Informazione


http://www.anpiroma.org/2014/05/affile-le-motivazioni-della-sentenza-di.html

Erano stati assolti il 1 aprile scorso i tre ragazzi accusati di aver imbrattato il mausoleo intitolato a Rodolfo Graziani ad Affile. Secondo il Tribunale Ordinario di Tivoli – sezione penale monocratica, non si deve procedere nei loro confronti perché il fatto non sussiste.


Vedi Comunicato Stampa del 1 aprilehttp://www.anpiroma.org/2014/04/comunicato-stampa-prosciolti-i-ragazzi.html

L'Anpi Provinciale di Roma è soddisfatta delle motivazioni che qui riportiamo.


Nella motivazione della sentenza di assoluzione si legge come il fabbricato oggetto dell’attività imputata avesse mutato caratteristiche e finalità a seguito della decisione della Giunta Comunale di Affile del 21 luglio 2012, che deliberava di intestare il sacrario non al soldato in senso ampio, ma bensì al Generale M.llo d’Italia Rodolfo Graziani. Dalla scelta della Giunta derivano una serie di rilevanti polemiche politiche, sociali e contestazioni che riguardavano non solo il nostro paese, ma anche l'ambito internazionale, in considerazione del profilo storico e personale di Graziani e al suo evidente coinvolgimento ed identificazione per le attività svolte e i ruoli ricoperti con il regime fascista.

La scelta della Giunta Comunale di Affile, la violazione della destinazione del fabbricato in questione in modo unilaterale senza alcun rispetto dell’originario progetto così come finanziato e valutato positivamente dalla Regione Lazio, determinava l’intervento del Presidente della Regione Lazio per contrastare la intenzione dichiarata del Sindaco di Affile di rendere quel paese un luogo equivalente a Predappio nella celebrazione del M.llo d’Italia Rodolfo Graziani.

Quanto all’accusa di danneggiamento, nella sentenza si legge che dalla documentazione acquisita non emerge alcuna modificazione strutturale o funzionale della cosa e d’altra parte le caratteristiche del bene, la sua impropria destinazione e il contrasto anche a livello amministrativo circa la destinazione del bene, valgono ad escludere senza alcun dubbio la ricorrenza dell’aggravante di aver commesso il fatto su beni pubblici. Dagli accertamenti è emerso che a causa delle scritte non vi sia stata nessuna dispersione, distruzione, o deterioramento definitivo del bene tanto da renderlo inservibile, con la conseguenza che è esclusa la sussistenza del fatto contestato.

Occorre evidenziare, si legge nella sentenza, che la originaria funzione e destinazione del bene era stata identificata in un sacrario volto a celebrare la memoria di tutti quei cittadini e soldati che hanno perso la loro vita in eventi bellici nella difesa del loro paese. Memoria che all’evidenza ricopre carattere e interesse generale e appare rivolta a tutelare un bene riferibile alla intera comunità pubblica. Al contrario, la scelta della delibera comunale del 21/07/2012 è stata quella di mutare tale contesto, intitolando il sacrario al Generale Rodolfo Graziani, e dunque ad una singola persona che non ha perso la propria vita in eventi bellici, la cui celebrazione non riveste carattere di interesse generale, mostrandosi al contrario foriera di contrasti o contestazioni in relazione alla discussa azione bellica dello stesso Graziani realizzata, che hanno portato a polemiche e contestazioni e sul suo passato e sul suo ruolo mai sopite. Non ricorre dunque nel caso in esame quella caratteristica che vale a connotare la evidente pubblica utilità di un bene, ovvero la riferibilità della celebrazione a sentimenti complessivi, condivisi e universalmente riconosciuti come quello del sacrificio e della morte in eventi bellici di cittadini o soldati nella difesa del proprio paese, mentre emerge senza alcun dubbio la volontà di esaltare una singola personalità.

E ancora: non può essere ritenuta la pubblica utilità del bene che per le sua caratteristiche, per l’uso pubblico al quale voleva essere destinato dal Comune di Affile appare in evidente contrasto con la disposizione dell’art. 11 della Costituzione, secondo il quale “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” Noto e condiviso dai padri costituenti lo spirito informatore dell’articolo 11 della Costituzione, in tal senso occorre considerare come il termine ripudio (non risultando utilizzato il termine ‘rinuncia’) alla guerra implica, inoltre, la condanna di ogni propaganda bellicistica, di dottrine che esaltino o giustifichino la guerra, e la condanna della guerra, in particolare di aggressione, ovunque ciò avvenga.

Ebbene, riferire ed intitolare il sacrario in questione ad un rappresentante di diversi governi, tra i quali il governo fascista, che ha materialmente realizzato con costanza proprio le condotte aggressive ripudiate dalla nostra Costituzione, anche con organizzate attività di sterminio ed eliminazione di popoli da conquistare, esclude a parere del tribunale la ricorrenza di quella pubblica utilità che avrebbe dovuto originariamente caratterizzare il sacrario oggetto di accertamento, volto a celebrare la memoria dei cittadini impegnati nella difesa del paese e nella cura dell’interesse pubblico generale.

Tivoli, 1 aprile 2014, depositato in cancelleria il 6 maggio 2014.

Queste le frasi che furono scritte sul monumento: “no al fascismo”, “libertà”, “macellaio”, “vile onore e patria assassina”, “ne spazio ne luoghi per un massacratore”, “chiamate eroe un assasino”, “per i tuoi massacri compiuti un monumento per le vittime”.


Inizio messaggio inoltrato:

Da: "Coord. Naz. per la Jugoslavia" <jugocoord@...>
Oggetto: [JUGOINFO] Tivoli 1/4: Sotto processo per antifascismo
Data: 26 marzo 2014 16:38:59 CET
A: [JUGOINFO]

 

Tivoli 1/4: Sotto processo per antifascismo

1) Affile: “Ma quale danneggiamento, si è scritta solo la verità”. Lettera aperta dei tre ragazzi accusati di aver sporcato il monumento al criminale di guerra fascista e repubblichino Rodolfo Graziani. 1° Aprile: sit in dentro e fuori il tribunale di Tivoli Viale Nicolò Arnaldi n, 19 ore 9.30

2) Nel frattempo… Con qualche decennio di ritardo, aperta inchiesta sui crimini di guerra italiani accertati dalla commissione Gasparotto


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Lettera appello di tre ragazzi accusati di aver verniciato il monumento a Graziani ad Affile. “Ma quale danneggiamento, si è scritta solo la verità”. Il 1° aprile dovranno comparire al Tribunale di Tivoli e convocano un sit in di protesta e solidarietà.
(Vedi anche: "Rodolfo Graziani, soldato o criminale di guerra?" di Ernesto Nassi

"Siamo i 3 ragazzi accusati di aver imbrattato il mausoleo intitolato a Rodolfo Graziani, una delle figure di spicco del ventennio fascista.
Per molti fascisti nostrani questo mausoleo (inaugurato nell'agosto 2012) è stato il compimento del percorso che il Movimento sociale, ad Affile (RM), aveva intrapreso dal dopo guerra. Già nel '67 infatti venne presentato il progetto del suddetto dal celebrato sindaco affilano Luigi Ciuffa (esponente dell' Msi e sindaco della cittadina per 40 anni). Così, assieme al busto di Almirante, Affile oggi vanta anche un mausoleo intitolato tramite delibera comunale al ‘macellaio di Fezzan’, Graziani. La Regione Lazio, a seguito del clamore suscitato da tale scempio, ha bloccato una parte  del finanziamento promesso e dopo un attento sopralluogo sul posto non ha  trovato più alcun riferimento al fascista. Di fatto il mezzo busto che dominava la sala è ora custodito gelosamente in casa dal sindaco Viri, come da lui stesso dichiarato. Il manufatto sarà scappato da solo o qualcuno avrà provveduto a rimuoverlo?Quella che secondo i piani del sindaco deve essere la Predappio del Lazio è una chiara e palese revisione storica che pone il macellaio nella veste del soldato pluri medagliato prima del fascismo, poi soldato "non fascista" nel ventennio e successivamente nella repubblica sociale “ fedele alla patria fino alla fine tanto da salvarne vite umane e beni materiali dalla furia tedesca“... e si può aggiungere “ servo di una patria assassina “ come recitava uno scritto sul mausoleo.A seguito di diverse denunce di individualità e associazioni il sindaco Viri ed alcuni assessori sono stati denunciati. La Procura  ad oggi non sembra aver dato seguito all’indagine per apologia di fascismo scattata ai danni del sindaco … Molto più facile procedere “verso chi pratica gesti violenti“, appunto vernice , come  gridava qualche fascista  in giacca e cravatta, commentando la notizia delle scritte.Così il 1 aprile (non è uno scherzo) ci ritroveremo nell’ aula del tribunale di Tivoli ad essere accusati nel modo in cui riportiamo: “...in concorso tra di loro danneggiavano mediante verniciatura con bombolette  spray la scalinata in marmo, due porte e le quattro facciate del sacrario denominato 'il Soldato' sito in Affile. Con l’ aggravante di aver commesso il fatto su beni destinati per necessità alla pubblica  utilità e su edifici ad uso pubblico...", scrivono i carabinieri.A prescindere dal fatto di chi abbia praticato il gesto, vogliamo evidenziare la volontà di far passare per pubblica utilità un mausoleo intitolato ad un criminale di guerra, come evidenzia la storia, ad un condannato per collaborazionismo con i tedeschi nell’occupazione nazista, al ministro della repubblica di salò firmatario del bando che rese obbligatoria la leva delle classi '22 ‘ 23, deportando 2500 persone nei lager tedeschi.L’uomo che con i suoi ordini sterminò migliaia di etiopi, l’uomo che rivendicò lo sterminio di Debra Libanos (in cui morirono più di 3000 persone), l’uomo firmatario delle leggi razziali, l’uomo protetto ancora oggi da una chiesa complice delle sue atrocità. Sono allora 4 mura intitolate a questa figura un bene pubblico? O sono il tentativo da parte della destra nostalgica di creare un luogo di culto per i vecchi e nuovi fascisti? Proprio perché non ci riconosciamo in questa assurda vicenda e con sentimento di complicità con tutte le persone che ieri hanno combattuto e che oggi combattono contro i vecchi e nuovi fascismi, con spirito di rivalsa verso un gesto che è un insulto alla vita umana e alla Resistenza, vogliamo non far passare questo processo come “un semplice danneggiamento“. Per questo motivo chiediamo un forte sostegno nelle modalità che riterrete più opportune, a tutti gli uomini e alle donne, ad associazioni e movimenti, individualità e collettivi che si riconoscono nei valori della Resistenza. Per una società libera da ogni fascismo e per l’ abbattimento del mausoleo a Rodolfo Graziani.

1° Aprile: sit in dentro e fuori il tribunale di Tivoli Viale Nicolò Arnaldi n, 19 ore 9.30

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Mi perviene una lettera aperta di tre ragazzi che il 1 aprile dovranno comparire davanti al Tribunale di Tivoli per danneggiamento ad un bene pubblico. Si tratta dell’accusa di aver imbrattato “con vernice la scalinata in marmo, due porte e quattro facciate del sacrario denominato “Il soldato”, sito in Affile”. I tre ragazzi fanno alcune considerazioni e chiedono sostegno per un processo “che non deve passare come un semplice danneggiamento”. Ovviamente, io non so come stiano i fatti e quali prove vi siano sugli autori; e, avendo fatto per molto tempo l’avvocato, so che non bisogna mai pronunciarsi su atti che non si conoscono. Ma alcune considerazioni di carattere politico possono e debbono essere svolte; anzitutto per augurare, sinceramente, ai tre ragazzi in questione di poter dimostrare, nel giudizio, la proprio innocenza. Ma poi, colpiscono alcuni fatti di notevole rilevanza. Anzitutto, se è esatto il modo in cui è riportato, nella lettera aperta, il capo d’imputazione, c’è da dire che apprendiamo solo ora che quello è un sacrario denominato “Il soldato”. Da quando? Si è sempre parlato, e ne ha parlato tutta la stampa del mondo, di un sacrario dedicato a Rodolfo Graziani, implacabile e feroce colonialista, fascista e razzista, dichiarato “collaborazionista” (anche per aver firmato un famoso bando della R.S.I. che prometteva la fucilazione per i giovani renitenti alla leva repubblichina) e considerato universalmente un “criminale di guerra”. Qualcuno si è accorto dello scandalo che aveva giustamente suscitato ed ha cercato, praticamente, di “rimediare”? Ma in modo molto ingenuo, perché quello è, per tutti, il sacrario dedicato a Graziani, di cui lo stesso Sindaco del luogo si è dichiarato orgoglioso e contro il quale pende un procedimento penale in fase istruttoria, davanti allo stesso Tribunale di Tivoli. Il cambiamento è, comunque, significativo, anche perché scolora lo stesso atto compiuto dagli ignoti “verniciatori”, che certo non avrebbero reagito in modo simile se non si fosse trattato di una destinazione inaccettabile agli occhi del mondo intero. Ma ancora: l’ANPI ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Tivoli, il 29.10.2012, per la creazione del “sacrario” dedicato, appunto, ad un personaggio come Graziani. A tutt’oggi non abbiamo notizie concrete degli esiti di quell’indagine e tantomeno sulle prospettive anche temporali di un auspicato giudizio. Colpisce il fatto che, invece, sia giunto rapidamente a maturazione un episodio, che di quella  vicenda è solo un derivato. Posso comprendere che ogni indagine ed ogni procedimento abbia la propria storia e la propria durata, ma in questo caso, la sproporzione appare assolutamente evidente. E questo deve, necessariamente, essere rilevato con rammarico e preoccupazione.

Carlo Smuraglia, Presidente Nazionale ANPI
Fonte: ANPI News n. 113 – 25 marzo/2 aprile 2014


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Segnaliamo che i documenti del fondo Gasparotto sono online: http://www.criminidiguerra.it/documenti.shtml

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I crimini di guerra italiani sotto inchiesta. Era ora!

•  Martedì, 25 Marzo 2014 08:57
•  Federico Rucco

Era da tempo, da troppo tempo, che questo paese doveva fare i conti con due macigni sulla sua storia. Quello degli “italiani brava gente” e quello dell’impunità assicurata ai criminali di guerra italiani – così come a quelli tedeschi – alla fine della seconda guerra mondiale. Il procuratore militare di Roma, Marco De Paolis, ha finalmente aperto un'inchiesta sui crimini compiuti dai militari italiani nei territori occupati durante la seconda guerra mondiale, in particolare in Grecia, Jugoslavia, Albania. Non è dato sapere se la cosa verrà estesa a Libia ed Etiopia.

Il dott. De Paolis per ora si è limitato a far saper che e' partito un "accertamento conoscitivo" e che e' stato aperto un fascicolo 'modello 45', cioe' "atti relativi a",  ma senza indagati.

A smuovere le acque è stato l'esposto presentato da alcuni cittadini, ispirato da due articoli di Franco Giustolisi, il giornalista che rivelò all'opinione pubblica il famigerato "armadio della vergogna", dove furono chiusi e "provvisoriamente archiviati" nel dopoguerra - per una sorta di "patto segreto" tra Italia e Germania - 695 fascicoli di crimini nazifascisti, riemersi solo negli anni scorsi, quando fu possibile riaprire le indagini e svolgere una serie di processi finiti con decine di ergastoli.
"Dimenticato" in un angolo della procura, non lontano dall'armadio, svela Giustolisi, c'era anche un "carrello della vergogna". Un carrello stipato di incartamenti relativi alle tante stragi commesse, durante l'ultima guerra, dai soldati italiani. Di questi eccidi si occupo' una commissione istituita il 6 maggio 1946 dall'allora ministero della Guerra. La relazione finale, del 30 giugno 1951, e' firmata dal senatore Luigi Gasparotto. Oltre 300 i militari italiani accusati di crimini di guerra dalle varie nazioni aggredite dal fascismo.
Eccidi che sarebbero stati commessi in varie localita' della Jugoslavia, della Grecia, dell'Unione Sovietica, della Francia, dell'Albania. Solo poco piu' di una trentina, secondo la relazione Gasparotto, quelli perseguibili da parte "dell'autorita' competente". Ma nessuno fu processato.
Solo per una di queste stragi - quella di Domenikon, in Grecia, dove furono trucidati 150 civili - il procuratore De Paolis, dopo aver raccolto la denuncia del rappresentante dei familiari delle vittime, gia' da tempo ha riaperto un'inchiesta che in precedenza era stata archiviata. Le indagini della procura militare di Roma avrebbero consentito, secondo quanto si e' appreso, di risalire ai responsabili della strage, che verranno ora iscritti nel registro degli indagati, anche se sarebbero tutti morti. Inevitabile, dunque, la successiva archiviazione.

Recentemente uno degli giovani storici, Davide Conti, ha pubblicato il libro “Criminali di guerra italiani” dove, attraverso un'ampia mole di documenti ufficiali, ricostruisce i crimini di guerra commessi dal regio esercito durante l'occupazione italiana in Albania, Jugoslavia, Urss e Grecia e di cui le alte gerarchie militari avrebbero dovuto rispondere alla fine della guerra. Più precisamente, illustra le trattative, gli accordi, le politiche dilatorie attuate dal governo di Roma per giungere a eludere ogni forma di sanzione giuridica ai danni dei vertici del proprio esercito cosicché i mancati processi, le assoluzioni e la generale impunità ha permesso la narrazione auto-assolutoria degli italiani "brava gente".


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24/03/2014 08:00 | ALTRO - ITALIA | Autore: fabrizio salvatori

Armadio della vergogna. La procura militare di Roma apre un'inchiesta sui crimini fascisti in Grecia, Jugoslavia e Albania

Un'inchiesta sui crimini compiuti dai militari italiani nei territori occupati durante la seconda guerra mondiale, dalla Grecia alla Jugoslavia, all'Albania. L'ha aperta il procuratore militare di Roma, Marco De Paolis, che ha ricevuto un esposto da parte di alcuni cittadini.
De Paolis si limita a dire per il momento che e' partito un "accertamento conoscitivo" e che e' stato aperto un fascicolo 'modello 45', cioe' "atti relativi a", senza indagati. L'esposto, secondo quanto si e appreso, prende in particolare le mosse da due articoli di Franco Giustolisi, il giornalista che per primo svelo' all'opinione pubblica lo scandalo del cosiddetto "armadio della vergogna", dove furono chiusi e "provvisoriamente archiviati" nel dopoguerra - per una sorta di "patto segreto" tra Italia e Germania - 695 fascicoli di crimini nazifascisti, riemersi solo negli anni scorsi, quando fu possibile riaprire le indagini e svolgere una serie di processi finiti con decine di ergastoli.
"Dimenticato" in un angolo della procura, non lontano dall'armadio, svela Giustolisi, c'era anche un "carrello della vergogna". Un carrello stipato di incartamenti relativi alle tante stragi commesse, durante l'ultima guerra, dai soldati italiani. Di questi eccidi si occupo' una commissione istituita il 6 maggio 1946 dall'allora ministero della Guerra. La relazione finale, del 30 giugno 1951, e' firmata dal senatore Luigi Gasparotto. Oltre 300 i militari italiani accusati di crimini di guerra dalle varie nazioni aggredite dal fascismo.
Eccidi che sarebbero stati commessi in varie localita' della Jugoslavia, della Grecia, dell'Unione Sovietica, della Francia, dell'Albania. Solo poco piu' di una trentina, secondo la relazione Gasparotto, quelli perseguibili da parte "dell'autorita' competente". Ma nessuno fu processato.
Solo per una di queste stragi - quella di Domenikon, in Grecia, dove furono trucidati 150 civili - il procuratore De Paolis, dopo aver raccolto la denuncia del rappresentante dei familiari delle vittime, gia' da tempo ha riaperto un'inchiesta che in precedenza era stata archiviata. Le indagini della procura militare di Roma avrebbero consentito, secondo quanto si e' appreso, di risalire ai responsabili della strage, che verranno ora iscritti nel registro degli indagati, anche se sarebbero tutti morti. Inevitabile, dunque, la successiva archiviazione.



(italiano / francais / english)


NATO Aggression against Russia via the Ukraine


*** ULTIMORA DA KIEV: Regime Poroshenko lascia assaltare ambasciata russa dalla canaglia di "Pravy Sektor"
I nazi-europeisti vogliono replicare Odessa e tirare per i capelli la Russia fino a coinvolgerla in un conflitto che sarà necessariamente mondiale
LA DIRETTA VIDEO: http://www.ustream.tv/channel/vichekyiv ***


1) NATO IS THE AGGRESSOR – The German Freethinkers Association on the crisis in Ukraine
2) Les “observateurs de l’OSCE”, n’étaient ni des observateurs, ni de l’OSCE (Dj. Kuzmanovic, 9 mai 2014)
3) 
NEWS: Bloody offensives agains Donetzk - Luhansk -  Slavyansk / Kiev lancia offensiva contro il Donbass antifascista, è strage. USATE ANCHE BOMBE A FRAMMENTAZIONE E AL FOSFORO
4) Battaglione "Azov" porta la morte a Mariupol. MA RAINEWS 24 SI EMOZIONA SOLO PER I BACI DEI NAZISTI ALLE FIDANZATE
5) Centri di detenzione per la pulizia etnica dell'Ucraina sudorientale con fondi UE
6) La crisi ucraina diventa nucleare. L’assalto neonazista alla centrale nucleare di Zaporozhe (Tony Cartalucci Global Research, 17 maggio 2014)
7) 15 giugno 2014: NAVE DELLA MARINA MILITARE ITALIANA PARTE PER IL MAR NERO


Vedi anche:

Il punto di Giulietto Chiesa 
13 06 2014 - … sul contratto che vedrebbe l’acquisto, da parte della Shell e Chevron di oltre 7000 kilometri quadrati di terreno ucraino, per estrarne il gas da scisti bituminosi. Indovinate di quale regione si tratta…? La distruzione del Donbass adesso ha un senso. L’Ucraina è una colonia.

Dall'Ucraina al Venezuela: mercenari e golpisti (Higinio Polo)

Ukraine regime claims control of key port city (Patrick Martin / WSWS, 14 June 2014)
   
Massenmord im Donbass:
http://www.jungewelt.de/2014/06-05/064.php

Obama backs state terror against eastern Ukraine (Bill Van Auken / WSWS, 5 June 2014)
http://www.wsws.org/en/articles/2014/06/05/ukra-j05.html

QUANTA GENTE DEVE ANCORA MORIRE…?
Pubblicato il 09/giu/2014 - Una recentissima ed esclusiva testimonianza, molto evocativa di un soldato separatista in Ucraina dell'est…

ALTRI VIDEO:
http://rutube.ru/video/c57436a4e66efd74fe37b50b83afaff3/
http://rutube.ru/video/82c6f86eac4f6d803a3b9fddc9d8d077/
http://rutube.ru/video/16cab01f2aec3b44f2b84aa49e8a808d/

La verità sulla strage di Odessa
Uccisi come animali, uno per uno. Una vera e propria esecuzione di massa premeditata. In parte confermata dai reporter presenti. Un crimine contro l'umanità.
Franco Fracassi - 8 maggio 2014

PandoraTV sulla strage di Odessa:

Russia. Putin si scaglia contro i revisionisti della Seconda Guerra Mondiale
Scritto da: G.B. il 19 maggio 2014 … In particolare Putin ha sottolineato come questo sia avvenendo in Ucraina, ma chi lo ascolterà? 


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Sunday, 8 June 2014

NATO IS THE AGGRESSOR – The German Freethinkers Association on the crisis in Ukraine

Since the coup in Ukraine on 22nd February 2014 and in particular following the developments on the Crimean peninsula in the Black Sea, a political campaign in the media has begun to roll in the USA and in NATO and EU countries, which hysterically accuses Russia and in particular the Russian president, Vladimir Putin, of reckless power politics and of “stealing land” in violation of international law. The incorporation of the Crimea into the Russian Federation has been branded as “annexation in violation of international law” by leading NATO governments.

With this campaign, the real character of the crisis in Ukraine is to be disguised as an anti-Russian manoeuvre and further hostile acts towards the Russian Federation are to be prepared psychologically.

It is at first astonishing that countries that have up to now continually violated international law, including the attack on the Federal Republic of Yugoslavia in 1999, the invasion of Afghanistan in 2001 and that of Iraq in 2003, the recognition of the sovereignty of Kosovo in 2008, so obviously operate a double standard when it comes to judging Russian actions.

Those same people who would have us believe that Germany’s security interests are being defended in distant Afghanistan deny Russia the right to look after its indisputable security interests in its immediate vicinity. And that is even the case in view of the striking difference that in the defence of German interests in Afghanistan a General Klein once ordered a massacre on more than 100 civilians while the Crimea joining the Russian Federation took place without a single violent act on the part of Russia and in complete agreement with a large majority of the population of the Crimea.

Those same people who recognised Kosovo on the basis of a one-sided declaration of independence by the provincial government against the will of the legitimate central government in Serbia deny the Russian Federation the right to fulfill the wish of the population in the Crimea for incorporation, a wish expressed through a referendum with a result that speaks for itself, at a time in which a legitimate central government does not exist in Ukraine.

Ukraine’s sovereignty violated through a putsch inspired by NATO

The arguments which are supposed to prove that Russia has violated international law are based abstractly on the premise that Russia has cut off a piece of a sovereign state out of the blue. What had really happened in Ukraine, however, was that the government in Kiev, formed legally and recognised internationally, was brought down in a violent putsch. Forces loyal to NATO supported this act of violence through various canals. The so-called “interim head of government”, Arseniy Yatseniuk, is a notorious NATO collaborator.

