traditions of the Reich and his hostility to the socialist workers’ movement. “In his head, Judaism and ‘Bolshevism’ became one,” he wrote. “From Karl Marx to Rosa Luxemburg, for Hitler, every form of ‘Marxism’ is identical with ‘subversive’ Judaism, whose elimination was also essential for him because of this connection.”

Fritz Fischer finally emerged victorious from the controversy of the 1960s. The political atmosphere of the time contributed to this. The trial of Adolf Eichmann (1961) and the Auschwitz Trial (1963 to 1965) had inspired a younger generation to deal critically with the past. The reckoning with the crimes of the Nazis was a central topic of the student protests in 1967-1968.

Many well-known German historians were influenced by Fischer, taking up and developing his work. “Despite the hostile attitude of nearly all the leading historians in West Germany and the calling in of political authorities, Fischer’s theses from Germany’s Aims in the First World War …increasingly held sway, above all with the younger generation, in the course of the sixties,” the historian Klaus Große Kracht concludes.


Münkler’s campaign against Fischer

Herfried Münkler and a series of other authors have set themselves the goal of ending the “domination of the Fischer school in Germany” and of breaking “the grip on this theme by Fischer and his pupils,” as Münkler wrote in a contribution for the Süddeutsche Zeitung on June 20, headlined “For a renunciation of the theses of Fritz Fischer.” Without providing any evidence, he asserts: “The more recent research tends to support Ritter’s position.”

At stake is a “turning point in historiography,” as Volker Ulrich, one of the few historians who defends Fischer, noted in Die Zeit in January. “What the conservatives in the ‘historians dispute’ in the eighties still failed to do, namely to win back the interpretative authority over German history, is now to succeed. It stands out how weak the dissent was until now.”

The arguments that Münkler and his fellow campaigners employ are neither new nor original. They repeat long-familiar assertions from the Fischer controversy, which have been answered and refuted. Münkler’s most important accusation against Fischer is that his thesis “of a main guilt of the German Reich in the First World War” is false. Already in the foreword of his own 800-page book about the First World War, which appeared in December of last year, Münkler claimed that “the theses of Fritz Fischer blaming the Germans for the main guilt for the war” were no longer tenable.

Following the publication of the German edition of the book Sleepwalkers by the Australian historian Christopher Clark, this accusation became massively inflated. The German media published dozens of articles that celebrated Clark’s work as the final refutation of Fischer’s thesis of the “exclusive guilt” of Germany.

Typical is an article by Dominik Geppert, Sönke Neitzel, Cora Stephan and Thomas Weber in Die Welt January 4, 2014, “Why Germany is not exclusively guilty.” Referring to Münkler and Clark, they write, “Fritz Fischer’s thesis of a determined German grab for world power has proved to be exaggerated and one-sided. Today, there can be just as little talk of ‘German exceptionalism’ as of ‘Prussia militarism’ as the cause of all evil. After a long period in which the German Reich’s foreign policy was interpreted as the epitome of diplomatic heavy-handedness, misplaced power-grabbing, aggressive expansionism and permanent failure, this has now been qualified.” In reality, the German leadership, “driven by fear of losing status and worries of being encircled,” had followed “the defensive aim in the precarious situation of once again establishing a limited hegemony on the European continent, which the Reich had possessed under Bismarck,” write the authors in Die Welt. One wonders what they would mean by an offensive policy if they consider the establishment of hegemony over the European continent as a defensive aim.

In this context, it is not surprising that Münkler dismisses the concept of guilt as a “moral or religious category” that has no place in political theory. Fischer’s approach, that “one can detect a clearly guilty party in the origins of armed conflicts and war” was “politically dangerous, because it is morally simplified,” he lectures in the Süddeutsche Zeitung.

This whole argument is false from its foundations. It imputes to Fischer statements that he has never made, only to refute him with reasons that amount to a justification of imperialist war policy.

In reality, Fritz Fischer has never spoken of a main or sole guilt of the Germans in the First World War. In the introduction to a new edition ofGermany’s Aims in the First World War, he wrote in January 1977: “This book is not about denunciations of German imperialism as an extreme of power politics, but about the analysis of its preconditions and its position in the state system.” And a few paragraphs before, he stresses, “I have never questioned that in the age of imperialism, the other Great Powers also pursued expansionist policies and followed their own war aims.”

Already on its initial publication in the autumn of 1961, Fischer defended himself against the accusation that he was advancing a thesis of sole German guilt. Die Zeit had reviewed his book favourably, but talked of sole German guilt. Fischer immediately refuted this in an article of his own in Die Zeit .

He wrote, “As grateful I am for the comprehensive appreciation of the book, I regret the subtitle given, ‘Professor Fischer’s thesis of (Germany’s) sole guilt for the First World War’. I have not used this expression in my book, rather I have expressly pointed out ‘that the collision of political-military interests, resentments and ideas that came into effect in the July crisis meant that the governments of the participating European powers shared responsibility for the outbreak of the world war in one way or another and to varying degrees.”

Fischer stressed that he could not examine the political responsibility of all the European and international governments, because that would have demanded a multivolume mammoth work. He focused on the special German war responsibility, in the hope that historians in other countries would be encouraged on their part to investigate the responsibility of their government.

He wrote: “But I have established far more strongly than in the prevailing German view of history that the German Reich bore a considerable part of the historical responsibility for the outbreak of the general war because Germany wanted and shielded the local Austro-Serbian war, while, trusting in German military superiority, consciously risking a conflict with Russia and France in 1914.”

The assertion that Fischer had claimed a German sole responsibility for the First World War is a straw man. Münkler imputes views to Fischer that he has never represented, only then to refute them at length and to discredit Fischer, without dealing with his actual findings.

Fischer has repeatedly stressed that his priority was not the question of war guilt, but rather, “which layers, groups, interests and ideas before the war and during the war were the decisive ones.” German historiography was so fixated on the question of war guilt, “that in the controversy surrounding the book, its real subject—the German war aims and their roots in industrial capitalist, agrarian and foreign commercial interests bound together with the strategic demands of the Army and Navy”—was lost.

Although Fischer never adhered to the Marxist view that the war was the inevitable result of the fundamental contradiction of capitalism—the contradiction between world economy and its division into antagonistic nation-states, which form the basis for the private ownership of the means of production—his book contains extensive material to support that view.

Fischer sought the cause of the war not “in the lack of ‘crisis management’ by the states involved,” but in the social interests of the ruling elites. He recognised that the other imperialist powers bore responsibility for the outbreak of the war, but that did not moderate the responsibility of the ruling class in Germany.

It is against this understanding that Münkler directs his attacks. Under conditions in which German imperialism is abandoning the military restraint imposed upon it after the Second World War, Münkler wants to suppress an historic understanding of the driving forces of war and militarism by every means.


Grab for World Power 3.0

One can only understand the fierceness with which Münkler attacks Fischer in the context of the current political situation. After two failed attempts, Germany now undertakes a third attempt to “grab for world power.” It does so under the influence of objective factors that hardly differ from those in the first and second World Wars. Münkler himself names them in his article for the web site Review 2014 quoted above: Germany’s role as an export nation, its geopolitical “central position” in Europe and the security-political importance of the European periphery.

Since the financial crisis of 2008, the European Union (EU) has turned more and more openly into an instrument of German hegemony over Europe. As the strongest economic power, Germany dictates the EU’s fiscal policy and the attacks on the European working class, including the working class in Germany. Bethmann Hollweg’s “September Programme”—according to which only a Germany strengthened by “Mitteleuropa” is able to compete among the other Great Powers as an equal world power—is in this way witnessing its resurrection.

Faced with growing international rivalry and conflicts, German imperialism is returning to its traditional direction of expansion, to the East. Reading the works of Fischer in connection with the latest events in Ukraine, they acquire a burning actuality.

Already in Germany’s Aims in the First World War Fischer dealt thoroughly with Germany’s Ukrainian policy, and in 1968 one of Fischer’s PhD students, Peter Borowsky (1938-2000), wrote his thesis on this topic. In 1969, Fischer summarised his findings in the article “Hitler was no accident” as follows: “Two days after its beginning as a world war, on August 6, 1914, the German Chancellor named as a war aim the pushing back of the Russian border to Moscow, and the formation of a series of buffer states (Finland, Poland, Ukraine, Georgia) between Germany, or rather, Austria-Hungary, and Russia; and the Chancellor’s much discussed September Programme four weeks later says that Russia must be pushed back from Germany’s eastern frontier as far as possible and its hegemony over the non-Russian peoples must be broken.”

After the 1917 Russian Revolution, Germany’s Ostpolitik (Eastern Policy) continued and realised the aims of 1914, Fischer writes: “The peace of Brest-Litovsk (March 1918) was a peace between the German Reich and Soviet Russia and an independent Ukrainian state, following Poland and Finland being previously made independent states. In the supplementary treaties of August 1918, Estonia and Georgia were also cut away from Russia. The motive for this policy was formed by strategic territorial considerations and economic interests (Ukraine, as the bread basket and supplier of ore).” Russia was pushed back to its sixteenth century borders.

Fischer shows that a straight line led from the German occupation of Ukraine to Hitler’s milieu in Munich. Among the Ukrainian emigres who gathered there could be found the former ruler in Kiev, “Hetman” Skoropadsky. Skoropadsky was a co-founder of the Nazi party paper Völkischer Beobachter, and his political conceptions flowed into Hitler’s “Mein Kampf”. The conquest of Ukraine then played a central role in Hitler’s Eastern campaign. “The geo-political strategic and economic goals (‘We want to ride to Ostland!’) are in continuity with Wilhelmian all-Germany expansionism”, noted Fisher.

Now, German imperialism has once more set the goal of removing Ukraine, Georgia and other countries that once belonged to the Soviet Union and the Tsarist Empire from Moscow’s sphere of influence, and to integrate them into an EU sphere of influence dominated by Germany. To this end, Berlin is working with political forces like Svoboda and the Fatherland Party, who celebrate Skoropadsky and the Nazi collaborator Stepan Bandera as national heroes.

Münkler’s attacks on Fritz Fischer are meant to prevent the study and understanding of the historical precursors of this policy. They serve to poison the intellectual climate and to strangle opposition to militarism. However, he will not succeed. His tirades against Fischer show how weak his arguments are.




(italiano / francais)

Louis Dalmas est mort

1) Ricordo di Louis Dalmas (JTMV)
2) Hommage à Louis Dalmas (S. Bourdon)
3) Louis Dalmas: Irak/Ukraine : Vraie et fausse réalité


A lire aussi:

Balkans Infos: le dernier numero - N.200 - ete paru…

De nombreux articles récents par Louis Dalmas

Dalmas, mort d’un aristo de la photo (B. Ollier, 7 aout 2014)


=== 1 ===

Da Jean Toschi Marazzani Visconti riceviamo e volentieri diffondiamo:

Ricordo di Louis Dalmas

Il 3 agosto 2014 si è spento all’ospedale Saint –Louis di Parigi Louis Dalmas de Polignac, la sua cremazione è avvenuta al cimitero di Père Lachaise l’8 agosto.
Con lui sparisce una figura d’uomo speciale: gentiluomo, intellettuale di grande dirittura morale, leale combattente coniugava l’eleganza di pensiero con l’azione. Con lui probabilmente si chiude un’epoca durante la quale in Francia alcuni personaggi di grande coraggio si sono ribellati al politically correct in nome delle proprie convinzioni senza preoccuparsi delle possibili conseguenze personali o delle difficoltà che le proprie scelte creavano nell’ambito sociale e politico.
Melchior Louis Marie Dalmas, marchese di Polignac nasce a Parigi nel 1920 da madre americana. A vent’anni entra nella resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale. Diventa trozkista militante e collabora, come assistente, con Jean Paul Sartre che scriverà la prefazione del suo libro Il comunismo jugoslavo, edito da Encre, il primo di una serie di testi pubblicati da importanti case editrici. Fonda una agenzia di foto-reportage negli anni ’60 ed è il primo giornalista a intervistare il presidente Tito dopo la rottura con l’Unione Sovietica. Nel 1972 sposa in seconde nozze Ivanka Mikic, forte e sensibile scrittrice belgradese, figlia di un eroe di guerra serbo e uomo politico.
Nel 1996 fonda una rivista mensile Balkan Infos, in seguito B.I., allo scopo di rivelare e contrastare la disinformazione creata per giustificare quanto gli Stati Uniti, la Germania e l’Europa provocavano in Jugoslavia e in altre aree del mondo.
Nella sua rivista Dalmas pubblicava articoli rivelatori, meticolosamente cercati nella stampa internazionale, e pezzi di giornalisti e scrittori di valore.
Intorno alla redazione della rivista, che aveva sede nella sua casa di Montmartre, si radunavano personaggi come il generale Pierre Marie Gallois, gli scrittori Vladimir Volkof, Peter Handke, Patrick Besson, il giornalista Kosta Kristich, il saggista Komnen Becirovich, il colonnello Patrick Barriot, il filosofo Daniel Schiffer e molti altri. Io stessa ho collaborato in diversi periodi.
Si era creata un’atmosfera di grande solidarietà intellettuale da contrapporre come un bastione al clima ostile che circondava la rivista e coloro che vi collaboravano.
L’epopea di Balkan Infos, B.I., si conclude con il numero 200 di agosto, dopo diciotto anni di uno straordinario combattimento per la verità. Immagino che si concluderà anche Verités& Justice che Dalmas aveva voluto e con il quale ha pubblicato molti libri proibiti.
Ricordo il viso di Louis Dalmas dall’espressione di simpatica canaglia, il sigaro in bocca e il casco in testa mentre scende dalla grossa moto con la quale attraversava Parigi. Sento la sua voce forte e curiosamente piena di dolcezza che mi risponde al cellulare a fine luglio: Mon petit chou sono all’ospedale! Era un addio, ma io mi sono rifiutata di capirlo, perché questo tipo d’uomo dovrebbe essere senza tempo.

JTMV


=== 2 ===


Hommage à Louis Dalmas, un homme qui avait l’élégance des grands esprits


Publié le 5 août 2014 par Sylvia Bourdon

Louis, Dalmas, Melchior de Polignac vient de nous quitter, le 3 aout 2014 tard dans la soirée.

Il était comme mon père, Louis Dalmas de Polignac. Le marquis rouge vient de disparaitre à 94 ans, d’une belle mort, sans souffrances, dans les bras de son épouse. Aussi paisiblement que Karajan dans les bras d’Eliette.

De Dalmas, car il insistait qu’on l’appelât ainsi, voulant dissimuler ses racines aristocratiques par je ne sais quel complexe, vraisemblablement trotskiste, on pourra dire qu’il eut une vie magnifique, excitante, palpitante et surtout, surtout, non conformiste. Ce qui ajoutait à son charme. Inutile de dire qu’il avait un grand succès auprès des femmes. Il n’avait que faire des culs coincés. Et le faisait savoir sans hypocrisie.

Aucune tristesse ne m’anime, que le regret de voir disparaître un personnage avec lequel j’ai vécu 45 ans de guerre et de paix. Même durant les derniers jours, nous échangions sur la situation géopolitique, dont il était un passionné éclairé. Ses analyses me manqueront beaucoup. Une chose nous séparait violemment, mes positions sur la conquête islamique. Dalmas était un homme de gauche, ancien trotskiste, comme quoi, je ne suis pas sectaire, grand résistant aux nazis. Il n’a jamais renié ses idées. Il était tout et son contraire. Mesquin parfois, d’une générosité sans limites ensuite. Il fut mon soutien essentiel dans les difficultés que je traversais. Jamais il ne comptait son temps. Un caractère de cochon, violent. Encore une fois, ce sont ses imperfections, mélangées à ses vertus qui faisaient qu’il était une personnalité attachante. Je n’ai pas toujours été à la hauteur et souvent injuste avec lui. De là ou il est, je lui demande pardon.

Louis Dalmas fut le premier journaliste à avoir interviewé Tito après la guerre. En est issu un ouvrage: « Le Communisme Yougoslave », préfacé par Jean-Paul Sartre. Il fut le fondateur du photo journalisme et créa dans les année 60 la première agence de presse photo au monde. L’agence Dalmas, dont les archives furent plus tard rachetées par SIPA PRESS, dirigée et fondée par notre ami Gökşin Sipahioğlu, disparu avant lui. Un Turc, à la silhouette élancée, de longs cheveux épais, qui encadraient un visage marquant, d’une grande élégance et d’une rare distinction. Un homme que j’ai beaucoup aimé aussi. Cette race d’hommes que l’on intitule à juste titre des dinosaures. Des hommes irremplaçables dans une médiocrité ambiante rarement vue dans l’histoire humaine.

Lorsque la guerre de Yougoslavie a commencé, il a inauguré un mensuel de géopolitique BALKANS INFOS, qu’il a ensuite transformé en BI. Il l’animait avec ses fortes convictions et son talent de grand journaliste. Pierre Hillard a commenté chez lui. Le Général Gallois collaborait régulièrement, comme Vladimir Volkov. Depardon fit ses classes à l’agence Dalmas, ainsi  qu’un grand nombre de journalistes et écrivans célèbres, comme José Luis de Villalonga, un homme qui aura compté dans ma vie.

Dalmas était l’auteur de nombreux ouvrages de réflexion politique et de géopolitique, dont le dernier est un essai sur le nouveau désordre mondial : Les Fossoyeurs de l’Occident. Il y eut aussi : Le Crépuscule des Elites que notre ami commun, Roland Dumas a préfacé.

Le plus drôle de son existence est, qu’il était le cousin germain de Rainier de Monaco. Il ne s’entendait qu’avec Antoinette, une espiègle, la soeur de Rainier et avait une sympathie particulière pour la Princesse Stéphanie qu’il trouvait rebelle. Ce qui était fait pour lui plaire. Il n’avait que mépris pour le reste.

Il ne comptait pas son temps pour écrire dernièrement sur Riposte Laïque, ou répondait à des invitations sur Radio Courtoisie et autres journaux en ligne, ou il essayait de faire passer ses messages éclairés. Il allait là où on le demandait. Et, comme il était ignoré du reste des médias, il avait le souci de faire passer ses messages, même si c’était sur des médias qui ne partagent pas forcément ses opinions. Dalmas était tout sauf sectaire. Il avait l’élégance des grands esprits.

Enfin, Louis, Dalmas, Melchior de Polignac était franco-américain. Sa mère était Américaine. Il aimait l’Amérique, mais détestait ses élites politiques qu’il estimait un danger pour le monde. Se reporter à ses ouvrages pour comprendre son positionnement.

Good Bye Dalmas, nous nous sommes tant aimés et chamaillés ! J’entend encore ta voix me dire d’un ton chantant, lorsque je quittais chez toi : « Salut » !  Avec qui vais-je maintenant me quereller ?

Sylvia Bourdon


=== 3 ===


vendredi, 20 juin 2014 13:51

Irak/Ukraine : Vraie et fausse réalité, par Louis Dalmas



La réalité, c’est quand on se cogne, disait Lacan.
Il faut croire que nos dirigeants occidentaux sont particulièrement insensibles aux chocs, si l’on en juge par leur conscience de la réalité.
Elle est nulle. Impavides, inébranlables dans leurs certitudes, Obama et son entourage de néocons butés poursuivent les yeux fermés leur croisade d’hégémonie américaine, fondée sur l’élimination de toute velléité d’indépendance chez leurs vassaux. Bétonnés dans une effrayante absence d’identité, leurs satellites européens se fossilisent dans leur aval du libre échangisme et leur soumission à Washington. De l’aveugle du Bureau ovale à la tête de l’empire au demeuré de l’Elysée en queue du peloton, ils ne voient rien, n’entendent rien, ne reviennent sur rien.
Pour eux, la réalité n’existe pas.
Elle existe d’autant moins qu’ils l’ont remplacée par un monde artificiel, fabriqué de toutes pièces, où les Etats-Unis sont la nation dominante et indispensable, où le libéralisme est la seule économie possible, où le pouvoir des banques et le profit de la grande industrie sont la règle, et où une désinformation organisée est articulée autour de la prétendue mission divine de faire triompher le bien du mal et d’établir la démocratie. Cette bulle imaginaire s’est bardée d’un écran opaque. Derrière lequel un mélange de cyniques calculateurs, d’imbéciles et d’idéalistes naïfs prétend diriger un univers qu’il a inventé. Au moyen de prises de position chimériques et du conditionnement mensonger du public destiné à les faire avaler.
Illustrons ce constat.
1) Quatre consultations populaires (élections ou référendums) se sont déroulées récemment, dans des pays agités et des contextes difficiles. En Egypte, le maréchal Abdel Fatah al Sissi a été solidement installé à la tête de l’Etat par 96,4 % des voix. En Syrie, Bashar al Assad a consolidé sa gouvernance en bénéficiant de 88 % des suffrages. En Ukraine de l’est, la Crimée s’est prononcée massivement pour le retour à la Russie, et des scrutins locaux ont donné forme à des mini-républiques de la "Novorussie" réclamant leur indépendance. En Ukraine de l’ouest, le chocolatier milliardaire Petr Poroshenko a été reconnu maître à Kiev par 57 % des électeurs.
Les médias occidentaux ont déchaîné leur partialité. Une seule élection a été considérée comme valable, celle du pion américain Poroshenko. Toutes les autres ont été décrites comme des "farces" ou des "mascarades". Sissi a été qualifié de "nouveau Moubarak" et Assad de "boucher de Damas". Poutine – le choix des Ukrainiens – de "nouvel Hitler". Les résultats ont été balayés dans l’inexistence. Pourtant, qu’est-ce qui permet de dire qu’élire Poroshenko à l’instigation de la CIA est plus démocratique qu’elire Sissi soutenu par les généraux égyptiens ? Ou qu’élire Assad en passe de remporter son combat contre l’étranger avec l’appui de la majorité de son peuple est moins démocratique que légitimer la guerre civile de Poroshenko contre une partie du sien ? Et quelle est la différence de nature entre le référendum d’autonomie de la Crimée et la déclaration d’indépendance en 1776 de la colonie britannique des Etats Unis ? Ce tri dans les opinions exprimées ne correspond à aucune réalité. Il n’est que le reflet des ordres de la bulle. Pour nos médias, mettre un bulletin dans une urne est un geste différent selon que l’acte convient ou non à Washington.
2) Ce "remplacement de réalité" – c’est-à-dire la narration d’événements différente de l’observation des faits véritables – n’est peut-être nulle part aussi frappant qu’à l’occasion du cas ukrainien. Tout y est filtré par la russophobie. Une russophobie passionnée, infantile, irrationnelle. A l’image de l’ex-première dame de France Valérie Trierweiler se déclarant sur Twitter "heureuse de ne pas avoir à saisir la main de Poutine". (1) Ou du Nouvel Observateur qui consacre trois pages de son numéro du 29 mai-4 juin à un prétendu soutien par Poutine de tous les partis d’extrême-droite d’Europe, sous le titre "Le grand frère des fachos". Selon cette réalité inventée, Poutine a agressé la Georgie (alors qu’il a été attaqué par Saakashvili), a envahi la Crimée (qui appartenait déjà à la Russie), a l’intention d’annexer l’Ukraine (dont il ne veut en aucun cas se charger), projette d’envahir la Pologne, la Moldavie ou les Pays Baltes (qu’il n’a jamais menacés mais qu’une l’OTAN renforcée doit "protéger" contre sa rapacité). Bref, un récital d’absurdités.
Le danger de cette déformation est qu’elle permet à Obama de pérorer comme il l’a fait le 28 mai dernier devant les cadets de l’Académie militaire de West Point. "Les Etats-Unis se serviront de la force militaire, unilatéralement si nécessaire, quand nos intérêts fondamentaux l’exigent ; quand notre peuple est menacé ; quand nos vies sont en jeu ; quand la sécurité de nos alliés est en danger". Cela sert de prétexte, sauf que, comme le remarque Srdja Trifkovic, dans Chronicles du 4 juin, que rien de tout cela ne s’appliquait en Bosnie, au Kosovo, en Afghanistan, en Irak ou en Libye. Et que rien de tout cela ne peut être imputé aujourd’hui à Poutine, de quelque manière que ce soit. 
Peu importe, "l’agression expansionniste" russe est comparée, par la machine de propagande US, à celle d’Hitler s’emparant de la Tchécoslovaquie et de la Pologne. Et Diana Johnstone note très justement que cette fausse réalité justifie la mainmise américaine sur l’Europe par une prétendue mise à l’abri de l’ouest du continent derrière un nouveau Rideau de fer.
3) Le délire de la "fausse réalité" en Ukraine ne fait que prolonger une aberration qui remonte loin. Depuis des décennies, toutes les interventions occidentales ont été fondées sur des mythes. Celui de Milosevic et de sa Grande Serbie, celui des armes de destruction massive de Saddam Hussein, celui des projets sanguinaires de Kadhafi, celui de la "libération" de l’Afghanistan, celui de la dictature insupportable de Bashar al Assad, celui des intentions impériales de Poutine. Tout cela n’a été et n’est que fantasmagorie, voulue par certains, prise pour argent comptant par les autres. Le résultat se voit aujourd’hui. La Yougoslavie démantelée en mini-Etats à la dérive (dont deux musulmans au cœur de l’Europe). L’Afghanistan à la veille de revenir aux Talibans. La Libye en plein chaos. L’Ukraine pratiquement en guerre civile. La Syrie luttant difficilement pour son intégrité. Et surtout la déflagration en Irak. Comme le dit le ministre russe des Affaires étrangères, Segueï Lavrov, cité par le Figaro du 13 juin, cette déflagration est "l’illustration de l’échec total de l’aventure qu’ont engagée avant tout les Etats-Unis et la Grande Bretagne, et dont ils ont définitivement perdu le contrôle".
Un fouillis incontrôlable en effet – pourtant facilement prévisible avec le minimum de lucidité qui a fait défaut à nos dirigeants – qui désarçonne nos fulgurants stratèges. Les voilà confrontés à la désintégration de l’Etat de Nouri al Maliki qu’ils alimentent en milliards depuis des années, à l’explosion de la guerre entre sunnites et chiites, au renforcement des Kurdes opposés à l’allié turc de l’OTAN, à la nécessité de combattre aux côtés de leur ennemi iranien les intégristes qui ont profité de l’aide apportée aux adversaires d’Assad. Autrement dit, Washington doit faire ami-ami avec son cauchemar de Téhéran contre les assaillants de Bagdad qu’il a armés en soutenant la rébellion contre Damas qui bataillait pour en venir à bout (2). Vous n’avez pas compris ? Demandez des explications à Obama.
4) Il est évident que les illusions (ou les calculs) de l’Occident ont des conséquences. L’acharnement mis par Washington à affaiblir la Russie – en la ceinturant de bases militaires et en lui arrachant l’Ukraine – en a une, redoutable. Elle a poussé Moscou vers l’est.
Les deux principaux jalons de cette orientation ont été la visite de Poutine à Shanghaï les 20-21 mai et le Forum économique international (la réponse russe à Davos) réuni à Saint-Petersbourg à partir du 24 mai. Toujours dans l’optique russophobe, la première à fait l’objet de comptes rendus incomplets dans les médias et le second a été plus ou moins passé sous silence.
La presse a en effet parlé (après voir nié puis reconnu sa signature) de l’accord de 30 ans passé entre Poutine et Xi Jinping, d’un montant de 400 milliards de $, sur la livraison de gaz à la Chine et la construction d’un nouveau pipe-line. Mais la nouvelle entente recèle des développements beaucoup plus vastes, qu’on s’est gardé de souligner. Compte tenu de la complémentarité des deux pays – la Russie a un excès de richesses naturelles et un manque de main d’œuvre alors qu’en Chine, c’est le contraire ; la Russie est forte en technologies militaires, aéronautique et software informatique, alors que la Chine excelle et hardware électronique et en production de masse de biens de consommation – les deux présidents ont envisagé une collaboration considérablement élargie. Selon le vice-président chinois Li Yuanchao, ", nous projetons de combiner le programme de développement de l’extrême-orient russe avec la stratégie de développement du nord-est de la Chine dans un concept intégré." (3) 
Cela va de l’achèvement du réseau ferroviaire Chongking-Xinjiang-Europe, rajeunissant la fameuse Route de la soie et promis à devenir la plus importante liaison commerciale du monde, et d’importants investissements chinois en Crimée, à la création d"une union militaire et politique pouvant rivaliser avec l’OTAN. L’objectf est clairement défini dans la "Déclaration conjointe de la Fédération Russe et de la République Populaire de Chine sur une nouvelle étape de partenariat entier et de relations stratégiques." De plus, il est spécifié que cette association est ouverte à d’autres membres bienvenus, comme l’Inde (4) et l’Iran. 
Comme on le voit, ces dispositions, détaillées et confirmées trois jours plus tard au forum de Saint-Petersbourg, ouvrent de larges perspectives en marge et affranchies de la domination américaine.
5) Il y a plus. Les ineptes sanctions économiques infligées à la Russie à la suite de la récupération de la Crimée ont obligé Moscou à réagir en vendant des titres de Gazprom en yuans chinois au lieu de les négocier sur le marché du dollar. La décision marque l’intention de la Russie, de la Chine, de l’Iran et d’autres pays d’abandonner progressivement le dollar (socle du pouvoir US depuis Bretton Woods en 1944) comme monnaie de réserve. Une intention qui s’est déjà matérialisée. Un récent rapport du Fonds monétaire international (FMI) révèle que déjà 23 pays déclarent des réserves officielles en yuans, sans compter 12 autres qui ont investi en yuans sans le déclarer officiellement. Certes le dollar demeure la plus importante monnaie de réserve pour le moment. Mais alors qu’en 2000, 55 % des réserves mondiales étaient en dollars, la proportion n’est plus que de 33 %. Et elle continue à diminuer. Le yuan n’est pas encore convertible. Mais au cours des années récentes, la Banque centrale de Chine a acheté de grandes quantités d’or pour en préparer la convertibilité. Et des géants économiques russes comme Gazprom ou Norilsk Nickel, se tournant vers le marché asiatique, vont en accélérer la disponibilité. 
Est-ce la mort du dollar ? Sans doute pas tout de suite, car Washington riposte par les Partenariats transpacifique (Trans-Pacific Partnership, TPP) et transatlantique avec l’UE. Mais une immense zone où les transactions se feront en roubles, en renminbi ou en or se dessine. Une zone qui était déjà en 1997 la hantise de Brzezinski. "La façon dont l’Amérique gèrera l’Eurasie est critique, écrit-il dans son Grand échiquier. La puissance qui dominera l’Eurasie contrôlera deux des trois régions les plus avancées et économiquement productives. Un simple coup d’œil à la carte montre que le contrôle de l’Eurasie entraînerait presqu’automatiquement la subordination de l’Afrique, marginalisant ainsi l’hémisphère occidental et l’Australie. Environ 75 % de la population mondiale vit en Eurasie, et on y trouve la plus grande partie de la richesse physique du monde, à la fois dans ses entreprises et dans son sous-sol. L’Eurasie détient environ trois quarts des ressources énergétiques connues de la planète." (5)
Ca c’est une réalité à laquelle nos dirigeants feraient bien de se cogner.
6) Dernier regard sur la manipulation occidentale des faits : l’anniversaire du débarquement allié, le 6 juin 1944. Nos prestigieuses feuilles de chou, que Paul Craig Roberts appelle les "presstituées", ont rivalisé dans une assourdissante glorification de l’armée anglo-saxonne, baptisée "la plus grande force de libération que le monde ait jamais connu". Certes l’hommage aux héroïques soldats qui se sont lancés à l’assaut des falaises de Normandie était amplement mérité et la réussite de l’opération a été un tournant de la guerre en Europe. Mais en faire la victoire décisive sur le nazisme est une grossière falsification.
En juin 1941, la plus énorme force d’invasion qu’ait connue la planète a pénétré en Russie sur un front de plus de 1.500 km. 3 millions d’hommes des troupes d’élite allemandes, 7.000 unités d’artillerie, 19 panzerdivisions avec 3.000 chars et 2.500 avions ont pilonné le pays pendant 14 mois. La bataille de Stalingrad a duré du 23 août 1942 au 2 février 1943, et a abouti à la reddition de la 6e armée allemande et à la capture de 22 généraux.
C’était le prélude à la fin d’Hitler. La victoire a coûté à la Russie 27 millions de morts dont 12 millions de militaires et 15 millions de civils. Les Américains et les Anglais sont intervenus après l’affaiblissement de la Wehrmacht. Qu’on s’en réjouisse ou qu’on le déplore, lors du débarquement du 6 juin, l’Armée Rouge avait déjà gagné la guerre. Devant les fastes de la commémoration de 2014, visiblement conçue pour la promotion des Etats-Unis et de son traité transatlantique, il ne faut pas oublier que de Gaulle a par quatre fois – pour les cinquième, dixième, quinzième et vingtième anniversaires du fameux débarquement – catégoriquement refusé de participer à une célébration qu’il considérait comme humiliante pour la France. Sa fierté ne supportait pas que son pays n’ait pas été associé à l’offensive d’Eisenhower et que les anglo-saxons aient projeté de transformer la France libérée en colonie par l’AMGOT. (6) Un exemple d’indépendance que n’est pas près de suivre l’ectoplasme de l’Elysée.
Sa servilité est même affichée par Fabius avec un zèle qui déborde parfois les hésitations d’Obama. Mais on reste fidèle à l’imagerie occidentale. Avec des résultats incohérents. Les médias ne cessent de s’inquiéter du retour dans leurs pays de jihadistes formés au fanatisme au sein de la rébellion syrienne, mais ils continuent à idéaliser l’opposition à Damas et à diaboliser l’Iran, les seuls bastions antiterroristes restant dans la région. Ils prétendent vouloir défendre la démocratie en Ukraine et, après avoir expulsé par un putsch le chef de gouvernement démocratiquement élu, ils appuient le remplacement de son équipe par une bande de néonazis. Ils s’indignent de voir les militaires égyptiens réprimer les Frères musulmans qui sont un vivier d’islamistes militants, au lieu de les remercier de nous en débarrasser. Ils couvrent d’un épais rideau de silence la complicité intéressée en affaires avec les monarchies du Golfe qui sont les commanditaires des attentats. Et ainsi de suite. Une logique parallèle, complètement déréalisée.
Voilà un rapide tableau du monde artificiel fabriqué par l’Occident et de ses mensonges médiatiques. Chapeauté par la "communauté internationale" qui justifie tout. Mais qu’est ce qu’elle est, cette "communauté internationale" ? Tout simplement le G 7. Sept pays (sur les 193 membres de l’ONU) – Etats-Unis, Canada, Grande-Bretagne, Allemagne, France, Italie et Japon – qui s’arrogent le droit à l’autorité universelle. Vivant dans la bulle étanche d’une irréalité qu’ils ont secrétée au profit de leur premier de cordée américain. 
Qu’ils prennent garde. La vraie réalité risque de crever leur bulle brutalement.
Louis DALMAS.
(1) Nous, nous sommes heureux de ne pas l’avoir comme première dame !
(2) Pour ajouter à la confusion, le fondamentaliste Etat islamique en Irak et au Levant (EIIL ou ISIS en anglais), qui mène l’offensive contre Bagdad, a recruté des chefs militaires du parti Baas de Saddam Hussein, et des personnalités de son entourage comme l’ex-vice-président laïque Izzat al Douri qui était un de leurs plus virulents ennemis. Les extrêmes s’unissent contre l’occupant américain et sa marionnette locale.
(3) Cité par Pepe Escobar, Asia Tribune, The Roving Eye, 29 mai 2014.
(4) Le nouveau chef d’Etat indien, Narendra Modi, a même des raisons personnelles de se détourner des Etats-Unis. Lors d’une vague de violences anti-musulmanes en 2002 dans l’Etat de Gujarat dont il était gouverneur, à la suite d’un attentat islamiste contre un train de pèlerins qui avait fait 53 morts, Washington, toujours perspicace, a saisi le prétexte d’une répression jugée excessive pour lui refuser en 2005 son visa pour les Etats-Unis.
(5) Cité par William Engdahl, "Dollar Dying ; Multipolar World in the Offing", 18 avril 2014.
(6) AMGOT : Allied Military Government of Occupied Territories (Gouvernement militaire allié des territoires occupés). Roosevelt et Churchill, qui détestaient le nationalisme gaullien, avaient imaginé de transformer la France en une véritable dépendance et avaient même imprimé sa nouvelle monnaie.

Louis Dalmas

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http://www.wsws.org/en/articles/2014/06/17/muse-j17.html

September 11 Museum: An exercise in historical falsification

By Philip Guelpa 
17 June 2014


National September 11 Memorial Museum opened to the public on May 21. It follows by roughly two and a half years the opening of the 9/11 Memorial. Both are located at the former site of the collapsed World Trade Center in lower Manhattan. The museum took nine years and $700 million to construct, and is reported to have an annual projected operating cost of $60 million. It is the most expensive such facility in the nation.

The museum, which is entirely subterranean, lies within the footprint of the Twin Towers, the pair of 110-story office buildings in lower Manhattan that collapsed after being struck by hijacked airliners on September 11, 2001. The resulting deaths, combined with those caused by the impact of another hijacked plane that was flown into the Pentagon building, headquarters of the U.S. Defense Department, in northern Virginia, and the fourth hijacked plane that crashed into a field in western Pennsylvania, numbered approximately 3,000.

The coordinated terrorist attacks were planned and carried out by members of Al Qaeda, an organization with its roots in the U.S.-supported insurgency against the Soviet-backed government in Afghanistan during the 1980s.

According to the museum’s official web site, “The National September 11 Memorial Museum serves as the country’s principal institution concerned with exploring the implications of the events of 9/11, documenting the impact of those events and exploring 9/11’s continuing significance.” The Mission Statement continues, “Demonstrating the consequences of terrorism on individual lives and its impact on communities at the local, national, and international levels, the Museum attests to the triumph of human dignity over human depravity and affirms an unwavering commitment to the fundamental value of human life.”

A visit to the museum reveals that it is narrowly focused on the attacks themselves and the impact they had on the survivors, their families and friends, and the larger community. It seeks to accomplish this by overwhelming the visitor with massive physical remnants of the destroyed buildings, including in situ structural elements, large quantities of debris, including wrecked rescue equipment and personal belongings of the victims recovered from the rubble, as well as a plethora of still and video images and audio recordings. A wall covered with photos of the victims, plus recorded phone calls, and video loops of television reports conveys the tragedy of so many lives lost. The effect is numbing.

The horror experienced by those involved is undeniable. However, the sensory overload created by the museum has the tendency, no doubt intentional, of emphasizing the emotional impact of the tragedy and its seeming irrationality, while crowding out any consideration of the larger historical context. It is, in fact, a deliberate attempt to overwhelm and mystify rather than educate.

The museum’s presentation devotes a minimal amount of space to the background of Al Qaeda. A short video, “The Rise of Al Qaeda,” placed at the very end of the exhibition, states that the US only supported the “moderate” opposition to the Soviet-supported Afghan government and not the “extremists” (a narrative that is being repeated today in Syria).

Completely ignored is the fact that Osama bin Laden worked hand-in-hand with the CIA and that Al Qaeda was, in effect, a creation of the United States, as a Cold War proxy force against the Soviet Union. To the extent that the video addresses Al Qaeda’s motivation at all, it is attributed to the U.S. support of Israel. No mention is made of American imperialism’s support of brutal dictatorships throughout the Middle East. A range of religious leaders have also criticized the video for presenting a distorted view of Islam.

The 9/11 Commission, which despite enormous limitations examined numerous inconsistencies and contradictions in the Bush administration’s account of the terrorist plot, is barely mentioned (see “What the September 11 commission hearings revealed” Part 1Part 2Part 3Part 4). The small amount of text devoted to discussing the organization and preparation of the plot states that most of the hijackers were unknown to US authorities, an allegation contradicted by 9/11 Commission testimony.

A copy of the August 6, 2001, CIA-prepared presidential briefing memo, “Bin Laden Determined to Strike Within US,” which mentioned targets in Washington and New York City and cited threats to hijack aircraft, is displayed, but with no discussion of its implications or why the Bush administration chose to look the other way.

Perhaps the most grotesque explanation of the cause of the 9/11 attacks presented in the museum comes in another video, which features various “experts” expounding on the consequences of the attacks. Rudolph Giuliani, mayor of New York at the time, attributes the motivation of the hijackers to “envy” of American “success.” The arrogance and conceit of the US ruling class could not be stated more clearly.

The intentionally myopic presentation of 9/11 was re-enforced in President Obama’s speech at the dedication of the museum, which focused solely on the immediate tragedy, making no reference to the larger questions involved.

Considered without knowledge of the wider context, based on the museum’s presentation alone, one would be left with the impression that the 9/11 attacks were simply the result of irrational “depravity,” as the Mission Statement puts it, an expression of “pure evil.” There are no nuances; no possibility of varying interpretation is even suggested. This narrative has a definite political purpose. If there is no cause other than mindless hatred and “envy,” if irrational “terrorism” is the common enemy, then one is left with a simplistic “us versus them” view of the world. This narrow and biased rendering of 9/11 is tailored to facilitate the goal of the US ruling classes: to use the attacks to whip up a jingoistic nationalism in order to cover up its immense crimes both foreign and domestic.

Above all, the museum and the memorial seek to disguise the fact that the 9/11 attacks represented a massive case of “blowback,” in a double sense. The attacks were a politically reactionary response to crimes committed by American imperialism in the Middle East—propping up bloodstained monarchies and dictatorships, slaughtering hundreds of thousands in wars, upholding Israeli oppression and dispossession of the Palestinians—all in order to defend the profit interests of American corporations and the strategic domination of the United States over the vast oil resources of the region. The organization that carried out the atrocities of 9/11, Al Qaeda, was a direct creation of American imperialism, and was being monitored by US intelligence agencies when it targeted New York and Washington.

An honest attempt to understand 9/11 would include not only a full review of the events and historical processes that led up to the attacks, but also a full examination of their consequences, including the unending “war on terrorism,” the invasions of Afghanistan and Iraq, military interventions in Libya and Syria, and the erection of a massive police-state surveillance apparatus to spy on the population of the entire world. It would be delusional to expect that from institutions financed by Wall Street and the US government.

Instead, we are presented with a crass attempt to exploit a genuine tragedy, whose victims were predominantly ordinary working class people, to promote a political agenda aimed at domination of the working class and oppressed people around the world. Commemoration of the deaths and injuries caused by the attacks is a necessary and appropriate task. The cynical abuse of their memories is not.

The drive to finalize the memorial and museum also had more direct, financial motives—the construction of replacement commercial space, and the revenue and profits it will bring. In lower Manhattan, open land on which to erect new buildings is highly sought after, but extremely rare. The leveling of the World Trade Center property provided a golden opportunity for the wealthy real estate and banking interests who dominate the city to reap a windfall. The sponsors of the museum constitute a veritable Who’s Who of the city’s financial and corporate elite. Another video in the museum, which presents the “Rebirth” of the area known as Ground Zero, totally ignores this central aspect of the rebuilding process.

The opening of the museum was preceded by an invitation-only gala party. The black tie event for 60 of the museum’s wealthy donors was hosted by Condé Nast, a major international publisher of magazines based in New York City, and billionaire former New York City mayor Michael Bloomberg. The participants were lavished with cocktails, crab cakes, and shrimp hors d’oeuvres. The New York Daily News described it as a “festive” and “alcohol-fueled party” with drinking, eating, and laughter.

The class divide inherent in the September 11 Memorial and Museum finds limited expression in the objections that many of the survivors’ families have voiced to the treatment of the unidentified human remains and to the crass commercialism of the museum’s $24 admission fee and its vulgar gift shop, the latter two presumably necessary to defray the projected $60 million annual operating cost.

Many families have expressed outrage at the placement of the large numbers of as yet unidentified human remains retrieved from the rubble of the collapsed towers into what is, effectively, a subterranean crypt, accessible only through the museum (though not open to the general public), instead of respectful interment. The remains of 1,115 out of the total of 2,749 victims at the World Trade Center have not been individually identified.

The museum’s gift shop is stuffed with tasteless and offensive trinkets (including a much-reviled cheese plate, now withdrawn), which the families of the victims and others have objected to as totally inappropriate for a place supposedly dedicated to the commemoration of the dead.

In sum, the September 11 Museum is a combination of gross historical falsification and propaganda alongside crass commercialism.






Sahra Wagenknecht about the EU crisis and the civil war in Ukraine 
The deputies of the Left Party, Sahra Wagenknecht, responds to the Policy Statement by Chancellor Angela Merkel, June 4, 2014
Original Video Material: Deutscher Bundestag dbtg.tv/fvid/3485039 / Translation: Sebastian Beykirch / Subtitle: Flimproduktion HERL
VIDEO (DEUTSCH / ENGLISH): http://vimeo.com/98184722

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http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=105579

'Merkel e Obama guerrafondai: ecco perché'

Una deputata del Bundestag, Sahra Wagenknecht, della Linke, pronuncia un durissimo atto d'accusa ad Angela Merkel e Barack Obama sul ruolo dato alla NATO in Ucraina.

Redazione, lunedì 23 giugno 2014 23:15

Sahra Wagenknecht, deputata al Bundestag per il partito Die Linke, ha parlato in aula, rivolgendo pesanti critiche alla cancelliera Merkel, e non solo.

Articolo aggiornato il 23 giugno 2014

Parte Prima: Crisi Europea [fino al minuto 5,2]
[Traduzione a cura di PandoraTV]

"Sig.Presidente,cari colleghi,
Signora cancelliera.
Ultimamente nel dibattito tedesco è diventata una colpa il cercare di capire qualcosa.
Indubbiamente questa accusa non può essere rivolta nei suoi confronti Signora Merkel. Lei non è una persona che cerca di comprendere, (vedi la) la Russia, la Francia o altri Paesi.
Lei crede che può risolvere i problemi degli altri stati guardandoli dall'alto verso il basso.
Noi corriamo un grande rischio e dobbiamo fermarci dall'abusare di una posizione semi-egemone,  in cui la Germania è scivolata, nell'antico e spietato stile tedesco.
Questo è quello che il filosofo Jurgen Habermas scrive della vostra eredità e quello che intende principalmente, ma non solo, è il trattamento di mortificazione ai danni della Francia.
Il 25 maggio, alle Elezioni per il nuovo Parlamento Europeo, il "Front National" di Marine le Pen è diventato il partito più forte di Francia.
Anche negli altri paesi, i nazionalisti, i populisti di destra, partiti apertamente fascisti come Alba Dorata in Grecia, sono diventati più forti.
Se questa non è recepita come una sveglia, sul fatto che in Europa le cose non possono continuare così, cos'altro sta aspettando?
Forse che la Signora Le Pen diventi la presidente della Francia?
Non dica che la Germania non è coinvolta nella disastrosa situazione economica in Francia.
L'"Agenda 2010″ [la molto controversa riforma del settore sociale tedesco del 2004, NdT] non è stata solo un esproprio di massa verso i lavoratori tedeschi, che ha portato ad uno stipendio in media inferiore del 3,6% rispetto all'anno 2000, ma ha reso possibile un dumping dei salari in Germania, attraverso il "lavoro in leasing", i "mini-lavori", nonché i limiti arbitrari dei tempi di lavoro.
Questo è stato sicuramente un attacco alla competitività degli altri paesi europei, che non hanno potuto imporre strumenti di questo tipo. Connesso al fatto che paesi come l'Italia e la Francia hanno perso larga parte delle loro capacità industriali.
La paga minima oraria in Francia è di 9,53€, alta più di 1 euro di quella che lei vorrebbe introdurre qui, 8,50€, con l'atteggiamento di compie un atto sociale eroico. Lei lo raggiungerà con delle eccezioni.
Certamente, con la sua logica direbbe che anche la Francia può ridurre il salario a 8,50€ l'ora. Immagino che lei veda come un successo della sua politica il fatto che i salari stanno franando in tutta Europa; che ci sia un attacco di massa ai diritti di tutti i lavoratori in ogni paese europeo, che la spesa per la salute, l'educazione e le pensioni sono tagliate e che i sistemi sociali vengono distrutti.
E allora trovate sorprendente che sempre più persone voltino le spalle ad una Europa che percepiscono come un gruppo lobbista a favore di banche e grandi multinazionali? A cui danno la colpa per la perdita dei loro posti di lavoro, per la distruzione della loro sicurezza sociale e del loro benessere?
(Trovate sorprendente) che sempre più persone vedano l'Europa come una minaccia, che non ha quindi più niente a che vedere con le grandi idee di libertà, di stato sociale, di democrazia e solidarietà?
Che invece li inabilita, restringe i loro spazi democratici...
Una Unione Europea che vede la "solidarietà" solo nel perverso processo di spendere centinaia di milioni per i Fondi di Salvataggio che beneficiano solo le banche ed i grandi investitori.
Una Unione Europea che continua ad allargare il divario tra ricchi e poveri, che è fanatica del mercato ed è asservita all'economia.
Una persona che sia sorpresa che in un simile terreno germoglino i semi del nazionalismo e del populismo di destra è una persona che non ha capito nulla.
Questo è quel che lei ha seminato, Signora Merkel!
Questo è anche il risultato delle sue politiche.
E una persona che creda che una soluzione della crisi Euro sia in corso, perchè gli hedge-funds comprano nuovamente i debiti greci, è qualcuno che confonde il mondo dei giocatori d'azzardo della finanza con la realtà.
Un giovane disoccupato in Spagna che non ha aspettative di rientrare nel mondo del lavoro oppure un malato di diabete in Grecia che non sa se riuscirà a pagare la prossima dose di insulina, tutti costoro non si possono permettere il lusso di fare confusione.
Le loro vite si svolgono nel mondo reale e avvertono se gli venga offerto o meno un minimo di futuro.
E se tutto questo non cambia, se la crisi continua a non essere pagata da chi ne ha approfittato, se la povertà continua a crescere in Europa, se gli aggiustamenti sociali falliscono, l'Europa fallisce.
E sarà sua la responsabilità, signora cancelliera federale!


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Parte seconda: La guerra civile in Ucraina [fino alla fine minuto 13,37]
[Traduzione e Fonte:  lilin.blogautore.espresso.repubblica.it]
 
"Se i problemi dovuti alla crisi non sono sentiti da coloro a cui fa comodo, se la povertà dell'Europa continua a crescere, se la disuguaglianza sociale è fuori controllo, allora un'Europa come questa è destinata a morire, e questo è anche per colpa sua, signora Merkel. 
In Ucraina l'Europa è già stata sconfitta. Il Paese annega in una sanguinosa guerra civile. E che fine hanno fatto quelle belle promesse che voi stessa avete fatto all'Ucraina qualche mese fa? Sembrava che il governo della Germania volesse sostenere quelle forze che apprezzano i valori della democrazia, della libertà e dell'Europa Unita, forze che si oppongono agli oligarchi, alla povertà, alla corruzione. Però oggi voi sostenete un governo in cui quattro ministri appartengono a partiti estremisti, persone che si esprimono apertamente contro gli ebrei e i russi. Il governo che ha acceso il conflitto e oggi sta mandando avanti una guerra contro il suo stesso popolo. Voi sostenete il presidente ucraino che ha sponsorizzato la propria campagna elettorale con i miliardi che ha rubato, con l'aiuto delle sue televisioni. Sostenete un oligarca che non è diverso da Yanukovic con la sua corruzione, i metodi da gangster e gli affari torbidi.

E tra l'altro, il nuovo presidente ucraino, ancora qualche tempo fa, era uno dei suoi ministri. E per non prendervi la responsabilità, per non vergognarvi di quello che avete fatto, sostenendo quel personaggio e portandolo al potere, ora voi siete costretta a mentire ai cittadini, nascondendo la verità su quello che accade in Ucraina. Voi nascondete che i ricchi oligarchi ucraini, così come i capi dei talebani in Afghanistan, finanziano i loro eserciti privati. Voi nascondete e tacete sui fatti che dimostrano che derubano il loro Paese. E nel frattempo gran parte dei cittadini ucraini vivono in condizioni terribili, in una precaria e umiliante povertà. Povertà che sarà sempre in aumento per colpa delle politiche finanziarie e delle sanzioni economiche imposte dall'Europa.
Voi nascondete i fatti, come ad esempio che i gruppi armati dei militanti di Pravi Sektor (l'organizzazione degli estremisti nazionalisti ucraini, ntd) continuano a presidiare Maidan, che molti rappresentanti dei partiti della sinistra sono costretti a nascondersi, non possono nemmeno uscire per strada, perché la loro incolumità è in pericolo. E il governo ucraino, anziché disarmare questi banditi dei gruppi neonazisti, hanno reso illegale il funzionamento del partito comunista. Il barbarico assassinio di più di quaranta persone civili arse vive nella casa dei sindacati a Odessa, che è stata bruciata da quegli estremisti nazionalisti, purtroppo non è propaganda russa, come l'avete definita voi. Si tratta di una realtà terribile. Una realtà che non ha niente a che fare con l'immagine dell'Ucraina democratica e pro Europa che voi state dipingendo qui. Non si chiama questa "irresponsabilità"? Un governo che va contro i più elementari principi della democrazia? Per lo più svolgendo quelle attività antidemocratiche e usando i soldi che gli europei hanno versato per costruire la democrazia. Non sarebbe stato meglio assicurarsi che i miliardi degli oligarchi ucraini, rubati al proprio popolo, fossero tornati al servizio del loro paese? Questi soldi basterebbero per risolvere i problemi finanziari dell'Ucraina. Per farla finita con gli oligarchi e la corruzione. Per creare un sistema democratico e migliorare la base sociale. Queste erano le iniziali richieste dei manifestanti di Maidan. E il loro governo di Kiev li ha traditi completamente. E anche voi, signora Merkel, avete tradito quelle persone, perché sostenete quel governo.
Il principio che funziona nell'Unione Europea, dovrebbe funzionare anche in Ucraina. Solo se le persone hanno una prospettiva di crescita sociale, allora anche il paese avrà delle prospettive di crescita. E il primo passo è porre fine alla guerra civile. Invece noi vediamo che il nuovo presidente ucraino non fa nemmeno uno sforzo per fermare l'avanzata del conflitto. Lui non vuole parlare, non vuole usare la diplomazia. Lui vuole usare la forza militare senza pietà, anche se tutte le esperienze storiche dimostrano che nelle guerre civili non esistono le vittorie fulminee, soltanto le perdite infinite e le vittime innocenti. 
Proprio per questo, signora Merkel e signor Steinmeier, se dopo questo disastroso fiasco della democrazia che avete cercato di creare in ucraina volete tornare ad una più responsabile politica estera, dovete usare la vostra autorità per costringere Poroshenko (presidente ucraino ntd) a fermare la guerra contro il suo popolo, aprire le strade per le relazioni diplomatiche e dopo potrete anche costringere Putin a fare lo stesso. Però per fare queste operazioni bisogna rispettare la legalità e considerare i diritti di tutti. Sono proprio questi i concetti che l'Occidente per molti anni ha ignorato in maniera criminale. 
Oggi questo è chiaro persino all'ex ministro della difesa degli Stati Uniti, Robert Gates. Lui stesso ha ammesso che lo spostamento della NATO all'Est è un grave errore. Errore che dalla parole di Gates, cito: 
"Ha sepolto gli obiettivi della NATO, e irresponsabilmente ignorato i punti che i russi considerano il loro interesse nazionale".
Con la stessa irresponsabilità, nell'articolo 10 dell'accordo tra Ucraina e UE, l'Ucraina viene inclusa nella politica della sicurezza europea e per questo è praticamente costretta a collaborare con la NATO.
Sono irresponsabili e assurdi i dibattiti sulle sanzioni che peggiorano le relazioni con la Russia, sanzioni dannose per l'economia della Germania e dell'Europa in generale. Intanto, mentre voi ipotizzate su quali sanzioni attivare contro la Russia, le compagnie petrolifere e del gas americane ridono di voi e si fregano le mani, calcolando i loro futuri profitti.
La pace e la sicurezza in Europa sono impossibili senza la Russia. E soprattutto contro la Russia.
Proprio per questo il governo della Germania è obbligato con fermezza e determinazione a prendere una posizione contraria alla politica militarista di Obama. Deve assumere una posizione contraria allo spostamento delle basi militari NATO nell'Europa dell'Est. Non abbiamo bisogno di nuove provocazioni militari. Non abbiamo bisogno di altre armi in questo mondo stracolmo di armi. Quelli che cent'anni dopo la Prima Guerra Mondiale e dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale ancora pensano e fantasticano sulla guerra in centro Europa, sono dei pazzi che meritano di scontare una pena in prigione, e non importa se si chiamano Obama, Rasmussen o altro. E allora, signora Merkel, liberatevi dalla vostra terribile dipendenza dalla politica militarista statunitense e cercate di collaborare con la Francia per evitare un'esplosione di tensione in Europa.
Uno storico francese, Emmanuel Todd, ha detto sulla Germania le seguenti parole - Emmanue Todd, se per caso se non lo conoscete ancora, vi consiglio di leggerlo - cito:
"Inconsapevolmente i tedeschi giocano ancora una volta il ruolo del paese che porta alla catastrofe tutti gli europei e un bel giorno alla catastrofe di loro stessi."
Se voi considerate questa frase come un'offesa, allora mi dispiace per voi.
Signora Merkel, la politica tedesca europea nel passato è stata legata a una tradizione ben differente da quella attuale. Quella tradizione è stata espressa nel bacio fraterno tra Charles de Gaulle e Konrad Adenauer nel palazzo dell'Eliseo, nella stretta di mano di Helmut Kohl e Aarons, nella rispettosa commemorazione dei caduti di Varsavia ad opera di Willy Brandt, momento che ha mosso il popolo tedesco alla lotta contro l'odio per gli ebrei, contro il razzismo su tutto il Pianeta. E ha mostrato l'esempio dello spirito pacifico della politica dell'Occidente. Vi invito ad unirvi a questo tipo di tradizione della politica tedesca ed Europea."