This constituted hidden NATO aggression against Ukraine. From the very beginning, it was clear that the putsch government had no control over large parts of the country. Nevertheless, it was quickly recognised as the legitimate representation of the country by the USA and NATO and EU states. The sovereignty and territorial integrity of Ukraine was violated by NATO governments.

For it was the USA, NATO and the EU that in this way in reality brought a part of Ukraine under their influence in violation of international law and vioating the constitution of Ukraine. No one elected the so-called “interim government” in Kiev; it was put there in place of the old national government through illegal and violent means. Straightaway, the EU concluded the first part of an association agreement with the leaders of the putsch – a treaty in line with international law which even includes the “integration” of Ukraine into the military structures of the EU. And that is the case even though parts of the country are still controlled by the previous legitimate organs of the state. In reality this means that the western countries mentioned have basically separated the west of Ukraine from the rest of the country. They are the ones that in truth have “created facts” – an accusation which they incessantly direct towards Russia.

Under these circumstances, one cannot talk of annexation when it comes to incorporating the Crimea into the Russian Federation. It reflects the voluntary act of joining Russia by the remaining sovereign part of Ukraine. For the Crimea was the only part of the country in which there was still unrestricted law and order after the putsch. As both the population of the Crimea and also Russia’s strategic interests in the Black Sea were in danger after the events in Kiev, it was necessary to act quickly. Consultation with western “partners” was out of the question as these had already, without consideration for Russia and the Ukrainian people, supported the putsch refusing all dialogue and recognised the putsch government, and thus pressurising the Crimea and Russia to act.

If the Crimea had not joined the Russian Federation, then, as President Putin said on 18th March 2014, “the NATO fleet would have appeared in Sevastopol, the city of Russian glory; which would not have been a nebulous danger, but a very concrete danger for the whole of the south of Russia.”

The claim that the Crimea joined Russia after a Russian “invasion” has turned out to be a lie. It is a known fact that the Russian Black Sea Fleet was stationed in Sevastapol in accordance with a valid treaty between Russia and Ukraine, and that Russia was allowed to have 25,000 troops stationed in the Crimea. There is no proof to confirm claims that this number was exceeded after the putsch in Kiev, and Russia denies these claims too.

The most important fact is, however, that Russian soldiers were not only in the Crimea legally, but also with the consent of the regional authority and the obvious wish of the population, and remained completely peaceful. During the alleged “Russian invasion” there was no single act of violence and not even an attempt to provoke the enemy –a sign of how close the ties with Russia are amomg the Crimean population.

The self-defence forces in the Autonomous Republic of Crimea were also used as a further sign of a “Russian invasion”. Directly after the putsch in Kiev, they had taken up position in front of public buildings and military facilities with the clear aim of defending constitutional law against the supporters of the putsch. As they wore uniforms “without identification badges”, it was clear for the West that they had to be Russian soldiers. By contrast, the “demonstrators on the Maidan” in Kiev, the majority of whom also wore uniforms without identification badges, were not identified as NATO soldiers.

Russia emphasized that it did not have any command over the Crimean self-defence forces. The main difference, however, is that they were acting in full agreement with the large majority of the population in protecting constitutional law and not like the thugs in Kiev breaking it. It is an excellent example of the two-facedness of our rabble-rousing media celebrating the bloody putsch in Kiev as a breakthrough for democracy and at the same time branding the purely passive protection of organs of the state in the Crimea as Russian intervention.

International law: Crimea and Kosovo-Metohija

From Yugoslavia to Syria, the USA/NATO/EU have continually been waging wars – and always in demonstrative disregard for and violation of international law. And now suddenly they are playing protectors of international law and repeatedly implore the “territorial integrity of Ukraine”.

The German Freethinkers Association has always stressed the defence of international law as the most important task of the anti-war movement and continues to do so also with regard to the apparent change in role of the NATO warmongerers. While the former German chancellor Gerhard Schröder has frankly admitted in the meantime that with the NATO aggression against Yugoslavia in 1999 international law was violated (even though he still has to voluntarily allow legal proceedings against himself), the majority of commentators still insist that NATO “did the right thing” in Kosovo – an argument that Russia canot rely on in their eyes for the situation in the Crimea is totally different.

Indeed, the two cases are totally different – but for exactly the opposite reasons than the warmongerers claim. It is basically valid that international law does not forbid secession or a declaration of independence. In this respect, Vladimir Putin, in his speech of 18th March 2014, cites the USA’s memorandum of 17th April 2009 to the International Court of Justice on Kosovo: “Declarations of independence can, as often is the case too, violate domestic law. But that does not mean that international law is violated through this.”

Whereas international law sees secession as an inner-state affair, it does not allow any group to split from the original state without its agreement. However, as a result of the foreign aggression against Ukraine, no legitimate and functioning Ukrainian authority was left which would have been able to contradict the Crimea joining the Russian Federation – a move which in fact was taken as a measure of protection against this said aggression.

What international law explicitly forbids is the change in the territorial sovereignty of a sovereign state with the aid of foreign aggression. In Kosovo, the USA and NATO at first built up a terror organisation, armed it and trained it, smuggled in reactionary Islamist mercenaries, and then as the air force of this terror organisation, in crass violation of international law, waged 79 days of bomb warfare on Yugoslavia. Nevertheless, their military success remained limited and they had to accept the territorial integrity of the state attacked, including Kosovo, in the peace agreement, and this was sealed with UN Resolution 1244.

Under its military protection, NATO allowed ethnic cleansing to occur in the Serbian province Kosovo and Metohija and elevated the terror and mafia structures to the “government” of a separate state, the international recognition of which it has been organising ever since. This secession has been invalid from the very beginning because it was initiated through a foreign war of aggression and because it violates the valid resolution UNSCR 1244. Neither has a war of aggression been waged against the Crimea or the Ukraine, nor can any rule be found in international law which demands that the Crimea belongs to Ukraine eternally. Indeed, in an act of national self-determination, the population of the Crimea has become independent as a part of the Ukraine and constituted themselves as their own sovereign state. The new state fulfilled all the requirements under international law for the de jure recognition by other states. No rule in international law forbade the Russian Federation from accepting the new state’s request to join its federation. Thus, the secession of Kosovo from Serbia violates international law; the Crimea joining the Russian Federation on the other hand does not.

Everything that has happened in the Crimea in recent weeks, including joining the Russian Federation and the integration now slowly taking its course, has been a reaction to the putsch in Kiev and the negation of Ukraine’s sovereign rights through NATO and the EU. And this reaction was to be expected and was consciously calculated by the foreign supporters of the “Euromaidan”, including the sanctions imposed on Russia as a “penalty” and the “aggravation of the tone of voice”, the linguistic symptom of the increasing aggression.

Fight against fascism in Ukraine

Since the Crimea’s peaceful joining of the Russian Federation, the conflict in Ukraine has taken on a violent form. Further parts of the country in which there are a majority of Russian-speaking inhabitants have continued their resistance against the putsch regime in Kiev.
The regime calls the resistance fighters “terrorists”; the media, loyal to NATO and on the same wave length, call them “pro-Russian separatists”. Both terms turn the basic situation in Ukraine upside down – as the propaganda against the Crimea joining Russia had already done: the present rulers in Kiev were brought to power using terror, and it was the leaders of the putsch who created a separate state in the west of Ukraine because, from the very beginning, they could only take control of the western part of Ukraine.

The junta in Kiev is trying to break the resistance with military force. It has made the gangs of fascist thugs from the “Euromaidan” servants of the state, armed them and dressed them as the “national guard”. They have sent in tanks against the people in the east and south of Ukraine, set fire to the trade unions building in Odessa, and have exerted naked terror against communists, trade unionists, Russian-speaking people and members of minorities. They excluded the communist faction from meetings of parliament, attempted to kill the leader of the Ukrainian Communist Party, Petro Simonenko, by setting his car on fire and are working to ban the Communist Party completely. The “western community based on values” supports this fascist terror to conquer the resistance so that NATO can take control of the strategically important Donetsk Basin.

As a reaction and a measure of protection, the population in the areas around Donetsk and Luhansk chose to form independent states with the options of either extensive autonomy within a federal Ukraine or joining the Russian Federation. The resistance did not develop from a striving to separate, but from the defence of constitutional order, which up until the putsch had been valid in the whole of Ukraine. It would be factually correct and more honest to talk of separatists in Kiev loyal to NATO. It is clear to see that the political judgement of these events and with regard to international law is the same as in relation to the Crimea: through the coup in Kiev on 22nd February Ukranian national territory was torn apart; on the basis of international law, Ukraine stopped existing as a state within its previous borders, and if anyone can assert a claim to be its legal successor, then it is those areas in the east showing resistance.

No matter how the crisis in Ukraine continues to develop, it has to be said that it was triggered off by the policies of the USA and its allies in NATO and the EU and continues to be intensified. With Ukraine, a further country is to be opened for those major banks and groups of companies which operate globally, and which strive to subjugate the wealth of the whole world to their monopolistic tribute system. The supranational “world order” which NATO and the EU are striving for is the global supremacy of a handful of super-rich people in the western world and in a few other countries.

In their striving for global supremacy they grasp if need be – as had already been practised before historically – the fascist form of rule. This is a merciless declaration of war on the life interests of all peoples and means that the national aims of self-determination, sovereignty of the people and democracy can only be achieved in the irreconcilable fight against the global rule of finance capital.

A new world war?

Direct military aggression by NATO against Russia seems to be becoming clearer on the horizon, and this is nothing more than the perspective of the way into a new world war.

Unlike the era one hundred years ago, when, in the First World War, two enemy alliances of similarly rapacious superpowers fought against each other with the aim of redistributing the world, today the historic centres of imperialism, the USA, the EU and Japan, form a global system of alliance. However, that does not mean that the inner-imperialistic contradictions and competition has disappeared and that the participants would not try to gain advantages at the others’ cost. The so-called triad under the leadership of Washington has been pursuing a strategy of the “new world order” ever since the demise of the socialist states in Europe.

The series of intervention and aggression unleashed within this strategy is directed against the countries which appear in this constellation either as “rivals” (Russia, China, India, Brazil etc) and/or “disturbers” (Yugoslavia, North Korea, Syria, Iran, Cuba, Venezuela etc). This new scenario which could lead to another world war is the expression of the metamorphosis of imperialism. The monopoly capitalism of the last century has developed through the phase of state monopoly capitalism to today’s transnational monopoly capitalism.

The monopoly capitalists operating transnationally which dominate imperialism today count on the power apparatus of nation-states and yet at the same time are in crass contradiction to what is national. They thus undermine national self-determination and sovereignty of the people as a foundation for any form of democracy; they destabilise whole states and do not even refrain from destroying them completely.

Transnational groups, however, do not form any monolithic syndicates, but continue to belong to different capital factions with sometimes contradicting interests. These conflicts of interest also lead to different positions on the question of war and peace, and peace activists can and must take advantage of these differences to defend peace.

There are growing signs that capitalism is entering its end phase, in which it will no longer have the ability to integrate the whole of the world population organically into the capitalist world system. The gap between rich and poor is growing. The inequal development of countries and states is getting worse. The capitalist economic system can only offer the mass of the earth’s rural population, at least still half the world population, the fate of marginalisation and impoverishment.

The world crisis holds both the chance of revolutionary changes towards a continuing development towards a socialist society, but at the same time a real danger: that a massive military destruction of production capacity and “surplus” population could appear to the imperialist powers as the only “way out” if they are to maintain their “world order”.

There is no secret about Russian interests

Even the imperialist destabilisation of Syria, which is home to the Russian marine’s only Mediterranean base, is not least directed against Russia. Taking control of Ukraine is first and foremost a declaration of attack on Russia. NATO’s anti-Russian acts, which began with the attack on Yugoslavia in 1999 and continued with NATO’s extension eastwards, then the missile shield and the Georgian attack on Southeast Ossetia in 2008, have now reached a new quality with the isolation of the Crimea in the fact that for the first time a major pillar of Russia’s security architecture has been threatened.

Exactly analogous to previous wars, the war propagandists in the NATO countries are trying to drum into their peoples that the aggression is in reality defence against Russia, which they depict as the true aggressor.

Peace activists are called upon to become aware of the real context and to consequently explain the facts about this. Such explanation must include the categorical rejection of all views that Russia is at least partly to blame for the escalation of the crisis. Many of those who honestly reject NATO aggression state that indeed in principle Russia is “not any better” as it only pursues its own interests of course.

But what interests does the Russian Federation pursue? Its prime interest is stability, both at home and also in international relations. Maintaining its security architecture is also necessary for this stability; that is why Russia has a particular interest in the stability of countries which are home to Russian military bases. Russia has an interest in the development of its economy. This goes in line with the interests already mentioned as the Russian economy needs security and stability for the development of its economy. These are the Russian interests. They are the type of interests no-one can accuse a country of having and pursuing.

But in which way does the Russian Federation pursue these interests? Does Russia attack and occupy other countries – as NATO does? Does Russia finance, arm, house and train terrorists which commit massacres on the civilian population of foreign countries in order to cause chaos there – as a coalition from the USA, NATO countries and Gulf states are currently doing in Syria? Does Russia authorise itself to strangle other countries with sanctions in order to force its will upon them? Does Vladimir Putin issue a list of persons every week to have them eliminated by the means of drones on the territory of foreign sovereign states – as Barack Obama does? Does Russia board ships under the flag of foreign countries in international waters – as Israel does?

Russia’s policies towards maintaining its interests mentioned have so far been marked by restraint and concessions. Wherever something had to be used to counter a hostile measure Russia never got anywhere close to exhausting the arsenal of legitimate counter measures. Russia’s interests coincide with the will for peace of the largest part of humanity. Peace activists must recognise this fact.

Prevent war – solidarity with Russia!

The perspective of a war against Russia has apocalyptic features for Germany and Europe. The only chance of defending peace is in rapprochement towards Russia. The Russian Federation is the protector of peace in Europe. This is the practically important fact of knowledge that must be used to counter NATO’s constantly intensified anti-Russian propaganda.

A third world war can only be avoided at Russia’s side. Only in solidarity with Russia can the peace movement, particularly in Germany, become a factor to be taken seriously again. Only in alliance with Russia has our demand “Germany out of NATO – NATO out of Germany” a realistic perspective of being implemented.

A half-hearted position of “equidistance” somewhere in the middle between NATO and Russia has never been so wrong and as dangerous as it is now. It could at best lame a little the propaganda unleashed to create jingoism among the masses, but above all it lames the resistance against the war. For if the lie about Russia being the threat is not decisively rebuffed, then NATO’s central and psychologically most effective reason for the escalation of war will remain.

In view of the danger of also being affected by a war, more people in Germany in particular have been alarmed by the anti-Russian campaigns; they want to know the truth about such vital contexts. Surveys and opinion columns show that the large majority of the population rejects the West’s course of confrontation against Russia.

The German Freethinkers Association warns against the further worsening of the confrontation between the West and Russia. We demand the end to the creation of enemy concepts and disinformation as well as the anti-Russian campaigns and the demonisation of President Putin.

The USA’s strategy is heading for a division of Europe and confrontation with Russia and harms the interests of European countries. Europe belongs to all peoples and nations of Europe; it needs peaceful coexistence between all countries and nations. This requires taking into consideration the mutual interests and partnership with both Ukraine and Russia.

We show our solidarity with the communists, anti-fascists and democrats in Ukraine who, in spite of persecution, stand up against revisionism of history, Russophobia and national chauvinism. We stand up for friendship with Russia together with them.

Therefore, we are calling for:

1. No support for the US strategy of dividing Europe by rebuilding an Iron Curtain

2. No sanctions against Russia – in particular as they damage economic interests and harm the labour market in Germany and European countries; they also damage interest in stable relations and partnerships

3. Stop NATO’s extension eastwards and the military isolation of Russia through encirclement; NATO must not move forward to Russia’s borders and Ukraine must not be incorporated into the military structure of the EU

4. Support for a democratic Ukraine, without fascism and revanchism, with the same human and civil rights and full freedom of religion and weltanschauung for all irrespective of their ethnic origin, and with good neighborly relations with western Europe and the Russian Federation

5. No taxpayers money for the financial and logistic support for fascist organisations and no financial support for their training



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Les “observateurs de l’OSCE”, n’étaient ni des observateurs, ni de l’OSCE


9 MAI 2014 |  PAR DJORDJE KUZMANOVIC


En fait de membres de l’OSCE, il s’agissait de militaires allemands et européens travaillant pour la Bundeswher (armée allemande) dans le cadre d’un partenariat bilatéral signé avec les nouvelles autorités de Kiev. Les présenter à longueur d’article comme des membres de l’OSCE relève au mieux de l’incompétence crasse, au pire, c’est un mensonge volontaire et collectif grave.

Les médias français de masse, dans leur vaste majorité et à quelques notables exceptions près (l’Humanité, Le Monde Diplomatique, quelques journalistes de Marianne, rue89 et Mediapart…), font malheureusement preuve d’un atlantisme débridé que même la plus élémentaire compassion ou tout simplement la vérité ne détournent pas de leur travail de manipulation des consciences. Le cas de l’Ukraine est une anthologie de propagande éhontée.

L’histoire des “membres de l’OSCE pris en otages” en est un exemple saisissant. Nos médias aux ordres de Washington l’ont répété à l’envie : “des membres de l’OSCE ont été pris en otages”... Ces dizaines de journalistes sur qui repose l’information de millions de citoyens ne se sont même pas donné la peine de vérifier sur le site de l’OSCE si ces “otages” étaient bien membres de l’OSCE.

Or en fait de membres de l’OSCE, il s’agissait de militaires allemands et européens travaillant pour la Bundeswher (armée allemande) dans le cadre d’un partenariat bilatéral signé avec les nouvelles autorités de Kiev. Les présenter à longueur d’article comme des membres de l’OSCE relève au mieux de l’incompétence crasse, au pire, c’est un mensonge volontaire et collectif grave.

 

Le récit d’un mensonge.

Le 25 avril, on annonçait dans les médias que plusieurs “membres de l’OSCE” avaient été pris en otage à Slaviansk par les “pro-Russes” : huit “observateurs européens” et leurs quatre accompagnateurs ukrainiens. Huit jours plus tard, le 3 mai 2014, les mêmes médias annonçaient en chœur la “libération des membres de l’OSCE et de leurs accompagnateurs ukrainiens pris en otage” et se félicitaient de leur bonne santé en les élevant au rang de héros.

Pendant plus d’une semaine, cette histoire sera l’occasion pour la vaste majorité des médias de laisser comprendre que les “pro-Russes” de l’est de l’Ukraine avaient séquestré des membres d’une organisation internationale faisant leur légitime travail. Il a été fortement insinué que la Russie avait une responsabilité importante dans cette “prise d’otage”. Le récit a été répété ad nauseam dans le cadre d’une vaste campagne de propagande anti-russe et de légitimation du sulfureux gouvernement de Kiev.

 

La vérité derrière le récit médiatique

Le problème, c’est que dès le 25 avril au soir, jour de “la prise d’otage des membres de l’OSCE”, Claus Neukirch , directeur adjoint du Centre de prévention des conflits de l’OSCE - un diplomate de premier plan de l’OSCE donc -  tenait les propos suivants sur la première chaîne autrichienne, l’ORF  :

-          Les personnes retenues n’étaient pas membres de l’OSCE

-          Compte tenu du fait que ce ne sont pas des membres de l’OSCE, celle-ci ne négocierait pas leur libération

-          L’OSCE n’avait fait aucune estimation des risques encourus pour cette mission puisque… ce n’était pas une mission de l’OSCE (la journaliste semblait, déjà, avoir du mal à comprendre).

-          Il s’agissait d’observateurs militaires européens œuvrant dans le cadre d’une mission militaire bilatérale entre l’Allemagne et l’Ukraine pour le compte d’une branche des forces armées allemandes, la "Zentrum für Verifikationsaufgaben der Bundeswehr" (Centre de vérification de la Bundeswehr)

-          Fort logiquement, les négociateurs étaient les autorités allemandes.

La vidéo originale de l’interview de M. Claus Neukirch étaient visible directement sur le site de l’ORF, mais le lien y a été supprimé.

 

Le maintien d’une fausse version malgré le démenti officiel

Et pour cause : suite à ce démenti de bonne foi fait dans l’immédiat face à des propos erronés tenus par un journaliste, il n’y en aura plus d’autres.

Pas de démentis formels de la part de l’OSCE, de l’OTAN ou d’une quelconque chancellerie occidentale.

Seul le site du ministère des affaires étrangères russe indiquait qu’il ne s’agissait pas de membres de l’OSCE.

Les médias auraient pu aisément vérifier cette affirmation. Mais là encore aucune enquête sérieuse de la part de journalistes.

Le récit mensonger était lancé, il pouvait continuer son œuvre, parmi tant d’autres récits de propagande bellicistes qui risquent de détruire les dernières chances de résolution pacifique du conflit.

 

Un travail journalistique honnête aurait pu permettre de constater que sur le site de l’OSCE on ne trouvait :

-          Rien sur cette prise d’otages. Etonnant pour une organisation comme l’OSCE de ne pas communiquer sur une prise d’otages potentiellement dangereuse pour la vie de ses membres. Un document interne et public de l’OSCE, "OSCE monitoring mission to Ukraine: The facts" en date du 28 avril, rédigé donc après la prise d’otages, ne fait aucune mention de quelconques otages de l’OSCE retenus en Ukraine. Une telle omission dans un document officiel traitant des “faits de la mission de surveillance de l’OSCE en Ukraine” rédigé trois jours après la date de “la prise d’otage” serait le moins bizarre.

-          Pendant la semaine qui suivra le 25 avril, pas une ligne sur d’éventuelles négociations, ni commentaires sur l’état des otages.

-          Le 3 mai, rien non plus sur la libération de ces “otages”. Etonnant… les organisations internationales, les grandes ONG ou les medias communiquent fortement lorsqu’ils récupèrent leurs membres pris en otages.

-          En fait si, on pouvait trouver ce communiqué :

"OSCE Chairperson-in-Office and Swiss Foreign Minister Didier Burkhalter expressed his gratitude to all participating States involved in the efforts for the release of the seven military inspectors and their Ukrainian hosts who were detained in Sloviansk by a group of armed individuals" (Le Président en exercice de l’OSCE et ministre des Affaires étrangères suisse, Didier Burkhalter, a exprimé sa gratitude à tous les Etats participants impliqués dans les efforts pour la libération des sept inspecteurs militaires et leurs hôtes ukrainiens qui étaient détenus à Sloviansk par un groupe d’individus armés) ; là encore, aucune mention de leur appartenance à l’OSCE.

 Enfin, pour les plus paresseux, il suffisait de jeter un œil sur le compte Twitter de l’OSCE, ils auraient pu y lire :

OSCE@OSCE Apr 25

2/4 All members ot the OSCE Special Monitoring Mission and OSCE/ODIHR observers are safe and accounted for

(2/4 Aucun des membres de l'OSCE de la Mission Spécial de Surveillance ou des observateurs OSCE/ODIRH ne manquent à l’appel)

 

Le mandant de l’OSCE était d’envoyer des observateurs civils, pas des militaires

Et pour cause : dans un autre document de l’OSCE, en date du 21 mars 2014, "Décision N° 1117 Déploiement d’une mission spéciale d’observation de l’OSCE en Ukraine", soit le mandat de la mission de l’OSCE en cours au moment des faits, il est précisé dans l’article 6 que ce sont 100 observateurs civils qui seront déployés en Ukraine ; il n’est aucunement question d’“observateurs militaires”.

6. La Mission spéciale d’observation sera constituée dans un premier temps de 100 observateurs civils qui travailleront, le cas échéant, 24 heures sur 24 et sept jours sur sept en équipes. L’observateur en chef informera la Présidence, le Conseil permanent et le pays hôte des modalités concrètes, en fonction des besoins sur le terrain. Selon qu’il conviendra et en fonction de la situation, les effectifs de la mission pourront être augmentés de 400 observateurs supplémentaires au total. Les observateurs seront déployés initialement à Kherson, Odessa, Lvov, Ivano-Frankivsk, Kharkiv, Donetsk, Dniepropetrovsk, Tchernivtsi et Louhansk. La mission sera basée à Kiev. Tout changement au niveau du déploiement fera l’objet d’une décision du Conseil permanent.

Notons enfin, que seul EuroNews fournira une information précise le jour de la libération des “otages”, et encore, sur le prompteur en bas de l’écran : "L’OSCE se félicite de la libération des observateurs militaires européens” (“European military observers”) sans jamais mentionner qu’ils sont membres de l’OSCE.

On pourrait se dire à la lumière de la sociologie des médias qu’il s’agit là d’une malheureuse erreur : les médias voient leurs crédits coupés, en particulier pour les enquêtes longues portant sur les questions internationales, et sont enjoints à produire des nouvelles toujours plus vite dans un environnement hautement compétitif, d’où une forte tendance à se copier les uns les autres pour le bon comme pour le moins bon, les stagiaires et pigistes mal payés y sont surreprésentés, etc., etc.