Fonte 1: http://www.pandoratv.it/?p=1269.




(english / francais / italiano)

Lotta ideologica attorno al Donbass

1) Comunicato della Banda Bassotti (11/9/2014)
2) Antifascisti di serie A e antifascisti di serie B (Valerio Gentili)
3) Borotba: Against the attempts to drag in the reactionary imperial "black-yellow-white" flag
4) Benvenuti nel Donbass. Il reportage (Dante Comani)
5) Comunicato in merito a presidi su Donbass anche a Milano indetti da fascisti sotto mentite spoglie (Comitato contro la guerra Milano, 10 settembre 2014)
6) Donbass People’s Republics: Ceasefire and class struggle (Greg Butterfield / WW, September 10, 2014)
7) Donbass militias evaluate cease-fire (Greg Butterfield / WW, September 10, 2014)


Leggi anche:

LE MILICIEN ROUGE "ARTEM " : "NOUS N’AVONS PAS CHOISI LA GUERRE, C’EST LA GUERRE QUI EST VENUE À NOUS! "
http://histoireetsociete.wordpress.com/2014/08/19/le-milicien-rouge-artem-nous-navons-pas-choisi-la-guerre-cest-la-guerre-qui-est-venue-a-nous/
Il miliziano rosso “Artjom”: “Non abbiamo scelto la guerra, è la guerra che è arrivata da noi!” (Intervista di Viktor Shapinov, Histoire et Societé, 19 agosto 2014)
http://aurorasito.wordpress.com/2014/08/21/la-milizia-rossa-artjom-non-abbiamo-scelto-la-guerra-e-la-guerra-che-e-arrivata-da-noi/

STRELKOV: I MIEI NEMICI NON DORMANO TRANQUILLI, CONTINERO’ A COMBATTERE PER LA PATRIA (Voltideldonbass, 7 settembre 2014)
http://voltideldonbass.wordpress.com/2014/09/07/strelkov-i-miei-nemici-non-dormano-tranquilli-continero-a-combattere-per-la-patria/

Flashbacks:

INTERVISTA A IGOR STRELKOV E PAVEL GUBAREV (8/7/2014)
Fonte: Canale Primo Repubblicano della Repubblica Popolare Donetsk: 
VIDEO 3 - https://www.youtube.com/watch?v=BfmjjR1Y04A )

INTERVISTA A ZAKHARCHENKO E KONONOV (24/8/2014)


=== 1 ===


Per chi vuole continuare a donare per sostenere la Carovana Antifascista lo può fare fino al 24 settembre scrivendo a: bassottixdonbass@...

COMUNICATO DELLA BANDA BASSOTTI

"La campagna di finanziamento si è chiusa; mancano ancora alcune iniziative in giro per l’Italia ed il concerto della Banda a Roma. Lo sforzo di tutti ci ha permesso di concretizzare il progetto anche se va a coincidere con il momento più incerto dall’inizio del conflitto. Mentre scriviamo non sappiamo nulla sul giorno successivo. Allo stato attuale non possiamo comunicare come e dove si svolgerà realmente il percorso della carovana Sappiamo che abbiamo un aereo, un pullman e i luoghi della Resistenza che ci aspettano; nei bagagli le nostre canzoni e le risorse che abbiamo messo assieme tutti quanti.

Siamo stati contattati ed incoraggiati da moltissimi paesi e abbiamo avuto conferma che il sentire internazionalista, malgrado l'"informazione" ufficiale, coinvolge la vita reale delle persone.

Abbiamo davanti quei giorni su cui vi informeremo e vi daremo conto, porteremo la storia collettiva di chi non si abitua alla barbarie e la aggiorneremo con altre storie da imparare.
Questa è comunque l’occasione per ringraziare veramente tutti quelli cha hanno contribuito con i mezzi che hanno trovato. Gruppi musicali, persone singole, collettivi, organizzazioni, amici di sempre e nuovi che hanno di fatto scritto giorno per giorno questa storia.

Abbiamo nella pratica ribadito che il fascismo, mascherato o meno, sempre in piedi ci troverà. Diciamoci grazie e buona fortuna fra di noi, tutti noi che, sparsi per il mondo, sappiamo da quale parte stare.

Agli altri lasciamo le parole."

NO PASARAN!


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Fonte: pagina facebook Fronte Sud, 4 settembre 2014

Antifascisti di serie A e antifascisti di serie B

Fallito il quarto, disperato tentativo dell'esercito ucraino di spezzare in due il fronte di Nuovarussia, le milizie popolari hanno lanciato una controffensiva riconquistando terreno a danno di un esercito regolare ormai alla canna del gas, afflitto da perdite enormi di uomini e mezzi e spesso, senza neanche più carburante per gli automezzi. Nel frattempo, le milizie rafforzano il proprio status bellico trasformandosi ufficialmente in vero e proprio esercito popolare. In questa (www.youtube.com/watch?v=PGaFd7CnGt4) fondamentale press conference, il Primo Ministro Zakharchenko ricorda agli inviati della stampa occidentale -fin dall'inizio del conflitto e senza vergogna alcuna, organo di propaganda del Maidan - le ragioni profonde della sollevazione di massa del Donbass contro il ritorno del fascismo.
Internazionalismo, condanna dello sciovinismo, richiamo ai valori sovietici di pace, lavoro e progresso e ancora, rimando all'89 francese e alla triade metastorica di libertà, eguaglianza, solidarietà.
Parole che dovrebbero essere ascoltate molto bene dai quei sinistri "massimalisti" italiani che da mesi non perdono occasione per gettare fango sulle repubbliche popolari di Nuovarussia, considerando l'antifascismo in armi degli internazionalisti e dei patrioti del Donbass "di serie B" poiché non confacente ai criteri da loro stabiliti per conferire arbitrariamente patenti di legittimità sul fenomeno.
Con la non trascurabile differenza che, mentre i così malamente detti "filorussi" sono alla testa di un movimento di massa e popolare, questi occidentali puristi, critici e detentori della verità assoluta capeggiano al massimo qualche sparuta setta antifascista che spesso, attraverso un'attività politica tutta autoreferenziale che lambisce il fanatismo, con il richiamo a mille "ismi" che i più neanche comprendono, finisce addirittura per nuocere alla causa.
Questi autentici russofobi nonché sedicenti "libertari", da giorni si riempono la bocca col nome di Alexander Dughin -il massimo maitre a penser vivente del cosiddetto nazionalbolscevismo- cercando di accreditare l'idea secondo la quale la resistenza del Donbass sarebbe caduta sotto l'influenza ideologica sua e del suo movimento.
Tuttavia, bastano le parole del filmato a smentire una simile forzatura, il nazionalbolscevismo di Dughin, infatti, ha la sua premessa teorica e metodologica fondante nella negazione e rovesciamento dei valori egualitari della rivoluzione francese dell'89. Al contrario, in tutte le sue pubbliche esternazioni, il presidente Zakharchenko non manca mai di rimarcare quali postulati fondanti della lotta antifascista del Donbass tanto i principi progressivi della rivoluzione sovietica che di quella francese. Il cosiddetto nazionalbolscevismo, invece, fin dalle sue primigenie manifestazioni, nella Germania weimariana e per bocca dei suoi maggiori teorici, ha sempre avversato, in nome di un costrutto sociale fortemente autoritario, i valori "illuministi" del luglio francese. Illuminante, a tal proposito, il pensiero del nazionalbolscevico Ernst Niekisch un anticipatore di Pol Pot nonché fautore di un socialismo avversario della modernità, dell'industria e del progresso nel nome di una società che egli auspicava fondata su una casta di contadini-guerrieri. Proprio a Niekisch e al suo –intimamente contraddittorio- movimento di resistenza al nazismo, conosciuto come Wiederstand (resistenza) appunto, si rifanno alcune componenti russofone del Donbass e si veda in proposito il caso del reggimento Varyag (https://www.facebook.com/Varyag.Batallion) che della Wiederstand tedesca riprende aspirazioni e simbologia a cominciare dall’acquila con gladio, falce e martello. Questa citazione si rende doverosa al fine di tracciare un quadro non semplicistico e manicheo della complessa situazione determinatasi nel Donbass dove, a fianco delle sicuramente maggioritarie componenti classiste e genericamente, socialcomuniste, si possono rintracciare, soprattutto nell’ambito militare, organizzazioni nazionalbolsceviche, panslaviste e perfino neozariste tutte accomunate nella lotta contro i nazisti di Kiev. Tuttavia, un conto è, giustamente, fare i conti con la complessità del reale, che inevitabilmente reca elementi di contraddittorietà e segna uno scarto da quelli che sono i nostri desiderata, un altro è mistificare il piano della verità storica mortificando, proprio come fa certa Sinistra occidentale (che, per inciso e a titolo d’esempio nulla dice sui fondamentalisti islamici di Hamas) la resistenza antifascista in armi e di massa nel Donbass, poiché non immediatamente assimilabile a quella che essa reputa la sua giusta visione dell’antifascismo e della lotta politica.
Proprio in questi giorni, l’estrema Destra europea, tradizionalmente maestra nell’assimilare a sé tutto ciò che possa risultare tatticamente utile in spregio a qualsiasi principio di coerenza, cerca di operare un riposizionamento sulla questione ucraina cercando di slegarsi dai camerati ucraini di Svoboda e Settore destro, ormai una zattera alla deriva, quindi, esattamente ora, è necessario che gli antifascisti occidentali facciano cessare inutili e sterili polemiche per dare tutto l’appoggio possibile ai nostri fratelli e compagni di Nuovarussia in modo che eventuali zone d’ombra (a partire dai cosiddetti nazionalbolscevichi) nell’esperienza del Donbass vadano a diratarsi. La storia ci ricorda, infatti, come spesso sia stata l’assenza politica dell’antifascismo e della Sinistra a fare le maggiori fortune del campo nemico. Dove c’è un’assenza, di contro ed inevitabilmente, si verifica una presenza. L’esempio italiano nel primo dopoguerra, in riferimento al movimento dei reduci, ci fornisce, in tal senso, un monito difficilmente eludibile. Fu l’atteggiamento supponente e sdegnoso degli allora strateghi del movimento operaio a gettare nelle braccia del fascismo decine di migliaia di potenziali militanti rivoluzionari. Nella Russia pre rivoluzionaria la ben diversa strategia leninista consentì ai bolscevichi di conquistare alla causa rivoluzionaria la stragrande maggioranza dei militari con i risultati che tutti conosciamo.
Nella loro opera di mistificazione della lotta di Nuovarussia, i sinistri denigratori possono contare sul sostegno di diverse testate giornalistiche -o aspiranti tali- on line e di "movimento" (per non infierire non faccio nomi) le quali non paghe di aver appoggiato la "sovversione reazionaria di massa" del Maidan, così come precedentemente i ribelli salafiti in Libia e Siria, le "femministe" al soldo di Soros "Pussy riot" e "Femen" ecc. ecc. non solo non hanno mai accennato ad un giusto processo di autocritica ma fin dall'inizio hanno concentrato il proprio fuoco di fila contro le repubbliche popolari, arrivando a suffragare, pur di addensare l'ombra del rossobrunismo sugli antifascisti del Donbass, le menzogne del portale Human right center di Kiev ( una creatura telematica della Cia costituita ad hoc per delegittimare, attraverso la pratica goebbelsiana della menzogna reiterata e sistematica, la lotta degli antifascisti ucraini).
Non è superfluo ricordare, inoltre, di come nei primi giorni del Maidan diversi pseudo-giornalisti della "Sinistra radicale" abbiano esortato i propri lettori a solidarizzare con una protesta, già allora chiaramente a maggioranza fascistoide, scambiando le bandiere rosso-nere dei seguaci del collaborazionista dei nazisti Stephan Bandera per quelle dell'anarco-sindacalismo! Ancora una volta, grossolanamente, sono state prese lucciole per lanterne...
Un simile, preoccupante deficit di analisi ha potuto verificarsi poiché, nel tentativo di ridefinire il proprio profilo e renderlo all’altezza dei tempi, la Sinistra “radicale” occidentale, da oltre un ventennio, ha progressivamente abbandonato il metro della lotta di classe, sbrigativamente accantonato come ciarpame novecentesco, finendo per introiettare, in parte, il punto di vista del nemico su una presunta “fine della storia”. Il tema “politicamente corretto” dei diritti umani si è imposto come nuovo elemento dirimente nell’analisi, mentre discipline come la geopolitica (che, invece, sarebbe molto utile utilizzare come complemento all’analisi di classe) sono state, con superficiale errore, tacciate di “fascismo”. In questo senso, forse, proprio l’esperienza di Nuovarussia e la rinascita di un forte movimento di classe ad est potranno rivelarsi utili per la costruzione anche nell’Europa occidentale di una nuova Sinistra che chiuda definitivamente i conti con quanto accaduto dalle nostre parti all’epoca del crollo del muro di Berlino.

Archivio Azione Antifascista Internazionale

[Valerio Gentili – pubblicato anche su https://www.facebook.com/rash.roma/posts/718954401516105 ]


=== 3 ===


http://borotba.org/borotba_opposes_the_imposition_of_reactionary_symbols_on_the_peoples_republic.html


Against the attempts to drag in the reactionary imperial "black-yellow-white" flag



Union Borotba (Struggle) expresses its strong protest against the attempts to drag in the reactionary imperial "black-yellow-white" flag among the official symbols of the Union of People's Republics of Donetsk and Lugansk. We are an active force fighting against the Kiev junta, one that has more than once proven its integrity. The “special attention" of the neoliberal ultra-nationalist Kiev authorities to our organization is evidence of this. Ongoing repression and persecution is only a small part of the difficulties that our activists have had to go through.

Even before the victory of the Maidan coup, through which the oligarchs and nationalists deceived civilians, we predicted all the negative trends and catastrophic developments of the situation for the people, with frightening accuracy... Unfortunately, all we previously forecast, and even more, is coming true. The People's Republic need not repeat the mistakes of the past by taking on symbols and attributes of oppression of the working majority.

The imposition of these symbols upon the majority of the population without their will is clearly an erroneous step by the institutions of the people's republics. The monarchist banner of the royal dynasty does not represent the aspirations and hopes of the working majority of Donbass. These symbols are not a source of unity in the fight against the neo-fascists and the oligarchic clique. We believe that a new time, a new era, and the aspirations of the people, should not be symbolized in this way, and most importantly without the consent of the majority of the population. The question of state symbols should be decided by popular will and, of course, not during the present war. 

The republics have their own flags, there is already a well-established flag of Novorossiya with the "St. Andrew’s cross” on a red background, as well as the host of Soviet symbols widely used by militia and supporters of self-determination. The national flags of the Soviet Union and the Ukrainian SSR are much closer to the people. These symbols unite the multinational working class of Donbass, they delight the eye and offer hope to millions of people suffering from the war unleashed by the junta.

We say "no" to splitting the movement with monarchical symbols; we say yes to the free expression of the residents of the people's republics! 

The junta will fall! We will win!

Union Borotba 



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09/09/2014 19:02 | POLITICA - INTERNAZIONALE | Autore: Dante Comani*

Benvenuti nel Donbass. Il reportage

Tutti gli anni nel giorno della vittoria a Donesk viene organizzata una parata militare. Nessuna prova di muscoli ma solo una sfilata, molto partecipata, di reduci ma anche semplici cittadini, studenti, lavoratori che ogni 9 maggio si danno l’appuntamento per una commemorazione ancora molto sentita. In quell’occasione dal museo della memoria della città, un luogo che ricorda il prezzo che i sovietici pagarono per liberare se stessi e l’Europa dal nazismo, viene rispolverato un carro armato T34 parcheggiato per il resto dell’anno all’ingresso del museo. Questo cimelio, ancora funzionante, percorre poche centinaia di metri lungo le vie principali della città subito seguito dai reduci, sempre meno, e da figuranti con le divise storiche dell’armata rossa. Questo gigante d’acciaio tra sbuffi, rumori assordanti e una coltre nera di fumo riesce sempre a garantirsi il suo quarto d’ora di celebrità, ma quello che fu un mezzo temibile che mise in crisi gli invincibili panzer con la croce di ferro di Guderian ormai riesce tutt’al più a impressionare i tanti bambini presenti alla parata. Se oggi vi capita di passare per Donesk, una città di un milione e mezzo di abitanti, quotidianamente bombardata dall’ esercito ucraino e con interi quartieri ormai ridotti ad un cumulo di macerie, vi potrà capitare di incontrare lungo una delle principali arterie che collegano la città assediata, proprio quel T34 che, a 70 anni dalla sua ultima missione, è stato costretto, suo malgrado, a tornare in servizio. Perché a Donesk, come a Lugansk, come a Sloviansk, e nelle altre città dell’Ucraina orientale sembra di essere tornati alla grande guerra patriottica. Non solo per i forti sentimenti antifascisti della totalità della popolazione del Donbass, che hanno trasformato questa guerra in un conflitto contro il male assoluto ma soprattutto perché i mezzi e le armi in mano ai ribelli sembrano usciti da un set cinematografico sulla seconda guerra mondiale. Non passa giorno, è vero, senza che i media occidentali non tirino fuori scoop, foto satellitari, dossier dei servizi di mezzo mondo, che provano il passaggio di corazzati, mezzi ad alta tecnologia e forze speciali dalla Russia. Di tutto questo naturalmente non viene fornita nessuna prova documentata eccezion fatta per qualche foto satellitare che ci mostra, rigorosamente dall’alto, dei rettangolini scuri che, solerti analisti dell’alleanza atlantica, ci dicono essere i micidiali aiuti militari inviati da Putin. Eppure un osservatore imparziale o semplicemente più attento, basandosi unicamente sulle numerose immagini provenienti dalle tv di mezzo mondo, non faticherebbe ad accorgersi che le milizie popolari sembrano più la classica armata di straccioni che quella temibile macchina da guerra che si vuole far credere. Un’armata efficiente, sia chiaro, ma con uomini in mimetica e scarpe da ginnastica, adolescenti imberbi con moschetti del 1940, mezzi improbabili adibiti a trasporto truppe, pezzi d’artiglieria antidiluviani. Insomma non bisogna essere usciti dall’accademia di West Point per capire che le tante elucubrazioni su un intervento mascherato di Mosca sono solo fantasie utili a chi fa il gioco della Nato. Facciamo a capirci. I militari russi presenti nel Donbass sono migliaia. Ma chi pensa che questi uomini siano li su incarico di Putin fa nella migliore delle ipotesi un torto alla realtà. Lo zar Putin sta trasformando la Russia e la sta preparando alle sfide geopolitiche che la attendono nei prossimi anni. Ma su questo, per ora, non vogliamo entrare. Quello che ci interessa è che l’esercito è una di quelle istituzione che è stata maggiormente interessata da questa riorganizzazione. Decina di migliaia di militari dell’armata rossa tra i quaranta e i 60 anni sono stati negli ultimi anni messi in congedo forzato per fare spazio alle nuove leve uscite dalle accademie miliari. In gran parte veterani dell’Afghanistan, della Cecenia, dell’Ossezia, una intera generazione di combattenti si è ritrovata relegata ad un angolo con i saluti di Putin. Il conflitto in Ucraina ha rappresentato per questi uomini una nuova ragione di vita su di un livello però totalmente nuovo e cioè sulla difesa di una identità non banalmente etnica ma di valori. Migliaia di loro, infatti, hanno fatto propria la nuova bandiera della Novorossiya che qualche sciocco ritiene scandalosamente simile a quella confederata della guerra civile americana. In realtà questa bandiera è la fusione di due antiche bandiere rivoluzionarie, quella completamente rossa dei bolscevichi del 1917 e quella con la croce di s.andrea blu su sfondo bianco issata sull’incrociatore Aurora che con i suoi colpi diede il via alla presa del palazzo d’inverno. Una simbologia forte, chiara ed estremamente partigiana che non lascia spazio a dubbi di sorta. Sotto quella bandiera sono accorsi Russi, Uzbeki, Mongoli, kazaki tutti a combattere il nemico giurato di sempre. Per molti osservatori sono mercenari, ma si fa veramente fatica ad immaginare un mercenario senza stipendio, perché di questo si tratta. Il Donbass militarmente è diviso in 6 zone autonome l’una dall’altra. Ogni zona comprende diverse città e ha un suo comando della milizia. A questa spetta la difesa e la gestione delle migliaia di profughi che cercano riparo oltre confine. A spiegarci questo è Andrey C., del comando del distaccamento di Lugansk, che ci accoglie con indosso una inequivocabile tshirt con l’immagine del “Che”, in una stanza con le finestre in frantumi situata in quella che una volta era la sede del comune. Da lui, scopriamo che le repubbliche popolari che si sono costituite negli ultimi mesi nelle tre principali città del Donbass sono amministrate da “consigli” di cittadini, che, quello che rimane del comparto minerario, colpito chirurgicamente dall’esercito di Kiev, è autogestito anch’esso da consigli dei lavoratori che versano parte delle rimesse ottenute alla milizia e che a questa, oltre ai compiti di difesa viene demandata la questione degli approvvigionamenti e la non facile gestione dei flussi delle centinaia di migliaia di profughi che cercano rifugio in Russia. In realtà non c’è una grossa differenza tra questi organismi visto che tutti possono partecipare all’una come all’altra. Uomini e donne, di ogni età, li vedi effettivamente correre per le vie semi deserte abbigliati con uniformi variopinte,le caratteristiche magliette a righe orizzontali bianconere della marina, le mimetiche dell’esercito ucraino e russo saccheggiate nelle caserme occupate, le divise blu della polizia della città passata coi ribelli. Un popolo in armi. Andrey ci dice che l’esercito ucraino continua a bombardare le città perché non ha il coraggio e la forza per entrare. “Questo non significa che siamo al riparo, anzi forse in termini di vite sarebbe meglio uno scontro diretto fuori dai centri abitati ma purtroppo non siamo noi a deciderlo. Ci accusano di farci scudo con i civili ma qui ognuno ha fatto la sua scelta”.
Quasi duecentomila profughi hanno potuto attraversare il confine russo grazie ad un corridoio che è stato reso sicuro, armi alla mano, proprio dalla milizia con costi umani elevatissimi.
“Abbiamo chiesto aiuto alla comunità internazionale, alle Nazioni unite, alla croce rossa internazionale, affinchè garantissero loro un corridoio umanitario ma l’esodo dei civili verso il confine russo è stato oggetto di sistematici attacchi dell’aviazione e dell’artiglieria di kiev. Un esercito che si accanisce in questa maniera contro i propri connazionali credo che non si sia mai visto in queste proporzioni. “
Chi è rimasto, è rimasto per combattere. Come Vassiliy, un professore di letteratura delle scuole superiori, comanda una batteria composta da quattro ml 20, cannoni che sparano proiettili da 122mm. Armi temibili nel 1943, un pò meno oggi. La sua compagnia è composta da circa 40 persone e tra queste ci sono 8 suoi alunni. Questi, tutti 16 enni, ci dicono che il fascismo è l’ebola del mondo ma nella Novorossiya hanno trovato la cura e ridono mostrandoci orgogliosi i loro moschetti moisin nagant del 1941.
Uno di loro ci dice che vinceranno la guerra, perché i russi non cominciano mai le guerre, le vincono e basta.
“Putin sta giocando una partita a scacchi con l’occidente.” Si fa serio un altro. “Per un po di tempo noi siamo stati addirittura i pedoni ma si sa che il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Alla fine a forza di giocare tra diplomazie qui abbiamo fatto i soviet e questo di certo non è andato giù a nessuno”.
“Dobbiamo molto alla Russia sia chiaro, anzi dobbiamo molto ai russi. Sono i nostri fratelli. Ma noi non vogliamo annetterci alla Russia. Noi siamo la Novorossiya che vi piaccia o no.”
Pavel C., maggiore siberiano dell’armata rossa è probabilmente l’unico militare vero del gruppo.” Qui ho ritrovato un motivo per combattere, nuovi compagni, non puoi non sentirti parte di qualcosa più grande di te. Io sono cresciuto e sono stato formato nel mito della lotta vittoriosa al fascismo e oggi può apparire incredibile ma sembra di essere ritornati indietro di 70 anni. “
Il professor Vassily riprende la parola e ci dice che non è d’accordo con quanti paragonano il Donbass alla Spagna repubblicana.
“ Innanzitutto non abbiamo le brigate internazionali e neanche un minimo di solidarietà . Tutto il mondo è contro di noi. Siamo noi i cattivi. Così cattivi che ci siamo portati la guerra in casa nostra, così dispotici che prendiamo le decisioni votando, così nostalgici che innalziamo al cielo con orgoglio bandiere ritenute bandite. Ma voi che fareste?Un giorno ci siamo svegliati e ci hanno detto che non potevamo più parlare russo, che gli amministratori che avevamo eletto dovevano essere sostituiti, che i contratti di lavoro andavano rivisti, le nostre miniere vendute all’estero, la nostra storia e i nostri simboli cancellati e abbattuti. Addirittura ai reduci di guerra sono state tolte le pensioni perché colpevoli di aver lottato dalla parte sbagliata. Vi sembrerà incredibile ma anche in quel frangente non abbiamo detto niente. Ma poi c’è stata Odessa. Un massacro.E da quel momento abbiamo finito di essere Ucraini, per sempre”.

La realtà è molto complessa. Per qualcuno non è così. Analisti d’accatto, giornalisti prezzolati, freelance
( più lance che free), blogger tuttologhi, sono categorie antropologiche che hanno sempre la soluzione sotto controllo, una capacità assoluta di interpretare e decodificare la storia e a volte anche la geografia. Per noi non è così, rimaniamo pieni di dubbi, di incertezze, soprattutto quando ci si trova di fronte a fatti epocali, che si percepisce influenzeranno quello che sarà il mondo nel prossimo futuro. Negli ultimi anni ne abbiamo lette e sentite di cotte e di crude ma, per nostra natura, abbiamo sempre preferito discutere e studiare senza contribuire a quella immane produzione di carta, non sempre elettronica, documenti, dossier, memorandum, che avevano la pretesa di spiegarci dove stava andando a finire questo mondo. Dalle primavere arabe all’Iraq, dalla Siria alla Palestina passando per i perenni conflitti centrafricani è stato detto e scritto tutto ed il contrario di tutto, un relativismo esasperato che ha giustificato e resa leggittima qualunque posizione anche la più falsa e ignobile. Proprio come sta accadendo per il conflitto in Ucraina.
Noi ci siamo stati. Abbiamo visto e vissuto seppur per poco tempo la realtà drammatica di una guerra uguale a tante altre e abbiamo potuto misurare una partecipazione popolare senza precedenti nell’europa del secondo dopoguerra. Ma il Donbass non è la Siria, né Gaza e non è neanche la repubblica spagnola del ’36. Il Donbass è il Donbass. Anzi, per meglio dire, il Donbass è Novorossiya. Questo è uno punti fermi insieme a pochi altri: la natura profondamente antifascista del movimento nel Donbass, la novità dell’autogoverno di città con milioni di abitanti ed il tiepido e sempre più imbarazzato appoggio della Russia a queste esperienze. Nell’Ucraina orientale si sta sperimentando qualcosa di nuovo, sotto le ceneri di una storia che sembrava definitivamente consumata riemergono le fiamme di simboli e pratiche dimenticati. Un popolo che si fa protagonista, circondato da forze preponderanti, schiacciato dalla forza della propaganda, oltraggiato e vilipeso anche e soprattutto da chi, in ogni parte del mondo, è sempre pronto a misurare il livello di radicalismo e a giudicare la bontà delle parole d’ordine altrui. Questo scarno resoconto è per quei compagni, per fortuna non pochi, che fin dall’inizio hanno saputo leggere la reale portata della crisi ucraina, le sue possibile ripercussioni e soprattutto la vera natura dei movimenti del Donbass. Non basteranno centomila cornacchie urlanti dai loro siti a scalfire il nostro giudizio su quanto visto e su quanto ci aspettavamo di vedere. Lasciamo a loro il dibattito su mercenari e contractors russi, rossobrunismo, imperialismo russo, oligarchi, gas, zarismo. Per fortuna sono inutili come le loro tesi.

A Stakanov una città a pochi chilometri dal confine russo, una statua di Lenin, come di consueto,si erge nella piazza centrale. Sul basamento grigio di cemento armato moltissimi studenti delle elementari, nelle settimane iniziali della crisi, avevano attaccato i loro disegni colorati. Alcuni di essi sono sopravvissuti alle intemperie e agli sconvolgimenti delle settimane successive. Su uno di questi, un Lenin sorridente e gigantesco, schiaccia un carro armato, su un altro afferra un missile con le mani salvando le case sottostanti ed i loro occupanti, su un altro ancora dei miliziani fanno la guardia alla sua statua circondata di bambini. E sono poco più che bambini anche i tre miliziani che fanno realmente la guardia alla statua del padre della patria. Nel 2014 c’è ancora gente disposta a questo. Ma chi glielo fa fare? La risposta è su uno striscione bianco di una decina di metri proprio alla sinistra di Lenin: “ESLI PADAT’, TO VMESTE”, recita.
Se cadrai, cadremo insieme.
Benvenuti nel Donbass

*Dante Comani e
un gruppo di compagni di ritorno da Donesk


=== 5 ===

COMUNICATO IN MERITO A PRESIDI SU DONBASS ANCHE A MILANO INDETTI DA FASCISTI SOTTO MENTITE SPOGLIE

Milano, 10 settembre 2014

Cari compagni e Cari amici,

Siamo qui a mettervi in guardia sul raggiro che è costituito dal presidio che qualcuno avrebbe indetto sabato 13 settembre a Milano a favore del Donbass. 