Même si c’était le cas, constatons alors que “l’erreur” se transforme en une propagande répétée massivement pour convaincre le citoyen de suivre les ordres du bon maître, le persuader que le coupable et donc le mal dans tous les événements d’Ukraine serait la Russie et que le bien et la vertu seraient incarnés par l’Occident sous le drapeau de l’OTAN, et par son guide suprême : les Etats-Unis. Et malheureusement ça marche. Comme l’écrivait Aldous Huxley dans Le Meilleur des mondes, “64 200 répétitions font la vérité”.

 

C’est de la criminalité de clavier, car cette propagande a des conséquences lourdes : elle attise les haines, tend des situations déjà difficiles, crispe les camps sur leurs positions. Comment d’ailleurs les “fédéralistes” et “pro-Russes” d’Ukraine de l’est pourraient-ils percevoir autrement cette histoire des “otages de l’OSCE” sachant bien qu’il ne s’agit pas de membres de cette organisation ? Ils ne peuvent que se sentir visés par une campagne de désinformation coordonnée et délibérément orientée contre eux.

Comment les vrais et nécessaires observateurs de l’OSCE pourront-ils demain travailler sereinement sur le terrain ? Ce mensonge ne les met-il pas en danger ?

Le plus grave, c’est que le mensonge ici décortiqué n’est qu’un exemple parmi tant d’autres. Comment, alors qu’on travaille ainsi à diaboliser systématiquement les contestataires de l’est de l’Ukraine, pourra-t-on restaurer la confiance entre différentes populations de ce pays, sans laquelle il n’est pas de destin commun possible ?

Cet épisode rappelle le devoir de chaque citoyen tel que le formulait dans son discours à la jeunesse le grand Jaurès assassiné il y a 100 ans : “le courage c’est de chercher la vérité et de la dire ; c'est de ne pas subir la loi du mensonge triomphant qui passe, et de ne pas faire écho, de notre âme, de notre bouche et de nos mains aux applaudissements imbéciles et aux huées fanatiques ”.



=== 3: NEWS ===

Source of the english-language news is the Stop NATO e-mail list.
Home page with archives and search engine: http://groups.yahoo.com/group/stopnato/messages
Website and articles: http://rickrozoff.wordpress.com


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Kiev lancia l’offensiva contro Donetsk, è strage

Martedì, 27 Maggio 2014
Marco Santopadre

Mentre a Kiev l’oligarca Poroshenko e il figlioccio politico di Angela Merkel, Vitali Klitschko, festeggiavano rispettivamente la vittoria alle elezioni presidenziali di domenica e l’elezione a sindaco della capitale, l’esercito e le bande neonaziste lanciavano ad est un assalto in grande stile contro le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk. 

Le notizie dal fronte sono ancora confuse, ma si parla di asprissimi combattimenti e di una offensiva massiccia da parte delle forze fedeli alla giunta golpista appena legittimata dal voto. D’altronde il neoeletto Poroshenko, che in campagna elettorale ha promesso il dialogo con le popolazioni russofone e l’avvio di una riforma federalista dello stato, ha in realtà immediatamente annunciato la ripresa immediata delle operazioni militari contro le repubbliche indipendentiste che non ne riconoscono l’autorità.
Secondo un bilancio provvisorio delle vittime della battaglia per il

(Message over 64 KB, truncated)


(english / italiano)

Ucraina: le Repubbliche Popolari del Donbass e i comunisti

1) Appello del popolo della Repubblica Popolare di Donetsk e della Repubblica Popolare di Lugansk alla comunità mondiale
2) I comunisti ucraini e le sinistre europee. Intervista a Petro Simonenko, leader del PCU
3) Interview with Sergei Kirichuk, leader in exile of BOROTBA
4) Victor Shapinov (BOROTBA): Ukraine’s Donbass is today’s Vietnam
5) Evgenyj Tsarkov (PCU): Chi ha effettivamente guadagnato dalla vittoria del Majdan


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Appello del popolo della Repubblica Popolare di Donetsk e della Repubblica Popolare di Lugansk alla comunità mondiale

da kprf.ru | Traduzione dal russo di Mauro Gemma

Il sito del Partito Comunista della Federazione Russa ha diffuso il seguente testo dell'appello

Noi, il popolo della Repubblica Popolare di Donetsk e della Repubblica Popolare di Lugansk, in questo momento critico ci rivolgiamo alla comunità mondiale con la richiesta di aiuto immediato e di una risposta immediata a ciò che sta accadendo nella nostra terra, in relazione alla minaccia che incombe su di noi dell'annientamento da parte delle forze nazi-fasciste, che vengono usate dal regime dell'Ucraina.

Dichiariamo che il nostro unico desiderio è rappresentato dall'aspirazione a vivere in conformità con le nostre tradizioni e costumi storici, con la nostra cultura e le nostre abitudini, in pace e in rapporti di buon vicinato con tutte le nazioni, i popoli e gli stati che non mostrano ostilità nei nostri confronti.
Il nostro è un popolo lavoratore e creativo, ma è stato costretto a imbracciare le armi per proteggere la vita e il proprio futuro, poiché non gli è rimasta altra scelta. Noi non abbiamo mai mostrato aggressività nei confronti di alcuno stato o popolo, non abbiamo mai perseguito obiettivi di espansione e di annessione di altri territori. Noi resistiamo per la nostra terra e per le nostre famiglie, e resisteremo fino alla fine. Non è la prima volta che succede nella storia.

E' stato così negli anni della Seconda Guerra Mondiale, quando le orde degli occupanti fascisti calarono sulla nostra terra pacifica. Al prezzo di colossali perdite umane e di uno sforzo immane, l'Unione Sovietica insieme agli altri stati che sostenevano la pace nel mondo sconfisse il fascismo hitleriano, che aveva portato anche nella nostra terra un immenso dolore e fiumi di sangue. Ed ecco ora, dopo più di 70 anni, la peste bruna ha di nuovo alzato la testa. Non c'è bisogno di elencare le incalcolabili azioni fasciste che si svolgono nell'Ucraina di oggi. Kiev, Odessa, Khmelnitsky, Slovyansk, Kramatorsk, Donetsk e molti altri luoghi sono bagnati oggi dal sangue di pacifici cittadini, colpevoli solo di opporsi alla politica contraria ai valori umani delle autoproclamatesi autorità ucraine, che si sono impossessate con la forza della guida del paese.

Oggi, quando non ci è rimasta altra scelta che quella di morire senza sottometterci a fascisti privi di umanità o di sollevarci in difesa della nostra vita e di quella delle nostre donne, dei vecchi e dei bambini, abbiamo scelto la via della lotta. Ma siamo ben consapevoli che la nostra lotta, nonostante la nostra determinazione, senza l'aiuto della comunità mondiale, schierata a difesa della pace nel mondo, sarà più dura.

Secondo quanto apprendiamo da fonti attendibili, le autorità ucraine che agiscono di concerto con gli Stati Uniti si stanno preparando a una resa dei conti che ricoprirà completamente di sangue la nostra terra. In questa operazione di pulizia non verrebbero risparmiati nemmeno le donne e i bambini. Questo scenario fascista dovrebbe essere portato a compimento in tempi brevissimi. Noi, il popolo della Repubblica Popolare di Donetsk e della Repubblica Popolare di Lugansk, siamo pronti a far fronte al nemico, che porta la morte a noi e ai nostri figli. Ma ci auguriamo sinceramente che la comunità mondiale non stia a guardare e risponda alla nostra richiesta di aiuto, poiché è assolutamente evidente che l'idra fascista salita al potere ci sta attaccando e domani, nutrita e guidata dagli Stati Uniti, avanzerà ancora, e allora il mondo si troverà sulla soglia di una nuova guerra mondiale. Tuttavia, è evidente che noi naturalmente non identifichiamo i governi degli Stati Uniti e di alcuni loro alleati europei con il popolo americano e i popoli d'Europa.

Esprimiamo anche la speranza che le forze e le personalità responsabili dell'incitamento all'odio nazionale tra gli slavi, attraverso la manipolazione, la provocazione e l'istigazione, e responsabili anche del sostegno finanziario a organizzazioni nazionaliste estremiste il cui scopo è quello di sferrare attacchi militari, economici, informativi e di altro tipo al nostro popolo, siano consapevoli che dovranno inevitabilmente subire la giusta punizione, corrispondente alla scala delle atrocità e dei crimini di guerra che hanno commesso.

28 maggio 2014


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I comunisti ucraini e le sinistre europee. Intervista a Petro Simonenko

4 Giugno 2014

Traduzione dal russo di Mauro Gemma

Il leader del Partito Comunista di Ucraina Petro Simonenko dal 22 al 28 maggio si è recato in visita nella Repubblica Ceca, in Germania e Francia, dove ha incontrato i dirigenti di alcuni partiti di sinistra europei.

In un'intervista a Obozrevatel' (L'Osservatore) ha riferito su come le sinistre europee hanno reagito alla possibilità del divieto del Partito comunista, su come intendono aiutare i colleghi ucraini, e ha anche spiegato che le destre europee differiscono da quelle ucraine, e perché la loro popolarità è in crescita tra gli elettori europei.

Simonenko ha anche comunicato che i suoi colleghi europei sono intenzionati a chiedere l'adempimento degli accordi di Ginevra e di quelli del 21 febbraio, firmati anche da Viktor Yanukovich.


Petr Nikolaevich, ha trascorso quasi tutta la settimana scorsa in Europa, dove si è incontrato con le sinistre europee. A quale livello sono avvenute le riunioni?

La settimana scorsa mi sono incontrato con i nostri compagni a Praga. Ho avuto un colloquio con il segretario del Partito Comunista di Boemia e Moravia, Voitech Filip, che è pure vice-presidente del parlamento della Repubblica Ceca. Abbiamo discusso le questioni che ci riguardano con i deputati, abbiamo tenuto una conferenza stampa, illustrando la nostra posizione direttamente ai giornalisti a Praga.

La stessa cosa abbiamo fatto a Berlino. Abbiamo incontrato i deputati del Bundestag, abbiamo discusso con il dirigente del Partito di Sinistra della Germania (Die Linke), Tobias Pflüger e abbiamo incontrato i giornalisti.

Il terzo incontro si è tenuto a Parigi. Ci siamo incontrati con il capo del gruppo parlamentare del Front de Gauche all'Assemblea Nazionale (il parlamento francese) André Chassaigne, con deputati e giornalisti.

L'ultimo incontro l'ho avuto con il leader della “Sinistra Europea”, Pierre Laurent. A questo proposito, va detto che ora il gruppo delle sinistre europee sarà di circa 50 deputati, mentre fino al 25 maggio ne aveva 35.

Quali questioni avete affrontato nel corso degli incontri?

La prima questione che abbiamo pensato di porre è quella relativa alla diffusione delle informazioni e delle nostre valutazioni degli eventi in Ucraina. Abbiamo convenuto che i media europei presentano la situazione in maniera distorta. Purtroppo, la macchina informativa non funziona in modo tale che l'Europa sappia obiettivamente che cosa sta accadendo da noi in Ucraina, ma solo per sostenere ciò che può risultare vantaggioso al punto di vista dell'annessione dell'Ucraina all'UE, senza alcuna considerazione degli interessi nazionali del nostro paese.

Da noi tutti i governi sono stati considerati come i più democratici, prima di accusarli di dittatura, crimini e corruzione. Tutto ciò sta accadendo ora con il nuovo governo ucraino.

Ci siamo trovati d'accordo su tre posizioni di principio.

In primo luogo le sinistre europee hanno sostenuto la nostra idea della necessità di esercitare pressioni sul regime dell'Ucraina con la richiesta di interrompere immediatamente la guerra, fermare lo spargimento di sangue nel cuore dell'Europa e sedere al tavolo dei negoziati.

In secondo luogo, abbiamo concordato sul fatto che oggi la prospettiva della risoluzione dei problemi che hanno provocato lo spargimento di sangue in Ucraina, risiede in un piano di modifica della Costituzione, e che a questo processo va data concretezza. E' inoltre necessario riprendere il lavoro sull'attuazione dell'accordo del 21 febbraio, in cui è stata coinvolta anche l'Europa, e degli accordi di Ginevra, di modo che ciò che è stato firmato in questi due documenti venga realizzato.

E la terza idea: i miei colleghi comprendono davvero che in Ucraina oggi si sta svolgendo un processo politico per la messa sotto accusa del nostro partito. Sapendo come nell'Unione Europea viene considerata la proibizione di un partito, tenendo conto del fatto che noi siamo rappresentati in parlamento e che per noi ha votato la gente, i miei colleghi hanno acconsentito ad aiutarci, mettendo a disposizione giuristi europei di fama, per difenderci in questo tribunale politico, che sta cercando di allestire l'attuale regime nazional-fascista in Ucraina. Questo sarà il lavoro concreto, poiché noi tutti comprendiamo che permettere un secondo incendio del Reichstag, come stanno cercando di fare in Ucraina, non è consentito.

Voglio ancora sottolineare che attraverso queste tre posizioni abbiamo trovato la via costruttiva della collaborazione e della comprensione. Le nostre valutazioni su quanto sta accadendo in Ucraina sono considerate obiettive.

Tutto ciò che sta accadendo in Ucraina è il risultato di problemi interni all'Ucraina. Fino a quando nel nostro paese ci sarà chi non comprende che dobbiamo risolvere i nostri problemi da soli, invece di incolpare qualcuno, non riusciremo mai a risolvere nulla. Di tutto questo abbiamo parlato.

Sono stati firmati accordi o concordate intese verbali?

Per noi è già abbastanza avere potuto illustrare la nostra posizione. Dal 6 all'8 giugno a Bruxelles ci sarà una riunione del Partito della Sinistra Europea e il primo giorno sarà dedicato a discutere dei problemi dell'Ucraina.

Come hanno reagito le sinistre europee alla crescita della popolarità dei partiti di destra, che si è manifestata nelle ultime elezioni per il Parlamento Europeo?

Abbiamo bisogno di comprendere cosa sono i partiti europei di destra. L'idea di fondo, che ha spinto gli europei a sostenere questi partiti, non è l'idea nazionalista, ma la difesa degli interessi nazionali. Nelle condizioni della crisi, nelle condizioni in cui i lavoratori migranti e il loro lavoro vengono intensamente sfruttati, quando non si risolve il problema della disoccupazione, insieme alle sue conseguenze, il voto per la destra rappresenta una protesta contro L'Unione Europea. Dobbiamo capire che proprio questi fattori sono alla base del sostegno ai partiti della destra e dell'estrema destra in Europa.

So che sono fondamentalmente euroscettici...

Si, sono euroscettici. E allora perché in Ucraina sono stati mobilitate sul Majdan persone che hanno ucciso altre persone, per qualcosa a cui in Europa si guarda in modo completamente diverso? E forse ciò si è manifestato solo nell'ultimo anno? Per questo hanno sparso sangue? Ora è necessario capire chi ha ucciso questa gente? A mio avviso, ammontano già a centinaia i morti nel Donbass e gli obitori sono stipati nella regione di Donetsk.

A proposito della situazione nel Donbass, come giudicano i suoi colleghi europei l'operazione anti-terrorismo?

Come una guerra contro il proprio popolo, e la condannano. Il capo del gruppo parlamentare del Front de Gauche all'Assemblea Nazionale André Chassaigne ha detto che verrà richiesto per iscritto al ministro degli affari esteri della Francia di prendere posizione per una cessazione immediata di questa guerra. In Europa l'opinione è molto negativa.

E qual è il parere delle sinistre europee sull'annessione della Crimea alla Russia?

Ho cercato di parlare d'altro con i colleghi europei. Oggi si parla di questo, colpevolizzando la Russia del fatto che essa avrebbe annesso questo territorio. Io ho cercato di rispondere alla domanda su quale sia stata la causa della radicalizzazione dei cittadini dell'Ucraina che vivono in Crimea, ancora una volta sottolineo cittadini dell'Ucraina che vivono in Crimea. E ho detto che il 22-23 febbraio, quando in Ucraina veniva attuato il colpo di Stato, i cittadini della Crimea hanno cominciato a chiedersi che cosa sarebbe loro accaduto.

Ho detto ai colleghi europei che già allora avevo invitato tutti i parlamentari di Kiev a recarsi in Crimea dai loro colleghi del luogo per affrontare tutti i problemi, concedere loro il diritto ad un'ampia autonomia, come era avvenuto nel 1992. Ma che cosa ha fatto Kiev? Kiev ha cominciato a mostrare il bastone, a imbastire processi penali, a dire che tutti in Crimea erano separatisti.

Alla fine non sono stati risolti nella sostanza i problemi, che certo non per la prima volta si presentavano in Crimea: sulla lingua, sui poteri dell'autonomia. Per questo la questione della Crimea ha preso una piega completamente diversa: in Ucraina è necessario imparare a non spaventare la gente, a prestare ascolto al proprio popolo.

Per questo ho spiegato ai miei colleghi in Europa che la separazione della Crimea è il risultato della politica criminale di Kiev. Ecco dove sta la radice dei problemi, e Kiev non deve dare la colpa a Mosca.

Oggi stiamo assistendo a qualcosa di paradossale: tutti i problemi di Kiev vengono risolti o a Washington, o a Bruxelles o a Mosca. E quando saranno risolti a Kiev? Cerchiamo di non aspettare che ci sia qualcuno che decida per noi. Questo va richiesto ai nostri politici: siete in grado di risolvere i problemi o siete solo dei chiacchieroni?

Petr Nikolaevich, ora avete legami con i comunisti russi?

Certo che ne abbiamo. Il risultato dei nostri legami è rappresentato dall'ultima dichiarazione dell'intera Duma di Stato a sostegno del nostro partito minacciato di messa al bando. E' avvenuto la scorsa settimana. Abbiamo parlato con Ghennady Andreevich Zyuganov (leader dei comunisti russi) e ancora una volta abbiamo confrontato le nostre posizioni circa la necessità di trovare oggi una soluzione pacifica alla questione, riguardante il rapporto tra Kiev e le regioni. La mia posizione sulla necessità di risolvere tranquillamente tali problemi, è sostenuta dai miei colleghi e chiediamo che sia lo stesso popolo ucraino a risolverli autonomamente e che nessuno interferisca nei nostri affari interni.


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http://www.workers.org/articles/2014/06/13/ukrainian-leftist-leader-speaks-beginning-maidan-supported-imperialist-plunder/

Ukrainian leftist leader speaks: ‘From the beginning, Maidan supported imperialist plunder’

By Sergei Kirichuk on June 13, 2014

The following interview with Sergei Kirichuk, leader in exile of Union Borotba (Struggle), was published at Initiativ-online.org on June 11, 2014. It was translated from German by Workers World managing editor John Catalinotto.

From the beginning the Maidan [the demonstrations in Kiev’s central square] supported the free trade agreement with the EU. We, on the other hand, were from the beginning against the EU, which had no other goal but to plunder and destroy the Ukrainian economy.”

Initiativ: How and when was Borotba created?

SK: We are a very young, very new organization. We founded Borotba in 2011 as the result of a coalition of various left-wing groups. Some came from Marxist associations; others came from the Communist Party of Ukraine (KPU) and also its youth organization. We are different people with different backgrounds. We have Stalinists, Trotskyists, Maoists and people of other political backgrounds in our organization. We reached a point when we realized that these divisions are no longer as important as they once were. In various campaigns we have all worked together and found that these differences are not as significant now. We can work together to build something new; that was the key idea. A lot of people have participated in this process. To be honest, it was mostly politically experienced and educated people who have supported this process. But even workers without special training were involved, as well as leading people out of the labor movement. One of them comes from Kharkov. A few days ago someone tried to kidnap him.

Although for a long time we were very well organized and active, we were numerically a very small organization. We had regional offices in all major cities. At our biggest demonstrations we had several hundred participants.

When the crisis began, when the Maidan movement started [last November], we were from the beginning against this movement. It was a position many people could easily understand, especially people from the working class. Riding this wave, we increased our influence, and became one of the leading forces in cities like Kharkov, for example. After the Maidan coup [of Feb. 22], the fascists destroyed our headquarters in Kiev. Our comrades in western Ukraine went underground, while we continued to lead public activities in the east, where it was still possible.

The Ukrainian city of Kharkov was one of the largest industrial centers in the days of the Soviet Union, after Moscow and Leningrad. Today, Kharkov is one of the largest railway hubs in Europe. It’s a city with a good old left and democratic tradition.

It is therefore not at all surprising that the mood in Kharkov was and is so strong against the new oligarchic coup government. There were huge gatherings, which were all peaceful, against this new government in Kiev. And of course, we won over new members from this movement. For example, in one day, 300 people signed a statement that they would like to join our organization. And of course they were not all communists, socialists or leftists; they expressed their agreement with a specific policy. But 300 such declarations alone already have enormous importance. It showed how our program was right on target.

Initiativ: If someone asks what Borotba is, how do you answer them? What sets you apart from the KPU (Communist Party of Ukraine)?

SK: We are a communist organization. But the best known leftist organization in Ukraine is the KPU. We criticize this party very sharply, and we were clearly against their parliamentary illusions. The KPU was part of the oligarchic Yanukovych government. But if you say you’re a communist, then everyone thinks you’re part of the KPU. That is why we have taken the name Borotba. The name literally means “struggle,” and implicitly evokes the tradition of Ukrainian communists, who once had a newspaper named Borotba. There have been other organizations in the past that were called Borotba.

For westerners, the name sometimes sounds strange, but it has true Ukrainian roots. What is humorous here is that Borotba is the name in Ukrainian. In the Ukrainian media, we are naturally represented as Putin’s agents, as a pro-Russian party. The problem is that we of course also appear in the Russian-speaking regions with the Ukrainian name Borotba. Most people find it difficult to understand why such a party would have a Ukrainian name.

Initiativ: Right from the start you were against the Maidan. Why?

SK: From the beginning, the Maidan demonstrations made no social demands. Many people think the Maidan was some sort of great democratic movement, with social demands. The fascist forces came into the Maidan like a natural catastrophe, destroying the progressive part of the movement and putting themselves at the forefront. From the beginning, the Maidan supported the free trade agreement with the EU, which has no other content except plundering and destroying the Ukrainian economy.

On the other hand, the idea of success of the ​​individual held sway. This culminated in the idea that the corrupt Ukrainian system dominated by oligarchs could be overcome if we were part of the EU. Those who are willing to work hard will be successful and become rich.

Not only the liberal nationalist opposition but also the Yanukovych government spread the same propaganda in the media. Look at the Baltic countries, they said. They have implemented reforms, they are part of the EU, they have wealth, they are so rich, and we have to follow that path too. But Ukrainians can see and think. They have noticed the crisis in the EU and, for example, also seen what happened in Greece. And there was this big anti-Greek campaign in Ukraine, which argued the following: In Greece, socialism rules, the people are very rich and very lazy. And now they have to pay for their behavior. This is no joke; I mean seriously, it’s what they argued.

For a long time we were the minority of a minority. For example, when I took part in a discussion on a TV show, I was the only one against European integration. All the official representatives [of the Yanukovych regime] as well as the opposition were in favor. And of course they had no reasonable arguments against my position, because I pointed out what the consequences of the free-trade zone would be. They could make not a single rational argument. They said, “Looking at the EU, they are all so rich,” and when I made it clear that I did not agree, they countered by saying they no longer wanted to hear such Soviet propaganda.

Initiativ: What were the reasons Yanukovych refused to submit to the EU’s dictates?

SK: Yanukovych did not sign the declaration with the EU because there was pressure from the Russian side. The problem was that Russia was not able or willing to find a compromise that would have allowed Ukraine to cooperate with Russia as well as with the EU. On the other hand, there was great pressure from Ukrainian business, especially from the high-technology sector, for example, the industry that produces engines for helicopters, airplanes, nuclear weapons and space rockets; they produce for the Russian market and not for the EU. Some 50 percent of Ukrainian foreign trade is with the Russian Federation and the other half is with the EU. So Yanukovych had pressure on both sides from oligarchs.

The difference is Ukraine delivers many raw materials to the EU, and the profit from these sectors is very low, while what is delivered to Russia is high-price, high-tech products. Big capital exerted tremendous pressure and Yanukovych finally announced that there must be more negotiations. There should be more negotiations so that Ukraine would achieve more profitable exchanges with the free trade agreement. That was the reason why the Maidan movement began.

They tried to explain that the reason we are so poor is because we are living in the Soviet Union. It doesn’t exist anymore, but we still have a Soviet mentality, they say, and we need to break with this mentality and become a part of Europe. On the Maidan they built a symbolic wall. They said we are living in the Soviet Union, and if we overcome this border and become part of the EU, then we are breaking with our past.

Initiativ: What was the concrete political program of Borotba at that time?

SK: Of course we were in sharp opposition to the Yanukovych government. But we also understood that this opposition on the Maidan is just as reactionary as Yanukovych. Thus, we have directed our criticism towards both sides. At this time, the political camps were already very strongly polarized between Yanukovych and the pro-Western opposition. We represented at this time the thinking of a small minority of Ukrainian society.

Then some people began to understand what was really happening when the Maidan movement across the country began to destroy Lenin monuments. They destroyed hundreds of monuments that are spread all over the country. Then people could understand very well what was happening. These are reactionary forces, they have no progressive social demands, and they have this right-wing ideology. And they say all problems can be found in the person of Lenin.

After the coup, the Lenin monuments became important political symbols. In Kharkov, for example, they also tried to destroy the monument. Many people from all over Kharkov came to protect the monument, and only a minority of them were communists or leftists, the absolute majority were ordinary people. And they defended the monument as an expression of our history, our Soviet history. This is our history and we won’t let them take it away from us. For example, there was an older woman at a demonstration with a self-made placard on which she had written: You should not destroy your own house, just because it was built in the Soviet era.

Initiativ: What is the situation today?

SK: All our party offices were destroyed by the so-called National Guard, which is the legal cover for the neo-Nazi groups. When our people came to the offices they saw people in black uniforms, armed with AK-47s and blockading our offices. They took everything: flags, music systems, computers and even newspapers. It is easily understood that under such conditions no legal, open work is possible.

Two weeks ago, an attempt was made to kidnap two of our leading comrades following an anti-war demonstration in Kharkov. At the end of the demonstration, people with AK-47s tried to pull our comrades into a car. Bystanders were able to stop that from happening.

Our entire leadership is now in the underground. Many of our members have left the country. The Nazis have, for example, attacked the well-known left-wing journalist and Borotba member Andriy Manchuk, who is the chief editor of the daily Internet magazine Liva. In the end, we were made illegal and the leadership was forced into exile. But a few days ago there was an impromptu rally in Kharkov. Ordinary people gathered in the square, and we saw a lot of Borotba flags at this meeting.

Initiativ: You spoke of solidarity with the Kurdish liberation struggle? What did you mean by that?

SK: That must be clarified. If we look at the flag of Borotba, we see a great many similarities with the flag of the Workers’ Party of Kurdistan (PKK). It was not that we conceived it as such from the beginning. But we have quite a few Kurdish members in Borotba. And it was ultimately pro-capitalist, neoliberal students, hostile to us, whose pressure brought about this agreement on the flag. They wrote in a statement that Borotba is connected to the PKK and that the Kurdish Workers’ Party is considered a terrorist organization in the EU. They claimed that both together form a terrorist front against the EU. We were always in solidarity with the liberation struggle of the Kurds.

Initiative: Where do the Kurds come from? Did they immigrate to Ukraine in the days of the Soviet Union?

SK: The majority of Kurds living in Ukraine come from the south, from the Odessa region. Some of them are students and others work in the markets as traders. The Ukrainian government has always worked in close cooperation with Turkey. This put pressure on the Ukrainian government to take steps against the Kurds.

Previously, the authorities did not actually arrest Kurds, nor did they want to carry out greater repression against them. But the university authorities exerted pressure, for example, on the students, saying they should only study and not take part in political activities. Nevertheless, the Kurdish students have organized political meetings.

The main propaganda that the Ukrainian media always repeated was that Kurds simply cannot live in peace. And that although Turkey is such a “democratic” and “peaceful” country, the Kurds would always carry out terrorist acts. The media always asked, “Why are they coming to Ukraine? They cannot live in peace.”

Initiativ: What do you think about the concept of a democratic federation? Also in relation to the concrete situation in Ukraine?

SK: The Kurdish people must decide for themselves what form self-determination will take. In Ukraine, we are for democratic federalism. This means budgetary, political and social autonomy for southeastern Ukraine. The southeast would be a part of the Ukrainian Federation. And of course we need full equality of languages.

The people are very shocked about the historical mystifications. Nazi collaborators are suddenly turned into national heroes in Ukraine. Those days are now good pages of our history. If they now want to build monuments to Bandera [Hitler’s Ukrainian collaborator], please leave me out. People from the southeast want none of that. They say they are building monuments in Lvov in the west for Nazi collaborators and we defend our Soviet Army monuments.

Whether that should be happening in the same state or in two states is now the ultimate question. In the southeast, in the People’s Republics, there is now a debate. What should we do? Do we enter into a federation with Ukraine or will we be separate?

Initiativ: How will the struggle continue, given the new situation?

SK: We always criticized the KPU because they were focused on the parliamentary struggle. We have always concentrated on mass mobilization of working people and youth, on government service workers, etc. We were under the illusion that we were going to live for many years in a liberal democracy, with freedom of assembly and association. We are not at present nor were we ever prepared for this new situation, this guerrilla warfare. We have no infrastructure, weapons and experience. That was a big mistake.

Initiativ: Are the majority of people who are struggling in the southeast on the part of the People’s Republics of Donetsk and Lugansk made up of Russians, as is claimed by the media again and again in the west?

SK: Of course, the absolute majority of people come from the region itself. Just as there are people from the southeast fighting on the side of the Kiev junta, so there are also people from Russia fighting on the side of the People’s Republics. In the southeast there is no significant Russian influence. For example, there is a Russian citizen who is the leader of the resistance in Slavyansk. And Kiev has been claiming that he is a member of the Russian secret service. According to research by journalists it has now come out that he is a member of the “Rekonstructer” movement. These are people who wear the uniforms that date from the time of the Tsars. They meet for public appearances and organize spectacles, etc. Well, he became a leading commander of the resistance in Slavyansk, and to that extent this is Russian influence. But there are no experienced officers of the Russian secret service who lead and control everything, the way the media present it.

On the other hand, there are some Russians in the southeast, but in turn not as well suited for pro-west media propaganda, because they take a clear position against Putin.

Initiativ: Now one last question about Crimea. What is the situation overall, and in particular that of the Tatars in Crimea?

SK: Putin is now playing the game. He has now given the Tatars in Crimea some national rights. They are represented in the local parliament and in the government. This is exactly what the Tartars have always demanded from the Ukrainian government for 20 years.

As the Ukrainian army left Crimea, nobody wanted to fight against the Russian army; all accepted the new situation more or less. Only the Tatars expressed their rejection. And the Ukrainian nationalists called on the Tartars to join with the Ukrainians in this struggle. But no one joined, not even the Tartars.

Not all people in Crimea were happy about the annexation to Russia. But now they watch TV and see the Odessa massacre, the civil war and the bombing of apartment blocks in Donetsk, and they say to each other, “Thank god that we are not affected.”


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Ukraine’s Donbass is today’s Vietnam

By Workers World staff on May 30, 2014

Following are excerpts from an article by Victor Shapinov, a member of the socialist organization Union Borotba (Struggle). It is directed towards Ukrainian youth, especially those living in the western part of the former Soviet republic. The western region is the stronghold of the coalition of neoliberal politicians, oligarchs and fascists who recently seized power in a U.S.-backed coup, and is currently waging a brutal military campaign against the industrial and mainly Russian-speaking southeast.

The article originally appeared on the Ukrainian progressive websiteLiva.com.ua and was translated by Workers World contributing editor Greg Butterfield.

By Victor Shapіnov

Today, the romantic image of the rebels of 1968 inspires youth. Young, beautiful, sexy participants of the revolutionary events of those times are placed before us as heroes of the movie “The Dreamers” by Bernardo Bertolucci, which is shown by every progressive youth film club. But those who admire the youth of the sixties, apparently, have thought little about what the youthful red rebels of 1968 would fight against today.

There is no doubt that the trigger for the uprising of 1968 was the global anti-war movement. The monstrous war in Vietnam, where the strongest and most modern army developed by the Western countries unleashed its power on peasant guerrillas of a Third World country, was the catalyst for the student unrest of the time.

Footage of the burning of My Lai, photographs of murdered women and children, and farms burned by napalm, did not leave the younger generation of Western youth indifferent. “Not in my name,” said the students in France, Germany, Britain and the U.S. At mass rallies against the war, draftees burned draft cards, and officers and soldiers returning from Vietnam created a stir with a “Veterans Against War” protest at the White House and by their publicly renouncing military decorations.

Could it be that today’s youth don’t share their sincerity and solidarity — if the videos of neo-Nazis burning the House of Trade Unions in Odessa, photos of civilians shot in Mariupol, and images of Donetsk burning do not cause many of us to have the same reaction as the pictures from Vietnam for the distant 1960s generation?

Really, old people are always grumbling that “youth are not the same,” right?

The war is not thousands of miles away, not in some faraway country. The next war is here. Those being killed are like you — Ukrainians, Russians, Armenians, Jews, Tatars. Perhaps your distant relatives, friends or just familiar people. Although in order to empathize with the death of a person, one does not need to know him or her personally.

Where are the mass student rallies against the war? Which draftees are burning their draft cards?  Where is the blockade of the aviation unit in Mirgorod, which launches warplanes for air strikes on residential areas in the city of Donetsk? Where is the stigma against pilots killing random, innocent people and getting paid 9000 hryvnia ($765) per flight? Even the anti-war protests of Volyn women, who blocked the road yesterday, demanding the return and feeding of the soldiers — their husbands, brothers and sons — only began after the death of military personnel in an ambush. Not because some of them protested against the war in Donbass, which killed other people’s sons and husbands.

Of course, you can find a thousand excuses for why it’s not necessary to keep fighting for Donbass.

You will be called traitors and foreign agents. But the U.S. establishment also condemned American students for marching with the flag of the National Liberation Front of South Vietnam.

You will be told that the leaders of the People’s Republic of Donetsk profess the wrong political views. But students who protested against the Vietnam War did not always or fully share the views of Comrade Ho Chi Minh. Among them were devout Christians or liberals from wealthy families. They felt they had to do the right thing to stop the killings, the murders, occurring in their name.

There are many excuses — it’s not a great difficulty to come up with them. But how will the current generation of young people look into the eyes of their children, regardless of what the country is called after this war? Will they also despise their parents, as a generation of young Germans of the sixties looked at their parents who dutifully accepted Nazi crimes, eagerly buying into Nazi propaganda and joyfully marching to war against the “savage, inferior eastern trash”?

Do you believe that this crazy nightmare is not happening in your name?



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Chi ha effettivamente guadagnato dalla vittoria del Majdan

13 Giugno 2014

di Evgenyj Tsarkov, parlamentare del PC d’Ucraina e segretario regionale di Odessa del PCU

Traduzione di Flavio Pettinari per Marx21.it

La nomina a capo del dell'Amministrazione Presidenziale del multimilionario Boris Lozhkin è l'ennesima conferma che i veri beneficiari del "Maidan" sono gli oligarchi. La logica degli oligarchi suggerisce la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite. Così è successo con il "Majdan". Perdita del territorio, sangue e guerra, aumento dei prezzi dei beni e dei servizi essenziali: questo è stato il tributo per trasferire il potere da una “famiglia” di oligarchi all’altra.

Com’è noto, ai sensi del Decreto Presidenziale № 519/2014, il nuovo capo dell'amministrazione del Presidente è diventato l'ex proprietario della mediaholding UMH Group, e socio in affari del nuovo presidente Poroshenko, Boris Lozhkin, che fa parte del gruppo delle cento persone più ricche d’Ucraina, e la cui fortuna è stimata attorno ai 126,4 milioni di dollari.

Di fatto, come sostenuto dai comunisti, ciò che si è verificato nel paese, la cosiddetta "rivoluzione", è stato principalmente un colpo di stato oligarchico. Avevamo ragione, come in altre occasioni.

L'essenza originaria della protesta degli ucraini scesi sul "Majdan" era combattere il dominio dell’oligarchia sul paese. La lotta contro il fatto che il destino di un intero paese e dei suoi milioni di cittadini fosse nelle mani di alcuni ricchi, ignorando completamente l'opinione della gente. Come risultato, purtroppo, la nostra diagnosi è stata confermata: nel paese c’è stata una banale sostituzione di alcuni oligarchi con altri. La forza della protesta è stata sfruttata per rimuovere Yanukovich, che aveva cercato di diventare il proprietario esclusivo del paese. Oggi, anche il nuovo presidente e il suo capo dell’Amministrazione sono i più evidenti rappresentanti dell'oligarchia.

Per gli oligarchi al potere, è tradizione trattare il popolo come un proprio business, per loro la popolazione è uno dei mezzi per ricevere profitto e su cui far leva per risolvere i problemi del paese. Ecco perché il nuovo governo nelle sue azioni e nelle sue politiche, praticamente non si differenzia da quello precedente.

I cittadini comuni infatti oggi sono sconfitti e "stanno già gustando i frutti del nuovo governo": in tutto il paese si registra l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, dei medicinali e delle tariffe abitative e dei servizi.

Ricordiamo che da inizio anno è stato registrato questo aumento dei prezzi: i prezzi dei prodotti da forno sono aumentati in media del 46%, e il paniere alimentare nel suo complesso del 97%; i medicinali del 127%, il prezzo del gas è aumentato del 52%. Oltre a questo, dal 1° luglio in Ucraina aumenteranno in media del 84% le tariffe per la fornitura dell’acqua, del 105% quelle per le acque di scarico, del 93% le tariffe per il consumo dell’acqua. Allo stesso tempo, vi è una riduzione del 63% delle prestazioni sociali e grivna è svalutata del 53%.

Fonte: Ufficio stampa del PCU, www.kpu.ua



(english / francais / italiano)

Kosovo: scontro sull’"esercito" e crisi di "governo"

1) Consiglio di Sicurezza ONU, è scontro sull’esercito del Kosovo
2) Collapse of Kosovo government leads to early elections
3) L’opposition [du criminel de guerre Haradinaj] se coalise pour chasser [le criminel de guerre] Thaçi et le PDK


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Consiglio di Sicurezza, è scontro sull’esercito del Kosovo


Il dibattito nel Consiglio di Sicurezza relativo alla liceità della formazione di un esercito del Kosovo, tra ostacoli giuridici e conseguenze politiche


Aggiunto da c_perigli il 30/05/2014.

Nella riunione del Consiglio di Sicurezza di martedì scorso – 27 maggio – convocata per analizzare l’ultimo rapporto presentato dal Segretario Generale Ban Ki-Moon relativo alla situazione nei Balcani, buona parte del dibattito si è focalizzato sulla decisione del governo di Pristina di istituire un esercito del Kosovo indipendente, convertendo e ampliando la forza di sicurezza già esistente. Il Consiglio di Sicurezza si è presto ritrovato diviso, come da tempo avviene quando si affronta il rapporto tra Serbia e Kosovo, in due blocchi separati, ciascuno dei quali ha spiegato la propria posizione.

GLI SCHIERAMENTI E LE MOTIVAZIONI - Da un lato difatti, oltre al governo di Belgrado, anche Russia, Cina, Ciad e Argentina  hanno manifestato disappunto per la decisione presa dal governo di Pristina. Hanno infatti ricordato che la base giuridica di ogni decisione relativa al Kosovo e Metochia debba essere conforme a quanto stabilito dal Consiglio di Sicurezza nella Risoluzione 1244  del 1999, emanata subito dopo la fine delle ostilità tra i Paesi Nato e l’allora Repubblica Federale di Jugoslavia. Su tali basi, la creazione di un esercito del Kosovo sarebbe in violazione del diritto internazionale almeno per due motivi: anzitutto, come specificato dal delegato russo, sarebbe in violazione del rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale della Serbia perché il Consiglio di Sicurezza aveva indicato nella Kfor l’unico corpo militare posto a garanzia della sicurezza della provincia autonoma. In secondo luogo, come riportato dal rappresentante di Belgrado, la creazione di un esercito del Kosovo sarebbe una minaccia alla stabilità della Serbia e dell’intera regione, e minerebbe la credibilità delle Nazioni Unite.

IN DISACCORDO – In perfetto disaccordo con tale posizione si sono schierati invece, oltre al Kosovo, anche Gran Bretagna, Stati Uniti e Australia, che hanno sottolineato anzitutto che la Risoluzione 1244 non pone alcun divieto alla creazione di una forza militare kosovara, specificando poi che è diritto naturale di qualsiasi Stato sovrano quello di poter disporre di una propria forza di difesa.  In particolare, il presidente del Kosovo Atifete Jahjiaga ha affermato che la creazione di un esercito del Kosovo contribuirebbe a rafforzare la sicurezza di tutta la regione balcanica, invitando tutte le comunità etniche a partecipare attivamente al processo di creazione.


IL COMPLICATO DIALOGO TRA SERBIA E KOSOVO – Il percorso di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo ha conosciuto la svolta con l’accordo del 19 aprile 2013, attraverso il quale Belgrado e Pristina hanno deciso di regolare l’autonomia dei cittadini di etnia serba all’interno del Kosovo.  La soddisfazione delle élite politiche, incrementata anche dal fatto che questo accordo, almeno per la Serbia, è decisivo per proseguire il cammino verso l’Unione Europea,  non ha trovato riscontro tra i cittadini serbi residenti nel nord del Kosovo, scesi in piazza per rigettarne i contenuti e chiedendo, sia l’istituzione di un governo locale, sia un referendum in Serbia sull’accettazione dell’accordo. Anche da parte albanese non sono mancate le manifestazioni di disappunto.  Forti le proteste provenienti dal movimento Vetëvendosje  (Autodeterminazione) – la seconda forza di opposizione nel Parlamento di Pristina – che ha bocciato l’intesa come un sabotaggio del processo di State building del Kosovo, e una resa alle aspirazioni di Belgrado di ottenere un’entità serba all’interno dei confini del Kosovo. L’incomprensione più grande verte però proprio sulla natura dell’accordo. Se per Pristina si è trattato dell’ennesimo dato a favore di una ormai conclamata indipendenza, da Belgrado hanno chiarito sin da subito che l’accordo non influisce in alcun modo sullo status del Kosovo, del quale la Serbia non intende riconoscere l’indipendenza.

LO STATUS GIURIDICO DEL KOSOVO E LE RIPERCUSSIONI POLITICHE – Ed è proprio lo status giuridico del Kosovo, il suo essere o meno uno Stato vero e proprio, la discriminante in base alla quale stabilire la legittimità della creazione di un esercito alle dipendenze di Pristina. Se difatti il Kosovo è uno Stato indipendente a tutti gli effetti, allora predisporre degli strumenti atti a difendere la propria sovranità è indubbiamente un suo diritto. Va però ricordato che, per quanto riguarda il diritto internazionale, la Risoluzione 1244 riconosce sì un’ampia autonoma alla regione, ma impegna gli Stati a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia, di cui il Kosovo rimane parte, anche se sotto amministrazione temporanea da parte delle Nazioni Unite. In ultimo, vi sono diversi aspetti politici le cui conseguenze dovranno essere valutate tanto dagli Stati coinvolti quanto dagli Stati terzi: in primis, l’effetto che la scelta di Pristina può avere sui rapporti con Belgrado, ad un anno dalla conclusione dei tanto agognati accordi di normalizzazione. Inoltre, sono da considerare le ripercussioni che le posizioni tenute dagli Stati occidentali potrebbero avere sulla crisi in Ucraina, con cui il caso kosovaro presenta non poche analogie.

Carlo Perigli

@c_perigli


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Collapse of Kosovo government leads to early elections


By Paul Mitchell 
7 June 2014


Early elections are taking place in Kosovo this Sunday, following the collapse last month of the coalition government of Kosovo Prime Minister Hachim Thaci. Thaci is the leader of the Democratic Party (PDK) and a former Kosovo Liberation Army (KLA) commander.

His government wanted to change the Constitution to transform the Kosovo Security Force (KSF), a home for ex-KLA fighters, into an army and reduce the number of Kosovo Assembly seats reserved for ethnic minorities.

Both proposals were considered threats by deputies belonging to the ethnic Serb minority who boycotted the Assembly debate preventing a quorum being reached. As a result, the Assembly was dissolved with Thaci declaring, “a parliament that cannot launch its own army should not continue.”

In 2010, in the last Assembly elections to the 120 seat Assembly, Thaci’s PDK won 34 seats, the Democratic League of Kosovo (LDK) 27 seats, the Self Determination Movement (LVV) 14 seats, the Alliance for the Future of Kosovo (AAK) 12 seats and the New Kosovo Coalition (AKR) eight seats. Thirteen seats went to Serbian parties and 12 to other minorities (Roma, Ashkali, Bosniak, Turkish and Gorani).

After the election, the PDK formed a minority government with the AKR, created in 2006 by the world’s richest ethnic Albanian, construction magnate Behgjet Pacolli.

Dissatisfaction with the political and economic setup is indicated by voter turnout in the Assembly elections, which has been below 50 percent since 2005. The combined vote for the two main parties—the PDK and LDK—has plummeted from around 80 percent in 2001 to around 50 percent today. This is because they are closely associated in the public’s mind with Kosovo remaining one of the poorest regions in Europe, with unemployment estimated at between 35 and 60 percent and almost 40 percent of people living in poverty. At the same time, a political/criminal network has made a fortune out of the privatisation of public assets, narcotics, human trafficking, corruption and nepotism.

Opinion polls suggest the PDK could struggle to hold onto power, even though Thaci has attempted to overcome criticisms by promising 500 million euros for agricultural reform and the creation of 200,000 new jobs—promises matched by LDK leader Isa Mustafa and the AAK’s Ramush Haradinaj. Commentators point out that it would require an impossible 20 percent growth rate to achieve these levels of employment.

The polls suggest the main beneficiary of Sunday’s election will be Self-Determination (LVV). Founded in 2004 and led by ex-KLA political officer Albin Kurti, the party describes itself as “left nationalist”, has consistently opposed EU/US intervention in Kosovo and called for a referendum of union with Albania. It has not been tarnished in the same way as the PDK and LDK attacking privatisation as “a corruption model, contributing to increasing unemployment, ruining the economy, and halting economic development of the country”. The 12.7 percent vote the LVV gained in the first Assembly elections it took part in 2010 and the ousting of the LDK’s leader Isa Mustafa as mayor of the capital Pristina last year by LVV candidate Shpend Ahmeti have been described as “historic”.

Two major issues have surrounded the election campaign—how to persuade the Serb minority (10 percent of the population) to vote and what to do about former KLA leaders now facing war crimes charges.

Both issues are linked to the Western campaign to dismember the former Republic of Yugoslavia and counter Russian influence in the Balkans—an objective that remains until this day.

During the1998-99 Kosovo conflict, Thaci was inserted at the head of the Kosovo negotiating team at the Rambouillet conference, supplanting Ibrahim Rugova, then leader of the “non-violent” LDK. When the 14-week bombardment of Serbia began the KLA—now delisted as a terrorist organisation by the US—was used as a proxy military force on the ground.

Following the defeat of Serbia and the ousting of President Slobodan Milosevic, UN Security Council resolution 1244 was passed and placed Kosovo under the control of a civilian United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK) headed by a Special Representative and a military NATO-led KFOR force.

The resolution was a fudge from the start—removing Kosovo from the practical control of Serbia whilst guaranteeing the sovereignty and territorial integrity of the Yugoslav federation.

There was no mention of Kosovan independence in the resolution but this did not stop the Western powers pushing ahead with the secession of Kosovo. The 2005 plan by former Finnish prime minister Martti Ahtisaari for “conditional independence” of the province supervised by an International Civilian Office was adopted as was recognition of Kosovo’s unilateral declaration of independence in 2008—something which Russia, China, India and most states in Africa and South America still do not accept.

The Western powers continue to dictate what happens in Kosovo with the plans to create a new army included in the Strategic Security Sector Review, the final version of which, according to press reports was “imposed” by the Security Advisory Unit of the International Civilian Office.

Another consequence of the newly-formed western protectorate was the incorporation of many ethnic Serbs, concentrated in the north, who have remained out of the control of the central government. A virtual Serb self-government has operated in the area and protests and outbreaks of violence have occurred whenever Pristina has tried to exert control.

However, with Serbia and Kosovo seeking admission to the EU, NATO and other Western institutions have been increasing pressure on the two countries to “normalise” their relations.

Following the April 2013 EU-mediated Brussels Agreement between the two countries, the majority of Serbian parallel institutions have been dissolved including the police force and judiciary. A soon-to-be created Community of Serbian Municipalities in Kosovo will retain control of economic development, education, health, and planning.

Ministers in Serbia, whilst making the ritual denunciations that they will never recognise Kosovo, encouraged ethnic Serbs to take part in the first local elections in Northern Kosovo in late 2013. However turnout was very low—single figure percentages in some municipalities—and marred by sporadic violence.

To prevent a re-occurrence in the Assembly elections, politicians in Serbia and northern Kosovo have been pleading with ethnic Serbs to vote claiming a high turnout could make them a major political force in the Assembly—especially if they all voted for the single Serb electoral list Citizens’ Initiative Srpska. This is a distinct possibility given there are over 1,200 candidates from 30 political entities, 18 political parties, seven initiatives and four coalitions contesting the 120 seats.

As a condition of Kosovo’s progress toward the EU, the Western powers have also increased pressure for it to set up a Special Court to try KLA leaders accused of war crimes in the Kosovo war. The allegations were the subject of a 2011 report by Council of Europe investigator, Dick Marty, which described how, after the cessation of the Kosovo conflict, the KLA operated a separate network of makeshift detention centres, which were used primarily for the gruesome practice of trafficking in human organs of abducted refugees.

Marty explicitly named Thaci and other PDK leaders and criticised the US, Germany, Britain and others for helping conceal the KLA’s activities and UNMIK and the International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia for destroying evidence.

Marty also drew attention to the fact that Washington was able to carve out a permanent military presence in Kosovo as part of its broader geo-political interests with “an Embassy endowed with impressive resources and a military base, Camp Bondsteel, of a scale and significance that clearly transcends regional consideration.”

In April, US Ambassador to Kosovo, Tracey Ann Jacobson, made it clear the demand for a Special Court involved a damage-control exercise. She insisted that “these are individual allegations, not allegations against a group of people, KLA, or against the war in general” and if they were not addressed, they “would inevitably end up in Kosovo being drawn in to a much longer process, possibly with a much broader scope” i.e., an investigation of the role of the US and other Western powers.

Within days, the Assembly, having heard their Master’s Voice and ignored Thaci’s pleas about Kosovo’s “humiliation and injustice”, voted to sacrifice their “war heroes” and create a Special Court.