Vogliamo sottolineare che gli organizzatori sono individui aderenti a Millennium (miscroscopica organizzazione che tuttavia ha costruito un sito e che si proporrebbe di raccogliere fondi per una causa "umanitaria"). Nel loro comunicato non vi è una parola che si legga come "Pravy sektor" o un termine che dica "Svoboda". Questo perché Millennium non ha tra le sue idee quella dell'antifascismo, al contrario, è noto che “dialogano” con “Stato e Potenza”; quest'ultimo gruppetto ha mutato nome recentemente per divenire nientemeno che “Socialismo Patriottico”. Il costume camaleontico di costoro non riesce però a dissimulare ciò che sono in realtà: fascisti.

Le risorse economiche non sono per loro un problema, compiono viaggi in Ucraina così come in Medio Oriente, fino in Sudamerica; Lo scopo è di accreditarsi per meglio compiere il loro “lavoro”: infiltrarsi per provocare e disarticolare, provando così ad impedire che un sano indirizzo antimperialista ed antifascista possa continuare a diffondersi per infine radicarsi, così come è auspicabile, nel nostro Paese. Hanno tentato di fare un presidio a Napoli, a Milano ci proveranno il 13 Settembre.

Il Comitato Contro la Guerra – Milano mette in guardia da quello che è solo un volgare raggiro.

Diamo dunque indicazione di non partecipare per non divenire come coloro che Antonio Gramsci avrebbe definito “utili idioti”.


E' bene invece  fare girare l'indicazione qui presente.

Comitato Contro la Guerra - Milano

<comitatocontrolaguerramilano @ gmail.com>



=== 6 ===


Donbass People’s Republics: Ceasefire and class struggle

By Greg Butterfield on September 10, 2014

A ceasefire agreement signed in Minsk, Belarus, on Sept. 5, under the auspices of the Trilateral Contact Group, went into effect at 6 p.m. local time. The parties to the agreement were the governments of Ukraine and the Russian Federation and the Organization of Security and Cooperation in Europe.

The document was also signed by Alexander Zakharchenko and Igor Plotnitskiy, heads of state of the Donetsk and Lugansk People’s Republics, although they were not listed in the preamble among the parties that “reached an understanding with respect to the need to implement the steps.”

The 12-point agreement came two days after Russian President Vladimir Putin issued a seven-point peace plan following consultations with Ukraine’s President Peter Poroshenko on how to end the civil war in the Donbass region, formerly a part of southeastern Ukraine.

Among the main features of the agreement: a bilateral ceasefire in Donbass, to be monitored by the OSCE; an exchange of prisoners; a Law on Special Status “With respect to the temporary status of local self-government in certain areas of the Donetsk and the Lugansk regions” and early elections to be held there; an amnesty “in connection with events that took part in certain areas of the Donetsk and Lugansk regions of Ukraine;” and measures for the economic revival of Donbass. (The complete text in English is available at Slavyangrad.org.)

Some major U.S. and European media dismissed the agreement as a Russian maneuver. Many expressed skepticism that the ceasefire would hold, while others hailed it as a “framework for peace” and the beginning of the end of Ukraine’s civil war.

Yet within 24 hours after the ceasefire took effect, Ukrainian military forces had violated the agreement at least 10 times, according to the People’s Republics. Artillery shelling continued around Donetsk city, Schastye, Pervomayskaya and Kyrovsk.

In Mariupol, a key city of southern Donetsk that people’s militias were poised to liberate before the ceasefire, Ukrainian forces targeted the resistance with missile launchers. Additional Ukrainian troops moved into the city, along with units of the National Guard, composed of hardcore fascists in uniform — the backbone of the U.S.-backed junta in Kiev.

Things remained quiet in the Lugansk region, with many refugees returning home. Barricades were removed from the capital city’s streets, and people claimed their dead. (Journalist Graham Phillips via Twitter)

Meanwhile, there were reports of battered Ukrainian military units being “rotated out” and fresh reinforcements sent into Donbass, along with new and heavier weaponry provided by NATO — from 32 tanks in Debaltseve to several ballistic missile systems in Artemivsk.

For the anti-fascist forces, Donetsk military Commander Igor Bezler warned, “The Kiev junta used the first day of ceasefire to regroup and reorganize forces, and then resumed military operations.”? Deputy Defense Minister Pavel Skakun added: “From past experience we know that Kiev uses every war break for regrouping forces. We would have been very surprised if it had not happened this time.” (InSerbia News, Sept. 7)

A breathing spell for Kiev?

Many in Donbass, from militia commanders to the rank and file, are questioning the rationale for the ceasefire. Others, like “Ghost” Battalion Commander Alexey Mosgovoi, are outraged. Why now, they ask, and why on these terms?

Of course, an end to the Ukrainian junta’s attacks on civilians, even a partial and temporary one, is welcome. On Sept. 8, the U.N. Committee on Human Rights reported that 3,000 people have died in the fighting since April. Many believe the true number of causalities to be 10 times that.

But after two long summer months of bloody siege by the junta’s forces, the people’s militias were ready to take the offensive. They were liberating towns and villages that had been brutally occupied by the Ukrainian army and National Guard.

Kiev’s terrorist offensive was broken and its troops were in disarray, with many defecting or surrendering. Doesn’t the ceasefire agreement amount to little more than giving the junta a desperately needed “breathing spell” to reorganize and rearm?

Further, the agreement as written offers no recognition of the independence or even long-term autonomy for the Donbass region. And it suggests that it will remain within the political framework of Ukraine, despite the May 11 referenda in which voters overwhelmingly chose to establish the People’s Republics of Donetsk and Lugansk, now united in the political entity of Novorossia.

At a time when the imperialist-backed junta was on the defensive, perhaps even near total collapse, why an agreement where most of the concessions seem to be coming from the resistance — and on the most fundamental issues?

Russia’s contradictory role

It is widely understood that the agreement was the Russian government’s initiative. It was timed to coincide with and offer a counterpoint to the belligerent NATO summit meeting in Wales. There, Washington led the charge for the formation of a “rapid strike force” and new sanctions aimed at Russia, new NATO bases in Scandinavia and, of course, more and bigger weapons for the Kiev regime.

Despite the ceasefire agreement, President Obama vowed to push ahead with sanctions against Russia. And NATO is moving forward with provocative war games in Latvia, the Black Sea and even near Lviv in western Ukraine.

Russia is, of course, well within its rights to take any measures needed to defend itself from NATO imperialism and create dissension between Washington and its European Union allies. In any conflict between Moscow and Washington, anti-imperialists stand for the defeat of U.S. imperialism.

The Russian capitalist class aspires to an independent role on the world stage, and that makes it a threat in the eyes of Wall Street. And from Syria to BRICS to Ukraine, Russian President Putin has found himself forced to counter U.S. hegemony.

But for workers and oppressed people who support the revolutionary developments in Donbass and the socialist ambitions of the people there, it is important to remember that Russia is a capitalist state, ruled by its own oligarchy, which Putin represents. Within Russia, Putin has carried out severe repression against the communist left and workers’ movements.

Russia’s goals and aspirations in the struggle against a pro-fascist, pro- NATO Ukraine on its border may overlap with those of the antifascist, working-class-rooted struggle in Donbass, but they are not the same.

Increasingly, Moscow has demonstrated its willingness to reach a compromise that leaves the far-right junta in power and Donbass under the rule of local oligarchs viewed as more friendly to Russia.

Further, it is apparent that the Russian government would not welcome a revolution on its doorstep that is moving in the direction of socialism — especially given the enormous amount of solidarity with Donbass, rooted in Soviet-era internationalism, among the Russian masses.

Donbass leadership changes

In mid-August, during the most difficult days of the siege, the entire top leadership of the Donetsk and Lugansk people’s governments resigned or was replaced, including former Donetsk Defense Minister Igor Strelkov, who commanded enormous respect as the leader of the people’s militias.

During the siege of Slavyangrad last spring — where Strelkov took personal command — he challenged Moscow’s international diplomatic maneuvers by demanding arms and troops to defend the population.

It has also been reported that Strelkov squelched a possible deal on the future status of Donbass between Moscow and Mariupol-based oligarch Rinat Akhmetov when he withdrew the militia from Slavyangrad in early July to bolster the defense of Donetsk city.

Among those who resigned or were replaced were those like Strelkov, who stood for the slogan “To Kiev!” which signaled the overthrow of the junta, and former Lugansk leader Valery Bolotov, who openly favored nationalization of industry.

This should not be read as a condemnation of the new leadership, reportedly local activists of good standing. What role they will ultimately play remains to be seen.

But these changes in leadership were the prelude to Russia’s decision to move ahead with its humanitarian aid convoy in August. The flow of humanitarian aid and Russia’s political support were crucial to the militia’s ability to break the junta’s siege.

Here the contradiction between capitalist Russia and the revolutionary state-in-formation in Donbass and other areas of Southeast Ukraine becomes inescapable.

Novorossia needs Russian solidarity and assistance. But if it is to be anything other than a temporary, unstable buffer zone, then the workers and their militia will have to transcend whatever brakes Putin and the Russian oligarchs attempt to put on their struggle.

They will need to take popular measures to empower the workers and appeal to the Russian and Ukrainian masses, while striving to maintain a strong anti-fascist, anti-imperialist united front.

Colonel Cassad, a communist military analyst based in Crimea, has written an important analysis, “About the ‘Truce.’ ” (English translation at http://cassad-eng.livejournal.com/85661.html)

It reads in part: “Despite the political truce, the war as such continues, because the logic of the conflict demands its resolution by military means. The inertia of war triggered new firefights, shelling, and combat. At the same time the junta openly and publicly demonstrates that it uses this ‘ceasefire’ for accumulating forces and for preparing a new offensive.

“The USA looks at this approvingly, because the military solution of the problem of Novorossia and the final defeat of Russia in the fight for Ukraine [are] among its national interests. It is absolutely irrelevant what will be the state of the junta — while it remains in power, it will be used against the Russian Federation. The suffering of the population, victims among soldiers, destroying the infrastructure — from the point of view of the USA, all of this is just insignificant collateral damage.

“So, from the military point of view, only a complete destruction of the fascist junta is the best guarantee for ending the war.”



=== 7 ===


Donbass militias evaluate cease-fire

By Greg Butterfield on September 10, 2014

The popular militias united in the Novorossian Armed Forces of the Donetsk and Lugansk People’s Republics are composed of workers of many nationalities living throughout the Donbass mining region, formerly part of southeastern Ukraine. Both rank and file and leaders are speaking out on the future direction of their struggle against fascism and imperialism. Here is some of what they say:

Alexey Mozgovoi, commander of the “Ghost” Brigade in Lugansk People’s Republic:

In my opinion, right now, we are witnessing another attempt, by means of negotiations, to stop the resistance and to prevent the destruction of the oligarchic power in Ukraine. …

The transfer of power from the oligarchy to the people — right now this is the so-called international community’s nightmare. It became clear to everyone long ago that the world is ruled by the likes of [Kiev President Petro Poroshenko], Chubais [Anatoly Chubais, politician responsible for Russian privatization in the 1990s] and the Rockefellers. For these, removal from power is akin to death. …

Only Kiev’s capitulation can resolve the current situation. Only a separation of business interests from government can offer the chance to build a state with a human face. And only the prosecution of those who hold power, of the world “elite,” can enable the people to regain their dignity. Otherwise it was all for naught — all the slogans and all the victims. …

We did not take up arms just to stop halfway.

Translated by Gleb Bazov

tinyurl.com/nxtnsw3

“Artem,

(Message over 64 KB, truncated)


(deutsch / english / italiano)

In Ucraina non ci sono nazisti e l'UE promuove la democrazia

0) LINKS
Analisi e documenti / Chiesa uniate nazista / Battaglione Azov / Abbattimento volo di linea malese / Aggiornamenti
1) INIZIATIVE
* Roma, 12 settembre 2014: CONCERTO DELLA BANDA BASSOTTI
* APPELLO PER UNA MANIFESTAZIONE NAZIONALE in sostegno delle Repubbliche di Nuova Russia
* PETIZIONE: L'Italia non aderisca alle sanzioni contro la Federazione Russa
* Incontro tra i rappresentanti della Novorossija e la direzione del Partito Comunista della Federazione Russa
* Empfohlenes Buch: DIE UKRAINE IM FOKUS DER NATO – von Brigitte Queck
2) Ukrainian Maneuvers (GFP 2014/09/10)
3) Lettera di appello del Presidente di Confindustria Russia Ernesto Ferlenghi al Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi
4) Schweizer-Radio&Fernsehen und die NATO


=== 0: LINKS ===


--- ANALISI  E DOCUMENTI

Ukraine: Atrocities committed by the US-Supported Ukrainian National Guard (GlobalResearchTV, 5/lug/2014)

Sara Flounders on Ukraine & Palestine
06/set/2014 – Sara Flounders, co-Director International Action Center, talks about resistance in Gaza and the Donbass

Bugie di guerra: riassunto dei mesi mai raccontati dai TG (di Germana Leoni, 9 settembre 2014)

In und durch Europa führen (Berlin fordert stärkere deutsche Rolle in der Weltpolitik; GFP, 11.09.2014)

Time to end the bloody Ukraine conflict (Katrina vanden Heuvel, September 9, 2014)

“Ukraine – a rehearsal for the union of liberals and neo-Nazis in Europe.” 
Interview to A. I. Fursov, political historian, sociologist, and Head of Department at Moscow State University (MGU) – 28/05/14
http://slavyangrad.org/2014/08/27/ukraine-a-rehearsal-for-the-union-of-liberals-and-neo-nazis-in-europe-280514/
Ucraina, prova generale dell’unione tra liberali e neo-nazisti in Europa
Intervista a A. I. Fursov, storico politico e sociologo, Capo del dipartimento dell’Università Statale di Mosca (MGU) – 28/05/14
http://aurorasito.wordpress.com/2014/08/28/ucraina-prova-generale-dellunione-tra-liberali-e-neo-nazisti-in-europa/

Amnesty International Reports on Human Rights Violations in the Ukraine

Ucraina. Complimenti Amnesty International!


--- CHIESA UNIATE NAZISTA COME NEL 1941-1944

Sacerdote in Ucraina esorta ad uccidere dieci miliziani per ogni caduto della guardia nazionale (11 settembre 2014)
Al funerale di uno degli uomini dell'organizzazione filo nazista "Pravy Sektor" il prete della Chiesa greco-cattolica Nikolaj Zaliznjak ha tenuto un sermone. Nel suo discorso ha pronunciato frasi aggressive che non dovrebbero appartenere ad un rappresentante religioso. «Per ognuno dei nostri decine di loro cadranno!» - ha gridato il prete. In questo caso, sul volto del prete, vi era una chiara espressione di odio e di insormontabile rabbia. Atteggiamenti che dovrebbero essere insoliti per un Ministro della Chiesa. Un link al filmato è apparso sulla pagina personale di un social network dell'Arciprete Victor Gorbach, responsabile del Dipartimento Missionario della Diocesi Juzhno-Sakhalinsk della Chiesa Ortodossa russa. Secondo Gorbach, il sacerdote cattolico nel suo discorso suscita discordia etnica e mostra una insolito carattere aggressivo del cristianesimo.


Sacerdote uniate di Bologna promuove la raccolta fondi per l'equipaggiamento dell'esercito (agosto 2014)
FOTO: https://www.cnj.it/documentazione/ucraina/bologna190814.jpg


--- SUL BATTAGLIONE "AZOV"

# La svastica sugli elmetti del battaglione "Azov" nel servizio del Tg2 del 5/9/2014 (ore 13:00). Ovviamente, "non ci sono nazisti a Kiev"…

# fonte: pagina Facebook "Premio Goebbels per la disinformazione", 7/9/2014
 
I criminali banderisti ucraini del battaglione Azov mandano un saluto (in italiano, tramite un presunto "volontario" che si fa chiamare Constantin) ai "camerati" del nostro Paese. "Non ci sono nazisti in Ucraina"…

Вітання італійським соратникам від соратників з батальйону "Азов" (5/set/2014)

# AT LAST! German TV Shows Nazi Symbols on Helmets of Ukraine Soldiers

# Altri video del battaglione Azov: http://www.youtube.com/channel/UCewl92lzIMDO8QiAYOQ2d8w

# Da fonte simpatizzante con il battaglione Azov:
Ucraina, tra i feriti del battaglione Azov (Danilo Elia / OBC, 29 agosto 2014)


--- ABBATTIMENTO VOLO DI LINEA MALESE

Il rapporto integrale sull'abbattimento del volo MH17 

Volo Mh17, patto tra governi per insabbiare le indagini (Franco Fracassi, 4 settembre 2014)

Ucraina: rapporto, volo Mh17 colpito da numerosi oggetti ad alta velocita' [SIC] (ADNKronos, 09/09/2014)

MH17 broke up in mid-air due to external damage - Dutch preliminary report (RT, September 09, 2014)

Crash MH17 – Chairman Tjibbe Joustra about the preliminary report (09/set/2014)

Ucraina, il rapporto sul volo Mh17: fu abbattutto da proiettili (La Stampa, 9/set/2014)

MH17 abbattuto in Ucraina: colpito da "numerosi proiettili", si è spezzato in volo (RAI News, 9/set/2014)

L'aereo malese abbattuto da proiettili di mitragliatriceIn evidenza (Redazione Contropiano, 09 Settembre 2014)

Un'analisi italiana sulle indagini della sciagura del boeing malese (Tatiana Santi, 9/9/2014)
http://italian.ruvr.ru/2014_09_09/Rapporto-preliminare-sul-Boeing-777-Niente-di-nuovo-6423/
Il commento a caldo a Gianandrea Gaiani, direttore di “Analisi e difesa”
AUDIO: http://cdn.ruvr.ru/download/2014/09/09/13/gaiani_boeing_report.mp3

Ucraina: ribelli, rapporto conferma responsabilita' Kiev su volo Mh17 (9/9/2014)

Dutch report into Ukraine jetliner disaster continues cover-up (By Robert Stevens / WSWS, 10 September 2014)

CTRL+C CTRL+V: cosa significano i copia-incolla tra Corriere e Repubblica (Riccardo Rinaldi / Noi restiamo, , 12 Settembre 2014)


--- AGGIORNAMENTI

Russian Embassy, UAE
#NATO's latest evidence of #Russian armor invading #Ukraine has been leaked! Seems to be the most convincing ever! pic.twitter.com/nMdXdILX6q

Fornitura gas russo, ministro Guidi: “Temiamo le ripercussioni di Putin” (2/9/2014)

Quando certi “esperti” non sanno di che parlano
06/09/2014 – Giulietto Chiesa a Radio Città Futura rivela le menzogne dei media italiani replicando alle bugie sfacciate della professoressa Brogi

Amnesty a Kiev: stop ai crimini di guerra dei battaglioni volontari (di Massimo Lauria, 8 settembre 2014)

La Russia: "Nuove sanzioni? Chiudiamo i nostri cieli agli aerei" (RAI News, 8 settembre 2014)

Fonte: pagina facebook "Con l'Ucraina antifascista", 8/9/2014
Oggi a Saur-Mogila, centinaia di persone ricordano la liberazione del Donbass (8 settembre 1943) dai nazifascisti, avvenuta durante Grande Guerra Patriottica. La collina su cui sorge il memoriale, distrutto nei mesi scorsi dalle truppe di Kiev, era stata liberata dalle milizie popolari nella fine dello scorso agosto…

Obama commits US to war against Russia in defense of Baltic states (Barry Grey  / WSWS, 8 September 2014)

Ucraina, altro che tregua. Nuove sanzioni a Mosca e provocazioni Nato (Marco Santopadre, 08 Settembre 2014)

Celebrato al Memoriale di Saur Mogila (distrutto dagli europeisti di Kiev) l'anniversario della Liberazione

Ucraina: Ue, approvate sanzioni contro Russia ma applicazione sospesa (8/9/2014)

La UE rinvia l'adozione delle sanzioni contro la Russia (8 settembre 2014)
http://italian.ruvr.ru/news/2014_09_08/La-UE-rinvia-ladozione-delle-sanzioni-contro-la-Russia-8057/

Crisi ucraina: operative martedì le nuove sanzioni europee contro la Russia (Luca Lampugnani, 08.09.2014)
http://it.ibtimes.com/articles/70022/20140908/ucraina-russia-sanzioni-est-kiev-mosca-putin-ribelli-petrolio.htm

I filorussi di Donetsk ribadiscono l'indipendenza dall'Ucraina (8 settembre 2014)
http://italian.ruvr.ru/news/2014_09_08/I-filorussi-di-Donetsk-ribadiscono-lindipendenza-dallUcraina-6275/

La Russia stanzia 25 milioni € per i profughi ucraini (9/9/2014)
http://italian.ruvr.ru/news/2014_09_09/La-Russia-stanzia-25-milioni-per-i-profughi-ucraini-5180/

Military maneuvers and sanctions: NATO, EU escalate threats against Russia (By Johannes Stern / WSWS, 9 September 2014)

Esercitazioni Nato nel Mar Nero, Mosca nega ‘provocazioni’ (Redazione Contropiano, 09 Settembre 2014)

NATO Summit sets agenda for aggression (By John Catalinotto / WW, on September 9, 2014)

US, EU intensify military threats against Russia (By Kumaran Ira / WSWS, 10 September 2014)

Ucraina, si spara di meno ma si spara (Marco Santopadre, 10 Settembre 2014)

10 Settembre 2014 - Battaglione Cherkasy della giunta ucraina si arrende in blocco

Merkel scatenata contro Putin pretende subito altre sanzioni (Fausto Biloslavo - Gio, 11/09/2014)

Allarme gas dalla Polonia: Mosca ci ha ridotto le forniture (di Sissi Bellomo, 11 settembre 2014)

Poland Halts Reversed Deliveries of Russian Gas to Ukraine: Ukrtransgaz (RIA Novosti, 10/09/2014
http://en.ria.ru/world/20140910/192808072/Poland-Halts-Reversed-Deliveries-of-Russian-Gas-to-Ukraine.html

Poland resumes reverse gas flow to Ukraine (RT, September 12, 2014)

Amnesty International documents war crimes by pro-Kiev militia (By Julie Hyland / WSWS, 11 September 2014)

Ucraina. Le madri dei separatisti ricevono le teste dei figli in scatole di legno (11 settembre 2014)

Sanzioni Ue alla Russia forse sì, meglio no. I conti in tasca (di E. Remondino, 12/9/2014)
http://www.remocontro.it/2014/09/12/sanzioni-ue-russia-forse-si-i-conti-in-tasca/


=== 1: INIZIATIVE ===

Roma, 12 settembre 2014
presso il Centro sociale Intifada, Via di Casal Bruciato 15

CONCERTO DELLA BANDA BASSOTTI

Fonte: pagina Facebook "Archivio Azione Antifascista Internazionale", 10 settembre 2014

IMPORTANTE SOSTENETE E DIFFONDETE:
Venerdì 12, prima del concerto della Banda Bassotti, si terrà all'Intifada un incontro tra il Comitato romano per il Donbass è le altre realtà italiane e cittadine solidali con la Resistenza ucraina per costruire una MOBILITAZIONE NAZIONALE a sostegno di Nuova Russia.

Questo l'appello:

Appello per una manifestazione nazionale in sostegno delle repubbliche di Nuova Russia

Come Comitato romano di sostegno alla lotta antimperialista nel Donbass intendiamo cogliere l’occasione fornita dal concerto della Banda Bassotti di venerdì 12 settembre al Cs “Intifada” per invitare le altre realtà nazionali e cittadine, sensibili alla causa antifascista in Ucraina (diverse tra le quali hanno già annunciato la loro presenza all’iniziativa), a tenere insieme un confronto che getti le basi per la convocazione, nelle prossime settimane, di un corteo nazionale a sostegno della Resistenza nel Donbass.
Consapevoli dell’assoluta necessità di ribaltare l’inaccettabile contegno liquidazionista e rinunciatario finora tenuto sulla questione dalla Sinistra ufficiale, denunciando le simpatie per il Maidan, il preoccupante deficit d’analisi, gli appelli alla neutralità che non solo hanno impedito una mobilitazione di peso al fianco degli antifascisti del Donbass ma negli scorsi mesi, hanno anche cercato di screditare ed isolare le poche, coraggiose voci di sostegno agli insorti ucraini.
Noi, d’altro canto, siamo assolutamente convinti della necessità di far crescere il sostegno internazionale attorno alla titanica lotta degli antifascisti ucraini impegnati non solo a respingere fisicamente l’assalto militare dei nazisti di Kiev ma anche in prima linea nel respingere e scardinare i piani predatori dell’occidente capitalista desideroso, come gli Usa, di portare a compimento il processo di militarizzazione dell’est Europa o come la Germania, di realizzare i piani hitleriani di conquista ad est di nuovi “spazi vitali”. 
Ancora una volta, pur di vedere saziati i propri appetiti geopolitici, le potenze occidentali non hanno esitato ad indossare i panni dell’apprendista stregone versando fiumi di denaro nelle tasche dell’estrema Destra ucraina e scatenandola in un’orgia di violenza contro le popolazioni dell’est, sottoposte dall’attuale esecutivo di Kiev ad una vera e propria politica di apartheid. Simili mosse spregiudicate erano state attuate dalle forze Nato, nei decenni passati, già in relazione coi fondamentalisti islamici e conosciamo bene, partendo dall’11 settembre 2001 per giungere alle attuali performance dell’Isis, di cosa siano capaci queste “creature” dell’imperialismo statunitense, una volta ribellatesi ai propri mentori. 
Per queste ragioni, smascherando i piani guerrafondai ed imperialisti di occidente e Nato su scala globale e di cui troviamo le prime avvisaglie nella mobilitazione di truppe speciali interforze in Ucraina (tra cui un centinaio di parà italiani), siamo convinti che la futura mobilitazione nazionale in sostegno della Resistenza nel Donbass non debba risolversi, per ciò che concerne piattaforma ed impianto rivendicativo, in una generica ed astratta condanna della guerra e della violenza ma nella puntuale denuncia dei piani criminali e bellicosi di Nato, Usa e Ue.

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fonte: pagina facebook "Con l'Ucraina antifascista", 9 settembre 2014

Ieri a Mosca: incontro tra i rappresentanti della Novorossija e la direzione del Partito Comunista della Federazione Russa, tra cui il leader Gennadij Zjuganov.
La dichiarazione di Oleg Tsarov (già parlamentare della Verkhovna Rada di Kiev, ora speaker del parlamento della Novorossija):
"Ieri ho incontrato la direzione del Partito comunista. I comunisti hanno accolto con favore il referendum in Novorossija e hanno proposto di riconoscere la Novorossija
I comunisti, come nessun altro partito in Russia, hanno fornito assistenza umanitaria alla Novorossija. Dall'inizio del conflitto militare ci hanno inviato più di mille tonnellate di aiuti umanitari! 
A nome di tutta la Novorossija ho ringraziato, nel pieno senso della parola, questi compagni".

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PETIZIONE diretta alla Camera dei Deputati

L'Italia non aderisca alle sanzioni contro la Federazione Russa

Lanciata da Mark Bernardini (Mosca, Russian Federation)

Noi, cittadini italiani residenti in Russia, italiani in Italia che intrattengono rapporti professionali con la Russia, e più in generale persone che hanno a cuore i rapporti economici, politici, culturali ed umani tra i nostri due Paesi, esprimiamo la nostra forte preoccupazione e il nostro disappunto per l’estremizzazione del confronto tra Russia ed occidente, che ha già provocato consistenti perdite economiche ed un indebolimento della nostra posizione nel mercato russo, conquistata con una lunga storia di amicizia e di integrazione sociale e professionale.

Assistiamo ad una strategia di comunicazione strumentale ad opera della maggior parte degli organi di informazione italiani ed europei, guidata da posizioni nostalgiche di antiche contrapposizioni ideologiche che speravamo fossero superate da anni.

Il danno è estremamente elevato: nel solo settore agroalimentare perderemo circa 400 milioni di euro nell’esportazione verso la Russia. L’Italia era al secondo posto tra i Paesi europei nei rapporti commerciali con la Russia. Questa perdita potrebbe diventare strutturale ed irreversibile: la Russia non è un Paese autarchico, sostituirà l’Italia con nostri concorrenti del BRICS e dell’America Latina, e ci vorranno decenni per ritornare ai livelli attuali di interscambio. Un interscambio che nel solo primo semestre del corrente anno registra un calo del 6%, parliamo di mezzo miliardo di euro.

Perderemo le opportunità che i crescenti investimenti nel settore petrolifero avrebbero garantito per i prossimi decenni a numerosi contrattisti italiani, che offrono servizi e macchinari a numerose Società anche straniere che operano in Russia.