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Le Courrier des Balkans

Kosovo : l’opposition se coalise pour chasser Thaçi et le PDK


De notre correspondant à Pristina


Mise en ligne : mercredi 11 juin 2014
La Ligue démocratique du Kosovo (LDK), l’Alliance pour l’avenir du Kosovo (AAK) et l’Initiative pour le Kosovo (Nisma për Kosovën) ont signé mardi un accord pour former le nouveau gouvernement du Kosovo. Le PDK d’Hashim Thaçi, minoritaire mais arrivé en tête des élections de dimanche dénonce une initiative « anticonstitutionnelle ».

Par B.K.


[PHOTO: Ramush Haradinaj, Isa Mustafa et Fatmir Limaj]


Selon l’accord signé par Isa Mustafa (LDK), Ramush Haradinaj (AAK) et Fatmir Limaj (Nisma), le poste de Premier ministre reviendrait à Ramush Haradinaj ; la présidence du Parlement et la présidence de la République à la LDK, tandis que Nisma devrait se contenter d’un poste de vice-Premier ministre. Le mandat de l’actuelle présidente du Kosovo, Atifete Jahjaga, expire en 2016. Selon l’accord, les trois partis partageront les autres postes proportionnellement à leur représentation parlementaire.

Selon les résultats préliminaires, c’est pourtant le Parti démocratique du Kosovo (PDK) qui arrive en tête avec 31,21% des voix. La Ligue démocratique du Kosovo (LDK) se positionne en deuxième position en recueillant 26,13%, puis viennent le mouvement Vetëvendosje, avec 13,61%, l’Alliance pour l’avenir du Kosovo (AAK) avec 9,65% et l’Initiative pour le Kosovo (Nisma për Kosovën), avec 5,36%.

Ce sont néanmoins les formations de l’opposition qui se sont empressées de créer un nouvel axe majoritaire, sous l’impulsion de Vetëvendosje, qui a fait monter la pression sur l’opposition, en appelant tout de suite les autres partis à ne pas s’allier au PDK. Vetëvendosje a néanmoins refuser de rejoindre la coalition, en posant comme conditions « une lutte efficace contre la corruption, l’arrêt des négociations sans conditions avec Belgrade et l’interruption de la privatisation du KEK, des mines Trepça et des PTK ».

« Notre objectif conjoint était de ne pas permettre une nouveau gouvernement de Thaçi. Ce serait une poursuite de l’agonie sur le plan de l’économie, de l’Etat de droit et de l’intégration européenne », a commenté Ramush Haradinaj en promettant une lutte sans compromis contre la corruption.

Le PDK a réagi en estimant que l’action des partis de l’opposition était anti-constitutionnelle et en affirmant qu’il revient au parti arrivé en tête des élections de former le gouvernement. « La volonté des citoyens ne peut pas être modifiée par des accords anti-constitutionnels. Le gouvernement sera dirigé par le PDK ou bien il faudra convoquer des élections anticipées », a affirmé Hajredin Kuçi, vice-président du PDK.

Si jamais Vetëvendosje ! ne se rallie pas à la LDK, le AAK et Nisma, ces derniers dépendront des votes minoritaires. « Nous aurons la majorité parlementaire, au moins avec l’AAK ; et c’est à nous que revient le mandat pour former le gouvernement. Si la présidente Atifete Jahjaga offre en premier à Hashim Thaçi de former le gouvernement, c’est à nous, selon la Constitution, d’avoir la deuxième occasion. Mais s’ils veulent politiser cette question, nous irons aux élections anticipées en coalition et notre victoire est assurée. Il n’y a pas de retour en arrière », a riposté Isa Mustafa.

Alors que les résultats définitifs n’ont pas encore été certifiés par la Commission électorale, le débat politique s’est donc déplacé sur le plan juridique et constitutionnel, tandis que les ambassadeurs occidentaux influents à Pristina ne se sont toujours pas prononcés sur les derniers événements.






(deutsch / english / italiano)

Miliardario e spia USA è presidente dell'Ucraina

1) U.S. blesses fraudulent Ukraine election (WW / Greg Butterfield, 29.5.2014)
2) BOROTBA: Il presidente oligarca: naturale risultato di Euromaidan / President Oligarch — the natural result of Euromaidan
3) Poroshenko e la CIA (Rete Voltaire, 11.6.2014)
4) Wikileaks, Poroshenho fu informatore Usa (ANSA, 30 maggio 2014)
5) Il Cremlino indaga sui rapporti tra Poroshenko e gli USA (ATS, 30 maggio 2014)
6) Poroshenko, l’insider americano a Kiev (Simone Pieranni, 30.5.2014)
7) Germans slam Berlin for supporting Nazi Ukrainians (Voltaire Net, 25 May 2014)
8) Germany: Leading journalists attempt to censor TV program (Peter Schwarz / WSWS, 30 May 2014)
9) Fascist propaganda on the front page of the Frankfurter Allgemeine Zeitung  (Peter Schwarz / WSWS, 4 June 2014)
10) Für Frieden und Freiheit  (GFP, 30.05.2014)


Vedi anche:


Who is Petro Poroshenko

L’Allemagne est-elle impliquée en Ukraine ?

È ufficiale: in Ucraina i nazisti si schierano col presidente
In cambio Poroshenko gli ha promesso armi, aiuti di Stato e una legge che liberalizzerà le armi, «come in America». A oggi i miliziani di Pravy Sektor sono 5.000. 
Franco Fracassi - 9 giugno 2014

The Finnish Model
In the West's hegemonic struggle against Russia, German government advisers are calling for close military ties between Ukraine and the Western war alliance…
GFP 2014/06/05

L'Ucraina è un quadrato della scacchiera del gioco geopolitico
Peter Koenig | globalresearch.ca, 01/06/2014


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http://www.workers.org/articles/2014/05/29/u-s-blesses-fraudulent-ukraine-election/

U.S. blesses fraudulent Ukraine election

By Greg Butterfield on May 29, 2014

May 27 — The U.S.-backed junta of neoliberal politicians, oligarchs and fascists, which came to power in a coup against the elected government of Ukraine, staged presidential elections May 25 in an attempt to legitimize its rule.

Billionaire oligarch Peter Poroshenko, known as the “Chocolate King,” claimed victory with 54 percent of the vote. (CNN, May 27) His closest competitor, Yulia Tymoshenko of the far-right Fatherland party, got 12.9 percent.

Two candidates closely associated with the demands of the resistance movement in southeastern Ukraine — Oleg Tsarev, formerly of the Party of Regions, and Communist Party leader Peter Simonenko – withdrew. Both were subject to assassination attempts and denounced the election as a fraud.

Two reporters from Russia’s LifeNews were abducted, tortured and deported. An Italian journalist and his Russian interpreter were killed.

According to RT, Right Sector fascists armed with knives surrounded the Central Election Commission in Kiev on election day. Journalists trying to enter were subject to their approval.

Earlier, Right Sector leader Dymtro Yarosh had threatened that his forces would “guard” polling stations in eastern Ukraine. (Kyiv Post, May 23)

Nevertheless, U.S. and European election observers – headed by U.S. war criminal Madeleine Albright – rushed to declare the elections “free and fair,” even before the official results were in.

President Obama offered his congratulations via Twitter. Russian President Vladimir Putin, facing provocative military and economic threats from the U.S. and NATO, signaled that he would recognize the election results and negotiate with Poroshenko.

The U.S. and European imperialists hope Poroshenko’s ascension will finally cement their plans to rule Ukraine through an International Monetary Fund austerity program. They want to destroy the resistance movement in the southeast, which has taken an increasingly anti-capitalist direction.

Boycott vs. ‘elections of blood’

While the junta says between 55 and 60 percent of eligible voters participated, three areas claimed by Kiev did not participate at all – the People’s Republics of Donetsk and Lugansk, as well as the Autonomous Republic of Crimea, which has chosen to join the Russian Federation. These three areas contain nearly 20 percent of the total Ukrainian population of 45.6 million.

In other southeastern regions like Kharkov, Odessa and Dnipropetrovsk, many heeded the call to boycott what were described as “the elections of blood.” This refers to the May 2 massacre of 48 people by neo-Nazis in Odessa and the ongoing Ukrainian military assault on Donetsk and Lugansk.

Election watchdog group Opora, cited by the pro-junta Kyiv Post, gave a figure of 45 percent voter participation overall, while exit poll data suggested an even lower turnout. (Global Research, May 25)

In Donetsk city on May 25, hundreds marched to the estate of oligarch Rinat Akhmetov, Ukraine’s richest boss and owner of several mines. Protesters demanded that the new people’s government seize Akhmetov’s mansion and nationalize his properties. Akhmetov had staged a “strike” of his employees against the Donetsk People’s Republic in the run-up to the elections.

Hundreds also rallied in Kharkov, including supporters of the revolutionary socialist organization Union Borotba (Struggle), despite growing attacks on the anti-fascist movement.

Regime escalates violence

Although Poroshenko had promised negotiations, as soon as his victory was announced, the Ukrainian military assault escalated. He boasted, “The anti-terrorist operation … should and will last [only] hours.” (Guardian, May 26)

Kiev immediately launched punishing airstrikes on Donetsk in an attempt to regain control of its airport.

The National Guard – comprised mostly of fascist gang members in uniform – carried out attacks on civilian housing blocks in the cities of Donetsk and Slavyansk using heavy weaponry, and causing many casualties.

Aleksandr Boroday, prime minister of the Donetsk People’s Republic, reported that 50 civilians and 50 antifascist militia members had been killed May 26, as the region braces for more attacks. (RT, May 27)

Donetsk residents are being urged to stock up on supplies and stay indoors if possible. All people’s militia members, health care workers and activists are being mobilized for the defense of the city.

On May 27, workers at several mines in the southeast launched strikes against the junta’s military offensive.

“Miners from the Skochinskogo, Abakumova, Chelyuskintsev and Trudovskaya mines have not been working today,” a representative told RIA Novosti. “People have been standing by the entrances, not wanting to go underground. They are having rallies demanding the suspension of military actions.”



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http://www.senzatregua.it/?p=1139

IL PRESIDENTE OLIGARCA: NATURALE RISULTATO DI EUROMAIDAN


POSTED ON MAG 28, 2014 IN INTERNAZIONALE | 0 COMMENTS
* Traduzione a cura della redazione di Senza Tregua

Comunicato di Union Borotba (Lotta) sulle “elezioni di sangue” in Ucraina
Le cosiddette elezioni, tenute dalla giunta Kiev il 25 Maggio, non si possono considerare giuste o legittime. Le elezioni tenute nel bel mezzo della guerra civile nella parte orientale del paese e del terrore neonazista nel Sud e Centro, non sono state libere.
Lo stesso corso della campagna elettorale è stato senza precedenti con ogni immaginabile violazione delle norme democratiche. I candidati presidenziali sono stati picchiati e non è stata permessa la campagna. Diversi candidati si sono ritirati per protesta contro la farsa.
A Odessa e in altre regioni, sono stati documentati casi di seggi “sorvegliati” da unità ultra-nazionaliste portati da Kiev e dall’Ucraina occidentale. Ciò non può essere definito altro che come una pressione esplicita sugli elettori.
In Crimea e nelle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, le cosiddette elezioni non si sono svolte. Nelle regioni Odessa e Kharkov, i seggi erano quasi vuoti. Molti di coloro che sono andati a votare hanno annullato il loro voto, scrivendo slogan contro la giunta di Kiev. Tuttavia, la cosiddetta Commissione Elettorale Centrale ha dichiarato una partecipazione del 60%!
Migliaia di persone in diverse città del paese sono scese in strada per protestare contro le “elezioni di sangue”. Tuttavia, i risultati annunciati dalla giunta saranno riconosciuti dell’obbediente Commissione Elettorale Centrale e dagli osservatori Occidentali.
Va notata l’ipocrisia dei cosiddetti campioni delle elezioni giuste. Essi criticano le elezioni viziate nella Federazione Russa e in altri paesi, ma adesso chiudono un occhio alla palese falsificazione e flagrante violazione delle “elezioni” del 25 Maggio. Questo dimostra ancora una volta che il criterio dell’”onestà” per l’opinione pubblica liberal ufficiale non è reale rispetto alle procedure elettorali, ma è leale al regime che tiene le elezioni per l’imperialismo occidentale.
Come previsto, il vincitore dell’”elezione” presidenziale è stato il miliardario Poroshenko. Poroshenko, insieme ad altri miliardari come Igor Kolomoisky e Sergei Taruta, è divenuto la personificazione del trasferimento diretto del potere statale ai grandi capitalisti. Poroshenko è il principale esempio della classe dirigente dell’Ucraina “indipendente” – la parassitaria oligarchia borghese che ha saccheggiato il paese negli ultimi 20 anni.
Il percorso politico di Poroshenko è rivelatore. Alla fine degli anni ’90 era un membro leale dell’allora Presidente Kučma del Partito Social Democratico d’Ucraina (Unito). Poi fu uno dei fondatori del Partito delle Regioni. Poi – un amico e alleato del presidente Viktor Yushchenko. Un leader lobbista per la cosiddetta “integrazione Europea”, Poroshenko è infine diventato uno dei leader e sponsor di Euromaidan.
Non c’è dubbio che Poroshenko continuerà il corso di Turchinov e Yatsenyuk nell’interesse di un sottile strato dell’oligarchia. Poroshenko continuerà la sporca guerra della giunta contro il proprio popolo nel Donbass. Poroshenko continuerà ad attuare le misure antipopolari imposte dal FMI portando il Paese al disastro economico.
Il trasferimento diretto del potere all’oligarchia e il rafforzamento delle tendenze neo-fasciste sono conseguenze dirette di Euromaidan, come Unione Borotba aveva avvertito lo scorso autunno. Solo le persone politicamente molto ingenue potevano aspettarsi un risultato diverso da un movimento guidato da neoliberisti e ultra-nazionalisti, e sponsorizzato dai più grandi capitalisti.
I risultati hanno mostrato una sconfitta devastante per i nazionalisti radicali – e Tyagnybok [leader di Svoboda] e Yarosh [leader di Settore Destro], che insieme hanno raggiunto solo il 2 %. Il terrore contro il popolo, contro la sinistra e le forze democratiche e lo spiegamento di unità combattenti nazionaliste, non hanno promosso la crescita della popolarità delle forze fasciste. Tuttavia, nonostante il loro scarso sostegno pubblico, l’estrema destra rimarrà un elemento importante del sistema politico della dittatura Kiev. Il loro ruolo è la violenta repressione degli oppositori del regime oligarchico. Questo è il ruolo tipico dei movimenti fascisti.
Noi non riconosciamo l’esito di queste pseudo-elezioni ignorate dalla maggioranza. Noi continueremo la campagna di disobbedienza civile contro la giunta di oligarchi e nazionalisti.



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http://borotba.org/president_oligarch_–_the_natural_result_of_euromaidan.html

http://www.workers.org/articles/2014/05/27/president-oligarch-natural-result-euromaidan/

President Oligarch — the natural result of Euromaidan

By Workers World staff on May 27, 2014

Statement of Union Borotba (Struggle) on Ukraine’s “elections of blood”

Following is a report and analysis of the May 25 elections by Union Borotba (Struggle), a revolutionary socialist and anti-fascist organization in Ukraine, translated by Workers World contributing editor Greg Butterfield and available on the Borotba.org website. Oligarch Petro Poroshenko declared himself the landslide winner of the presidential election, getting four times the vote of his nearest rival, Julia Timoshenko.

The so-called elections held by the Kiev junta on May 25, cannot be considered fair or legitimate. Elections held in the midst of civil war in the east of the country and neo-Nazi terror in the south and center were not free.

The very course of the election campaign was unprecedented in its every conceivable violation of democratic norms. Presidential candidates were beaten and not allowed to campaign. Several candidates withdrew in protest against the farce.

In Odessa and other regions, there were documented cases of polling stations being “guarded” by ultranationalist units brought from Kiev and western Ukraine. This cannot be called anything but explicit pressure on the voters.

In Crimea and the Donetsk and Lugansk People’s Republics, the so-called elections were not held. In the Odessa and Kharkov regions, polling stations were almost empty. Many of those who came to vote spoiled their ballots, writing slogans against the Kiev junta. Nevertheless, the so-called Central Election Commission claimed a turnout of 60 percent!

Thousands of people in different cities of the country came out to protest against the “elections of blood.” Nevertheless, the results announced by the junta will be recognized by the obedient Central Electoral Commission and Western observers.

The hypocrisy of the so-called champions of fair elections should be noted. They criticize flawed elections in the Russian Federation and other countries, but now turn a blind eye to the blatant falsification and flagrant violations of the “elections” of May 25.This once again shows that the criterion of “honesty” for official liberal public opinion is not real compliance with election procedures, but the loyalty to Western imperialism of the regime that holds elections.

As expected, the winner of the presidential “election” was billionaire Poroshenko. Poroshenko, along with other billionaires like Igor Kolomoisky and Sergei Taruta, became the personification of the direct transfer of state power to the big capitalists. Poroshenko is a prime example of the ruling class of “independent” Ukraine — the parasitic bourgeois oligarchy that has looted the country for the last 20 years.

Poroshenko’s political path is revealing. In the late 1990s, he was a loyal member of then-President Leonid Kuchma’s Social Democratic Party of Ukraine (united) party. Then he was one of the founders of the Party of Regions. Then — a friend and ally of President Viktor Yushchenko. A leading lobbyist for so-called “European integration,” Poroshenko then became one of the leaders and sponsors of Euromaidan.

There is no doubt that Poroshenko will continue the course of  Alexander Turchinov and Arseny Yatsenyuk in the interests of a narrow layer of the oligarchy. Poroshenko will continue the junta’s dirty war against its own people in the Donbass. Poroshenko will continue to implement the anti-people measures imposed by the International Monetary Fund and lead the country to economic disaster.

The direct transfer of power to the oligarchy and the strengthening of neofascist tendencies are direct consequences of Euromaidan, which Union Borotba warned of last autumn. Only very politically naive people could expect a different result from a movement led by neoliberals and ultranationalists, and sponsored by the biggest capitalists.

The results showed a devastating defeat for the radical nationalists — and Tyagnybok [leader of Svoboda] and Yarosh [leader of Right Sector], who together polled only 2 percent. Terror against the people, against the left and democratic forces, and deployment of nationalist combat units, have not promoted the growth of popularity of the fascist forces. Nevertheless, despite their low public support, the extreme right will remain an important element of the political system of the Kiev dictatorship. Their role is the violent suppression of opponents of the oligarchic regime. This role is typical of fascist-type movements.

We do not recognize the outcome of these pseudo-elections ignored by the majority. We will continue the campaign of civil disobedience against the junta of oligarchs and nationalists.

Violent attacks by neo-Nazi forces drove leaders from Kiev after the February coup. Borotba members then played a leading role in the resistance movement in southeastern Ukraine, especially in the regions of Odessa and Kharkov. Their members were among those killed and injured in the May 2 Odessa massacre. Because of increasing repression, since May 9, Borotba activists throughout the country have been forced to continue their work underground.


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FRANÇAIS  http://www.voltairenet.org/article184193.html
ESPAÑOL  http://www.voltairenet.org/article184200.html
ENGLISH  http://www.voltairenet.org/article184209.html
PORTUGUÊS  http://www.voltairenet.org/article184221.html
DEUTSCH http://www.voltairenet.org/article184234.html


http://www.voltairenet.org/article184247.html

Poroshenko e la CIA

RETE VOLTAIRE  | 11 GIUGNO 2014  

Il presidente dell’Ucraina, Petro Poroshenko, ha ricevuto una delegazione dei servizi segreti atlantisti guidati dal comandante delle operazioni segrete della CIA Frank Archibald.
La delegazione comprendeva l’ex-capo della stazione CIA in Ucraina Jeffrey Raymond Egan e il suo successore Mark Davidson, l’ex-capo della stazione in Turchia Mark Buggy, l’ex-capo dell’intelligence polacca colonnello Andrzej Derlatka, e l’agente della CIA che dirige la compagnia di assicurazione Brower, copertura dell’agenzia, Kevin Duffin.
Le due parti hanno firmato un accordo di cooperazione militare.

Traduzione di Alessandro Lattanzio


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http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2014/05/30/wikileaks-poroshenho-fu-informatore-usa_1c0b9f5c-167e-4b0b-9cd1-fba903c426d8.html

Wikileaks, Poroshenho fu informatore Usa

Cable americani diffusi a Mosca, giudizi e sospetti imbarazzanti

Redazione ANSA
MOSCA 30 maggio 2014 21:32

(ANSA) - MOSCA, 30 MAG - I media russi cominciano a scavare nel passato del neo presidente ucraino Petro Poroshenko, evidenziando i suoi stretti legami con gli Usa e i giudizi non sempre lusinghieri della diplomazia americana. Rovistando nell'archivio di Wikileaks, dove ci sono almeno 350 documenti con il nome dell'oligarca ucraino si scopre che Poroshenko era censito come "informatore" dell'ambasciata americana a Kiev nel 2006. Mentre in un altro cable appare sospettato di corruzione, al pari di Iulia Timoshenko.


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http://www.gdp.ch/notizie/esteri/il-cremlino-indaga-sui-rapporti-tra-poroshenko-e-gli-usa-id27185.html

Il Cremlino indaga sui rapporti tra Poroshenko e gli USA

I media russi ufficiali cominciano a scavare nel passato del neo presidente ucraino Petro Poroshenko, al quale Putin non ha ancora fatto le sue congratulazioni, evidenziando i suoi stretti legami con gli USA.

I media russi ufficiali o filo Cremlino cominciano a scavare nel passato del neo presidente ucraino Petro Poroshenko, al quale Putin non ha ancora fatto le sue congratulazioni, evidenziando i suoi stretti legami con gli Usa e i giudizi non sempre lusinghieri o apparentemente opportunistici della diplomazia americana.

Rossiskaia Gazeta, organo ufficiale del governo, e la tv filo Cremlino Russia Today, hanno rovistato nell'archivio di Wikileaks, dove ci sono almeno 350 documenti con il nome dell'oligarca ucraino. Il quotidiano governativo sottolinea che Poroshenko era un «informatore» dell'ambasciata Usa a Kiev sulla situazione politica interna. In un cable del 2006, l'allora ambasciatore statunitense William Taylor lo definisce il «nostro candidato alla carica di speaker del parlamento». «Non c'è alcun dubbio che Poroshenko abbia già dato prova della propria fedeltà agli interessi di Usa e Ue», commenta il giornale. 

Russia Today dà conto dell'evoluzione della posizione della diplomazia americana verso il magnate tra il 2006 e il 2011: nel 2006, quando Poroshenko era un deputato, l'allora ambasciatore Usa a Kiev John Herbst lo descrive come un «oligarca caduto in disgrazia».  Pochi mesi dopo la numero 2 della missione diplomatica statunitense Sheila Gwalney lo dipinge come «macchiato da credibili accuse di corruzione», dietro le quali c'era, tra gli altri, l'allora premier Iulia Timoshenko.

Nel 2009, l'anno in cui l'oligarca diventa ministro degli Esteri, le descrizioni a stelle e strisce cominciano a cambiare, attribuendogli note personali più favorevoli. L'allora incaricato d'affari ad interim, James Pettit, scrive di lui che è «un imprenditore ricco con ampie connessioni politiche, che auspica una maggiore integrazione europea e relazioni più pragmatiche con la Russia». Il tabloid Komsomolskaya Pravda, anch'esso filo Cremlino, rispolvera invece una vecchia condanna del padre di Poroshenko, Alexiei: 5 anni nel 1986 per malversazione, come direttore di una fabbrica per la riparazione di trattori e macchine agricole nella città moldava di Benderi.

(ATS) (30.05.2014 - 17:05)


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http://ilmanifesto.it/poroshenko-linsider-americano-a-kiev/

Poroshenko, l’insider americano a Kiev

Ucraina, Usa e WikiLeaks. Un cable del 2006 dall'ambasciata di Kiev, descrive Poroshenko come "l'uomo americano in Ucraina"

di  Simone Pieranni, su Il Manifesto del 30.5.2014

Il «re del cioc­co­lato», l’oligarca, il tycoon, l’uomo del com­pro­messo pos­si­bile tra Usa e Rus­sia, il busi­ness­man capace, forse, di nego­ziare per­fino con Putin. Negli ultimi giorni le defi­ni­zioni dedi­cate al neo pre­si­dente ucraino Poro­shenko si sono spre­cate, ma quella più pecisa, netta e rive­la­to­ria, si trova in un cable del 2006, rila­sciato da Wiki­leaks gio­vedì notte.

A scri­vere è l’allora amba­scia­tore ame­ri­cano a Kiev e nella rela­zione Poro­shenko viene defi­nito come «our insi­der in Ukraine». Nel 2006, quindi, Poro­shenko era già con­si­de­rato «l’uomo ame­ri­cano a Kiev». <

Nel cable in que­stione l’oligarca si pone come media­tore tra i pro­ta­go­ni­sti della rivo­lu­zione aran­cione, Tymo­shenko e Yushenko, spen­den­dosi in par­ti­co­lari sulle vicende poli­ti­che dell’allora governo ucraino. Nel 2006, poteva sem­brare piut­to­sto ovvio che un per­so­nag­gio di rilievo come Poro­shenko, non solo busi­ness­man ma anche poli­tico (sarà mini­stro degli esteri tra il 2009 e il 2010 e mini­stro del com­mer­cio nel governo dell’ex pre­si­dente Yanu­ko­vich) diven­tasse un «insi­der» degli Usa per com­pren­dere al meglio la situa­zione poli­tica del paese.