L’adozione di misure di sanzionamento delle maggiori banche russe e l’impossibilità di ricorrere da parte di queste ultime a linee di finanziamento a lungo termine comporterà tra le altre cose la difficoltà di molti italiani a vedere confermate le lettere di credito.

La posizione dell’Europa – e, con nostro rammarico, del nostro governo – alimenterà quel clima di sfiducia e diffidenza che porterà a contrapposizioni da cui nessuno trarrà beneficio.

State distruggendo decenni di lavoro, di investimenti e di collaborazione proficua e soprattutto di quel clima di rispetto e di considerazione di cui noi italiani abbiamo goduto da sempre.

Vi invitiamo ad un maggiore equilibrio e ad una più marcata autonomia del nostro Paese. Il rappresentante dell’UE a Mosca è l’ambasciatore lituano Vygaudas Ušackas, il rappresentante dell’UE a Kiev è l’ambasciatore polacco Jan Tombiński. E’ così che l’Unione Europea pensa di costruire la sua diplomazia? Qui non è questione di destra o sinistra: se in Italia e Francia governa il centro-sinistra, in Germania, Inghilterra, Spagna, governa il centro-destra, giusto per citare i Paesi più rappresentativi. E non gli Stati Uniti a dover stabilire cosa debba o non debba fare l’Europa con la Russia.

Ci rendiamo conto che confidare in una posizione “fuori dal coro” dell’Italia possa sembrare ambizioso e fantasioso. La storia insegna che, talvolta, il mondo cambia per le scelte coraggiose di qualcuno che agisce per primo, e l’Italia è appena entrata nel suo semestre di Presidenza dell’UE. In fondo, la Francia, cofondatrice della NATO, ebbe il coraggio di uscirne nel 1966 con De Gaulle, rientrando solo nel 2009 con Sárközy. L’Inghilterra, pur facendo parte dell’UE, non ha mai rinunciato alla propria valuta nazionale.

Non stiamo invitando ad uscire dalla NATO, dall’UE o dalla zona euro: ciò esula dalle nostre competenze. Tuttavia, se persino la Finlandia, membro anch’essa dell’UE, ha ora assunto una posizione ufficiale contro le sanzioni, che la danneggiano, non vediamo perché non possa farlo l’Italia. Ci state mettendo in ginocchio, in un momento in cui anche senza sanzioni in Italia si parla di recessione, di disoccupazione che sfiora il 13%, raggiungendo il 43% tra i giovani, di fallimento delle imprese (40 ogni giorno). Vi stiamo dunque invitando a fare una cosa semplice: fare gli interessi di quel Paese a governare il quale siete stati chiamati.


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Die Ukraine im Fokus der Nato

von Brigitte Queck

Russ­land - ei­gent­li­ches Ziel Russ­land
Um die heu­ti­ge Lage in der Ukrai­ne zu ver­ste­hen, ist es wich­tig, sich: 1. über die Be­deu­tung der Ukrai­ne für das ka­pi­ta­lis­ti­sche Eu­ro­pa, aber vor allem für die von den USA ge­führ­te NATO, im Kla­ren zu wer­den; 2. die in­ne­ren Kämp­fe in der Ukrai­ne für bzw. gegen einen EU und NA­TO-Bei­tritt in der Ver­gan­gen­heit zu be­leuch­ten; 3. die Ein­ord­nung der Ukrai­ne in die Kräf­te­kon­stel­la­ti­on in der Welt zu be­trach­ten. Die­sen Ver­such un­ter­nimmt das vor­lie­gen­de Buch.

Seiten: 215
ISBN: 978-3-88975-231-4
Sprache: Deutsch
Cover: Broschiert
Jahr: 2014 
Preis: 12,00 €


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Auf Deutsch:
Ukrainische Manöver (MH17-Untersuchungsbericht, Manöver in der Ukraine; GFP, 10.09.2014)

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Ukrainian Maneuvers
 
2014/09/10
KIEV/BERLIN
 
(Own report) - The publication of the preliminary report on the crash of Boeing MH17 in eastern Ukraine, has left crucial questions unanswered. For example, the report gives no indications of what sort of projectiles had hit the aircraft. This would be important for reconstructing whether the MH17 was actually shot down from a position on the ground. On-site forensics, which would have facilitated the investigation, had already been halted weeks ago, due to the Kiev government troops launching attacks on rebel positions in the immediate vicinity of the crash site. While resolving the cause of the crash is being delayed, NATO is loosing no time in its planning and carrying out military maneuvers. Over the past few days, the Alliance has held maneuvers in Baltic countries bordering on Russia - with German participation. More maneuvers are planned for today and over the next few days. The scenarios range from wars of intervention and occupation à la Afghanistan, to controlling maritime regions, to conflicts with militarily powerful nations, such as Russia. In reference to this latter scenario, NATO is planning a transition to a new type of warfare, according to the US military.
Unanswered Questions
What had caused the July 17 crash of the Boeing MH17 in eastern Ukraine, killing all 298 persons aboard, remains unclear. According to the preliminary report published yesterday, there were no indications of technical malfunctions. The damage to the forward fuselage and cockpit section of the MH17, as shown in photographs, seem to have been caused "by a large number of high-energy objects that penetrated the aircraft from outside.” The plane apparently broke apart in mid-air. This, in fact, confirms that the Boeing had been shot down. However, the report does not provide answers to the crucial questions. The allegation by Russian sources that Ukrainian fighter jets were flying in the relative proximity of the passenger plane remains unanswered. Also unanswered is whether the aircraft had been hit by an air-to-air or a surface-to-air missile; whether the numerous small holes in the cockpit were caused by machinegun rounds, as the Canadian OSCE observer Michael Bociurkiw claimed, shortly after his first inspection. Important questions about the circumstances in which the forensics were undertaken remain unanswered as well. For example, why did Ukrainian troops force the experts to halt their on-site investigation of the crash, after only a few days, by launching attacks on rebel positions in the immediate vicinity.[1]
No Reliable Evidence
At the end of last week, the German government responded to a parliamentary interpellation concerning the MH17 crash, saying that the MH17 had been tracked during its flight by "two AWACS aircraft ... by means of radar, as well as signals from the MH-17's transponder." However, the radar recordings ended at 14:52 CET - just before the crash - when the Boeing left the AWACS' "zone of reconnaissance." According to the German government, the AWACS had recorded "signals from an anti-aircraft-missile system, which are "classified as 'Surface to Air-Missile' SA-3." It remains unclear, whether the latter was within the AWACS' "zone of reconnaissance," which the MH17 had already left by the time it is alleged to have been downed. If an anti-aircraft-missile system would have been stationed near the crash site, the question arises, how could the AWACS record a ground-based object, but not the airborne MH17. The German government admits that according to available information, it has "no reliable evidence of the possible use of anti-aircraft-missile systems" against the MH17.[2] This confirms that the German government has supported sanctions on Russia, purely on the basis of speculations. Immediately following the downing of the Malaysian Boeing, the EU imposed its first sanctions.
Take off from Ramstein
Even though the obvious shooting down of the MH17 is the second massacre remaining unresolved - with the February 20 sniper-murders at Kiev's Maidan Square - NATO is launching a set of maneuvers in rapid fire succession in countries bordering on Russia. Already, during NATO's summit in Newport, the war alliance carried out its "Steadfast Javelin II" maneuver - with German participation. The combat exercise began at the US Air Force Base in Ramstein, Germany, September 2. Around 2,000 soldiers from ten nations took part. On the weekend, 500 paratroopers were dropped at an airfield in Latvia - not even 150 km from the Russian border. Another 160 paratroopers trained in Lithuania. Smaller maneuvers were held also in Estonia and in Poland. The maneuver ending tomorrow, Thursday, is characterized by the US military as a transitional step from training exercises for combat interventions à la Afghanistan to training for combat with militarily powerful nations, such as Russia. This points toward NATO's future. Other maneuvers are set to follow.
Control of the Black Sea
The "Sea Breeze" maneuver, which began this past Monday, ends today, Wednesday. According to US information, this maneuver is especially focused on maritime interception missions - operations to intercept enemy forces. However it also trains in measures for taking control of maritime regions in crisis situations. Particularly armed forces from Black Sea riparian nations are participating - units from the NATO countries Turkey and Rumania, but also non-NATO nations Georgia and Ukraine. The "Sea Breeze" maneuvers, focused on taking control of the Black Sea, have been regularly held since 1997 in the Crimea, often with German troops participating. The population has repeatedly protested against these NATO combat maneuvers. In the aftermath of the February putsch in Kiev, Russia feared that Ukraine, with its new, extremely anti-Russian regime, could challenge Moscow's continued use of its essential Crimean naval base and possibly replace it with a NATO naval base.
From Kosovo to East Ukraine
Ultimately, the maneuver "Rapid Trident" is scheduled to begin in Western Ukraine next Monday, again with German participation. Like "Sea Breeze," "Rapid Trident" has also regularly been held since 1997. According to a report, it trains troops in the "typical tasks of stabilization missions, such as were recently standard in Afghanistan, for example providing security against mines and ambushes for military patrols."[3] This is an indication of Ukraine's past and future function for NATO - furnishing personnel and equipment for western interventions throughout the world. Ukraine's Ministry of Foreign Affairs has declared that Kiev actually does keep soldiers in reserve for any NATO mission.[4] Ukrainian troops were already participating in the Iraq invasion. From August 2003 - under President Leonid Kuchma - until December 2008, the government had sent up to 1,650 soldiers into that country under US occupation. The Ukrainian civil war imposed limits on Kiev's activities. It has been reported that Hungarian soldiers have recently replaced around 100 Ukrainian soldiers, who were stationed in Kosovo, in the KFOR framework, so that they can fight in the civil war raging in the east of their country.
[1] Dutch Safety Board: Preliminary report. Crash involving Malaysia Airlines Boeing 777-200 flight MH17. The Hague, September 2014.
[2] Antwort der Bundesregierung auf eine Kleine Anfrage der Fraktion Die Linke. Berlin, 05.09.2014.
[3] Johannes Leithäuser: Gipfel der Gesten. Frankfurter Allgemeine Zeitung 05.09.2014.
[4] Ukraine's contribution to NATO peace support activities. nato.mfa.gov.ua.


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Lettera di appello del Presidente Ernesto Ferlenghi al Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi



Al Presidente di Confindustria
Giorgio Squinzi
Mosca 02.09.2014

 

Caro Presidente,
la recente situazione venutasi a creare attorno alla crisi Ucraina, con l’inasprimento di azioni sanzionatorie da parte dell’Unione Europea contro la Russia,  stanno portando i rapporti fra il nostro Paese e la Russia al punto più basso nella lunga storia di collaborazione.
La nostra comunità imprenditoriale, i nostri Soci, sono fortemente preoccupati della escalation che sta assumendo il confronto tra la Russia e l’occidente che ha già provocato consistenti perdite economiche ed un indebolimento della nostra posizione nel mercato russo conquistata con una lunga storia di amicizia e di integrazione sociale e professionale.
Assistiamo ad una strategia di comunicazione strumentale da parte della maggior parte degli organi di informazione italiani ed europei, guidata da posizioni nostalgiche di antiche contrapposizioni ideologiche che speravamo fossero superate da anni.
Il danno per le nostre aziende è molto elevato: perderemo solo nel settore agroalimentare circa 400 milioni di euro nell’esportazione verso la Russia, erosione dell’interscambio che  poneva l’Italia al secondo posto tra i paesi europei nei rapporti commerciali con la Russia, con la certezza che la perdita diventi strutturale, a favore dei nostri diretti concorrenti europei e cinesi che spesso operano in JV con società russe e pertanto già localizzate.
Perderemo le opportunità che i crescenti investimenti nel settore petrolifero garantiranno per i prossimi decenni ai numerosi contrattisti italiani che offrono servizi ed equipment alle numerose società anche straniere che operano in Russia.
L’adozione di misure di sanzionamento della maggiori banche russe e l’impossibilità di ricorrere da parte di queste ultime a linee di finanziamento a lungo termine comporterà tra le altre cose la difficoltà di molti nostri colleghi a vedere confermate le lettere di credito.
La posizione dell’Europa e con nostro rammarico del nostro Governo alimenterà quel clima di sfiducia e diffidenza che porterà a contrapposizioni da cui nessuno trarrà beneficio.
Caro Presidente, capisci bene che questo vuol dire distruggere decenni di lavoro, di investimenti e di collaborazione proficua e sopratutto quel clima di rispetto e di considerazione di cui noi italiani abbiamo goduto a sempre.
Proprio per questo ti scrivo per rappresentare il disagio e manifestare tuta la nostra incredulità e la voglia di reazione condivisa con tutti i  nostri colleghi.
Ti chiediamo di fare tutto i possibile affinché questa nostra richiesta, con il peso di Confindustria, possa convincere i  nostri governanti ad un maggior equilibrio ed a una più marcata autonomia del nostro Paese.
Sicuri della Tua sensibilità e disponibilità cogliamo l’occasione per inviarTi i più calorosi saluti

 

Il Presidente di Confindustria Russia
Ernesto Ferlenghi

 


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Schweizer-Radio&Fernsehen und die NATO


----- Original Message -----
Sent: Sunday, September 07, 2014 12:58 PM
Subject: SRF und NATO

Sehr geehrte Damen und Herren

ich protestiere in aller Form gegen die Art und Weise, wie SRF die grauenhafte Situation in der Ukraine darstellt. Eins zu eins wird übernommen, was die Kriegstreibernation Nr 1 an Desinformation und Lügen in die Welt setzt. Man könnte meinen, SRF habe die Chefredaktion im Pentagon.
Den Gipfel dieser Unterwürfigkeit bietet - nicht zum ersten Mal - Fredy Gsteiger mit seiner VÖLLIG UNKRITISCHEN Berichterstattung aus Wales und seiner Glorifizierung der NATO.  Und das alles in einer öffentlich-rechtlichen Institution eines angeblich neutralen Landes.

Ich fordere Sie auf, endlich der Wahrheit zum Durchbruch zu verhelfen und vorab eine Kriegsindustrie (und wer daran verdient) anzuprangern, die immer wieder neue Feinde und Kriegsfelder braucht, um ihre Produkte zu verkaufen und dabei zu allem fähig ist: siehe Jugoslawien,  Afghanistan, Irak, Syrien, Lybien, etc. Und sie schreckt in gewissen Fällen nicht mal davor zurück, versteckt beide Kriegsparteien zu beliefern (siehe ISIS!!!)

Zur Ukraine: Wieso wird immer nur Putin angegriffen, er liefere Waffen an die Aufständischen, wo USA, NATO samt europäische Vasallen lange vor Maidan (siehe Mr Mc Cain!) die ukrainischen Faschisten versteckt beraten, beliefern und mit Privatkiller-Kommandos "begleiten"? - alles weitgehend unerwähnt in Ihren Medien....
 
Nehmen Sie bitte Ihre Verantwortung war und tragen Sie zur Deeskalation bei!
 
Frieden statt NATO!

Mit freundlichen Grüssen
Samuel Wanitsch, Rentner, Zeiningen
 
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Am 04.09.2014 16:14, schrieb Schweizer Radio und Fernsehen:

Sehr geehrter Herr Wanitsch

Man kann die USA kritisieren für ihre aussenpolitischen Fehler, die sie zweifellos auch gemacht haben. Sie aber als Kriegstreiber-Nation Nr.1 zu bezeichnen ist indiskutabel.

Gerade Ihre Generation müsste sich doch eigentlich noch etwas Anerkennung und Dankbarkeit für die Rolle der USA im Zweiten Weltkrieg aufbringen. Vielleicht fragen Sie ja auch einmal einen Kosovaren, der vor einem Genozid durch die Serben bewahrt wurde, oder eine afghanische Frau, die wieder ohne Burka einen Beruf ausüben durfte oder einen politischen Ex-Häftling in Libyen, der wieder sagen darf, was er will, was die von den USA halten. 

Wir berichten unabhängig und kritisch, aber wir machen nicht mit beim Anti-Amerikanismus und lassen uns nicht blenden von der russischen Propaganda.


Mit freundlichen Grüssen

Gregor Meier
TV-Nachrichtenchef SRF

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Sehr geehrter Herr Meier

..womit Sie Ihre unkritische Haltung gegenüber der Politik der USA auch gleich bestätigt haben.
Nach Assange, Bradley Manning und Snowden sollten Sie diese plumpe Antiamerikanismus-Keule nicht mehr verwenden und überzeugendere Argumente einbringen. 
Zweiter Weltkrieg: Wer hat die Nazis und den Faschismus entscheidend gestoppt und die grössten Opfer gebracht? Sicher nicht die Amis, sondern das russische Volk.
Kosovo: Wollen Sie behaupten, den Kosovaren gehe es heute besser als damals in Jugoslawien? Und wer regiert sie heute? Fragen Sie mal Dick Marty. Und wollen Sie damit die "humanitäre Intervention " der NATO mit Uran-angereicherter Munition gutheissen, die mittlerweile zu 20'000 mehr Krebsfällen in Serbien geführt hat?
Libyen: Angesichts der Tausenden von Toten und noch mehr Flüchtlingen von gewonnener Meinungsäusserungsfreiheit von Gefangenen (wie steht es damit in den USA?) als Erfolg zu sprechen ist einfach nur noch zynisch.
USA keine Kriegstreiber? Was war und ist mit Guatemala, mit Chile, mit Honduras? Was ist mit der US-Subversion in Bolivien, Ecuador, Venezuela, Cuba?

Herr Meier, tun Sie mir bitte einen Gefallen: Sagen Sie nicht mehr, Sie würden "unabhängig und kritisch" berichten. Auch wenn das stereotyp mal für mal gesagt wird, es wird nicht wahrer. Ich wünsche Ihnen, dass Sie vor Ihrer Pensionierung zur halt manchmal unbequemen Wahrheit finden - so wie es diverse verantwortungsvolle Journalisten-Kollegen immerhin im Alter geschafft haben.

Mit freundlichen Grüssen

Samuel Wanitsch
seit 1973 und Chile punkto US-Subversion sensibilisiert  - und gleichwohl mit guten Freundinnen und Freunden in den USA verbunden

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Bemerkung von K.Trümpy:

Der linke Aktivist Samuel Wanitsch und der SRF Journalist Gregor Meier bewegen sich offensichtlich in zwei Parallelwelten. Dabei vertritt Herr Meier die Mehrheitsmeinung (noch), die jedoch nicht unbedingt für Waheit und Logik steht. Er bemüht z.B. die US-Neocon - UCK Propaganda, wonach die NATO die Kosovaren vor einem Genozid durch die Serben bewahrt habe. Effektiv ist damals Milosevic gegen bewaffnete, vom Westen gesponserte UCK-Separatisten, militärisch vorgegangen. Die massenhafte Fluchtbewegung im Kosovo ist erst mit Beginn der NATO-Bombardemente entstanden. Jetzt hat aber im Westen niemand etwas dagegen, wenn Poroschenko ganze Städte in der Ostukraine bombardieren lässt, sodass schon tausende Zivilisten umgekommen und hunderttausende nach Russland geflohen sind.




(english / italiano)


ESPORTARE L'ECCELLENZA ITALIA ALL'ESTERO


ITALIANIZATION ACCOMPLISHED
Forms and structures of Albanian television’s dependency on Italian media and culture
by Paolo Carelli 
in: Journal of European Television History and Culture Vol. 3, 5, 2014



"Tv in Albania: italianizzazione compiuta"

di Davide Sighele, 21 agosto 2014

Non solo stessi format e forte condizionamento culturale. Ma anche condivisione di programmi, conduttori italiani che si spostano in Albania ed editori dal passaporto italiano.
Per Paolo Carelli, del dipartimento di Scienze della comunicazione dell'Università cattolica di Milano, la completa italianizzazione della tv albanese sarebbe ormai cosa fatta.
Lo scrive in un suo saggio – a disposizione dei lettori in lingua inglese - scritto per la rivista accademica on-line View.
Carelli individua tre fasi che, non necessariamente in ordine cronologico ma a volte sovrapposte, negli ultimi 25 anni hanno portato a quella che viene chiamata, fin dal titolo del saggio, “Italianizzazione compiuta” della tv albanese.
La prima fase è quella dell'“italianizzazione sottile” e riguarda l'adozione di format e linguaggi in voga nella tv italiana, pubblica e privata. Un esempio su tutti, la trasmissione Memgjes i mbar(Buongiorno) su Teuta TV che ricalcava il celebre Unomattina, prodotto dalla RAI.
La seconda fase è chiamata di “italianizzazione condivisa”, ed avviene attraverso programmi di cooperazione televisiva tra le due sponde, che ha incluso sia la trasmissione di prodotti televisivi italiani sottotitolati in lingua albanese che programmi di co-produzione.
Infine la terza fase, detta “italianizzazione quasi-coloniale”, con reti televisive albanesi di proprietà di italiani che hanno iniziato ad arruolare, per i loro programmi, professionisti del settore italiani, quali ad esempio, in tempi recenti, Alessio Vinci.
Se si ritenesse che i media e l'influenza italiana su di loro sia l'unico fattore che possa spiegare i cambiamenti avvenuti in Albania a partire dagli anni'80 si sbaglierebbe di grosso, tiene a precisare Carelli. Anche le forti relazioni con l'Italia hanno origini ben più lontane. Partendo dai romani, passando per le comunità Arbëreshë e continuando con Vittorio Emanuele III re d'Albania.
Ma certo, accendere la tv a Tirana e trovarsi Barbara D'Urso fa un certo effetto.




I Crociati e gli Assassini

0) I Crociati e gli Assassini
1) I nuovi jihadisti vengono dal Kosovo. Le esecuzioni postate su Facebook (L'Espresso, 8 settembre 2014)
2) L'imam Bilal Bosnic: giusto rapire le ragazze italiane / La spirale balcanica minaccia jihadista per l'Italia / Quando l'imam combatteva in Bosnia (Il Giornale, 27/08/2014)
3) Il vero pericolo terrorista arriva dai Balcani. Nel nostro Paese sono albanesi, bosniaci e kosovari il nocciolo duro jihadista (Il Giornale, 21/06/2014)


Vedi anche: 

LA BOSNIA CHE HA VOLUTO ADRIANO SOFRI
Ajša Mekić - jedan od bisera treće godišnjice Škole Kur'ana Časnog
https://www.youtube.com/watch?v=zfaFlKua-G8

EZIO MAURO FA APPELLO PER LA NUOVA CROCIATA CONTRO L'ORIENTE
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8101

KOSOVO : DES ISLAMISTES RADICAUX MENACENT DE MORT UN JOURNALISTE (Reporters sans frontière, 3 septembre 2014)
Visar Duriqi, journaliste d’investigation kosovar spécialisé dans l’islamisme radical, a été accusé d’apostasie par une organisation extrémiste. Le journaliste est victime de nombreuses menaces de mort et de décapitation. Reporters sans frontières s’inquiète pour la sécurité physique du journaliste et demande au ministère de l’Intérieur du Kosovo de lui assurer une protection…
http://balkans.courriers.info/article25495.html


=== 0 ===

http://contropiano.org/articoli/item/26199

I Crociati e gli Assassini

Democrito, 09 Settembre 2014 

Nel tardo XI secolo gli ismailiti si divisero in due correnti. La minoranza era composta da un gruppuscolo di rivoluzionari in disaccordo con gli sfarzi del califfato fatimida.
Il leader di questo movimento mandarono un loro agente segreto di nome Hassan Sabbah in Persia dove assunse i controllo di una fortezza chiamata Alamut (il nido dell'aquila).
Ad Alamut Sabbah si diede da fare per organizzare gli Assassini.
Sabbah usava l'omicidio quale principale strumento di propaganda. Anche se elaboravano i loro piani nella massima segretezza gli Assassini uccidevano in maniera plateale. Sapevano che sarebbero stati catturato o uccisi nel giro di pochi istanti, ma non facevano nessuno sforzo per evitare questa sorte.
Poco prima dell'inizio delle crociate Hassan Sabbah aveva fondato una seconda base operativa in Siria gestita da un comandante ausiliario che i crociati impararono a conoscere come "il Vecchio della Montagna".
Quando arrivarono i crociati praticamente chiunque non fosse uno di loro odiava con tutto il cuore gli Assassini. Tra i nemici degli Assassini si contavano gli sciiti, i sunniti, i selgiuchidi turchi, i fatimidi egiziani e il califfato abasside.
Gli Assassini e i crociati condividevano gli stessi nemici, per cui era inevitabile che i due eserciti diventassero, di fatto, alleati.
Nel corso del primo secolo delle invasioni dei crociati ogni volta che i musulmani cominciavano a muoversi verso una certa unità, gli assassini uccidevano qualche figura chiave del processo, scatenando nuovi conflitti.
Nel 1113 uccisero il governatore di Mosul che stava organizzando una campagna unificata contro i Crociati.
Nel 1124 e nel 1125 uccisero i due più importanti leader religiosi che predicavano la Jihad contro i Crociati.
Nel 1126 uccisero al-Borsoki, re di Aleppo e di Mosul, che aveva forgiato in Siria il nucleo potenziale di uno stato musulmano unito.
Omicidi di questo tipo avvennero con sorprendente frequenza nel corso delle prime crociate.

Fin qui il primo capitolo, sintetizzato da "Un destino parallelo", di Tamiam Ansary (Fazi Editore)
Il secondo capitolo viene trasmesso ogni giorno su tutte le reti televisive.


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http://espresso.repubblica.it/internazionale/2014/09/05/news/i-nuovi-jihadisti-vengono-dal-kosovo-nei-balcani-ci-sono-20-cellule-terroristiche-1.178937?ref=fbpe

I nuovi jihadisti vengono dal Kosovo
Le esecuzioni postate su Facebook


Centinaia di combattenti partiti per Iraq e Siria. Decine di fondamentalisti arrestati. Sedici vittime accertate. Un kamikaze saltato in aria a Bagdad. E un leader dell’Isis che pubblica sui social le decapitazioni. A sei anni dall’indipendenza, l’ex provincia serba si sta rivelando una fucina di terroristi



DI PAOLO FANTAUZZI

08 settembre 2014


L’ultimo lo hanno fermato la settimana scorsa all’aeroporto di Tirana. Mentor Zejnullahu, 24 anni, residente a Viti, stava per imbarcarsi alla volta di Istanbul, per poi raggiungere la Siria e unirsi ai jihadisti. A inchiodare il reclutatore, gli sms scambiati coi ribelli di al-Nusra, il gruppo affiliato ad al-Qaeda. Sempre da Viti proveniva anche il sedicenne fermato il 5 agosto nello scalo di Pristina, anche lui con la stessa destinazione. E appena tre settimane fa una operazione della polizia del Kosovo ha portato in carcere 40 sospetti jihadisti (altri 17 sono risultati irreperibili), che vanno ad aggiungersi ai tre finiti in manette a giugno e agli 11 arrestati lo scorso novembre: i più giovani sono nati nel 1994 e molti hanno meno di 30 anni.

I massacri e le bombe della Nato sembrano ormai solo un vago ricordo. Nella più giovane repubblica d’Europa, proclamatasi unilateralmente indipendente nel 2008 (e subito riconosciuta da Usa e quasi tutti i Paesi Ue), la nuova frontiera è il radicalismo islamico. E il nuovo nemico non sono più i paramilitari serbi come ai tempi dell’Uck ma gli infedeli. Così in una regione in cui l’Islam, abituato a convivere con le altre religioni, ha sempre mostrato il suo lato più tollerante, ad appena vent’anni dalla guerra che portò alla dissoluzione del mosaico etnico costruito da Tito il fondamentalismo mostra di aver piantato nel profondo le sue radici. Tanto da poter contare, rivelano fonti investigative all’Espresso, su almeno 20 cellule terroristiche attive nel reclutamento e addestramento fra Serbia, Albania, Macedonia, Kosovo, Montenegro e Bosnia, come mostra la retata che ha portato all’arresto di 16 reclutatori, compreso Bilal Bosnic, l’ex predicatore del centro islamico di Cremona considerato uno dei reclutatori di spicco dell'Isis. Finanziate da ong islamiche - dall’Arabia saudita all’Inghilterra fino all’insospettabile Turchia - queste cellule in qualche caso vedono proprio gli ex guerriglieri (in Kosovo quelli dell’Uck) quali inevitabili punti di riferimento locale. Un avamposto in attesa, chissà, di rivolgere verso l’Europa quella guerra finora combattuta sul suolo mediorientale.

IL JIHADISTA È SU FACEBOOK
Le autorità di Pristina cercano di minimizzare: secondo il governo i volontari partiti sarebbero solo 43. Difficile crederlo statisticamente, considerato che le vittime accertate sono già 16. Non a caso diverse fonti ritengono che, fra gli 11 mila stranieri in Siria (dei quali duemila europei), sarebbero 300-400 i combattenti di etnia albanese, prevalentemente kosovari. Grosso modo quanto quelli provenienti dal Regno Unito. Con la significativa differenza che l’ex provincia serba è grande quanto l’Abruzzo e non arriva a due milioni di abitanti.

Una rilevanza dimostrata anche dallo Stato islamico dell’Isis: il discorso con cui il comandante al Bagdadi si è autoproclamato califfo è stato tradotto in inglese, francese, tedesco, turco, russo e albanese. Del resto i jihadisti kosovari stanno dando il loro contributo: a marzo Blerim Heta, nato e cresciuto in Germania ma tornato in patria dopo la guerra, si è fatto esplodere a Baghdad uccidendo 52 ufficiali di polizia.

Mentre sul web impazza la figura di Lavdrim Muhaxheri, indicato come comandante della “brigata balcanica”: dopo aver rivolto ai connazionali un appello alla jihad , in un video dell’Isis che gira in rete ha arringato la folla in arabo fluente brandendo un grosso coltello e bruciato il suo passaporto kosovaro, “documento degli infedeli”: «Io sono solo un musulmano». Infine ha postato su Facebook una foto che la ritrae mentre decapita un ragazzino siriano accusato di essere una spia, mentre in un’altra lo si vede riprendere col cellulare una esecuzione compiuta da un connazionale.
Ed è proprio questa la novità: ormai non solo la guerra santa si svolge anche in rete con video e appelli ma i mujaheddin 2.0, riluttanti all’anonimato, postano senza alcun riserbo le loro azioni sui social network. A suo modo una fortuna, visto che questo consente all’intelligence di risalire alla rete dei loro contatti. In ogni caso, quando torneranno in patria, nessuno potrà contestare loro alcunché. Il Kosovo non ha ancora una legge che punisce il reclutamento di terroristi o chi va a combattere all’estero: il disegno di legge, che prevedeva pene da 5 a 15 anni, non è stato ratificato in tempo prima delle elezioni anticipate di giugno.

POLVERIERA BALCANI
A paradosso si aggiunge paradosso: sia Muhaxheri che Heta avrebbero lavorato nel campo Bondsteel, la principale base americana sotto il comando della Kfor, la missione Nato in Kosovo, che ospita migliaia di soldati. E proprio la città di Ferizaj in cui sorge, vicino al confine con la Macedonia, è diventata un centro nevralgico di reclutamento: oltre al kamikaze, 11 dei 40 terroristi arrestati ad agosto venivano da lì. Forse non a caso: sempre lì (all’hotel Lion, secondo un rapporto dei servizi di Belgrado del 2003) per anni la ong Islamic relief avrebbe reclutato bambini resi orfani dalla guerra per compiere attentati suicidi.

Quello dei volontari «è un problema comune a tutti i paesi democratici sviluppati» ha minimizzato nei giorni scorsi il generale Salvatore Farina, comandante uscente della Kfor, nella sua ultima conferenza stampa. Di certo la concentrazione di terroristi in Kosovo fa paura. E allerta anche gli 007, visto che un informatore della Kia, i servizi segreti di Pristina, sarebbe stato riconosciuto e ucciso in Siria a inizio anno. Il tutto mentre nella piccola repubblica operano ancora cinquemila militari dell’Alleanza atlantica che dovrebbero sostenere lo sviluppo di un Kosovo stabile, democratico, multietnico e pacifico .

Insomma, i Balcani continuano a produrre più storia di quanto ne possono digerire, secondo il caustico aforisma di Churchill. In Albania, dove sono 60 i jihadisti identificati, sono stati arrestati un paio imam di Tirana per incitamento al terrorismo più altri sei miliziani, tornati dalla Siria a farsi medicare le ferite. Dalle province a maggioranza musulmana della Serbia meridionale si stima che siano partiti varie decine di combattenti. La situazione più pericolosa riguarda tuttavia la Bosnia, dove i servizi si sicurezza stimano che siano tremila i radicali islamici pronti a entrare in azione. Intanto anche Sarajevo ha avuto il suo kamikaze in Iraq: Emrah Fojnica, 23 anni, già coinvolto nell’attacco all’ambasciata statunitense del 2011.

LA PENETRAZIONE SILENZIOSA 
Adesso, quando forse è troppo tardi, la polizia sta passando al setaccio le centinaia di ong islamiche sparse per i Balcani fin dalla guerra nella ex Yugoslavia.Organizzazioni per lo più saudite che hanno affiancato il lato umanitario con la costruzione di una miriade di moschee nuove di zecca in cui predicare l’Islam più radicale di ispirazione wahabita, da cui chiamare al martirio. Tanto che nei giorni scorsi perfino il sobrio Financial times ha ironizzato sulla strisciante colonizzazione portata avanti in questo modo da Riad. Una penetrazione silenziosa raccontata profeticamente già cinque anni fa in “Madrasse. Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa” da Antonio Evangelista, ex capo del contingente di polizia italiana nell'ambito della missione Onu, in cui si occupava di criminalità organizzata e terrorismo.  Soprattutto, consentita da un mix fatale: istituzioni deboli, instabilità politica, corruzione endemica, disoccupazione vertiginosa. Oltre alla sostanziale vacuità della presenza militare e alle promesse tradite dell’Occidente, che ha lasciato gran parte della popolazione del Kosovo (e della Bosnia) in uno stato di povertà non dissimile dal precedente. Spingendo intere fasce nelle braccia del radicalismo islamico.

IN GUERRA CON PAPÀ
Così, se la famiglia è la cosa più importante, molti jihadisti partono per il fronte con mogli e figli al seguito. O, se le consorti non sono d’accordo, solo con la prole. Come ha fatto il bosniaco Ismar Mesinovic, che dal bellunese è andato a combattere in Siria portando con sé il figlioletto di tre anni , scomparso nel nulla dopo la sua morte. E come ha fatto anche il kosovaro Arben Zena, partito col piccolo Erion, di otto anni. «Andiamo un paio di giorni a Rugova» ha detto alla moglie Pranvera all’inizio di luglio. Poi più nulla, tranne un sms la settimana seguente: «Sono in Siria con il ragazzo». Adesso la donna ha aperto una pagina Facebook per raccontare la sua storia e raccogliere segnalazioni.Anche perché i casi simili non sarebbero affatto pochi: una foto mostra il bambino in mezzo a un nugolo di coetanei. Uno dei quali, inconsapevole, sventola l’inquietante bandiera nera dello Stato islamico.


http://espresso.repubblica.it/foto/2014/09/05/galleria/i-tagliatori-di-teste-made-in-kosovo-1.178954

[FOTO] Decapitazione di un ragazzo siriano accusato di essere una spia postata su Facebook da Lavdrim Muhaxheri, capo dei miliziani Isis provenienti dal Kosovo

[FOTO] Decapitazione di un soldato siriano da parte del jihadista kosovaro Saleel Al Sawarim (nome di battaglia). Lavdrim Muhaxheri riprende col telefonino sullo sfondo

[FOTO] Blerim Heta, kamikaze kosovaro. Si è fatto esplodere a marzo a Bagdad provocando la morte di 52 ufficiali di polizia

[FOTO] Vignetta satirica pubblicata sul Financial times il 7 agosto

[FOTO] Bambini con la bandiera dell’Isis. Nel cerchietto Erion Zena, di 8 anni

[FOTO] Lavdrim Muhaxheri con il passaporto [SIC] kosovaro insieme a un connazionale e un commilitone albanese

[FOTO] Idajet Balliu, 24 anni, jihadista albanese di Librazhd ucciso il giorno di Ferragosto in Siria

[FOTO] Emrah Fojnica, kamikaze bosniaco morto in Iraq. Era già stato processato per l’attentato all’ambasciata Usa di Sarajevo del 2011

[FOTO] Erion Zena (8 anni) con il padre Arben, miliziano dell’Isis in Siria



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VIDEO CORRELATO:

Quando l'imam combatteva in Bosnia
L'imam Bilal Bosnic era arruolato nel 1993 nel battaglione El Mujaheddin che combattè in Bosnia nel 1993 nella guerra fratricida contro i croati a Vitez. Si trattava di un'unità di combattenti islamici provenienti da diversi paesi. A cura di Fausto Biloslavo.
VIDEO: http://www.ilgiornale.it/video/mondo/quando-limam-combatteva-bosnia-1046976.html

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http://www.ilgiornale.it/news/politica/cattivo-maestro-dellislam-giusto-rapire-ragazze-italiane-1046964.html

Il cattivo maestro dell'islam: giusto rapire le ragazze italiane

L'imam Bilal Bosnic, che si mostra su Facebook con la bandiera dell'Isis, ha tenuto da noi diversi sermoni: "Greta e Vanessa? In Siria interferivano".


Fausto Biloslavo - Mer, 27/08/2014

Bilal Bosnic, l'imam bosniaco, che è venuto tranquillamente a predicare nel Nord Italia dal 2011 al 2013, giustifica in un'intervista sul sito del Corriere il rapimento di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, innamorate della rivolta contro Damasco, che in Siria si illudevano di fare del bene.

[FOTO: L'imam Bilal Bosnic (vestito di nero e con la barba più lunga) in mezzo ai suoi seguaci. Alle spalle la bandiera del Califfato
http://www.ilgiornale.it/sites/default/files/styles/large/public/foto/2014/08/27/1409115632-ipad-98-0.jpg ]

L'imam estremista è convinto che le due ragazze «interferivano», come chiunque arrivi dall'Occidente. Non solo: per il predicatore jihadista «rapire è una pratica giustificata, una cosa comune per un nemico durante la jihad e qualsiasi altra guerra». Parole che non devono stupire. Sulla sua pagina Facebook Bosnic, fin dal 7 luglio, aveva postato il sermone del Califfo, Abu Bakr al Baghdadi da Mosul, dove ha cacciato i cristiani, con il seguente commento: «Quest'uomo verrà ricordato per secoli (…) Allah continui a ricompensarlo per i suoi meriti». Poi ha cambiato la copertina con la bandiera nera dello Stato islamico dell'Iraq e della Siria. E lunedì si è fatto immortalare assieme a cinque suoi accoliti barbuti con alle spalle lo stendardo del Califfo. Poi ha usato lo scatto come nuova copertina su Facebook.

Quarantuno anni, «salafita» per sua stessa definizione, vive nella Krajina fra Bosnia e Croazia. E non fa mistero di aver combattuto con il battaglione al-Mujaheddin composto da musulmani provenienti da mezzo mondo durante la terribile guerra etnica bosniaca. Con il corriere.it ammette che in Italia ha incontrato «centinaia» di musulmani «veri seguaci» dell'Islam.

E di aver conosciuto Ismar Mesinovic, l'imbianchino bosniaco di 36 anni che viveva a Longarone ed è morto in Siria, lo scorso gennaio, in nome della guerra santa. Il volontario jihadista era una persona «normale» che ha sposato una cubana, come dimostrano alcune foto in possesso del Giornale . Poi, in altre immagini, salta agli occhi il cambiamento. Mesinovic si è fatto crescere la barba islamica e la sua donna ha messo il velo. Il primo giugno dello scorso anno incontra l'imam Bosnic a Pordenone invitato a tenere un sermone. L'incontro era stato pubblicizzato da un kosovaro che vivrebbe nel Bresciano. Mesinovic decide di partire per la Siria dove trova la morte. Il Viminale è allarmato dalla «spirale balcanica», che attrae combattenti in Siria e non si escludono retate e arresti a breve.

Sulla sua pagina Facebook il predicatore itinerante ha postato le foto dei giovani bosniaci che sono andati a combattere e spesso a morire per il Califfato. Gli «amici» on line di Bosnic sono personaggi come Amir Bajric, che sarebbe in Siria e usa come copertina del suo profilo in rete un convoglio di pick up con i vessilli neri dello Stato islamico. Oppure il turco Nasir Haji, che preferisce il faccione di Osama Bin Laden, come copertina sulla pagina Facebook.

E ieri ha postato la foto di una serie di teste mozzate infilate negli spuntoni di un'inferriata.

L'aspetto incredibile è che Bosnic, cattivo maestro dell'Islam radicale, è venuto più volte a predicare in Italia. Prima di Pordenone, nel 2011 e 2012, è stato invitato tre volte a Cremona. Due sermoni nel vecchio centro islamico ed uno nel luogo di culto di Motta Baluffi. La Digos locale ha monitorato le prediche senza trovarci nulla di pericoloso. Così Bosnic è stato anche a Bergamo, da dove sono partite le due volontarie italiane rapite in Siria ai primi di agosto. L'imam bosniaco e altri predicatori dell'ex Jugoslavia sono le star dell'Islamsko Dzemat di Bergamo, un altro centro islamico di provincia molto legato ai Balcani. I barbuti fedeli bosniaci del centro lo scorso anno hanno tranquillamente affittato una sala comunale per pregare. E Bosnic al corriere.it ha confermato: «Sono stato anche a Bergamo. Un jihadista? Preferisco essere definito musulmano, semplicemente perché ritengo che ogni vero musulmano debba essere jihadista e credere in uno Stato islamico unico».

www.gliocchidellaguerra.it


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http://www.ilgiornale.it/news/mondo/analisi-spirale-balcanica-minaccia-jihadista-litalia-1047004.html

Analisi: La spirale balcanica minaccia jihadista per l'Italia

La presenza nel Nord Est italiano di fedeli e seguaci di predicatori radicali, come a Cremona, Bergamo e Pordenone, è soltanto parte di un fenomeno molto più ampio


Giovanni Giacalone - Mer, 27/08/2014

Il concetto di “spirale balcanica” è molto complesso; la presenza di fedeli di quell’area geografica in Italia, seguaci di predicatori radicali, come nel caso che abbiamo recentemente visto a Cremona, Bergamo e Pordenone, è soltanto parte di un fenomeno molto più ampio.

I focolai li possiamo rintracciare nei primi anni ’90 con la guerra di Bosnia, quando ci fu un vero e proprio flusso di mujahideen provenienti da diversi paesi islamici, tra cui Egitto, Tunisia e Algeria che si recarono nel paese balcanico per andare a combattere a fianco dei musulmani bosniaci, installandosi principalmente nelle città di Mostar, Sarajevo, Zenica e Zepce e formando unità come la ben nota “El-Mujahed”, che venne inglobata del 3° corpo dell’esercito bosniaco.

Dopo gli accordi di Dayton del 1995 molti di loro restarono in Bosnia, dando vita a vere e proprie enclaves, dove oggi non si entra se non si è salafiti. Tutto ciò contribuì all’espansione del radicalismo nei Balcani, quello dottrinario-propagandistico da una parte e quello finanziario dall’altra. Predicatori radicali come Nusret Imamovic, Bilal Bosnic, Bakir Halimi, Muhamed Fadil Porca sono diventati fonte di ispirazione per molti musulmani balcanici, sia in patria che all’estero.

Finanziatori e promulgatori del radicalismo di stampo salafita hanno saputo sfruttare bene il disagio socio- economico giovanile nell’area balcanica, dove speranze e aspettative per le nuove generazioni del periodo post-guerra sono ancora oggi ai minimi termini a causa dell’inflazione e dell’alto tasso di disoccupazione.

Purtroppo gli effetti collaterali di tale fenomeno, sul fronte della sicurezza, non sono tardati ad arrivare; dai primi pericolosi segnali degli anni ’90 con l’attentato alla caserma della polizia di Pola nel 1995 e le perlustrazioni all’ambasciata americana di Tirana nel 1998, fino agli odierni e ripetuti assalti a comunità islamiche non salafite; dagli attentati di Sarajevo e di Francoforte del 2011 alle recenti partenze di jihadisti per la Siria; tutti elementi che hanno dimostrato come il problema del radicalismo islamico nei Balcani meriti la massima attenzione in quanto riguarda da vicino anche l’Italia.

Giovanni Giacalone,
islamologo e analista del radicalismo balcanico


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http://www.ilgiornale.it/news/esteri/vero-pericolo-terrorista-arriva-dai-balcanilallarme-vivono-1030109.html

Ma il vero pericolo terrorista arriva dai Balcani

Vivono qui e sono centinaia. Nel nostro Paese sono albanesi, bosniaci e kosovari il nocciolo duro jihadista


Gian Micalessin - Sab, 21/06/2014

La chiamano «spirale balcanica». Per gli esperti di antiterrorismo del Viminale è la variante più insidiosa di quell'attivismo jihadista che, ha spinto una trentina di «volontari» a lasciare l'Italia per la Siria. Oggi gli integralisti islamici provenienti da Albania, Bosnia e Kosovo rappresentano il nocciolo duro dello jihadismo straniero sul nostro territorio. «Sono l'equivalente dei tunisini e dei marocchini di un tempo, ma mentre i "nordafricani" tendono a rientrare - spiega una fonte de il Il Giornale - gli integralisti balcanici sono oggi la componente più pericolosa. Molti dei volontari partiti per la Siria dal nostro paese o in procinto di farlo sono di origine balcanica». La punta dell'iceberg islamista-balcanico, quello che con la propria morte, ha spinto gli inquirenti a indagare sul fenomeno è Ismar Mesinovic, un imbianchino bosniaco partito da Ponte delle Alpi nel Bellunese per andare a morire, il 4 gennaio scorso, sui campi di battaglia siriani. Una partenza estremamente sospetta perché preceduta, nel giugno 2013, da un incontro con un predicatore salafita bosniaco nella zona di Pordenone. «Il sospetto - spiega la fonte de Il Giornale - è che questi jihadisti balcanici siano un po' meno volontari di altri e siano indotti a partire dalla promessa di denaro o dalle sollecitazioni dei loro capi religiosi». E dietro questi sospetti si cela una grande paura. La rete islamico-balcanica - sorta in Bosnia, Kosovo e Albania grazie alle moschee finanziate dall'Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo negli anni 90 - ha portato alla rapida espansione del fenomeno integralista. Oggi centinaia di militanti usciti da quelle moschee si sono trasferiti nel nostro nord-est da Trieste a Belluno, da Trento a Verona. Proprio lì, con il ritorno dei veterani della Siria, minaccia di attecchire un humus proto-terrorista molto simile a quello della moschea di via Jenner a Milano dove, negli anni 90, Al Qaida mise radici grazie ai reduci della guerra di Bosnia.





Un paio di lettere al Ministro Mogherini

1) Rete NO WAR Roma: Richiesta di incontro per consegna documento di proposte
2) Lettera dei rappresentanti della RS Krajina a Tusk e Mogherini


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Da: Vincenzo Brandi

A: <segreteriaministro.mogherini  @esteri.it>

Cc: <nowaroma  @googlegroups.com>, <unsc-nowar  @gmx.com>

Ogg: I: Richiesta di incontro per consegna documento di proposte

All’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri della EU (Mrs. PESC)
Dott.ssa Federica Mogherini
Ministero degli Affari Esteri - Roma
 
Oggetto: 1) RICHIESTA DI ATTUAZIONE DI UN’AUTENTICA POLITICA DI PACE NELL’EST EUROPA. 2) CESSAZIONE DEL FINANZIAMENTO DI FORMAZIONI TERRORISTICHE E DI FORNITURA DI ARMAMENTI A FAZIONI COMBATTENTI NEL VICINO ORIENTE. 3) RITIRO DI TUTTE LE MISSIONI MILITARI DI GUERRA ED OCCUPAZIONE. 4) RICONOSCIMENTO DEI DIRITTI DEL POPOLO PALESTINESE E CONDANNA DELLE STRAGI E DELLE OCCUPAZIONI MILITARI ISRAELIANE
 
Il drammatico precipitare della situazione in Iraq e in Ucraina, la perdurante guerra in Siria ed Afghanistan, l’orrenda strage di Gaza, il caos della Libia – tutti episodi su cui pesano i plateali errori, le forzature e le aggressioni militari, le colpevoli omissioni commesse in passato dai paesi della EU, dalla NATO, e dagli USA e dai loro alleati – ci induce a richiederLe una svolta decisa nella politica estera europea, finora asservita ad interessi che sono estranei all’interesse generale per la pace.
 
Le ricordiamo che:
 
-UCRAINA: la pericolosissima crisi in Ucraina – quasi un anticipo di una terza guerra mondiale - ha avuto inizio da una COLPO DI STATO sostenuto dagli USA e alcuni paesi della EU, con l’apporto di manovalanza neo-nazista locale che ha abbattuto un governo democraticamente eletto, con lo scopo finale di spostare i confini della NATO fino al cuore della Russia. E’ necessaria una soluzione negoziata basata sul diritto alla sicurezza della Russia e sul diritto all’autodeterminazione degli abitanti dell’Est dell’Ucraina attraverso forme significative di autonomia.
 
-IRAQ: vari paesi della EU, tra cui l’Italia, hanno partecipato direttamente alla Prima Guerra del Golfo (1990-91) ed hanno funzionato come base d’appoggio logistico per la Seconda Guerra (2003) condotta da USA e UK. Queste guerre hanno completamente destabilizzato e disintegrato l’Iraq, oggi diviso in fazioni confessionali ed etniche in lotta tra loro. Qualsiasi soluzione deve partire da una forte autocritica per il passato sostegno – con finanziamenti e fornitura di armi - a fazioni terroristiche e jihadiste che operano sia in Siria ed Iraq, e non può basarsi sulla fornitura di nuovi armamenti ad una singola fazione in lotta (il PDK guidato da Massoud Barzani). Questa soluzione è osteggiata anche da tutte la altre organizzazioni kurde che stanno lottando (con efficacia molto maggiore rispetto al PDK) contro i terroristi dell’ISIS (vedi il PKK-HPG del Nord-Kurdistan e il PYD-YPG del Rojava in Siria) e pone l’organizzazione kurda di Barzani in rotta di collisione con il governo centrale di Baghdad (unico governo riconosciuto a livello internazionale) che paventa l’ulteriore frammentazione del paese con la prevedibile esplosione di nuovi devastanti conflitti.
 
-SIRIA: vari paesi europei, tra cui l’Italia, partecipano tuttora al “gruppo di Londra” (ex “amici della Siria”) che – in alleanza con le peggiori dittature confessionali e petromonarchiche (Arabia Saudita, Qatar, per non parlare della Turchia islamica di Erdogan) rifornisce con finanziamenti ed armi i cosiddetti “ribelli” della Siria egemonizzati dai peggiori gruppi jahadisti. E’ ormai fatto accertato che armi e finanziamenti, per via diretta o indiretta, finiscono nelle mani e vanno a rafforzare gruppi terroristici quali l’ISIS che agiscono sia in Siria che in Iraq. Una soluzione del problema deve passare attraverso una forte autocritica per le politiche passate, la cessazione di ogni finanziamento e fornitura di armi anche alle presunte fazioni ribelli “moderate” come l’ESL (in realtà alleate organicamente con Al Nusra, costola di Al Queda, e di altri gruppi jihadisti), ed il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con il governo siriano che da tre anni dimostra di saper lottare efficacemente contro il terrorismo jihadista.
 
-LIBIA: vari paesi della EU aderenti alla NATO, tra cui l’Italia,  hanno contribuito in modo decisivo nel 2011, nell’ambito di un attacco militare condotto insieme agli USA e al Qatar, alla completa destabilizzazione e disintegrazione di un paese prospero come la Libia, oggi nel caos e preda di una lotta intestina tra bande armate di tipo confessionale e tribale. Anche qui una soluzione può partire  solo nell’ambito di una decisa autocritica verso le azioni aggressive del passato, evitando nuove disastrose avventure militari e favorendo ogni iniziativa autoctona tesa al ristabilirsi di tentativi autonomi di nuovi sviluppi democratici.
 
-AFGHANISTAN: vari paesi della EU aderenti alla NATO partecipano insieme agli USA alla guerra in Afghanistan dove i passati interventi occidentali – già a partire dagli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo - a favore dei jihadisti (spacciati per “combattenti della libertà”) hanno completamente destabilizzato il paese, e dove si preannuncia una permanenza di militari della UE – sotto sigle diverse - anche dopo la chiusura “ufficiale” dell’attuale missione. Anche in questo caso deve scaturire, nell’ambito di una serrata autocritica, un cambio deciso di politica con il ritiro di tutti i contingenti militari, sotto qualsiasi forma essi si presentino.
 
-PALESTINA/GAZA: vari paesi della EU aderenti alla NATO mantengono strette relazioni economiche e militari con uno stato occupante ed aggressivo quale Israele. Ogni soluzione di pace deve passare attraverso il pieno riconoscimento dei diritti del popolo palestinese. Vanno esercitate pressioni (anche per mezzo di sanzioni economiche ed embargo sulla fornitura di armi come già fatto dalla Spagna) verso Israele perché rispetti tutte le risoluzioni dell’ONU, comprese quelle che prevedono il diritto dei profughi palestinesi al ritorno in Palestina (194/1948) e la fine dell’occupazione militare dei territori palestinesi. Va inoltre smantellato il muro di separazione che accerchia i territori palestinesi, riconosciuto come illegale dal Tribunale internazionale dell’ONU dell’Aja; vanno smantellate le colonie che continuano a crescere su territori palestinesi, posto fine all’osceno assedio di Gaza e riconosciuto il diritto degli abitanti di Gaza alla loro sicurezza ed ad una vita normale; vanno portati di fronte da un tribunale internazionale i responsabili dei crimini contro l’umanità commessi durante il selvaggio bombardamento dell’operazione “Protective Edge” e quelli responsabili dei crimini compiuti durante la precedente operazione “Piombo fuso”, come riconosciuti ufficialmente dal rapporto Goldstone steso dalla apposita commissione dell’ONU.
 
Roma, 5 settembre  2014                               Rete No War Roma  
 
Per informazioni: nowaroma@  googlegroups.com,  unsc-nowar@  gmx.com,  Vincenzo Brandi: brandienzo@  libero.it 


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REPUBBLICA SERBA DI KRAJINA
Governo e Parlamento in Esilio
Zmaj Jovina 15, 11.000 Belgrado
N°1786/14 - Settembre, 7522 (2014)

Sig. Tusk, Sig.ra Mogherini,
state appena iniziando il Vostro mandato in ruoli dell'Unione Europea a cui ci rivolgiamo da molti anni. Il nostro Governo in Esilio della Repubblica Serba di Krajina vuole ricordarvi la nostra vecchia, e a Voi ben nota, situazione al fine di darVi la possibilità di riconsiderare le Vostre politiche.
Nel 1990, prima della guerra in Jugoslavia, la nostra nazione Serba in Krajina votò un referendum che ne sanciva l'indipendenza dalla Croazia. Le Vostre istituzioni, un tempo fondate per diffondere la democrazia, non riconobbero la volontà popolare espressa dal voto delle nostre genti. Ripetemmo la consultazione nel 1991: il 99% dei Serbi della Krajina si espresse ancora per una libera, sovrana e indipendente Krajina. Ancora una volta, le Vostre istituzioni rigettarono la volontà del popolo serbo democraticamente espressa. Nel 1993, abbiamo allora scritto la nostra Costituzione e votato i nostri 84 parlamentari. Tuttavia, le Vostre istituzioni hanno deciso nel 1995 di bombardarci (eravamo un'Area Protetta dalle Nazioni Unite !!!!!!!!!!!!) ed espellerci dalle nostre terre ancestrali. Il nostro esodo dalla Krajina è stato occultato dai mass media di tutto il Mondo. Peggio, i Serbi sono stati demonizzati e accusati di genocidio! 400.000 Serbi tra vecchi, donne e bambini della Krajina sono stati scacciati in 48 ore dalle loro case. In totale, quasi 900.000 Serbi hanno lasciato le loro case in Croazia, 400.000 Serbi hanno lasciato Sarajevo e altre regioni della Bosnia, 400.000 Serbi hanno abbandonato il Kosovo per la Serbia centrale. Contemporaneamente, la bandiera albanese sventolava sul Kosovo, diventato base di affari malavitosi come traffico di armi, droga, di organi e base di mercato di donne per la prostituzione nell'Unione Europea. Ancora una volta, le Vostre istituzioni hanno optato per i "bombardamenti umanitari e intelligenti" che hanno saturato le nostre terre di uranio impoverito. Di crimini contro l'umanità però sono stati accusati i demoni Serbi i cui leaders sono stati inviati al Tribunale dell'Aia dove giudici di parte e imbarazzanti (è sufficiente vedere i filmati delle sedute o leggerne i verbali) si sono fatti beffe della Giustizia e della Verità. I generali croati responsabili del genocidio "Oluja" in Krajina sono stati invece liberati da quasi ogni accusa in quello stesso tribunale mentre i leaders Serbi hanno battuto i record mondiali di più lunga detenzione senza che fossero giudicati e senza che fosse applicato il Regolamento secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale sulla revisione semestrale della detenzione. Intanto, si dava al Kosovo un riconoscimento da parte di 100 Paesi, spalleggiati dai sempre presenti Usa, configurando così la nascita del secondo Stato albanese oltre all'Albania stessa.
Ad ogni modo, esistiamo ancora, sebbene in esilio e dispersi, sapendo ciò che dipende da noi e ricordando ciò che avete fatto alla nostra Nazione. Abbiamo imparato che i Vostri diritti "all'autodeterminazione dei popoli nella loro madrepatria" non si applicano al popolo serbo, specialmente della Krajina. Lo Stato croato si comporta come quando era un'alleato di Hitler nel 1941. La Croazia non ha mai pagato per 1.000.000 di Serbi uccisi nella Seconda Guerra Mondiale (lager di Jasenovac, Jadovno...) come ha fatto, per esempio, la Germania che si è scusata ed ha pagato, vivendo come una vergogna nazionale, ciò che ha fatto al popolo Ebraico. Ne ha mai pagato per il genocidio degli anni 90 che poi è proseguito silenzioso e strisciante per tutto il decennio successivo. Voi siete responsabili di aver consentito a questa Croazia di unirsi all'Unione Europea! Questa democratica Croazia, membro dell'Unione Europea, che ogni settimana, in spregio ai Diritti Umani relativi alla preservazione della propria cultura e della propria lingua, distrugge ogni traccia di alfabeto cirillico anche laddove è previsto che rimanga. Le Vostre istituzioni europee sono complici di tutto questo odio silenzioso che impedisce alla cultura e alla coscienza nazionale serba espulsa di ritornare alle sue terre d'origine nella Krajina. Comprendiamo la natura di questa Vostra Europa e delle Vostre istituzioni europee che, a dispetto del sogno di coloro che scrissero il Manifesto di Ventotene, sono uno strumento di pochi al servizio di pochi e con l'obiettivo di imporre un modello e un punto di vista unico al Mondo intero. Ma i Serbi della Krajina non possono essere governati dalle Vostre istituzioni nemmeno quando vengono bombardati o quando comperate alcuni loro fratelli come leaders in Serbia quali Kostunica o Nikolic. Siamo sopravvissuti a 500 anni di occupazione ottomana senza mai cambiare la nostra cultura.
A dispetto di tutti gli evidenti crimini contro la nostra sovranità e contro i nostri diritti umani Vi diamo la possibilità di ascoltarci ancora una volta. Chiediamo quindi:
1) il riconoscimento del nostro Stato votato nel 1991 nonchè il riconoscimento dei nostri parlamentari eletti nel 1993 che rappresentano l'attuale Governo ricostituito, per l'ennesima volta, il 26 Febbraio del 2006 nell'esilio di Belgrado con Milorad Buha nella veste di Presidente;
2) aiuto nel ripristino di una Repubblica Serba di Krajina sovrana, indipendente che risolva tutti le questioni legali, politiche e relative ai diritti proprietari;
3) la pulizia dell'area balcanica dalle scorie radioattive da parte dell'Unione Europea e delle forze armate USA, responsabili di secolari possibili contaminazioni;
4) il rispetto della Vostra stessa Carta dei Diritti Umani che garantirebbe molte delle questioni che abbiamo sollevato.
Speranzosi che la Vostra guida delle istituzioni dell'Unione Europea aprirà nuove inedite possibilità di confronto diretto col nostro Governo e con le nostre rappresentanze diplomatiche, attendiamo un Vostro riscontro.