Ana­liz­zare quel cable con il senno di poi, per­mette però di riscon­trare una linea­rità negli eventi. Se ci fer­miamo solo agli ultimi sei mesi delle vicende poli­ti­che ucraine, potremmo met­tere in fila una serie di acca­di­menti che com­por­tano una pre­senza degli Stati uniti nelle dina­mi­che poli­ti­che dell’Ucraina, che non appa­iono certo improv­vi­sate. Nel momento in cui infu­ria la pro­te­sta di Maj­dan, con Yanu­ko­vich pre­sto mol­lato tanto dai suoi quanto da Putin, la neo­con Vic­to­ria Nuland, assi­stente del segre­ta­rio di Stato Kerry, si fa piz­zi­care nel corso di una tele­fo­nata infuo­cata con­tro l’Ue.

Durante la con­ver­sa­zione Nuland spon­so­rizza in modo ener­gico Yatse­niuk, l’uomo con­si­de­rato più vicino — in quella fase — agli ame­ri­cani. Qual­che set­ti­mana più tardi, dopo i cento morti di Maj­dan, la fuga di Yanu­ko­vich e la nego­zia­zione tra lea­der della pro­te­sta e piazza, esce fuori dal cilin­dro Yatse­niuk, nuovo pre­mier ucraino. Primo passo: accordo con il Fmi. Nei cable pre­senti sul data­base di Wiki­leaks, Yatse­niuk com­pare un paio di volte e viene descritto come per­sona «affi­da­bile» dai fun­zio­nari ame­ri­cani. Un gio­vane su cui contare.

Poco dopo la sua nomina, Yatse­niuk lan­cia l’offensiva con­tro le regioni orien­tali; un’azione mili­tare che dovrebbe garan­tire, a can­no­nate, quella pace neces­sa­ria per­ché si pos­sano svol­gere le ele­zioni pre­si­den­ziali. La pace non arriva, le urne invece si aprono nelle regioni occi­den­tali e matu­rano un suc­cesso tanto ampio, quanto pre­vi­sto, pro­prio dell’«insider» Poro­shenko. Due uomini «ame­ri­cani» alla guida di un paese uscito da un con­flitto di piazza e in preda a una guerra civile e al cen­tro di un con­ten­zioso non da poco con la vicina Rus­sia, ovvero la minac­cia di un allar­ga­mento a est della Nato.

Wiki­leaks ha un archi­vio vasto di mate­riale e natu­ral­mente la noti­zia del cablerela­tivo al neo pre­si­dente ucraino non poteva non sol­le­ti­care la curio­sità. Su Poro­shenko si espri­mono anche altri ame­ri­cani, nel corso degli anni. Nel 2006 la numero 2 della mis­sione diplo­ma­tica Usa a Kiev Sheila Gwal­ney, lo dipinge come un uomo «mac­chiato da cre­di­bili accuse di cor­ru­zione», die­tro le quali ci sarebbe stata l’allora pre­mier Tymo­shenko. Ma dal 2009, quando l’oligarca diventa mini­stro degli Esteri, le descri­zioni comin­ciano a cam­biare; Poro­shenko torna ad essere affi­da­bile: è di nuovo l’uomo giu­sto, al posto giusto.


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ITALIANO: http://www.voltairenet.org/article184236.html
FRANÇAIS: http://www.voltairenet.org/article183957.html 
ESPAÑOL: http://www.voltairenet.org/article183959.html 
 فارسى : http://www.voltairenet.org/article183978.html 
РУССКИЙ: http://www.voltairenet.org/article183985.html 
DEUTSCH: http://www.voltairenet.org/article184026.html


http://www.voltairenet.org/article183966.html

Germans slam Berlin for supporting Nazi Ukrainians

VOLTAIRE NETWORK | 25 MAY 2014 

German Foreign Minister Frank-Walter Steinmeier lost his temper at an election rally of the SPD (Social Democratic Party of Germany) on the Alexanderplatz in Berlin.

The Minister was defending his policy in Ukraine when he was interrupted by hecklers for his support for Ukrainian Nazis. He snapped back saying that they were the instigators of war, while the European Union and the social democrats stood for peace.

This is not the first time that the German government is criticized for its backing of Ukrainian extremists against Russia. The three former chancellors Helmut Schmidt, Helmut Kohl and Gerhard Schröder expressed their misgivings and even opposition vis-à-vis this policy. Last week Chancellor Angela Merkel was also booed at a campaign rally by voters chanting "No support for Nazis in Ukraine!".

Former chief of the intelligence service, Steinmeier has played a central role in Germany’s support for the KLA terrorists during the NATO war in Kosovo. This time around, he is credited with being the main architect of German support for Ukrainian Nazis.

Exports from Germany to Russia fell by 16% in January-February 2014.

VIDEO: http://www.youtube.com/watch?v=AX5m5swD-QU


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http://www.wsws.org/en/articles/2014/05/30/germ-m30.html

Germany: Leading journalists attempt to censor TV program


By Peter Schwarz 
30 May 2014


Since February, Germany’s second public television channel, the ZDF, has been broadcasting the political satire show “Die Anstalt” (the German word is used for a TV station as well as for a mental asylum) at regular intervals. Featuring 46-year-old Max Uthoff and 36-year-old Claus von Wagner, a younger generation of comedians has taken over from Urban Priol and Frank-Markus Barwasser, who headed the predecessor “News from the Anstalt”.

The first three editions of “Die Anstalt” were a refreshing antidote to the political coverage provided by the ZDF and other German media outlets. Using satire, the programs took up current issues and brought the public’s attention to themes which normally can only be learned about by carefully researching the Internet or reading the World Socialist Web Site.

Central themes of the programs were the revival of German militarism and the events in Ukraine. German President Gauck, Foreign Minister Steinmeier and Defense Minister von der Leyen, who all called for “an end to military restraint,” were subjected to the same merciless treatment as the lying reports in the German media about the events in Kiev.

The second edition of the program, on March 11, began with a depiction of the “Revolution” in Kiev’s central Maidan square. It was not presented as a “freedom struggle”, but rather as a revolt by forces which were mainly right-wing and on the payroll of vested interests. The fascist Right Sector was ruthlessly exposed, as was the corrupt oligarch Julia Timoshenko, played by comedian Jochen Busse.

The third edition on April 29 then addressed at length the propaganda pumped out by the German media aimed at provoking war with Russia.

One scene featured a chart with the names of five leading German journalists: Stefan Kornelius of the Süddeutsche Zeitung, Josef Joffe and Jochen Bittner from Die Zeit, and Günther Nonnenmacher and Klaus-Dieter Frankenberger of the Frankfurter Allgemeine Zeitung.

In addition, the chart showed the names of 12 transatlantic think tanks—including the Aspen Institute, the Trilateral Commission, the German Council on Foreign Relations and the German Academy for Security Policy—where “military heads, business leaders and politicians discuss foreign policy strategies in a discreet atmosphere,” as Wagner explained.

Lines on the chart traced the connections between the five journalists and the government-related think tanks. The result was a dense network. “Then all of these newspapers function as something like the local editions of the NATO press office,” Uthoff concluded.

The scene was based on material contained in the dissertation “The power over opinion. The influence of elites on key media and alpha journalists” by the media expert Uwe Krüger, and on a strategy paper by the Institute for Science and Policy (Stiftung Wissenschaft und Politik, SWP) on German foreign policy, which has also been commented on by the WSWS. Both papers had appeared in 2013 but were only known to a small circle. “Die Anstalt” has now made them available to a much broader audience.

The wide publicity sparked fierce protests against the media outlets that had been exposed. Uwe Krüger told the online magazine Telepolis: “I suppose that the pressure following a television show with millions of viewers is considerable. There has certainly been a shit storm of online articles, and apparently there were cancellations of subscriptions.”

The affected journalists reacted. They pressured the ZDF to ban similar revelations in the future. They responded to the exposure of their one-sided reporting and their incestuous relationship with the ruling elite by calling for censorship.

Josef Joffe wrote a letter of complaint to the editor of the ZDF, Peter Frey. Joffe evidently anticipated a favorable reaction because Frey is one of the “alpha journalists” exposed by Uwe Krüger. Together with Stefan Kornelius and Klaus-Dieter Frankenberger, Frey sits “on the Advisory Board of the Federal Academy for Security Policy, a think tank affiliated to the Federal Ministry of Defense,” Krüger writes.

Joffe justified his letter of complaint by arguing that the TV program had led “to many protest letters and cancellations of subscriptions”. He wrote that the treatment of the media in “Die Anstalt”—which is, of course, a satirical show!—was “not good journalism” and Krüger’s book was “not good science.” Joffe does not deny his close links to the institutions mentioned, but he does deny that they constitute “lobbies”. It is quite right and natural that many transatlantic organizations demanded “more armament”, he said.

In an interview with the online magazine Telepolis Krüger rejected Joffe’s complaint. He refuted Joffe’s assertion that the media and think tanks represented different points of view. His detailed analysis of the content revealed a broad degree of agreement by different newspapers regarding the following “major questions”: “that security should be defined in a broad sense, that German interests are to defended all over the world, that Germany should become more involved militarily and should maintain its partnership with the US, and that the German government should intensify its efforts to convince the German population on all of these issues.”

Stefan Kornelius defended his close ties to government-related think tanks in the NDR magazine Zapp. “This is my daily bread. I find it strange that I have to justify myself for this”, he said. The message of “Die Anstalt” affected all the newspapers, from Die Zeit to the FAZ and the taz. It posed the question: “Do we retain any legitimacy at all?” He did not want to destroy the forums where he worked as a journalist, Kornelius said.

Joffe’s letter of complaint to the editor of ZDF was evidently intended to put the authors of “Die Anstalt” under pressure—in other words to censor the program. To make this absolutely clear, Joffe also sent a “cease and desist” demand to the ZDF, as did Jochen Bittner.

If the ZDF agrees to such terms it commits itself not to repeat certain claims and to pay a heavy penalty in the event of a violation. Should it not agree to the terms the TV station could face legal action with resultant high legal costs and penalties.

A spokeswoman for the station told Telepolis that the ZDF rejected the cease and desist letter. No information was given to the public about other reactions inside the ZDF. The fourth episode of “Die Anstalt”, however, which was aired on May 27, does not bode well. It was disappointing, with little remaining of its former political freshness and aggressiveness. Uthoff and von Wagner concentrated their fire on the impending football World Cup, the FIFA and its corrupt boss Sepp Blatter—an easy target that does not tread on the toes of the German ruling establishment.



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Fascist propaganda on the front page of the Frankfurter Allgemeine Zeitung

By Peter Schwarz 
4 June 2014

“If one tells a big lie, and repeats it often enough, then people will believe it in the end.” This principle of Joseph Goebbels, the Nazi propaganda minister, today serves many in the German media as a guideline for writing columns opposing the widespread resistance to a revival of German militarism.

Since Berlin and Washington helped a right-wing regime come to power in Ukraine, and thereby provoked a dangerous conflict with Russia, leading German media outlets have not shrunk from any lie in order to justify this policy. They play down the significance of the fascists of Svoboda and the Right Sector, depict the resistance in eastern Ukraine as a Russian conspiracy, and denounce their critics for daring to “understand Putin.”

But that is not enough. In order to undermine the opposition to the “end of military reticence” announced by the German government, they are even prepared to deny the historical crimes of German imperialism.

On Monday, the front page of the Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ) carried a comment piece uniting both positions, headlined “One-sided friendship.” It combined hateful attacks on Putin and Russia with a presentation of the Second World War which one usually reads only in Nazi publications.


(francais / italiano)

L'Unione Europea di fronte … e di dietro

1) Chi ha sabotato il gasdotto South Stream / La NATO spinge la UE verso l’«adattamento strategico» (Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci)
2) I tabù della sinistra radicale (Spartaco A. Puttini)
3) L'Unione Europea di fronte a se stessa (Sergio Cararo)
4) Samir Amin: Les élections européennes de mai 2014. nouvelles étape dans l’implosion du projet européen

Leggi anche:

I mediocri (e basta) dell'Unione Europea:
1) I mediocri fondatori dell'Unione Europea (Jacques-Marie Bourget)
2) La Nato spinge l’Ue nella nuova guerra fredda (Manlio Dinucci)

Gas, nazi e media: la verità sulla guerra ucraina
Un'azienda del gas, un oligarca e un'agenzia di pubbliche relazioni senza scrupoli, un gasdotto che non s'ha da fare e impronte che portano molto vicino alla Casa Bianca. 
Franco Fracassi - 12 giugno 2014


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(en francais: Le sabotage du gazoduc South Stream
par Manlio Dinucci, Tommaso di Francesco

Chi ha sabotato il gasdotto South Stream

— Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci, 9.6.2014

Il governo bul­garo ha annun­ciato dome­nica scorsa di aver inter­rotto i lavori di costru­zione del South Stream, il gasdotto che dovrebbe tra­spor­tare gas russo nell’Unione euro­pea senza pas­sare per l’Ucraina. «Ho ordi­nato di fer­mare i lavori — fa sapere il pre­mier Pla­men Ore­shar­ski di un governo in crisi se non dimis­sio­na­rio -, deci­de­remo gli svi­luppi della situa­zione dopo le con­sul­ta­zioni che avremo con Bru­xel­les». La deci­sione è stata presa — manco a farlo appo­sta — il giorno prima dell’incontro tri­par­tito Russia-Ucraina-Ue sulle for­ni­ture di gas a Kiev.
Nei giorni scorsi il pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea, Josè Manuel Bar­roso, aveva annun­ciato l’apertura di una pro­ce­dura Ue con­tro la Bul­ga­ria per pre­sunte irre­go­la­rità negli appalti del South Stream.
Appena tre giorni prima, il 5 giu­gno, la dire­zione del Par­tito socia­li­sta bul­garo, che sostiene il governo Ore­shar­ski, dava per sicuro che il tratto bul­garo del gasdotto sarebbe stato costruito nono­stante la richie­sta di Bru­xel­les di fer­mare il pro­getto. «Per noi è d’importanza vitale», sot­to­li­neava il vice­pre­si­dente della com­mis­sione par­la­men­tare per l’energia, Kuiu­m­giev. E il pre­si­dente della Camera dei costrut­tori, Glos­sov, dichia­rava che «il South Stream è una boc­cata d’ossigeno per le imprese bulgare».

Che cosa è avve­nuto? Il pro­getto nasce quando, nel novem­bre 2006 (durante il governo ita­liano Prodi II), la russa Gaz­prom e l’italiana Eni fir­mano un accordo di par­te­na­riato strategico.

Nel giu­gno 2007 il mini­stro per lo svi­luppo eco­no­mico, Pier­luigi Ber­sani, firma con il mini­stro russo dell’industria e dell’energia il memo­ran­dum d’intesa per la rea­liz­za­zione del South Stream. Secondo il pro­getto, il gasdotto sarà com­po­sto da un tratto sot­to­ma­rino di 930 km attra­verso il Mar Nero (in acque ter­ri­to­riali russe, bul­gare e tur­che) e da uno su terra attra­verso Bul­ga­ria, Ser­bia, Unghe­ria, Slo­ve­nia e Ita­lia fino a Tar­vi­sio (Udine). Nel 2008–2011 ven­gono con­clusi tutti gli accordi inter­go­ver­na­tivi con i paesi attra­ver­sati dal South Stream.

Nel 2012 entrano a far parte della società per azioni che finan­zia la rea­liz­za­zione del tratto sot­to­ma­rino anche la tede­sca Win­ter­shall e la fran­cese Edf con il 15% cia­scuna, men­tre l’Eni (che ha ceduto il 30%) detiene il 20% e la Gaz­prom il 50%. La costru­zione del gasdotto ini­zia nel dicem­bre 2012, con l’obiettivo di avviare la for­ni­tura di gas entro il 2015. Nel marzo 2014 la Sai­pem (Eni) si aggiu­dica un con­tratto da 2 miliardi di euro per la costru­zione della prima linea del gasdotto sottomarino.

Nel frat­tempo, però, scop­pia la crisi ucraina e gli Stati uniti — con un lavoro all’unisono tra Casa bianca e diplo­ma­zia con­gres­suale dei Repub­bli­cani — pre­mono sugli alleati euro­pei per­ché ridu­cano le impor­ta­zioni di gas e petro­lio russo, che costi­tui­scono circa un terzo delle impor­ta­zioni ener­ge­ti­che dell’Unione europea.

Primo obiet­tivo sta­tu­ni­tense (scri­ve­vamo sul mani­fe­sto il 26 marzo) è impe­dire la rea­liz­za­zione del South Stream. A tale scopo Washing­ton eser­cita una cre­scente pres­sione sul governo bul­garo. Prima lo cri­tica per aver affi­dato la costru­zione del tratto bul­garo del gasdotto a un con­sor­zio di cui fa parte la società russa Stroy­tran­sgaz, sog­getta a san­zioni statunitensi.

Con tono di ricatto, l’ambasciatrice degli Stati uniti a Sofia, Mar­cie Ries, dichiara: «Avver­tiamo gli uomini d’affari bul­gari di evi­tare di lavo­rare con società sog­gette a san­zioni da parte degli Usa». Il momento deci­sivo è quando, dome­nica scorsa a Sofia, il sena­tore Usa John McCain, accom­pa­gnato da Chris Mur­phy e Ron John­son, incon­tra il pre­mier bul­garo tra­smet­ten­do­gli gli ordini di Washing­ton. Subito dopo Pla­men Ore­shar­ski annun­cia il blocco dei lavori del South Stream.

Una vicenda emble­ma­tica: un pro­getto di grande impor­tanza eco­no­mica per la Ue viene sabo­tato non solo da Washing­ton, ma anche da Bru­xel­les per mano dallo stesso pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea. Ci pia­ce­rebbe sapere che cosa ne pensa il governo Renzi, dato che l’Italia – come ha avver­tito allar­mato Paolo Sca­roni, ancora numero uno dell’Eni – per­de­rebbe con­tratti per miliardi di euro se venisse affos­sato il South Stream.


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L’Alleanza atlantica spinge la Ue verso l’«adattamento strategico»

di Manlio Dinucci
 | da il manifesto, 24 maggio 2014

Silenzio politico-mediatico sulla riunione Nato dei ministri della difesa svoltasi a Bruxelles il 21-22 maggio. Eppure non si è trattato di un incontro di routine, ma di un vertice che ha enunciato una nuova strategia che condizionerà il futuro dell’Europa. Basti pensare che 23 dei 28 paesi della Ue sono allo stesso tempo membri della Nato: di conseguenza le decisioni prese nell’Alleanza, sotto indiscussa leadership statunitense, inevitabilmente determinano gli indirizzi dell’Unione europea.

È stato il generale Usa Philip Breedlove – ossia il Comandante supremo alleato in Europa, nominato come sempre dal presidente degli Stati uniti – a enunciare a Bruxelles il punto di svolta: «Siamo alla decisione cruciale di come affrontare, nel lungo periodo, un vicino aggressivo». Ossia la Russia, accusata di violare il principio del rispetto delle frontiere nazionali in Europa, destabilizzando l’Ucraina come stato sovrano e minacciando i paesi della regione orientale della Nato.

La predica viene dal pulpito di una alleanza militare che ha demolito con la guerra la Jugoslavia, fino a separare anche il Kosovo dalla Serbia; che si è estesa a est, inglobando tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, due della ex Jugoslavia e tre dell’ex Urss; che è penetrata in Ucraina, assumendo il controllo di posizioni chiave nelle forze armate e addestrando i gruppi neonazisti usati nel putch di Kiev. Significativo è che alla riunione dei capi di stato maggiore dei paesi Nato, il 21 maggio a Bruxelles, abbia partecipato anche il generale Mykhallo Kutsyn, nuovo capo di stato maggiore ucraino. Contemporaneamente il segretario generale della Nato Rasmussen, in visita a Skopje, ha assicurato che «la porta dell’Alleanza rimane aperta a nuovi membri», come la Macedonia, la Georgia e naturalmente l’Ucraina. Continua dunque l’espansione a est.

La Nato, avverte il Comandante supremo in Europa, deve intraprendere un «adattamento strategico per affrontare l’uso da parte russa di improvvise esercitazioni, ciber-attività e operazioni coperte». Ciò «costerà denaro, tempo e sforzo». Il primo passo consisterà nell’ulteriore aumento della spesa militare Nato, già oggi superiore ai 1000 miliardi di dollari annui: a tal fine il segretario Usa alla difesa Chuck Hagel ha preannunciato una riunione, alla quale parteciperanno non solo i ministri della difesa ma anche quelli delle finanze, il cui scopo è spingere gli alleati europei ad accrescere la loro spesa militare.

Lo scenario dell’«adattamento strategico» Nato va ben oltre l’Europa, estendendosi alla regione Asia-Pacifico. Qui – sulla scia degli accordi russo-cinesi, che vanificano le sanzioni occidentali contro la Russia aprendole nuovi sbocchi commerciali a est – si prefigura la possibilità di una unione economica eurasiatica in grado di controbilanciare quella Usa-Ue, che Washington vuole rafforzare con la partnership transatlantica per il commercio e gli investimenti. Gli accordi siglati a Pechino non si limitano alle forniture energetiche russe alla Cina, ma riguardano anche settori ad alta tecnologia. È in fase di studio, ad esempio, il progetto di un grosso aereo di linea che, prodotto da una joint venture russo-cinese, farebbe concorrenza a quelli della statunitense Boeing e dell’europea Airbus. Un altro progetto riguarda la costruzione di un super-elicottero in grado di trasportare un carico di 15 tonnellate.

La questione di fondo, sostanzialmente ignorata nella campagna delle elezioni europee, è se l’Unione europea debba seguire gli Stati uniti nell’«adattamento strategico» della Nato che porta a un nuovo confronto Ovest-Est non meno pericoloso e costoso di quello della guerra fredda, oppure debba svincolarsi per intraprendere un suo cammino costruttivo respingendo l’idea di gettare la spada sul piatto della bilancia, accrescendo la spesa militare, per conservare un vantaggio che l’Occidente vede sempre più diminuire.

L’unico segnale che viene dalla Ue è un insulto all’intelligenza: la Commissione europea ha deciso che, dal 2014, nel calcolo del pil la spesa per sistemi d’arma sia considerata non una spesa ma un investimento per la sicurezza del paese. Per aumentare il pil dell’Italia investiamo dunque negli F-35.



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http://www.marx21.it/internazionale/europa/24113-i-tabu-della-sinistra-radicale.html

I tabù della sinistra radicale

di Spartaco A. Puttini
21 Maggio 2014


L'articolo è stato pubblicato nel n. 2/2014 della rivista "Gramsci oggi" (www.gramscioggi.org) e lo proponiamo ai nostri lettori come contributo alla discussione dei comunisti sul futuro dell'Europa, anche in vista delle elezioni del parlamento dell'UE.


Note sulla posta in gioco, a margine di una recensione

Aurélien Bernier, di Attac France, ha da poco pubblicato il suo libro sui tabù della sinistra radicale: La gauche radicale et ses tabous: pourquoi le Front de Gauche échoue face au Front national. Il libro non è stato ancora tradotto in italiano, forse non lo sarà mai. Appare per certi versi troppo legato alla dimensione politica transalpina per poter sperare di rompere la coltre di provincialismo che interessa la politica nostrana. Eppure parla anche a noi. Per questo vale la pena soffermarsi sul testo e sui suoi rilievi, perché può arrecare alcuni elementi di giudizio e riflessione anche alla sinistra italiana, che mai come ora procede a tentoni, a fari spenti nella nebbia.

Tratta dell’ascesa del Front national, del suo sfondamento nelle classi popolari e della modifica di indirizzo che, almeno apparentemente, ha impresso la nuova leadership di Marine Le Pen. Ma il soggetto vero dell’analisi e della ricostruzione di Bernier è la sinistra radicale francese. Con la sua ambizione di contenere l’estrema destra e intercettare il malcontento verso le politiche euro-liberali praticate dai socialisti e dagli esponenti della destra ex-gollista convertita al neoliberismo.

Bernier ricostruisce le varie fasi in cui, dal 1984 ad oggi, l’elettorato comunista e apparentato si è assottigliato, specie a seguito della mutation, il processo di allontanamento dalle proprie radici ideologiche e di cultura politica, mentre parallelamente cresceva la fiamma lepenista. Sulle prime il Front national si è affermato presso i settori già collocati a destra dello spettro politico, in zone e milieu nei quali la sinistra comunista e anche i socialisti avevano tradizionalmente un forte insediamento e dove la destra tradizionale neogollista o giscardiana appariva più fragile. Successivamente, grazie alla progressiva perdita di credibilità presso le classi popolari dei socialisti, che con Mitterand aprono la parentesi della scelta neoliberista per non chiuderla mai più, il FN comincia la penetrazione anche tra le fila delle classi lavoratrici deluse dall’esperimento socialista, disegnando una prospettiva inquietante. Anche il PCF subisce un drastico calo di consensi, per avere, all’inizio, seguito i socialisti nella politica del rigore.

Ma in prospettiva è ben altro il terreno della disfida che si profila. Il vero punto di svolta è visto dall’autore nel cambiamento di indirizzo che Le Pen impartisce alla sua creatura nel corso della campagna contro l’Europa di Maastricht. Se, fino ad allora, Le Pen si era caratterizzato come un esponente della vecchia destra anti-repubblicana e vichyssoise (1) che mostrava ammirazione per Reagan, fastidio per l’invadenza dello Stato, e riservava le sue premurose attenzioni per il mondo delle imprese, specie piccole, che dipingeva come tartassate dal fisco, dopo Maastricht cambia tutto. O quasi. Il FN diviene il vessillifero della lotta contro il mondialismo della globalizzazione neoliberista e contro l’integrazione europea, che ne è lo strumento per soggiogare i popoli europei, cancellare le nazioni e soprattutto la Francia. Con questa nuova postura, integrata dalla campagna per la sicurezza e contro l’immigrazione, la crescita della fiamma è continua e costante e gli score che Le Pen fa registrare alle presidenziali paiono crescenti e aprono all’estrema destra ben altre prospettive.

Ma sulle prime la bandiera della questione nazionale e della lotta contro l’europeismo non viene lasciata in esclusiva al FN. In occasione del referendum del 1995 per chiedere ai francesi la loro sanzione del Trattato di Maastricht tutte le principali famiglie politiche si spaccano trasversalmente. Del resto, come hanno sostenuto Hix e Lord (2), di fronte al processo d’integrazione europeo le forze politiche non si polarizzano solamente in senso orizzontale lungo la dicotomia destra-sinistra ma anche in senso verticale, lungo la dicotomia difesa della sovranità-devoluzione dei poteri all’unione. Così alla campagna contro Maastricht dell’estrema destra fa da contraltare quella del Partito comunista francese, custode della sovranità e dell’idea di Nazione declinata a sinistra, sulla scorta del precedente della rivoluzione giacobina e della Resistenza. Durante la campagna referendaria del 1995 per la ratifica del Trattato a sinistra si aggiunge ai “no” Jean-Pierre Chevènement, a destra si schierano contro Maastricht Philippe Séguin e Charles Pasqua. I principali partiti (socialisti, RPR e UDF (3) ) sostengono il sì che la spunterà nelle urne, ma di pochissimo. Il risultato mostra tutta la potenzialità della critica radicale all’integrazione liberista europea. La strada sarebbe aperta per la costruzione di una vera alternativa di sinistra, sovranista e di classe. Invece viene fatto all’estrema destra un insperato regalo.

- Lo scivolamento dei comunisti: da euroscettici a eurocostruttivi

Purtroppo di lì a poco il PCF, con la segreteria di Robert Hue, imboccherà la strada della mutation e cercherà di riportare i comunisti all’intesa con i socialisti e con i verdi in quello che sarà il governo della “sinistra plurale”, che di plurale avrà solo la composizione ministeriale, l’indirizzo restando fermamente fissato sulla politica liberale scelta anni addietro dal PS. Nel giro di qualche mese Hue e i dirigenti che gli si stringono attorno cambiano discorso sull’Europa e si convertono al fumoso, inconcludente, ingenuo e poco credibile refrain dell’altra Europa possibile. Hue stesso si definisce “eurocostruttivo”. C’è chi, non senza ragione, lamenta una conversione vera e propria. Alle elezioni europee del 1999 il PCF si camuffa dietro l’insegna di una lista alter-europeista e i suoi massimi dirigenti sostengono ormai che per cambiare in Francia occorra cambiare l’Europa, vaneggiando di una possibile Europa sociale. L’inversione dei fattori è ormai fatta, e in questo caso cambia il risultato; la svolta del PCF è smaccatamente bocciata dalle urne, la lista della sinistra radicale (che aveva imbarcato anche esponenti favorevoli all’aggressione alla Jugoslavia) prende meno di quanto aveva raccolto il solo PCF nella tornata precedente e appare per quello che è: un insperato regalo all’estrema destra.

Al discredito per essere rimasto nel governo Jospin, a rimorchio del PS senza riuscire ad incidere in alcun modo, il PCF somma allora l’errore della metamorfosi che imprime al suo discorso sull’Europa. Dal fermo, patriottico e sociale al contempo, “no” della gestione Marchais, paladina della difesa della sovranità nazionale fino allo slogan “produciamo francese”, si passa alla versione euro-critica e alter-europeista. Sulla scia di un movimento alter-mondialista di cui oggi non si ha più nemmeno il ricordo (ma che in quegli anni veniva dipinto da molti come la superpotenza del futuro) si inizia a sostenere la litania: “Un’altra Europa è possibile”, ma curandosi bene dal poter indicare come arrivarci.

Bernier fa notare che il discorso del PCF in mutazione si assimila progressivamente e velocemente alla rimozione della questione nazionale, della questione della difesa della sovranità come spazio di esercizio della democrazia e strumento per la difesa e l’avanzata delle rivendicazioni di classe. Nella sinistra radicale inizia a prevalere la visione strabica e ottusa dei gruppi trotzkisti, che ripudiano la questione nazionale come destrorsa, abbandonandola nelle mani della demagogia lepenista. E’ questo passaggio a rendere possibile l’accordo di governo tra il PCF e i socialisti di Jospin nel 1997. Al sì dei socialisti per l’adozione della moneta unica si contrapponeva fermamente il no dei comunisti all’euro. Dietro la coltre dell’impegno (verbale) a cercare di cambiare questa concreta Unione europea, tante cose sarebbero passate in fanteria nell’arco di una breve stagione.

Successivamente, un altro referendum, quello del 4 marzo 2005 per ratificare il Trattato Costituzionale Europeo, segnerà la vittoria dei “no” all’integrazione e mostrerà come i cittadini francesi abbiano saputo scorgere nel processo d’integrazione europeo un chiaro attacco alla loro sovranità, ai loro diritti, al loro tenore di vita. In breve tempo il Front national resta l’unico partito organizzato in campo a sostenere una netta linea euroscettica e cerca di affermarsi come autentica forza anti-mondialista e anti-sistema. Chevènement continua, beninteso, a sostenere la sue ragioni, ma da una posizione sempre più isolata, come un profeta nel deserto della sinistra legata al carrozzone liberal-europeista del Ps. A destra Séguin viene marginalizzato e riassorbito da Chirac, mentre Pasqua tenta per una breve stagione la strada di una propria forza autonoma e sovranista di destra; il tentativo riscuote un certo successo sulle prime ma poi si sgonfia per varie ragioni. Il discorso del PCF continua ad essere confuso, pur restando il partito ancorato saldamente sulla linea del “no” nel referendum del 2005.

L’esplosione del FN è rallentata da scissioni interne e dalla scelta del vecchio leader di cavalcare la tigre della lotta all’immigrazione e l’islamofobia, strade che gli vengono ben presto sbarrate dalla deriva impressa da Sarkozy alla destra tradizionale francese. Ma i nodi prima o poi vengono al pettine e la crisi scopre i guasti causati dall’euro e dalla scelta europea presso un pubblico via via più largo. Il Front national è ben appostato per approfittarne. La sinistra radicale si ritrova a dover ripensare tutta la propria strategia.

Con la nascita del Front de Gauche, che tiene assieme il PCF, l’ex sinistra socialista di Mélenchon e un’altra formazione di origine trotzkista, una certa radicalità sembra ritrovata. Durante l’ultima campagna per le presidenziali Mélenchon sosteneva l’idea di disobbedire ai trattati europei. Una posizione che però manca al fondo di chiarezza, circa le eventuali caratteristiche, conseguenze e implicazioni di simile parola d’ordine. Se alle presidenziali, per la prima volta dall’era Marchais, il candidato dei comunisti e della sinistra radicale raccoglie più del 10%, alle politiche il Front viene un po’ ridimensionato (sotto il 7%).

Eppure la sfida per la sinistra transalpina, e in prospettiva non solo transalpina, è chiara: la lotta per l’egemonia nella società e per rispondere ai bisogni delle classi popolari è ingaggiata, o la vinceranno i comunisti con quanti alleati di sinistra riusciranno ad aggregare attorno a un loro progetto, o la vincerà il Front national (4).

- La posta in gioco, oggi, in Europa

Per coltivare la possibilità della vittoria, Bernier mette al centro delle sue riflessioni la necessità che la sinistra radicale abbandoni tre tabù che caratterizzano il suo discorso sull’Europa e auspica il ritorno alla radicalità con la quale il PCF combatteva la sua battaglia sovranista da sinistra (un riconoscimento e un invito significativo da parte di chi non proviene, per filiazione ideologica, dall’ortodossia marxista-leninista).

I tre tabù sono: il protezionismo (che viene oggi rifiutato in favore della scelta liberoscambista), la sovranità nazionale (dipinta come di destra o non considerata, e su questo si potrebbe scrivere un libro); l’Europa (a cui si guarda come ad un feticcio che non ci si può rifiutare di idolatrare, pena il rischio di essere additati come nazionalisti). Quanto di questo discorso riguarda anche noi!

Non mettere in discussione il liberoscambismo e la libera circolazione dei capitali porta inevitabilmente ad ingessare sul nascere qualsiasi ipotetica politica alternativa di sinistra. Non affrontare il nodo ha ricadute evidenti. Supponiamo che un esecutivo di sinistra voglia rivedere il peso dei carichi fiscali, redistribuendo le imposte in senso progressivo. I maggiorenti potranno spostare i capitali all’estero, e la fuga dei capitali metterebbe in panne la politica economica del governo. Se si volesse difendere il mondo del lavoro dal dumping salariale e dalla concorrenza al ribasso dei diritti, poi, non ci si potrebbe che scontrare con la possibilità delle imprese di delocalizzare e con l’effetto di induzione alla svalutazione interna svolto dalla moneta unica. Occorre tenere in considerazione che l’architettura delle politiche neoliberiste (che costituisce la base e l’essenza dell’Unione europea) funziona anche come un impedimento all’implementazione di politiche espansive e redistributive ispirate ai principi della democrazia sociale. Ma non ditelo a Barbara Spinelli e ai suoi accoliti…

Per questo acquisisce un significato strategico la questione dell’appropriazione della bandiera della sovranità nazionale da parte della sinistra di classe. Bernier ci dice che ultimamente il Front de Gauche si sta riposizionando, nonostante gli errori dell’era Hue, e nonostante la crisi che attraversano le relazioni tra le sue componenti. Ma per riuscire ad adottare una postura potenzialmente vincente che possa mettere la sinistra radicale francese in grado di contrastare il montare dell’estrema destra è necessario rompere gli ultimi tabù e passare dalla protesta alla proposta; e l’unica proposta possibile è quella di propendere per la rottura unilaterale dei trattati in modo da riconquistare la sovranità, conditio sine qua non di ogni cambiamento progressivo.

La prospettiva scelta da Bernier è certo particolare. Molte altre sarebbero le considerazioni da fare sulla crisi della sinistra radicale (in Francia e in Europa) e sulla crescita del Front national e di formazioni di estrema destra, dinamiche nelle quali giocano molteplici fattori. Ma la scelta operata dall’autore tiene conto della questione che oggi è indubbiamente la più rilevante in questa parte di mondo, anche se andrebbe in qualche modo sottolineato con maggior forza, a nostro personale giudizio, il parallelismo che corre tra l’abbandono della questione nazionale da parte dei partiti comunisti e la rottura con il loro bagaglio ideologico-strategico di matrice marxista-leninista. Più si allontanano dall’ortodossia, più rimuovono (quando non ripudiano) la questione nazionale.

Le ricadute e le conseguenze del discorso dell’autore e della sua ricostruzione sono chiare: solo impugnando l’arma della sovranità da riconquistare e rifiutando il discorso integrazionista e liberoscambista (cavalli di Troia del neoliberismo) sarà possibile proporre in modo credibile politiche che possano invertire l’attuale tendenza reazionaria e difendere gli interessi delle classi popolari, impedendo al contempo alla demagogia dell’estrema destra di approfittare della legittimazione che le viene dall’avere il sostanziale monopolio della questione nazionale, seppur malamente declinata, e dall’apparire come l’unica forza radicalmente anti-sistema.

La scelta di porsi sullo scivoloso, angusto e poco credibile (perché non fattibile) terreno della riforma della costruzione europea, dell’accettazione della moneta unica e della promozione di una futuribile “altra Europa possibile” lascia la sinistra radicale disarmata e pertanto incapace di incanalare il disagio delle classi popolari e di fette crescenti della popolazione che vengono spinte verso l’astensionismo o sono attratte da formazioni demagogiche.

La scelta che occorre avere il coraggio di operare è cercare di recuperare consenso nell’astensione e nella disaffezione promuovendo una politica più coraggiosa, radicale e realista, anziché limitarsi a cercare di raccogliere le schegge perse dalle formazioni socialdemocratiche nella loro continua marcia verso destra, magari in vista di un nuovo accomodamento, che sul breve periodo può premiare con qualche eletto ma che sul medio periodo lascia la sinistra radicale in mutande

- E in Italia? Anche in Italia… (Consiglio ai sordi)

Sono considerazioni che si stanno facendo strada un po’ ovunque, in Francia come in Italia. Da questo punto di vista un certo parallelismo è già percepibile. Con tutte le differenze del caso, sia chiaro. Intanto perché in Francia c’è un Front de Gauche (anche se malandato) costruito attorno a un Partito comunista, anche se debilitato da una mutazione con la quale non riesce a chiudere i conti in modo convincente, passaggio obbligato per rilanciarsi abbeverandosi alle proprie salde radici, patriottiche e internazionaliste. Al Front de Gauche stesso l’autore chiede, in modo convincente, più coraggio nel rompere i tre tabù che menzionavamo. In Italia, invece, non manca solamente un fronte di sinistra degno di questo nome. Come prendere seriamente formazioni costruite attorno a guru che credevano che non fosse più centrale il conflitto capitale-lavoro o che non esistesse più l’imperialismo? Come pretendere di sostituire l’attività strutturata delle vecchie sezioni con il salotto di Barbara Spinelli? (anche al netto delle riflessioni che si possono e devono fare circa le strampalate sciocchezze che da quel luogo provengono). Ma soprattutto in Italia manca un partito comunista che voglia davvero essere tale.

Nel contesto attuale la sua costruzione è certamente possibile. Ma per rendere il progetto vitale occorrerebbe risultare in grado di dare una speranza e una prospettiva di cambiamento anzitutto alle giovani generazioni, le più schiacciate dalla crisi. Per questo oggi, in Italia, i comunisti dovrebbero anzitutto costruire a partire dalla risposta da dare alle due questioni cruciali del nostro tempo: la questione sociale e la questione nazionale. E dovrebbero farlo a partire dalle risposte che dovrebbero dare all’attuale crisi europea, che rappresenta il nodo gordiano da tagliare. Da questo punto di vista, analogamente alle riflessioni svolte da Bernier sul panorama politico francese, i comunisti italiani non possono sostenere le stesse traballanti castronerie della sinistra radicale alter-europeista e dovrebbero caratterizzarsi come i veri difensori e sostenitori del ritorno alla sovranità nazionale, in tutte le sue dimensioni, ivi compresa quella monetaria. Chi si trincera dietro la presunta impossibilità dell’esercizio della sovranità è già fuori dalla storia, fuori dal campo di contesa politico. Chi rifiuta di dare fiducia al proprio popolo non può chiederla. Chi pretende che l’Italia non ce la possa fare si è già arreso, come può essere un interlocutore, un punto di riferimento?

In Italia vi sarebbe, tra l’altro, il vantaggio che lo spazio della critica alla Ue e all’euro non è ancora egemonizzato da alcuna formazione demagogica e di destra (affine al liberismo), a differenza che in Francia, dove il FN ha occupato abilmente quel vuoto. E’ vero che determinate formazioni demagogiche e di destra anche in Italia cercano di posizionarsi in tal senso. Ma sono all’inizio e godono, al momento, di una credibilità limitata, a causa dei loro trascorsi nei governi Berlusconi, dove non hanno dato affatto buona prova di sé.

A maggior ragione i comunisti dovrebbero porsi con urgenza l’obiettivo di presidiare questo spazio, evitando di cadere nella trappola illogica per cui se alcune formazioni di destra sostengono (a parole e a modo loro) determinate battaglie, bisogna negarne a priori l’eventuale validità. La Terra resta sferica e l’euro resta una trappola anche se lo dicono il Front national o la Lega Nord. Una ragione in più per non abbandonare determinate parole d’ordine.

Una delle parole d’ordine che la sinistra nostrana ha abbandonato da tempo è quella relativa alla difesa della sovranità nazionale. Se è vero che né il movimento socialista né la nuova sinistra avevano mai compreso la valenza e la portata della questione nazionale, per il movimento comunista valgono tutt’altre riflessioni (si pensi alla Resistenza, per non citare che un passaggio). La rimozione di questa radice dal proprio DNA è andata di pari passo con lo snaturamento e la mutazione. Passaggi che hanno condotto i comunisti al lumicino in cui ora si trovano. Per uscire da questo stato di minorità occorre tornare se stessi.

Il passaggio delle prossime elezioni europee rappresentava un’ottima occasione per mettere in campo il progetto di costruzione di una sinistra patriottica e di classe e i comunisti italiani avrebbero dovuto posizionarsi per agire in quest’ottica. Invece hanno preferito accodarsi, in base ad una logica suicida, alla costruzione di una lista che difende la solita aria fritta alter-europeista, la lista Tsipras, che di fatto è la lista Spinelli. Tale lista ha risucchiato tutta la sinistra radicale. Persino la componente del Prc che si definisce comunista ha applaudito all’operazione. Segno che da quelle parti, ormai, ci si pone ben pochi problemi in merito alla direzione di marcia. Coloro che sbeffeggiavano Bertinotti ieri, oggi gli danno ragione, scimmiottandone le gesta.

I risultati della scelta di pilotare i comunisti italiani nella lista Tsipras-Spinelli sono sotto gli occhi di tutti, erano scontati e prevedibili. Tutto si può rimproverare ai promotori della lista, tranne che non siano stati chiari sin dal principio. Ora basterebbe aprire gli occhi, e dirsi con franchezza che un conto è lavorare ad un progetto unitario, un altro è lavorare ad un aggregato confusamente di sinistra. Almeno ora, si dovrebbe scegliere con chiarezza di riconquistare ai comunisti la questione della sovranità nazionale, di riconquistare se stessi. Lavorando per costruire un fronte della sinistra sovranista e di classe in vista delle prossime elezioni politiche. Occorre scegliere, altri lo hanno fatto. Che si dimostri di voler fare sul serio. All’Italia e ai lavoratori italiani, ai tantissimi giovani senza futuro, serve ben altra offerta politica… e gli stessi militanti e simpatizzanti della sinistra comunista meritano di meglio.


NOTE

1) Vichysta”, sostenitrice ed erede del regime collaborazionista di Vichy.


2) S. Hix, C. Lord, Political Parties in the European Union; Londra, MacMillan 1997, p.50. Cit. in: M. PierMattei, Partiti d’Europa. Integrazione e federazioni transnazionali; in: “Memoria e Ricerca”, n.24 2007.

3) RPR, Rassemblement pour la République era la formazione neogollista guidata da Jacques Chirac, l’UDF, Union pour la démocratie française, era il partito composto dal centro destra democristiano e liberale degli eredi di Valéry Giscard d’Estaing.

4) “Noi abbiamo l’impressione di trovarci impegnati in una corsa contro il tempo con l’estrema destra. Il popolo che rigetta il sistema sceglierà tra la nostra proposta e la loro”; dichiarazione di Mélenchon a “Sud-Ouest”, 23 marzo 2013


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http://contropiano.org/politica/item/24465-l-unione-europea-di-fronte-a-se-stessa

L'Unione Europea di fronte a se stessa

•  Venerdì, 06 Giugno 2014
•  Sergio Cararo

Tra poco meno di un mese si apre il semestre europeo presieduto da Renzi e dall'Italia. Questo rappresenta un test ambivalente sia sul piano della governance che su quello dell'opposizione popolare e delle alternative. Può essere l'occasione per portare più a fondo il confronto su questioni rilevanti abbondantemente rimosse o sottovalutate ma che peseranno come macigni sulle prospettive del mondo reale nel quale ci è toccato di vivere.

La Commissione Europea ha pubblicato in questi giorni un documento sulla Strategia europea di sicurezza energetica. Si tratta per ora solo di una proposta che ha l’obiettivo di definire le linee guida e di proporre azioni per affrontare le principali sfide energetiche che l’UE si troverà ad affrontare nel breve, medio e lungo periodo. L’Unione Europea infatti importa il 53% dei suoi consumi totali, 90% nel caso del petrolio e 66% in quello del gas naturale. E' evidente dunque il livello di “vulnerabilità” di uno dei principali blocchi economici del mondo in termini di risorse energetiche, il che rende l'Unione Europea un anello ancora debole su questo terreno. E' evidente come i due conflitti scatenati alle porte di casa – a sud in Libia e ad est in Ucraina – segnino un livello elevato di questa vulnerabilità.

Un intervento militare fortemente voluto da una potenza europea come la Francia in Libia e una aperta ingerenza di paesi europei come Germania, Polonia e repubbliche Baltiche in Ucraina, hanno provocato un doloroso paradosso: la ricerca di una invocata stabilità ha provocato invece il massimo di instabilità. E adesso metterci rimedio sta diventando sempre più difficile, oltrechè sanguinoso per le popolazioni coinvolte sia in Libia che in Ucraina. Una volta deposto e ucciso Gheddafi o deposto e costretto alla fuga Yanukovich, le operazioni di “regime change” non hanno prodotto nuove e accondiscendenti leadership nei paesi destabilizzati.

Anche perchè a rendere le cose difficili per l'Unione Europea non sono tanto i gruppi armati in Libia o le repubbliche popolari secessioniste nell'Ucraina orientale, quanto il primus inter pares tra i paesi alleati: gli Stati Uniti.

Gli Usa hanno la percezione esatta della vulnerabilità energetica dei loro partner/competitori europei. Dopo aver incassato la sfida dell'avvento dell'euro, della competizione sulle tecnologie e della barriera deflazionista che ha impedito agli Usa di scaricare sull'Europa gli effetti inflattivi del loro quantitative easing come nei “bei tempi passati” del Washington Rule, gli Stati Uniti hanno deciso di giocare duro con e contro i loro alleati nella Nato. Hanno così cominciato a colpire sui nervi scoperti. Hanno lasciato la Francia giocare alla grandeur nella destabilizzazione della Libia e hanno bruscamente alzato l'asticella del conflitto con la Russia. In pratica due dei principali serbatoi delle forniture energetiche dell'Europa sono diventati incerti e i rubinetti si stanno chiudendo, aggiungendoci un pizzico di cinismo attraverso cui i danneggiati (gli europei) dovrebbero anche mostrarsi soddisfatti di essersi fatti male da soli.

Non solo. Gli Stati Uniti stanno infatti agendo apertamente non solo per allargare la faglia tra Unione Europea e Russia ma anche quella all'interno della stessa Ue tra paesi fondatori e paesi della periferia est. Nel suo viaggio in Polonia che ha preceduto il vertice del G7 a Bruxelles, il presidente statunitense non solo ha incontrato il “suo uomo di cioccolata a Kiev” cioè il neopresidente ucraino Poroshenko (che sin dal 2006 era ritenuto l'interlocutore privilegiato di Washington) ma ha anche incontrato a parte i leader cechi, slovacchi, baltici, bulgari e rumeni. Una sorta di corte degli agenti statunitensi dentro l'Unione Europea e la Nato. E in questo contesto ha reso noto di voler stanziare quasi un miliardo di dollari per installare soldati e mezzi militari statunitensi nei paesi dell'Europa dell'Est, molto più a oriente delle storiche basi militari di Ramstein in Germania o di Aviano in Italia, molto più a ridosso della Russia.

Le dichiarazioni bellicose di Obama contro Putin e la Russia lasciano intravedere che l'asticella della tensione verrà tenuta alta o alzata ulteriormente perchè, come ricorda Brzezinski nella sua opera omnia (“La Grande Scacchiera”), la Nato è lo strumento principale per interferire sulla politica europea proprio in quanto fattore politico-militare, ovvero il punto ancora debole della UE per potersi definire e agire come un polo imperialista compiuto.

Alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco (gennaio), avevamo visto i ministri degli Esteri e della Difesa tedeschi cominciare a parlare il linguaggio della grande potenza e non solo sul piano economico. La Francia continua a portare come unica dote - per non essere retrocessa tra i Pigs – il suo arsenale nucleare e un discreto complesso militare-industriale e coglie ogni occasione – con il gollista Sarkozy o con il galletto Hollande – per mostrarsi bellicista e oltranzista oltre ogni raziocinio. L'Italia del partito di Maastricht (Amato, Ciampi, Prodi, Monti, Letta, Renzi) galleggia, evoca scenari distensivi ma poi ha detto di si a tutto: dalla base di Vicenza al Muos, dagli F35 fino alla clamorosa doppia firma di Letta al G8 dello scorso anno a Mosca, sia sul documento voluto dagli Usa contro la Siria che al documento voluto dalla Russia contro l'intervento in Siria.

La politica militare e le fonti energetiche restano dunque i due punti di vulnerabilità delle ambizioni al polo imperialista europeo come competitore globale. Da qui si capisce la posta in gioco e il senso delle affermazioni di Martin Feldstein quando profetizzava nel 1997 che “l'introduzione dell'euro avrebbe portato alla discordia e alla guerra sia tra gli Stati Uniti e l'Europa che dentro l'Europa”.

Adesso ci siamo dentro fino al collo. Le guerre e l'instabilità alle periferie sud ed est dell'Unione Europea sono la conseguenza di questa sfida competitiva su scala globale, una classica competizione interimperialista direbbero – e ragione – i classici.