Il Governo della Repubblica Serba di Krajina

dr. Milorad Buha;
Presidente della Repubblica Serba di Krajina
dr.ssa Jasmina Peev;
Ministro degli Affari Esteri della Repubbluica Serba di Krajina
dr. Aleksandar Bescapè
Ambasciatore Plenipotenziario della Repubblica Serba di Krajina in Italia



(deutsch / italiano)

L'Occidente contro l'Oriente, come sempre

1) Dmitry Sokolow-Mitritsch: Das Russland, was sie Verloren haben
2) Ezio Mauro: L'Occidente da difendere
* Il commento video di Giulietto Chiesa
* L’Occidente psichiatrico di Ezio Mauro (Miguel Martinez)
* Presto, armi a "La Repubblica" ! (Tommaso Di Francesco)
3) I nuovi crociati: Massimiliano Di Pasquale, Gianni Pittella… E La socialdemocrazia in camicia bianca che ci porta alla guerra!


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РОССИЯ, КОТОРУЮ ОНИ ПОТЕРЯЛИ (Дмитрий Соколов-Митрич, 8 сентября 2014 года)

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DAS RUSSLAND, WAS SIE VERLOREN HABEN

Wir haben Amerika geliebt, echt. Ich kann mit genau erinnern, wir liebten Amerika. Als wir Anfang der 90-er Jahre ins Erwachsenenleben traten, gab es für die Mehrheit meiner Altersgenossen nicht mal die Frage, wie man sich zur westlichen Zivilisation verhält. Natürlich gut, wie denn sonst?

Im Unterschied zu unseren Großväter und sogar Vätern betrachteten wir die “größte geopolitische Katastrophe des XX. Jahrhunderts” überhaupt nicht als Katastrophe. Das war für uns der Beginn eines weiten Weges. Endlich ausbrechen, raus aus der sowjetischen Nußschale in die große Welt – die wilde und wirkliche. Endlich können wir unseren Hunger nach Erlebnissen befriedigen. Wir waren vielleicht nicht am besten Platz geboren worden, aber auf jeden Fall zur richtigen Zeit – so dachten wir. Heute ist das schwer zu glauben, aber sogar die von der kommunistischen Aufsicht befreite Kirche stand damals in einer Reihe mit dem Triumph westlicher Werte. Die 1000-Jahr-Feiern der Taufe Russlands und das erste Konzert der Scorpions mit ihrem “Wind of Change” – das waren für uns Sachen ein und derselben Natur.

Der Irakkrieg und sogar Jugoslawien ging irgendwie an uns vorbei. Und das nicht deshalb, weil wir noch zu jung und übermütig waren. Ich arbeitete schon in der “Komsomolka”, in der internationalen Abteilung, saß am englischen Band von Reuters, voll von Izetbegović, Mladic und Karadžić, gab aber all diesen Ereignissen keine ernsthafte Aufmerksamkeit. Das war irgendwo dort, weit weg und nicht in unserem Gebiet. Und, natürlich, ein Krieg im Balkan passte nicht in irgendeine antiwestliche Logik. Was hat Amerika damit zu tun?

In den 1990-er Jahren stimmten wir für “Jabloko”, gingen zum Weißen Haus auf der Seite der demokratischen Kräfte, sahen das neugegründete NTV und hörten “Echo Mosky”. In unseren ersten journalistischen Artikeln bezogen wir uns in allen Fragen auf irgendeine “zivilisierte Welt” und glaubten fest, dass sie auch wirklich zivilisiert sei. Mitte der 1990-er gab es in unseren Reihen schon die ersten Euroskeptiker, aber die liefen eher in der Kategorie Außenseiter. Ich selbst lebte im Internat mit dem Kommunisten Petja und dem Monarchisten Arseni in einem Zimmer. Meine Kumpel aus anderen Zimmern verabschiedeten mich jeden Tag voller Mitleid: “Ok, geh schon in deine Irrenanstalt”.

Der erste ernste Schlag für unsere prowestliche Lebensorientierung wurde der Kosovo. Das war ein Schock, die rosarote Brille zerbrach. Die Bombardierung Belgrads wurde für meine Generation das, was für die Amerikaner die Attacke auf die Zwillingstürme war. Das Bewusstsein drehte sich um 180 Grad, zusammen mit dem Flugzeug des damaligen Premierministers Ewgeni Primakow, der vom Beginn der amerikanischen Aggression über dem Atlantik erfuhr – auf dem Weg von Irland in die USA – und das Kommando zur Rückkehr nach Russland gab.

Damals gab es noch keinerlei Surkowsche Propaganda. Das vertraute NTV erklärte uns jeden Tag, dass Bombenschmeißen auf eine große europäische Stadt schon etwas zuviel ist, aber immerhin wäre Milosevic ja so ein Schurke, wie ihn die Welt noch nicht gesehen hat, macht also nix, hält der schon aus. Das Satireprogramm “Puppen” stellte das Ganze wie einen guten Streit in einer Kommunalwohnung dar, wo der besoffene Nachbar die “Bürgerin Kosova” nervt, und keiner was gegen ihn machen kann außer ihrem Gast und Liebhaber, mit starker Brust und dem Gesicht von Bill Clinton. Wir sahen uns das an, glaubten es aber schon nicht mehr. Wir fanden es nicht mehr lustig. Wir hatten schon verstanden, dass Jugoslawien eine Demoversion dessen ist, was in der nächsten historischen Perspektive auch mit uns passieren kann.

Der zweite Irak, Afghanistan, die endgültige Abtrennung des Kosovo, der “arabische Frühling”, Libyen, Syrien – das alles verwunderte, aber erschreckte schon nicht mehr. Die Illusionen waren schon verloren: Mit wem wir auf einem Planeten leben, war uns mehr oder weniger klar geworden. Aber, ungeachtet all dessen, blieben wir all diese Zeit in einer westlichen Umlaufbahn. Es wirkte noch der Mythos vom bösen Amerika, aber guten Europa, die Kosovo-Angst stumpfte langsam ab, der Kompromiss sah in etwa so aus: Ja, in enger Umarmung mit diesen Jungs befreundet sein kann man natürlich nicht, aber gemeinsame Spiele spielen geht schon. Letzten Endes, mit wem soll man denn sonst spielen?

Sogar die Parade der Farbrevolutionen bis zur letzten schien nur sowas wie kleine Gemeinheiten zu sein. Erst der Euromaidan und der darauf folgende grausame Bürgerkrieg zeigte uns mit aller Deutlichkeit: Dieser völlig von Prozeduren und Regeln befreite “demokratische Prozess”, auf dem Territorium des Gegners losgelassen – das ist kein geopolitisches Spielchen, sondern eine echte, wirkliche Massenvernichtungswaffe. Die einzige Waffe, die anwendbar ist gegen einen Staat, der ein Atomschutzschild hat. Es ist alles ganz einfach: Wenn du auf den Knopf drückst und eine Rakete über den Ozean schießt, kriegst du mit hundertprozentiger Sicherheit genauso eine zurück. Wenn du auf dem Territorium des Gegners eine Kettenreaktion des Chaos erzeugst, kann er dir gar nichts. Aggression? Was ist das für eine Aggression? Das ist ein natürlicher demokratischer Prozess! Das ewige Streben der Völker nach Freiheit.

Wir sehen Blut und Kriegsverbrechen, wir sehen die Leichen von Frauen und Kindern, wir sehen, wie ein ganzes Land in die vierziger Jahre zurückgeworfen wird – und unsere von Kindheit an geliebte westliche Welt erzählt uns, dass wir nur träumen. Nichts davon sehen die Leute, aus denen Jim Morrison Mark Knopfler und die Beatles hervorgingen. Weder die Nachfahren der Woodstock-Teilnehmer noch die Woodstock-Teilnehmer selbst wollen das sehen – die alten Hippies, die tausende Male “all you need is love” gesungen haben. Und auch die nachdenklichen Deutschen aus der Baby-Boom-Generation, die sich die Stirn aufschlagen in der Reue für die Taten ihrer Väter.

Dieser Schock ist stärker als der vom Kosovo. Für mich und viele tausende “Fastvierzigjährige”, die in die Welt mit dem amerikanischen Traum im Schädel aufbrachen, ist der Mythos von der “zivilisierten Welt” endgültig zusammengebrochen. Vor Schrecken tönt es in den Ohren. Es gibt keine “zivilisierte Welt” mehr. Und das ist nicht einfach nur ein bisschen traurig, es ist eine ernste Gefahr. Die Menschheit, die ihre Werte verloren hat, verwandelt sich in einen Haufen von Raubtieren, und ein großer Krieg ist nur noch eine Frage der Zeit.

Vor zwanzig Jahren hat man uns nicht besiegt. Man hat uns überwältigt. Wir haben nicht im Krieg verloren, sondern in der Kultur. Wir wollten einfach so werden wie sie. Rock’n’Roll hat dafür mehr gemacht als Atomsprengköpfe. Hollywood war stärker als Drohungen und Ultimaten. Das Aufheulen der Harley-Davidson im Kalten Krieg war effektiver als das von Abfangjägern und Bombern.

Amerika, wie dumm bist du doch! Du hättest bloß noch zwanzig Jahre warten müssen, wir wären dein gewesen, ohne Rückkehr. Zwanzig Jahre Vegetarismus – und unsere Politiker hätten dir unsere Atomwaffen geschenkt, und noch lange die Hand gedrückt aus Dankbarkeit dafür, dass du sie nimmst. Was für ein Glück, dass du so dumm warst, Amerika!

Von uns hast du überhaupt keine Ahnung! Das sind, nebenbei bemerkt, Worte, die wir vor zwei Jahren noch in Richtung Kreml geschrien haben. Seitdem, dank dir, Amerika, ist die Zahl derer, die auf diesen Platz gehen wollen, deutlich gesunken. Du erzählst Dummheiten über uns, denkst Dummheiten über uns, und machst im Endergebnis Fehler über Fehler. Früher warst du mal ein tolles Land, Amerika. Du hast dich moralisch über Europa erhoben nach dem ersten Weltkrieg, und gefestigt nach dem zweiten. Ja, du hattest Hiroshima, Vietnam, KuKluxKlan und überhaupt – den Schrank voller Skelette, wie jedes Imperium. Aber über lange Zeit hinweg hat dieser Mist nicht die kritische Masse erreicht, die Wein in Essig verwandelt. Du hast der Welt gezeigt, wie man für Aufbau und schöpferische Freiheit leben kann. Du hast auf dem Planeten viele Wunder der Entwicklung geschaffen: BRD, Japan, Südkorea, Singapur. Aber seitdem hast du dich stark verändert. Du hast schon lange keine Lieder mehr geschrieben, die die ganze Welt singt. Du hast dein wichtigstes Kapital verbraucht – das moralische. Und das hat eine sehr schlechte Eigenschaft: Es kann nicht wiederhergestellt werden.

Du hast begonnen, langsam zu sterben, Amerika. Und wenn du denkst, dass ich schadenfreudig bin, irrst du. Eine große Änderung der Epoche wird begleitet von viel Blut, und ich mag kein Blut. Wir, Menschen, die selbst den Untergang ihres Imperiums erlebt haben, könnten dir sogar erklären, was du falsch machst. Werden wir aber nicht tun. Krieg es selbst raus.

Dmitry Sokolow-Mitritsch


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http://www.repubblica.it/esteri/2014/09/05/news/l_occidente_da_difendere-95037708/

L'Occidente da difendere

di EZIO MAURO, su La Repubblica del 5 settembre 2014

La terza Nato nasce in Galles dopo la prima, figlia della Guerra Fredda e la seconda dell'età di mezzo, quando con la caduta del Muro sembrò aprirsi un secolo lungo senza più nemici per le democrazie che avevano infine riconquistato il Novecento. La guerra di Crimea riporta nel cuore d'Europa, dove sono nate le due guerre mondiali, truppe, missili, carri armati, morti, feriti, aerei abbattuti. Ritorniamo a guardare i nostri cieli e le nostre mappe con quella stessa inquietudine per il futuro dei nostri figli che i nostri padri avevano ben conosciuto, e noi non ancora. E dagli arsenali della politica, della cultura, della diplomazia e della strategia militare rispuntano insieme con vecchie paure i concetti dimenticati delle "zone d'influenza", dei "blocchi", delle "esercitazioni", dei Muri, della frontiera europea tra Occidente e Oriente, con l'Ovest che ritrova il suo Est e il Cremlino fisso nuovamente nella parte del "nemico ereditario".

Misuriamo con uguale inquietudine gli sconfinamenti ucraini di Putin e la sua popolarità crescente in patria, nonostante le sanzioni. Scopriamo quel che dovevamo sapere, e cioè che l'anima imperiale e imperialista della Russia è eterna e insopprimibile, dunque non è una creatura ideologica del sovietismo ma lo precede, lo accompagna e gli sopravvive. Anzi: dopo gli anni di interregno, con il pugno di ferro interno e la spartizione oligarchica del bottino di Stato, l'Oriente russo torna a marcare un'identità forte, una sovranità territoriale e politica che mentre si riprende la Crimea non nasconde velleità su Kiev e tentazioni sui Paesi baltici, come se Mosca si ribellasse alla storia e alla geografia d'inizio secolo, contestandole e impugnandole davanti alla sua ossessione ritrovata: l'Occidente.

Nello stesso momento il Califfato islamista appena proclamato tra Siria e Iraq non ha ancora un vero Stato, una capitale, un sistema di relazioni, ma ha un pugnale puntato alla gola di uomini scelti per simboleggiare nel loro martirio individuale una sorta di sfida universale, che va addirittura oltre lo spettacolo di morte dell'11 settembre. La morte sceneggiata come messaggio estremo alla potenza americana, sotto gli occhi di tutto il mondo, rito primitivo del fanatismo religioso e marketing modernissimo del deserto. Nella sproporzione assoluta tra l'inermità innocente del prigioniero e la potestà totale del suo assassino (uno squilibrio miserabile, che esiste soltanto fuori dallo Stato di diritto, dai tribunali, dalle garanzie e dai diritti) si radunano i simboli e le vendette per la guerra del Kuwait dopo l'invasione di Saddam, la caccia ad Al Qaeda in Afghanistan con la ribellione all'attacco contro le Torri, la guerra in Iraq, l'uccisione di Bin Laden, ma anche la sfida islamista tra ciò che resta di Al Qaeda e l'Is, lo Stato Islamico, una partita aperta per l'egemonia politico-religioso-militare del fanatismo. Costruire sul terrore il Califfato significa soprattutto cancellare ogni rischio di contagio democratico anche parziale nei Paesi islamici, ogni istituto prima ancora di ogni istituzione, in nome di quell'"isolazionismo" che Bin Laden predicava e minacciava per cacciare dalla penisola musulmana "i soldati della croce", con i loro "piedi impuri" sui luoghi sacri. Il nemico definitivo è dunque chiaro: l'Occidente.

Ma nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente come il nemico finale e l'avversario eterno, l'Occidente ha una nozione e una coscienza di sé all'altezza della sfida? Ha almeno la consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola, mentre Putin sta rialzando un muro politico e diplomatico che fermi l'America, delimiti l'Europa e blocchi la libertà di destino dei popoli? La risposta della politica è inconcludente, quella della diplomazia non va oltre le sanzioni. Resta la Nato, il vertice del Galles, la polemica sulle spese, il progetto di esercito europeo. Ma la domanda si ripropone oltre la meccanica militare: la Nato può funzionare e avere un significato da protagonista delle due crisi senza una soggettività politica chiara dell'Occidente? In sostanza, il nemico (o meglio: colui che ci elegge a nemico) ha una nozione di noi più chiara di quella che noi abbiamo di noi stessi.

Per tutto il breve spazio "di pace" che va dalla caduta del Muro all'11 settembre abbiamo lasciato deperire nelle nostre stesse mani il concetto di Occidente, mentre altri lavoravano per costruirlo come bersaglio immobile. Lo abbiamo svalutato come un reperto della guerra fredda e non come un elemento della nostra identità culturale, istituzionale e politica, quasi che fossimo definiti soltanto dall'avversario sovietico, e solo per lo spazio della sua durata. Anche gli scossoni geografici nell'Europa di mezzo, seguiti alla caduta del blocco sovietico, e le proposte di allargamento dell'Unione sono stati gestiti con parametri più economici, di mercato e di potenza che ideali. Quel pezzo di Occidente che si chiama Europa è sembrato a lungo incapace di avere un'idea di sé che non nascesse per differenza dal confronto con il comunismo orientale, e quando il sovietismo è caduto è parso in difficoltà a definirsi, a concepirsi come la terra dov'è nata la democrazia delle istituzioni e la democrazia dei diritti. Qui sta la ragione della comunità di destino - e non solo dell'alleanza - con gli Stati Uniti, e stanno anche le ragioni specifiche che l'Europa porta in questa intesa, il rispetto degli organismi internazionali di garanzia e delle regole di legalità internazionale, che per un'alleanza democratica (anche quando è guidata da una Superpotenza) valgono sempre, anche quando è sotto attacco: perché la democrazia ha il diritto di difendersi, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa.

Oggi noi dobbiamo vedere (se non fosse bastato l'11 settembre) che non è l'America soltanto il bersaglio, ma è questo nostro insieme di valori e questo nostro sistema di vita, fatto di libertà, di istituzioni, di controlli, di regole, di parlamenti, di diritti. E contemporaneamente, certo, di nostre inadeguatezze, miserie, errori, abusi e violenze, perché siamo umani e perché la tentazione del potere è l'abuso della forza. Ma la differenza della democrazia è l'oggetto dell'attacco, il potenziale di liberazione e di dignità e di uguaglianza che porta in sé anche coi nostri tradimenti, e proprio per questo il suo carattere universale, che può parlare ad ogni latitudine ogni volta che siamo capaci di comporre le nostre verità con quelle degli altri rinunciando a pretese di assoluto, ogni volta che dividiamo le fedi dallo Stato, ogni volta che dubitiamo del potere - sia pur riconoscendo la sua legittimità - e coltiviamo la libertà del dubbio.

Hanno il terrore di tutto questo, nonostante la nostra testimonianza infedele della democrazia e il cattivo uso delle nostre libertà. Lo ha Putin, con la sua sovranità oligarchica. E lo ha radicalmente l'Is. Ma noi, siamo in grado di difendere questi nostri principi e di credere alla loro universalità almeno potenziale, oppure siamo disponibili ad ammettere che per realpolitik diritti e libertà devono essere proclamati universali in questa parte del mondo, ma possono essere banditi come relativi altrove? In sostanza, siamo disposti a difendere davvero la democrazia sotto attacco?

La sfida è anche all'interno del nostro mondo. Perché nell'allontanamento dalla politica e dalle istituzioni dei cittadini dell'Occidente c'è la sensazione che siano diventate strumentazioni inutili di fronte alla grande crisi economica e alle crisi locali aperte nel mondo. E che la stessa democrazia oggi valga soltanto per i garantiti, lasciando scoperti dalle sue tutele concrete gli esclusi. La somma delle disuguaglianze sta infatti facendo traboccare il nostro vaso: sono sempre esistite, nella storia dei nostri Paesi, ma erano all'interno di un patto di società che prevedeva mobilità sociale, opportunità, libertà di crescita e questo teneva insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle varie congiunture, dello sviluppo, della globalizzazione. Oggi si è rotto il tavolo di compensazione dei conflitti, il legame sociale tra il ricco e il povero, la responsabilità comune di società. Tra i precari fino a quarant'anni e licenziati di 50, produciamo esclusi per i quali la democrazia materiale non produce effetti: e perché per loro dovrebbe produrne la democrazia politica, la partecipazione, il voto?

Contemporaneamente, una parte sempre più larga di popolazione ha la sensazione davanti alle crisi che il mondo sia fuori controllo. E cioè che il sistema di governance che ci siamo dati faticosamente e orgogliosamente nel lungo dopoguerra si sia inceppato, e non produca governo dei fenomeni in atto. Per la prima volta si blocca quello scambio tra il cittadino e lo Stato fatto di libertà e diritti in cambio di sicurezza. Ci si sente cittadini dentro lo Stato nazionale, ma si percepisce che lo Stato-nazione non controlla più nessuno dei fenomeni che contano nella nostra epoca, non ha prodotto istituzioni e democrazia in quello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e informativi dove non per caso la nostra cittadinanza - il nostro esercizio soggettivo di diritti - è puramente formale. Delle istituzioni sovranazionali a noi più vicine - la Ue - sentiamo nitidamente il deficit di rappresentanza e quindi di democrazia. Portiamo in tasca una moneta comune senza sapere qual è la faccia del sovrano che vi è impressa, senza un'autorità capace di spenderla politicamente nelle grandi crisi del mondo, senza un esercito che la difenda. Alla fine dell'Europa sentiamo il vincolo, certo, ma non la sua legittimità.

La stessa America, che doveva essere la Superpotenza superstite al Novecento e dunque egemone, avverte la crisi della sua governance proprio quando l'elezione di Obama aveva dispiegato tutta l'energia democratica di quel Paese, come se quel voto avesse avvertito la coscienza dell'ultimo limite (la differenza razziale come impedimento ad un pieno dispiegamento dei diritti) e la necessità infine di superarlo. Ma nel momento in cui spezzando l'unilateralismo bushista Obama, dopo aver offerto invano il dialogo all'Islam, porta l'America fuori dalle guerre sul terreno, chiudendo un'epoca, la democrazia americana si scopre disarmata e in difficoltà a tradurre la sua forza in politica, e vede Mosca riarmarsi e Pechino lucrare vantaggi competitivi all'ombra delle crisi che investono direttamente Washington.

È come se stessimo testando il confine della democrazia, quasi non riuscisse più a produrre rappresentanza, governo e istituzioni capaci a rispondere alle esigenze dell'epoca. Come se fosse una costruzione del Novecento, giunta esausta a questo pericoloso inizio di secolo. Non sarebbe la fine di un'ideologia, ma di tutto il fondamento dello Stato moderno, di una cultura politica, di un'identità. Per questo l'Occidente oggi va difeso, con ogni mezzo, da chi lo condanna a morte. Anche Vladimir Putin dovrebbe riflettere sulla sfida islamista, domandandosi per chi suona la campana, magari recuperando negli archivi del Cremlino la lettera che l'ayatollah Khomeini scrisse all'ultimo segretario generale del Pcus nel gennaio del 1989: "È chiaro come il cristallo che l'Islam erediterà le Russie".

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Il commento di Giulietto Chiesa sull'editoriale di Ezio Mauro
VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=Ih4svTAhbN0

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L’Occidente psichiatrico di Ezio Mauro

Posted on 06/09/2014 by Miguel Martinez

Leggo ieri, sul sito di Repubblica, un editoriale di Ezio Mauro che riesce a riassumere due secoli di paranoia in quattro luoghi comuni.

Mauro ci spiega che esiste l’Occidente e che l’Occidente ha un “nemico ereditario“, l’Oriente.

Egli adopera in modo intercambiabile il termine “Occidente” e il pronome “noi“, e già questo è clinicamente interessante.

Il signor Ezio Occidente precisa comunque di non essere paranoico: è il mondo, spiega, che ce l’ha con lui/noi.

Ci rivela che “l’anima imperiale e imperialista della Russia è eterna e insopprimibile” e vuole bloccare “la libertà di destino dei popoli“.

Poi ci sono i musulmani. Ezio Occidente, parlando del cosiddetto califfato islamico a cavallo tra Siria e Iraq, si chiede se l’Occidente (anzi “la comunità del destino”) abbia

“almeno la consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola“.

E si pone l’eterna domanda di tutti coloro che temono la Decadenza dell’Occidente:

“Ma nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente come il nemico finale e l’avversario eterno, l’Occidente ha una nozione e una coscienza di sé all’altezza della sfida?”

la risposta, per lui è chiara:

” Per questo l’Occidente oggi va difeso, con ogni mezzo, da chi lo condanna a morte.”

Ragionare con i matti, in particolare con quelli paranoici, non è sempre facile, perché richiede che si applichi una regola di di buon senso, che si può riassumere così:

1) Se qualcuno dice che Jack lo Squartatore fu colpevole di alcuni omicidi avvenuti nella Belle Epoque londinese, se ne può discutere.

2) Se qualcuno dice che Jack lo Squartatore lanciò la bomba atomica su Hiroshima, ho il diritto di esprimere i miei dubbi, senza per questo diventare necessariamente un difensore del personaggio.

Quindi, premetto che la parte antirussa degli ucraini ha tanti validi motivi per non voler restare nella sfera di Mosca, e non ho particolari simpatie per l’attuale governo russo (e nemmeno per altri governi, se è per questo).

Però constato che nessuno sta cercando di conquistare né l’Ucraina, né l’Occidente: c’è la parte di ucraini – diciamo un terzo della popolazione – che si sente russa che non ha intenzione di farsi sottomettere o cacciare dalla parte antirussa, e in questo godono del sostegno del governo russo.

Il signor Ezio Occidente sappia quindi che i russi non vogliono far abbeverare i loro cavalli nella fontana di San Pietro, al massimo faranno abbeverare le loro Ferrari dai benzinai della Versilia.

Per quanto riguarda l’ISIS [1], non si tratta di una “parte del mondo” – come scrive Ezio Occidente – che ha come “nemico definitivo” l’Occidente. Si tratta piuttosto dell’ennesima tegola in testa agli iracheni, da quando hanno scoperto il petrolio da quelle parti.

Mettere i fatti in ordine cronologico è istruttivo.

A giugno l’ISIS si è vantato di aver fucilato in un solo giorno tra 600 e 3.000 prigionieri iracheni (accusati di appartenere al “criminale esercito safavide“, un termine che mette insieme i concetti di sciita e di iraniano) catturati nell’ex-base statunitense di Camp Speicher.

Tutto in video,  ovviamente; e devo dire che è il video più terrificante che mi sia mai capitato di guardare. Lo so che ogni battaglia della Rivoluzione Messicana finiva con la fucilazione finale dei soldatini/contadini prigionieri; e più o meno lo stesso capitava durante tutti i grandi eventi del Novecento, però questa volta i media non hanno la scusa che non ci sono le immagini.

Che cosa ne avrà pensato Ezio Occidente?

Vado su Google: Nessun risultato trovato per “camp speicher” “ezio mauro”.[2]

Evidentemente i soldatini sciiti non fanno Occidente Minacciato.

Per sostenere il governo che avevano installato in Iraq, e perché una nuova guerra ogni tanto ci vuole, gli Stati Uniti hanno in seguito bombardato alcune basi dell’ISIS. Basi, ricordiamo, messe in piedi grazie alla lunga accondiscendenza del governo turco.

Infatti, l’ISIS è il nemico più agguerrito e capace del governo siriano, un governo da anni ormai sotto sanzioni e minacce di ogni sorta proprio da parte dell’Occidente: lo scorso giugno, Obama ha proposto di dare 500 milioni di dollari per addestrare e armare chi sta combattendo contro il governo siriano.

Anche il governo siriano avrà le sue pecche, ma non ha certo mai minacciato l’Occidente.

Solo dopo i bombardamenti statunitensi, è avvenuto il video-omicidio del giornalista Sotloff: il decapitatore ha spiegato chiaramente il messaggio“un’occasione per avvertire i governi che entrano in questa malvagia alleanza con l’America contro lo Stato Islamico: si tirino indietro e lascino il nostro popolo in pace; e rivolto a Obama,“Fintanto che i tuoi missili continueranno a colpire il nostro popolo, i nostri coltelli continueranno a colpire il collo del tuo popolo”.

Non esiste, insomma, nessun pugnale puntato alla gola dell’Occidente.

Non escludo che se l’aeronautica americana bombardasse di nuovo una città controllata dall’ISIS, a qualche giovane esaltato potrebbe venire in mente di farsi saltare in aria in un supermercato di Parigi, e sarebbe una cosa sicuramente orribile.

Ma il punto è che l’Occidente non salta per un supermercato che chiude (ne hanno chiuso uno dietro casa mia l’altra giorno, e ti assicuro che l’Occidente respira uguale).

L’Occidente salterebbe, casomai, se non arrivasse più petrolio. Ma anche lì, non c’è da preoccuparsi.

L’ISIS, infatti, pare che viva del petrolio che riesce a vendere. Come tutto ciò che riguarda il Medio Oriente, sarà una cifra un po’ a caso, ma qualcuno calcola che l’ISIS guadagni tre milioni di dollari al giorno grazie proprio al petrolio  (e vendono pure l’energia elettrica prodotta dalla diga di Raqqa, che si sono ben guardati dal danneggiare).

Passiamo a guardare la filosofia sottostante alla costruzione di Ezio Occidente.

Lui che scrive e il lettore formano un “noi”, unito dal nemico che ci odia perché il nemico è intrinsecamente perverso: odia la libertà, la pace e probabilmente anche i bambini.

Questa condivisione paranoica permette di spazzare sotto il tappeto tutto ciò che in realtà “ci” divide, a partire dal fatto che lui ha alle spalle Benetton, e io no, ad esempio.

Il nemico viene ingigantito oltre ogni misura: stendiamo un velo pietoso sui disastrati villaggi polverosi da cui il Califfato emana i suoi video, sgozza i suoi sciiti e vende il suo petrolio. Ma anche il PIL di tutta la vasta Russia rimane inferiore a quello della nostra piccola Italia.

La comunità paranoica non è mai dichiaratamente aggressiva: il suo motto è dobbiamo difenderci – dagli slavi, dagli sciiti, dagli ebrei, dagli arabi, dai cristiani, dai serbi, dai musulmani, dai neri che violentano le nostre donne, dagli Invasori di Lampedusa, dagli alieni di Zeta Reticuli… Il “bersaglio“, scrive il direttore di Repubblica“è questo nostro insieme di valori e questo nostro sistema di vita”.

Una difesa da condurre, come scrive in tono sinistro il nostro (ricordiamo che sta parlando di un vertice della NATO, cioè della massima organizzazione armata del pianeta), “con ogni mezzo”. Ma dietro le parole difensive, Ezio Occidente si lascia sfuggire un concetto interessante. Eggli accusa infatti Putin di voler che si  “fermi l’America, delimiti l’Europa“. Nessuno osi delimitarci.[3]

Anzi, “la democrazia” (ricordiamo che per il nostro autore, i termini “Occidente”, “Ezio Mauro”, “democrazia” e “noi” sono tutti sinonimi perfettamente intercambiabili) ha un “carattere universale che può parlare a ogni latitudine“. Che è all’incirca ciò che sostengono alcuni a proposito dell’Islam.

I difensori paranoici non sono mai contenti. Lo scarto tra le loro fantasie di trionfo totale e la realtà la attribuiscono in genere a una caduta di morale. Il difensore paranoico vive sempre all’undicesima ora, in cui solo uno scossone potrà risvegliare la Fibra Morale; e quindi cerca avidamente i segni del declino e del pericolo, da agitare confusamente davanti a coloro che vorrebbe appunto risvegliare. E l’articolo di cui parliamo è pieno di preoccupazioni per i dubbi che pervadono un Occidente che invece  dovrebbe pensare solo a combattere.

Qui non ci piace giocare con la parola fascismo. Però nella sequenza filosofica che abbiamo esposto, credo che troverete la chiave per capire tante caratteristiche di movimenti che i media chiamano neofascisti.

La differenza però è sempre quella del vecchio detto su chi rapina una banca e chi la fonda.

Ezio Occidente non è Roberto Fiore perché Roberto Fiore non fa il direttore del principale quotidiano italiano.

Note:

[1] Invitiamo i lettori a ricordare che ISIS in questo caso si riferisce al cosiddetto Islamic State of Iraq and Syria, e non all’Institute for the Secularization of Islamic Society, delle cui bizzarre attività abbiamo già avuto occasione di parlare.

[2] Se poi cerco Speicher sul motore di ricerca interno di Repubblica, trovo un  giocatore di basket di Cremona e un articolo curioso su Michael Speicher, il pilota cui fu dedicata la base.

[3] Possiamo suggerire al signor Ezio Occidente la lettura di qualche breve e semplice testo, alla portata anche di un direttore di quotidiano, come ad esempio questo intitolato Accettare i propri limiti per trovare l’autostima.


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Il mondo caotico di Ezio Mauro. Presto, armi a Repubblica 

Tommaso Di Francesco 

su Il Manifesto del 6.9.14

A chi inviamo armi oggi? Dopo i kurdi, dopo quelle alla Libia e alla Siria (finite irreparabilmente ai jihadisti), dopo aver letto l’editoriale di Ezio Mauro, non abbiamo dubbi: inviare subito armi alla «Repubblica». Difficile, francamente, leggere un editoriale più caotico e sospeso in un vuoto davvero pericoloso. A un certo punto abbiamo temuto che un virus o un copia-incolla sbagliato abbia immesso nella riflessione autorevole una lunga giaculatoria di Oriana Fallaci, l’ennesima lode al «civile» Occidente insidiato dall’inferno barbaro che lo circonderebbe, dall’Islam al resto del mondo. 
Dunque per Mauro sarebbe cominciata la terza era dell’Alleanza, dopo la prima della Guerra Fredda e la seconda, quando con la caduta del Muro «sembrò aprirsi un secolo lungo senza più nemici per le democrazie che avevano infine riconquistato il Novecento». 
Eppure le date non tornano: la prima Nato nasce preventiva nel 1949 (il Patto di Varsavia nascerà solo nel 1951) e la seconda stagione atlantica si avvia nell’aprile del 1999 (dieci anni dopo l’89) a Washington in piena guerra «umanitaria» di 78 giorni di raid sull’ex Jugoslavia. Con una nuova guerra espansiva: altro che alleanza di «difesa». 
Ma la democrazia non aveva vinto? Non era il caso di rivedere quell’Alleanza sciagurata, invece di mantenere l’ideologia del nemico necessario. 
Ma ora la terza fase, quella nata ieri in Galles, è davvero necessaria: guardate il Califfato islamico con la sua morte sceneggiata. Ma chi ha usato questi macellai nei vari teatri di guerra, dall’Afghanistan alla Bosnia, se non l’Occidente e per portare alla vittoria, contro il socialismo realizzato morente e per geostrategie di potenza, l’ideologia atlantica della primazia di civiltà? Che rapporto c’è ora tra pugnale insanguinato islamista e cluster-bomb americane e israeliane? 
Niente dubbi. Anche se la democrazia ormai «esclude», serve solo ai garantiti, «non è più garanzia di governance», saltati gli Stati nazionali, nelle sedi sovranazionali. Il mondo è «fuori controllo» ed è «impossibile» lo scambio tra cittadini e Stato, tra diritti e «sicurezza». Militare, naturalmente. ma allora, si chiede Ezio Mauro siamo comunque disposti a difendere la democrazia sotto attacco? 
Pure se esausto e senza contenuto, per Ezio Mauro l’Occidente va difeso «ad ogni costo». E anche Putin - è il caos - deve rispondere alla sfida islamista (come se avesse dimenticato Beslan a tre giorni dall’anniversario). Quindi nuove guerre «umanitarie» insieme a tante basi della Terza gloriosa fase Tre della Nato, a ridosso della Russia. Un nuovo Muro militare. 
Subito, ad ogni costo, armi a Repubblica. 


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I NUOVI CROCIATI


1) MASSIMILIANO DI PASQUALE

Fonte: profilo facebook "VOGLIAMO RADIOANCHIO E LA RAI SENZA BERLUSCHINI", 2/9/2014

"Scopriamo" che dei sostenitori italioti dei golpisti ucraini, finanziati da Ue e USA, che hanno per idolo uno schifoso collaborazionista nazista come Stepan Bandera quando parlano di questo criminale omettono delle notizie non di poco conto.
Uno di questi "intellettuali" è Massimiliano Di Pasquale, sodale di personaggi del PD come Matteo Cazzulani che insieme con Gianni Pittella si facevano foto con sfondo di bandiere dei nazi ucraini a Kiev durante i disordini che hanno portato al colpo di stato in Ucraina.
Questo Di Pasquale (chiamato anche dalla RAI in varie trasmissioni, tipo Rainews.it a commentare (!!) la situazione in Ucraina) in un suo articoletto postato anche su delle pagine Web dovrebbe spiegarci come mai nel 2014 lui che si considera così tanto esperto della storia Ucraina definisce "accuse NEOSOVIETICHE" le accuse di collaborazionismo con il nazismo di Bandera e i suoi scagnozzi. 
Come mai Di Pasquale nel 2014 nel suo articolo ignora il giudizio ("NAZI COLLABORATOR") che hanno di Stepan Bandera quei giocherelloni del Centro Wiesenthal che probabilmente di criminali nazisti se ne intendono molto più di lui? Ignoranza o malafede?

Che forse anche al Centro Wiesenthal siano imbevuti di "propaganda neosovietica" , eh Di Pasquale, che non riescono a considerarlo come un romantico "eroe nazionale" come lo vedono i golpisti fascistoidi di Kiev e certi sostenitori italioti?

Link alla pagina del Centro Wiesenthal : 
http://www.wiesenthal.com/site/apps/nlnet/content2.aspx?c=lsKWLbPJLnF&b=4441467&ct=7922775#.VAX5QktEOWF
[January 28, 2010: WIESENTHAL CENTER BLASTS UKRAINIAN HONOR FOR NAZI COLLABORATOR]

PS: qui l'articoletto di Di Pasquale dove potrete leggere che - NEL 2014 !!! - non fa assolutamente cenno a come viene considerato quel criminale di Stepan Bandera dal Centro Wiesenthal : http://massimilianodipasquale.wordpress.com/2014/06/19/stepan-bandera-tra-mito-nazionale-e-propaganda-neosovietica/


2) GIANNI PITTELLA

Pittella è vice-presidente del Parlamento europeo.

«Io sono andato giù a Roma... ho parlato con... e poi ho incontrato anche Gianni Pittella... è il presidente del Consiglio europeo (lapsus, ndr )... grande... potere enorme... al posto di parlamentare europeo... nel Pd è considerato potente ecco... io l’ho incontrato... sul piano casa abbiamo parlato parecchio... magari strumenti europei perché...» (Primo Greganti, intercettazioni inchiesta EXPO)

Dalla pagina FB di Gianni Pittella, "Viaggio a Kiev":
«L'Ue non é sorda alla battaglia per la democrazia del popolo ucraino. Sia il popolo ucraino a decidere liberamente se entrare a far parte della grande famiglia europea.»

FOTO: Gianni Pittella arringa la folla di ultranazionalisti sulla piazza di Kiev. In primo piano le bandiere di "Svoboda" e "Pravij Sektor" (dicembre 2013)

Gianni Pittella è il datore di lavoro di

(francais / srpskohrvatski / italiano)

Monumenti in Kosovo

1) MISSING – Gračanica: Spomenik kao brana zaboravu [inaugurato memoriale ai desaparecidos serbi a Gracanica]
2) A Vitina distrutto il Monumento in memoria della lotta di liberazione dal nazifascismo
3) Gračanica retrouve son monument à Miloš Obilić


Vedi anche:

Predsenik Tito na Gazimestanu / Il presidente Tito in visita al grande memoriale di Gazimestan (Kosovo Polje)


=== 1 ===

Gračanica: Spomenik kao brana zaboravu (RTV KIM, 17/mar/2014)

Povodom obeležavanja martovskog pogroma umetnička instalacija MISSING postavljena je danas ispred Doma kulture u Gračanici…



Gračanica: Spomenik kao brana zaboravu

17.03.2014

Povodom obeležavanja martovskog pogroma umetnička instalacija MISSING postavljena je danas ispred Doma kulture u Gračanici. Tom prilikom članovi Udruženja porodica kidnapovanih i nestalih „Kosovske žrtve“ pozvali su nadležne da se pitanje nestalih reši.

Plato ispred Doma kulture u Gračanici mesto je gde se sada nalazi spomenik koji seća na sve nestale u ratu 1999. godine. Umetničko delo MISSING koje je na dan sećanja na martovski pogrom postavljeno u Gračanici rad je autora Gorana Stojčetovića. 
„Ne mogu da prihvatim da se mnoge stvari guraju u ćošak i da nisu drušveno aktuelne. Ja se kao umetnik inače bavim temama koje društvo izbegava, tako da je ovo deo moje lične umetničke poetike. Ovo ovde mi je bilo i lično potrebno jer na ovim slikama su moji rođaci, prijatelji i komšije, a 15 godina o njima se ništa ne zna“, rekao je Stojčetović.
Iz Udruženja porodica kidnapovanih i nestalih kažu će i dalje biti istrajni u svojoj borbi za istinu i pravdu za sve nestale i stradale na Kosovu.
„Trudimo se da budemo istrajni u borbi da se sazna istina za svako nestalo lice, da se procesuiraju ratni zločini i da se dođe do pravde za sve žrtve. Želimo da ovaj spomenik bude trajna opomena i pokazatelj da se nikada i nikome na ovim, i bilo kojim prostorima, ne dogodi ono što se dogodilo nama“, rekla je predsednica ovog udruženja Nataša Šćepanović.
Gradonačelnik Gračanice Branimir Stojanović rekao je da je čekanje na pravdu nešto što će nas uvek podsećati na 17. mart.
„Ono što će nas svakako podsećati na 17. mart je čekanje pravde i sudskih presuda. U narednom periodu tražićemo da se pokrenu sudski postupci ne samo za 17. mart nego i za sve ono što nas i dalje boli“, istakao je Stojanović.
Iz Udruženja porodica kidnapovanih i nestalih pozvali su gradonačelnika Prištine da dozvoli da se ova instalacija i tamo postavi da podseća na sve nevino stradale.


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http://www.civg.it/index.php?option=com_content&view=article&id=407:kosovo-a-vitina-distrutto-il-monumento-in-memoria-della-lotta-di-liberazione-dal-nazifascismo&catid=2:non-categorizzato

Kosovo: a Vitina distrutto il Monumento in memoria della lotta di liberazione dal nazifascismo

Scritto da Enrico Vigna


Un monumento che era stato costruito in onore dei partigiani Serbi e Albanesi che combatterono contro l’occupazione nazifascista è stato distrutto nel centro del paese di Vitina da estremisti albanesi. L’atto vandalico è avvenuto sotto gli occhi della polizia kosovara, alcuni membri della quale hanno infatti tranquillamente osservato la distruzione del Memoriale, senza minimamente intervenire.    

Il fatto che che l’obiettivo non sia stato attaccato per motivi “etnici”, (era dedicato alla memoria sia dei serbi che degli albanesi) chiarisce ancora meglio la situazione di violenza, di sopruso e di aggressività presenti nella realtà del Kosovo “liberato”. Ma soprattutto fa capire quali sono i valori e le radici storiche cui si rifanno le forze secessioniste.

La memoria dei partigiani antifascisti del Kosovo, ormai annientata.

Il patrimonio e la memoria storica e culturale del Kosovo, fino al 2000 conservato nelle tradizioni della ex Jugoslavia, viene oggi sistematicamente rimosso e spesso distrutto dai “nuovi” governanti della provincia serba. Agim Gerguri, direttore dell'Istituto per la Protezione dei Monumenti in Kosovo, membro del consiglio di governo, ha dichiarato che nessun monumento legato alle vicende della Seconda guerra mondiale è sulla lista dei monumenti che lo “Stato” del Kosovo protegge. Un altro monumento jugoslavo sulla ex piazza “Fratellanza e Unità” a Pristina, sarà sostituito da un monumento al comandante UCK ucciso, Adem Jashari.

La sistematica e pianificata opera di distruzione dei Monumenti e Memoriali che ricordano il sacrificio dei combattenti serbi, albanesi e delle altre minoranze del Kosovo Methoija contro il nazifascismo nella Seconda Guerra mondiale può dare un idea  dellareatà vergognosa che esiste oggi in quella provincia; possono essere utili alcuni elementi di storia, che fanno capire da dove vengono le forze terroriste dell’UCK, i cui capi sono oggi ministri e politici vezzeggiati e protetti dall’occidente, e chi sono i loro maestri. "…Quando la Germania invase la Jugoslavia nel 1941, il popolo kosovaro fu liberato dai tedeschi. Tutti i territori albanesi di questo stato, come il Kosovo, la Macedonia occidentale e le regioni di confine del Montenegro furono riunificate con l'Albania propriamente detta. Furono ristabilite le scuole in lingua albanese, l'amministrazione del governo, la stampa e la radio solamente albanesi…" (Da: www.klpm.org, uno dei siti UCK).

Il progetto nazifascista della " Grande Albania "

Il Kosovo Metohija con la protezione di Hitler e Mussolini divenne il cuore del progetto della Grande Albania; il nazifascismo permise la realizzazione dell'ideologia della Grande Albania, teorizzata fin dal 1878 dalla Lega di Prizren, che prevedeva l’unificazione delle aree albanesi situate nei Balcani, dal Kosovo Metohija, alla Macedonia occidentale, dal Montenegro meridionale alla Grecia settentrionale. Dopo che la Germania ebbe invaso ed occupato la Jugoslavia nella primavera 1941, il grosso dell'attuale Kosovo-Metohija fu posto sotto il controllo del governo collaborazionista italo-albanese ed annesso all'Albania, allora occupata dall’Italia. Il movimento nazionalista albanese kosovaro legato alla Grande Albania pianificò l’assassinio dei civili serbi del Kosovo e si appropriò delle loro terre e case. Molte donne serbe del Kosovo furono sistematicamente violentate; così come sacerdoti ortodossi del Kosovo furono arrestati, torturati e uccisi. Chiese ortodosse e monasteri serbi furono attaccati e distrutti. Monumenti della cultura serba, cimiteri e tombe furono profanati e demolite. La primamilizia kosovara, composta da circa 1000 uomini, fu la "Vulnetari", cui furono affidati prevalentemente compiti di polizia locale.

Poi il movimento nazionalista per la Grande Albania formò nel Kosovo le forze militari delBalli Kombétari (Unione Nazionale, ovvero i Balisti, Partito Nazista Albanese), il Comitato albanesi del Kosovo ( esuli e rifugiati all’estero), e il 17 aprile 1944 la SS-Divisione Skanderbeg  (la 21° "Waffen-Gebirgsdivision SS") composta da 11.400 effettivi, due terzi dei cui membri erano kosovari albanesi musulmani.

La Divisione Skanderbeg aveva capi tedeschi e ufficiali e truppa kosovaro-albanese. In generale la politica tedesca era quella di organizzare unità militari volontarie fra i simpatizzanti nazisti dei paesi occupati. Fra tutte le nazioni occupate solo i serbi, i greci e i polacchi rifiutarono di formare unità volontarie naziste. Piuttosto che unirsi ai nazisti, come avevano fatto molti albanesi del Kosovo, i serbi organizzarono la più grande resistenza antinazista in Europa dopo quella sovietica. Sia i partigiani comunisti, la grande maggioranza, che i monarchici cetnici, di cui molte migliaia si incorporarono poi nell’AVNOJ, erano principalmente serbi, e combatterono i tedeschi e i loro alleati locali in tutta la Jugoslavia. I tedeschi reclutarono gli uomini della divisione Skanderbeg per combattere questi gruppi di resistenza, ma gli albanesi della Skanderbeg non avevano interesse ad affrontare i soldati; essi volevano principalmente terrorizzare i civili serbi, zingari ed ebrei locali. Molti di questi albanesi kosovari avevano prestato servizio in precedenza nelle divisioni SS bosniaco-musulmane e croate, note per i loro massacri di civili.La prima operazione della divisione Skanderbeg, nota come "Einsatztruppen", fu un'incursione contro gli ebrei, e la seconda fu lo sterminio del villaggio serbo di Velika, dove più di 400 serbi furono uccisi.Estremisti kosovari albanesi musulmani giocarono un ruolo attivo anche nella persecuzione degli ebrei. Infatti kosovari albanesi incorporati come truppe delle SS naziste partecipavano normalmente al rastrellamento degli ebrei del Kosovo che furono poi uccisi a Bergen Belsen. Si è stimato che 550 ebrei vivessero in Kosovo al momento dell'invasione nazista; 210 di essi, ossia il 38 per cento, furono uccisi.  "…La popolazione serba in Kosovo deve essere cacciata il prima possibile. I coloni serbi vanno ammazzati…". Così si esprimeva il leader fascista albanese Mustafa Kruja, nel giugno 1942. Mentre un altro capo albanese-kosovaro, Ferat-Bej Draga diceva: "…E' arrivato il momento di sterminare i serbi. Non rimarrà alcun serbo sotto il sole del Kosovo…”.

Sotto l'occupazione tedesca dal 1943 il terrore fu continuato dal famigerato Kosova Regiment (Reggimento Kosova), che devastà le zone da Pec a Prizren e Djakovica,  in tutto il Kosovo e Metohija. Gli storici hanno stimato una cifra tra i 30.000 e 40.000 Serbi uccisi in Kosovo. Oltre ad un numero sconosciuto di morti nei Campi di lavoro nazisti a Pristina e Mitrovica o uccisi dalle rappresaglie tedesche contro le azioni dei partigiani. Si stima che gli espulsi siano stati circa 100.000.
La pulizia etnica e l’esodo dei Serbi di quegli anni fu superato soltanto nel 1999, dopo la fine dei bombardamenti NATO, che costrinse oltre 230.000 serbi, rom, gorani, albanesi jugoslavisti, ebrei, ashkali e di altre minoranze alla fuga.

Tutto ciò fu possibile soprattutto grazie alla leadership politica e militare della “Seconda Lega di Prizren”, costituita il 16 settembre 1943da Xhafer Deva, un albanese kosovaro, in continuità ideale con la Lega di Prizren, fondata a fine ottocento in questa cittadina del Kosovo Methoija; anche oggi, dopo 15 anni di occupazione NATO, la cittadina è stata una delle roccaforti dei terroristi dell’UCK, che hanno terrorizzato e assassinato i serbi del posto (un dato su tutti: dei 20.000 serbi che vivevano lì fino al 2000, oggi ne restanomeno di dieci), radendo anche al suolo l’antico monastero ortodosso.

Nell’estate del 1999 quando i Tedeschi sono entrati a Prizren per la prima volta dopo la II Guerra mondiale, un corrispondente della NBC ha riportato: "…L'altra sera ero a cena con una gentile famiglia di kosovari musulmani, quando il discorso e' caduto sulle truppe NATO tedesche che entravano in città per farne il quartier generale del loro distretto di peacekeeping, il capofamiglia, un uomo abbastanza anziano da ricordare l'ultima volta che le truppe germaniche erano entrate a Prizren, disse che si sentivano tutti al sicuro ora. 'I soldati tedeschi sono eccellenti', egli disse. Poi aggiunse: “Lo so ben io, ero uno di loro”. Allora ha sollevato il braccio in un saluto nazista, ha detto 'heil' e si e' messo a ridere tutto contento…". (NBC, 18 giugno 1999)

Persino le autorità italiane in Kosovo parvero alquanto spiazzate dal terrore contro i serbi, e occasionalmente intervennero per prevenire attacchi albanesi, per lo meno nelle aree urbane. Cosi' riporta lo storico serbo jugoslavo Smilja Avramov: "…Le truppe italiane furono dislocate nelle città del Kosovo e agivano come forza contenitrice...".Carlo Umiltà, un ausiliario civile del Comando delle forze di occupazione italiane, descrisse diversi episodi in cui le truppe italiane aprirono il fuoco sugli albanesi per evitare massacri di serbi. A causa della scarsità di forze e dell'alleanza de facto fra albanesi e forze dell'Asse, questi tentativi di contenimento costituirono ben poca cosa. Tuttavia gli occupanti italiani riferirono il loro disgusto per le azioni degli albanesi alle autorità di Roma. L'esercito italiano riferì che gli albanesi "stavano dando la caccia ai serbi", e che "…la minoranza serba viveva in condizioni veramente miserevoli, continuamente perseguitata dalla brutalità degli albanesi che alimentano l'odio razziale…". Carlo Umiltà ha descritto alcune delle atrocità nelle sue memorie :"…gli albanesi stanno sterminando gli slavi…". Al diplomatico italiano si aggiungono le parole di Hermann Neubacher, il rappresentante del Terzo Reich per l'Europa sud-orientale: "…Gli schipetari avevano fretta di espellere il maggior numero possibile di Serbi dal paese…".

I tedeschi si arresero nel 1945, ma i resti dei gruppi nazisti e fascisti kosovaro-albanesi continuarono a combattere il governo jugoslavo ancora per sei anni, fino al 1951, e vi fu ancora una grande ribellione durata dal 1945 al 1948 nella valle della Drenica sotto il comando di Shabhan Paluzha. Corsi e ricorsi della storia: è proprio in questa valle, che e' stata l’epicentro del reclutamento UCK nel '98-'99, che sono avvenuti gli scontri più duri tra l’Esercito Jugoslavo e i terroristi dell’UCK.

Ciò che è avvenuto in Kosovo durante la Seconda Guerra Mondiale fu un processo sistematico  e pianificato di persecuzioni, che potrebbe essere definito un genocidio. Le ricostruzioni relative alla seconda guerra mondiale hanno occultato il ruolo degli estremisti albanesi del Kosovo nell’eccidio contro i serbi del Kosovo e il contributo dei kosovari albanesi all'Olocausto. Ma il passato nazifascista del Kosovo rimane una storia documentata e agli atti della storia. Ed è in queste radici e patrimonio che lo stesso UCK e la sua dirigenza hanno fondato il processo di secessione del Kosovo di oggi.

 

A cura di Enrico Vigna per KOSOVO NOTIZIE,

Forum Belgrado Italia  -   luglio 2014


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http://balkans.courriers.info/article25215.html


Kosovo : Gračanica retrouve son monument à Miloš Obilić


B92, 27 juin 2014
Traduit par Persa Aligrudić

Un monument consacré à Miloš Obilić, héros de la bataille médiévale de 1389 a été réinstallé dans l’enclave serbe de Gračanica. Cette statue se trouvait autrefois dans la ville d’Obilić/Obiliq, également située dans la banlieue de Pristina, mais elle avait été vandalisée en 1999.

Le monument a été inauguré à la veille de la célébration du 28 juin, jour de Vidovdan, la Saint Vitus. C’est la commune de Gračanica qui est à l’origine de cette décision d’ériger le monument conformément à la loi en vigueur au Kosovo. Le monument qui avait subi d’importants dommages, avait trouvé refuge durant 14 ans à la base de la KFOR à Obilić, puis dans l’enceinte du monastère de Gračanica.

Le monument de Miloš Obilić a été installé à l’endroit où se trouvait autrefois la mosaïque dédiée à la reine Simonide. Les passants interrogés ont exprimé leur satisfaction pour cette initiative des autorités locales.

Après la démolition du monument d’Obilic/Obiliq par des vandales, les soldats de la Kfor l’ont sauvegardé, tandis que le gouvernement norvégien a octroyé des fonds pour sa restauration.

Branimir Stojanović, le maire de Gračanica, estime que la situation s’est améliorée et que le monument a trouvé sa vraie place car il n’était pas possible de le réinstaller là où il avait été détruit. Il s’attend toutefois à des réactions de la part de certaines personnes qui seraient gênées par le monument..

Avec l’arrivée de la communauté internationale au Kosovo, presque tous les monuments érigés à la mémoire des grandes figures serbes ont été détruits. Ainsi ont été démolis, dans la seule ville de Priština, les monuments de Vuk Karadžić, Njegoš et Dositej Obradović.