Con la crisi che continua a mordere, la lotta per le risorse che si fa più violenta, con i rimedi con non funzionano e lo sviluppo disuguale che si fa più acuto – il salto della cavallina, direbbe Alvin Toffler – i pericoli di una rottura storica, della guerra, si fanno più reali, quasi materializzabili. Se ne accorgono quelli che hanno a disposizione tutte le informazioni, non se ne accorgono invece quelli che dovrebbero mettersi di traverso. Per venti anni li hanno tenuti ben rincoglioniti con l'antiberlusconismo, adesso li distraggono con una leadership giovanile e ansiosa di fare il lavoro sporco che attendevano di fare sin dal 1992, proprio con la nascita di quell'Unione Europea che in tanti si ostinano a non voler vedere come il problema. L'occasione del Controsemestre popolare in opposizione al semestre europeo a guida italiana offre l'opportunità di recuperare il tempo e i passi perduti. Nella piattaforma per la manifestazione del 28 giugno e della campagna per il controsemestre per la prima volta, dopo troppo tempo, c'è anche il tema dell'opposizione alla guerra. C'è tanto da lavorare e da qualche parte occorre cominciare.

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LES ÉLECTIONS EUROPÉENNES DE MAI 2014. NOUVELLES ÉTAPE DANS L’IMPLOSION DU PROJET EUROPÉEN


Auteur: Samir Amin

  1. La construction européenne a été conçue et mise en œuvre dès l’origine pour garantir la pérennité d’un régime de libéralisme économique absolu. Le traité de Maastricht (1992) renforce encore ce choix fondamental, et interdit toute autre perspective alternative. Comme le disait Giscard d’Estaing : « le socialisme est désormais illégal ». Cette construction était donc par nature anti-démocratique et annihile le pouvoir des Parlements nationaux élus, dont les décisions éventuelles doivent rester conformes aux directives du pouvoir supranational défini par la pseudo-constitution européenne. Le « déficit de démocratie » des institutions de Bruxelles, à travers lesquelles opère la dictature néo-libérale, a été et demeure consciemment voulu. Les initiateurs du projet européen, Jean Monet et autres, n’aimaient pas la démocratie électorale et se donnaient l’objectif d’en réduire le « danger », celui d’engager une nation hors des sentiers tracés par la dictature de la propriété et du capital. Avec la formation de ce que j’appelle le capitalisme des monopoles généralisés, financiarisés et mondialisés, à partir de 1975, l’Union Européenne est devenue l’instrument du pouvoir économique absolu de ces monopoles, créant les conditions qui qui permettent d’en compléter l’efficacité par l’exercice parallèle de leur pouvoir politique absolu. Le contraste droite conservatrice/gauche progressiste, qui constituait l’essence de la démocratie électorale évoluée, est de ce fait annihilé, au bénéfice d’une idéologie de pseudo « consensus ».
    Ce consensus repose sur la reconnaissance par les opinions générales en Europe que les libertés individuelles et les droits de l’homme sont garantis, au moins dans la majorité des Etats européens sinon dans ceux de l’ex Europe orientale, mieux qu’ailleurs dans le monde. C’est exact et à l’honneur des peuple concernés. Néanmoins la double dictature économique et politique des monopoles généralisés annihile la portée de ces libertés, privées de leur capacité de porter en avant un projet de société qui transgresserait les limites imposées par la logique exclusive de l’accumulation du capital.
    Par ailleurs l’unité européenne a été popularisée avec l’argument alléchant que celle-ci conditionnait l’émergence d’une puissance économique égale à celle des Etats Unis et autonome par rapport à celle-ci. Mais en même temps la constitution européenne combinait les adhésions à l’Union Européenne et à l’OTAN, en qualité d’allié subalterne des Etats Unis. Le nouveau projet d’intégration économique atlantique devrait dissiper les mensonges de cette propagande : le marché européen sera soumis aux décisions du plus fort, les Etats Unis. Adieu l’indépendance de l’Europe !
    2. Mais le régime économique libéral absolu, imposé par la constitution européenne, n’est pas viable. Sa raison d’être exclusive est de permettre la concentration croissante de la richesse et du pouvoir, au bénéfice de l’oligarchie de ses bénéficiaires, fût-ce au prix d’une austérité permanente imposée aux classes les plus nombreuses, à la régression des acquis sociaux, voire au prix de la stagnation économique. La spirale infernale de l’austérité produit pour l’ensemble européen la croissance permanente des déficits et de la dette (et non leur réduction comme le prétend la théorie économique conventionnelle, sans fondements scientifiques). Les exceptions (l’Allemagne aujourd’hui) ne peuvent l’être que parce que les autres sont, eux, condamnés à subir leur sort. L’argument avancé – « il faut faire comme l’Allemagne » – n’est pas recevable : par sa nature même le modèle ne peut pas être généralisé.
    Néanmoins le pouvoir absolu exercé par les monopoles généralisés et l’oligarchie de leurs serviteurs ne permet pas sa remise en cause par les « opinions générales ». Ce pouvoir absolu est déterminé à défendre jusqu’au bout et par tous les moyens ses privilèges, ceux des oligarchies, seules bénéficiaires de la concentration sans limite de la richesse.
    3. Les élections européennes de mai 2014 traduisent le rejet par la majorité des citoyens de « cette Europe » (sans nécessairement être conscients que « l’Europe » ne peut être autre). Avec plus de la moitié d’abstentionnistes dans le corps électoral (plus de 70% d’abstentions dans l’Est européen), 20% de votes en faveur de partis d’extrême droite se déclarant « anti-européens », les listes dites « europhobes » en tête en Grande Bretagne et en France, 6% en faveur de partis de la gauche radicale critique de Bruxelles, cette conclusion s’impose. Certes, en contrepoint, la majorité de ceux qui ont participé au vote, se réclament toujours du (ou d’un) projet européen, pour les raisons données plus haut (« l’Europe garante de libertés et des droits ») et parce qu’ils pensent encore – avec beaucoup de naïveté – qu’une « autre Europe » (des peuples, des travailleurs, des nations) est possible, alors que la construction européenne – en béton armé – a été conçue pour annihiler toute éventualité de sa réforme.
    Le vote de défiance d’extrême-droite porte en lui des dangers qu’on ne doit pas sous-estimer. Comme tous les fascismes d’hier, ses porte-paroles ne mentionnent jamais le pouvoir économique exorbitant des monopoles. Leur prétendu « défense de la nation » est trompeuse : l’objectif poursuivi est – outre l’exercice de leur pouvoir dans les différents pays concernés de l’Union Européenne – le glissement de l’Union Européenne de son régime actuel administré par la droite parlementaire et/ou les sociaux-libéraux à un régime nouveau géré par une droite dure. Les débats sur les origines véritables de la dégradation sociale (précisément le pouvoir des monopoles) sont transférés vers d’autres domaines (l’exploitation du bouc émissaire de l’immigration en particulier).
    Mais si ce succès douteux de l’extrême droite « anti européenne » est celui qu’il est, la faute en revient à la gauche radicale (à gauche des partis du socialisme ralliés au libéralisme). Par son manque d’audacité dans la critique de l’Union Européenne, par l’ambiguïté de ses propositions, qui alimentent l’illusion de « réformes possibles », cette gauche radicale n’est pas parvenue à faire entendre sa voix.
    4. Dans le chapitre intitulé « L’implosion programmée du système européen » (in, L’implosion du capitalisme, contemporain, 2012), je dessinais les lignes générales de la dégradation programmée de l’Union Européenne. On aura alors une petite Europe allemande (l’Allemagne, agrandie par ses semi-colonies d’Europe orientale, allant peut-être jusqu’à l’Ukraine), la Scandinavie et les Pays Bas attelés à cette nouvelle zone mark/euro ; la France ayant choisi son adhésion « vichyste » à l’Europe allemande (c’est le choix des forces politiques dominantes à Paris), mais peut-être tentée plus tard par un renouveau « gaulliste » ; la Grande Bretagne prenant ses distances et affirmant encore davantage son atlantisme dirigé par Washington ; la Russie isolée ; l’Italie et l’Espagne hésitant ente la soumission à Berlin ou le rapprochement avec Londres. L’Europe de 1930, ais-je alors écrit. On y va.





http://www.voltairenet.org/article183988.html

6 JUIN 1944 - 6 JUIN 2014


Le paradoxe des commémorations du débarquement allié


par Finian Cunningham

Les chefs d’État des pays alliés lors de la Seconde Guerre mondiale, la reine Élisabeth II, François Hollande, Angela Merkel, Barack Obama et Vladimir Poutine, célébreront ensemble le 70ème anniversaire du débarquement en Normandie et de la défaite du nazisme en Europe. Pourtant, au même moment, ceux d’entre eux qui se disent « occidentaux » imposent le retour du nazisme en Ukraine et relancent leur politique anti-Russes. Pour Finian Cunningham, le paradoxe n’est qu’apparent…

RÉSEAU VOLTAIRE  | 4 JUIN 2014

[PHOTO: Les 29 et 30 septembre 1938, sur proposition de Benito Mussolini, une conférence réunit à Munich l’Allemagne, la France, l’Italie et le Royaume-uni pour trouver une solution à la crise des Sudètes. Adolf Hitler exige que l’Allemagne puisse annexer les populations allemandes de Tchécoslovaquie. Cette décision remet en cause le démembrement de son pays après la Première Guerre mondiale aussi bien que le traité d’assistance militaire franco-tchécoslovaque. Cependant les quatre puissances signent un accord autorisant la réunification allemande et le démembrement de la Tchécoslovaquie. Désormais, Berlin est en capacité d’attaquer la Russie. Celle-ci répondra en négociant l’accord Ribbentrop-Molotov.]

Les commémorations prévues cette année pour marquer l’anniversaire de la fin de la Deuxième Guerre mondiale vont sans doute en déconcerter plus d’un, au regard des développements en cours en Ukraine. Le régime fasciste de Kiev, soutenu par les puissances occidentales, fait déferler une vague de violence meurtrière sur les citoyens pro-russes qui le contestent. À Odessa, Marioupol ou Donestsk, des centaines de personnes ont trouvé la mort dans des opérations déclenchées par le gouvernement. Ces massacres ont été perpétrés par les forces répressives de l’État, agissant en étroite liaison avec des groupes paramilitaires nazis.
Ils interviennent au moment précis où le monde célèbre la défaite infligée aux forces coalisées de ce même fascisme, il y a 70 ans. Beaucoup ignorent, en « Occident » [1], que la situation qui prévaut aujourd’hui en Ukraine n’est pas une bizarrerie de l’histoire et ne contredit en rien le passé. Elle s’inscrit dans la logique des visées géostratégiques de l’« Occident » et de la politique agressive développée en conséquence à l’égard de la Russie.
Cette année, comme à chacun des anniversaires précédents, les commémorations de la Seconde Guerre mondiale rendront hommage aux millions de soldats, de partisans et de martyrs qui ont perdu la vie dans la lutte menée pour assurer la défaite des forces fascistes coalisées en Europe, et pour vaincre, en premier lieu, l’Allemagne nazie, engagée dès la fin des années 1930 et jusqu’en 1945 dans une guerre de conquête impliquant un programme d’extermination de masse, aux dépens des populations des autres pays européens. Nul ne peut nier le sacrifice, ni contester le respect dû aux soldats et aux citoyens qui ont péri en luttant contre la barbarie. Il convient, par contre, de se pencher très attentivement sur les desseins profonds qui ont motivé les choix et les décisions des dirigeants de l’Occident avant, pendant, après la Seconde Guerre mondiale, et jusqu’à aujourd’hui.
À première vue, les forces des États-Unis, de la Grande-Bretagne et de l’Union soviétique se dressaient ensemble contre l’Allemagne hitlérienne, alliée aux autres puissances de l’Axe passées sous la coupe du fascisme.
Or, on assiste actuellement à des phénomènes apparemment contradictoires. Les États-Unis, la Grande-Bretagne, et divers autres pays du camp « occidental » agissent de concert pour favoriser le retour du nazisme en Ukraine. Le régime de la junte installée illégalement au pouvoir à Kiev en février dernier, à la suite d’émeutes meurtrières fomentées et organisées dans l’ombre par la CIA, est entre les mains des héritiers autoproclamés des fascistes ukrainiens du siècle dernier. L’héritage qu’ils revendiquent, c’est leur collaboration à l’invasion et à la tentative de conquête de la Russie par l’Allemagne nazie, débutée en 1941 avec le déclenchement de l’Opération Barberousse .
L’actuel parti Svoboda, et les ministres issus de ses rangs qui participent au gouvernement autoproclamé de Kiev, se présentent fièrement comme les continuateurs et les disciples contemporains de l’OUN, l’organisation des nationalistes ukrainiens, autrefois conduite par le Collaborateur Stepan Bandera [2]. Bandera et ses légions nazies ont participé, aux côtés des troupes d’intervention SS de la Wehrmacht (Einsatzgruppen SS), au génocide de millions de juifs, de Polonais, de Russes, et d’autres. Leur collaboration active a renforcé la machine de guerre nazie et facilité la progression de ses troupes, parvenues, en fin d’année 1941, à moins de trente kilomètres de Moscou.
L’héroïsme et les sacrifices immenses des soldats de l’Armée rouge et du peuple russe ont permis de refouler progressivement la machine de guerre nazie jusqu’à Berlin, pour enfin la vaincre et en proclamer la défaite le 9 mai 1945.
Dans toutes les commémorations organisées au plan international cette année, la place d’honneur revient de droit à la Russie. Nul ne peut, ni ne tente, de le contester. C’est l’Armée rouge qui a vaincu l’Allemagne nazie. Presque 14 millions de ses soldats, (et autant de civils), ont sacrifié leur vie à ce combat historique. Dans le même temps, 290 000 soldats états-uniens et autant de soldats britanniques ont perdu la vie dans les combats [3]. Des trois puissances apparemment alliées contre le Troisième Reich, c’est la Russie qui a dû mener les plus durs combats, et endurer les plus terribles souffrances tout au long de la guerre d’agression imposée par l’Allemagne nazie. C’est la Russie qui a fini par terrasser l’ennemi, et lui a infligé sa défaite historique : 90 % du total des pertes infligées aux armées allemandes, tout au long du conflit, a été enregistré sur le Front Est, dans les combats menés contre l’Union soviétique.
N’oublions pas non plus que les États-uniens et les Britanniques ont attendu l’été 44 pour déclencher leur offensive contre l’Allemagne nazie sur le sol européen, en dépit des appels réitérés de Staline qui pressait les « Occidentaux » de prendre part aux combats beaucoup plus tôt, afin d’alléger le calvaire de la Russie.
Le nombre total des victimes civiles et militaires de la Seconde Guerre mondiale est estimé à 60 millions, répartis dans 30 pays. De tous ces morts, environ 30 millions ont été recensés en Russie et dans les autres États du camp soviétique. Par conséquent, personne ne peut mettre en doute les sacrifices héroïques consentis par la Russie, ni contester son rôle éminent dans la défaite historique infligée au fascisme sur le continent européen. Voilà pourquoi, malgré les tensions Est-Ouest liées à la crise ukrainienne, le président François Hollande a renouvelé cette semaine l’invitation faite au président russe Vladimir Poutine, de participer aux commémorations du 70ème anniversaire du Débarquement allié en Normandie. Le président Barack Obama, la chancelière Angela Merkel et la reine Élisabeth II participeront également à l’événement. Il est normal que Vladimir Poutine honore ces commémorations de sa présence parce que, comme on vient de le rappeler, c’est la Russie qui a gagné la guerre —et les puissances occidentales le savent pertinemment—. Le spectacle des célébrations officielles ne serait plus qu’une farce grotesque si la Russie venait à en être exclue, à cause de l’acrimonie présente des Occidentaux à son égard. Imaginez cela ! La France, dont le gouvernement légal a collaboré avec les Nazis, s’apprêtant à fêter la défaite de l’Allemagne nazie en l’absence de l’artisan essentiel de la victoire : la Russie.
On a mentionné plus haut que 90 % du total des pertes de l’Allemagne nazie, pendant toute la durée du conflit, ont été enregistrées sur son Front Est, dans sa guerre contre l’Union soviétique. Ce fait apporte un correctif salutaire à la vanité des « Occidentaux », et un démenti historique à leurs allégations. Avec le même aplomb, les Anglais et les États-uniens se targuent, vainement, d’avoir été les artisans de la victoire. Pensez à la kyrielle de productions hollywoodiennes qui véhiculent l’idée, extrêmement répandue en « Occident », que ce sont les exploits héroïques de « l’Amérique » et de la Grande Bretagne qui « ont libéré l’Europe ».
Mais il y a une autre leçon salutaire à tirer de l’échelle gigantesque des dévastations imposées à la Russie pendant la Seconde Guerre mondiale, et de leur part prépondérante, disproportionnée, dans le bilan global des destructions et des ravages générés par ce conflit. En « Occident », cet aspect des évènements a été pratiquement occulté, parce qu’il mène à la découverte de la vérité, extrêmement choquante, sur les causes réelles de la guerre et sur la logique qui a présidé à son déclenchement et à ses divers développements. La compréhension profonde des ressorts de la Seconde Guerre mondiale taille en pièces les prétentions éhontées de l’« Occident » à s’enorgueillir du noble rôle qu’il prétend avoir tenu dans la défaite de l’Allemagne nazie. Elle permet de démontrer que les rodomontades des « Occidentaux » sont aux antipodes de la vérité historique, et ne sont rien d’autre qu’une escroquerie.
Dans son livre intitulé L’Entente Chamberlain Hitler- [4], Clément Leibovitz démontre que, durant les années 1930, dans le plus grand secret, les classes dominantes de l’« Occident » ont, de façon délibérée, apporté leur concours à la mise au point de la machine de guerre nazie. De 1929 à 1940, les grandes sociétés états-uniennes ont accru leurs investissements dans l’Allemagne hitlérienne, dans des proportions beaucoup plus importantes que dans n’importe quel autre pays européen. Elles ont ainsi contribué de façon significative au renforcement massif du potentiel de production des industries de l’armement du Troisième Reich en gestation, au mépris de l’interdiction formelle du réarmement de l’Allemagne, décrétée en 1918 par le Traité de Versailles, à l’issue de la Première Guerre mondiale.
La classe dirigeante britannique a très largement contribué au renforcement du pouvoir hitlérien. Quand le Führer a remilitarisé la Rhénanie en 1936, Londres a fermé les yeux. En 1937 et 1938, le Parti conservateur que dirigeait Neville Chamberlain, le Premier ministre de l’époque, a participé à une série de rencontres secrètes avec le chancelier Adolf Hitler et les autres dirigeants nazis [5]. Ces discussions ont atteint leur apogée avec la conclusion des Accords de Munich en 1938 . Quand Chamberlain, de retour en Grande-Bretagne, a agité sa feuille de papier en proclamant « Nous avons sauvé la paix ! », on l’a beaucoup accusé, comme on le fait aujourd’hui encore, d’avoir cédé aux exigences d’Hitler pour tenter de « l’apaiser ». Mais, comme l’a relevé Leibovitz dans son étude minutieuse des échanges officiels de correspondances entre Londres et Berlin, l’objectif des pourparlers n’était pas « l’apaisement », mais plutôt la mise en place d’une collusion avec l’Allemagne Nazie.
« Il ne devrait y avoir aucun conflit entre nous », c’est ce qu’Hitler avait déclaré à Chamberlain lors d’une réunion tenue antérieurement à Godesberg, dans le plus grand secret, le 23 septembre 1938. Le Führer considérait que la Grande-Bretagne et l’Allemagne constituaient « les deux piliers qui soutenaient l’ordre social européen ». Le Premier ministre britannique et son secrétaire aux Affaires étrangères, Lord Halifax, entourés d’autres membres éminents du gouvernement de Londres, avaient pour leur part confié à Hitler qu’ils tenaient en haute estime « la grande force de son nationalisme et de son `racialisme’ ».
[PHOTO: La signature des Accords de Munich est présentée comme la volonté d’éviter une guerre avec l’Allemagne en reconnaissant que l’on est allée trop loin en la démembrant avec le Traité de Versailles. Il s’agit en vérité de reconstituer la force de frappe de l’Allemagne pour qu’elle détruise l’URSS.]
Comment expliquer de tels propos ?
Pour comprendre, il faut d’abord replacer l’avènement de l’Allemagne nazie et des autres régimes fascistes européens (Mussolini en Italie, Franco en Espagne, et Salazar au Portugal), dans leurs contextes historiques particuliers. En premier lieu, la révolution russe de 1917, a été le signal annonciateur du mouvement d’émancipation des travailleurs, de l’expropriation des capitalistes et de la fin de leur pouvoir omnipotent, et a profondément ébranlé le pouvoir des classes dirigeantes dans tous les pays capitalistes occidentaux.
D’autre part, les fascistes européens n’étaient pas seulement animés par les préceptes de leur idéologie raciste différenciant « la race supérieure » des « sous-hommes » (Untermenschen), ils étaient farouchement anticommunistes et exécraient tout particulièrement l’Union soviétique et ses principes socialistes. Le parti hitlérien avançait pourtant drapé de l’étendard (trompeur) du « national socialisme ». Hitler vouait au marxisme une haine pathologique. Il en allait de même pour tous les dirigeants du Troisième Reich.
C’était cet anticommunisme forcené qui soulevait l’enthousiasme et emportait immanquablement l’admiration des dirigeants capitalistes de l’« Occident ». Hitler était perçu par eux comme un rempart stratégique contre la propagation de la révolution communiste, alors que le capitalisme traversait la crise profonde de la grande dépression, et que la misère se répandait de façon prodigieuse dans tous les pays « occidentaux ».
La collusion entre Hitler et Chamberlain avait été scellée par un pacte secret. Elle reflétait les angoisses géostratégiques des classes dominantes des États-Unis et de la Grande Bretagne. Il fut donc décidé de mettre sur pied la machine de guerre nazie, avec l’objectif de détruire l’Union soviétique. Voilà ce que recouvrait, en réalité, la prétendue « politique d’apaisement » menée par Chamberlain à l’égard de l’Allemagne nazie. Elle avait été conçue afin de « laisser les mains libres » à l’Allemagne hitlérienne pour s’étendre à l’Est. Voilà pourquoi la Grande-Bretagne n’avait rien trouvé à redire à l’annexion de l’Autriche et de la région des Sudètes (au détriment de la Tchécoslovaquie) en 1938. Les dirigeants britanniques avaient, de façon explicite mais secrète, donné carte blanche à Hitler pour « préserver l’ordre social (capitaliste) en Europe », et combattre l’essor redouté du socialisme conquérant inspiré par la Russie.
En réalité, l’Allemagne nazie n’était guère qu’un régime à la solde de l’axe capitaliste anglo-US, au même titre que les autres régimes fascistes européens. C’est ce qui explique pourquoi la machine de guerre nazie a tourné sa terrible puissance de feu contre l’Union soviétique. Et c’est là que les janissaires en charge de l’extermination programmée des « Untermenschen » (les sous-hommes) ont commis les forfaits barbares les plus épouvantables que l’on puisse imaginer. Hitler a fait exactement ce qu’attendaient de lui les classes dirigeantes de l’« Occident », qui l’avaient aidé à conquérir le pouvoir en reconnaissance de son antisoviétisme furieux. Les souffrances et les atrocités qui en ont résulté pour le peuple russe et les aux autres peuples slaves ont été d’une ampleur et d’une sauvagerie inouïes, et dépassent, par leur échelle gigantesque, celles infligées à l’Europe de l’Ouest ou aux prisonniers de guerre anglais et états-uniens.
Comme dans toutes les relations qu’entretiennent les pouvoirs occidentaux avec leurs clientèles, la nature des liens entretenus est soumise aux aléas des redéploiements tactiques éventuels que commandent les évènements. La guerre de l’Irak contre l’Iran, fomentée et sponsorisée par les États-Unis et la Grande-Bretagne dans les années 1990 et les années 2000, en fournit une excellente illustration. Après avoir poussé Saddam Hussein à entrer en guerre contre l’Iran, ils se sont retournés contre le président irakien aussitôt qu’il est devenu une menace régionale potentielle pour leurs intérêts. Les impérialistes « occidentaux » mettent souvent sur le même plan Saddam Hussein et Adolf Hitler pour tenter de justifier les guerres qu’ils ont déclenchées contre l’Irak au cours des deux précédentes décennies. On remarquera ironiquement que cette comparaison superficielle est, si l’on va au fond des choses, extrêmement pertinente. Dans un cas comme dans l’autre, les puissances impérialistes ont tout bonnement renversé un dictateur qu’il leur avait paru commode de mettre en place au service de leurs propres intérêts. Ces mêmes intérêts cyniques, soumis à toutes sortes d’aléas, ayant changé, les donneurs d’ordre de l’Occident ont choisi de se débarrasser d’un allié devenu embarrassant.
De la même façon, la transgression, par Hitler, des limites tacites fixées à ses ambitions expansionnistes, lui permettant d’agir à sa guise sur sa frontière orientale pour détruire l’Union soviétique, a fini par retourner ses commanditaires contre lui. Dans un ironique renversement d’alliance, les « Occidentaux » ont trouvé sage de conclure un accord avec l’ennemi d’hier (la Russie), pour anéantir le pouvoir hitlérien qu’ils l’avaient eux-mêmes porté sur les fonds baptismaux et armé par eux jusqu’aux dents dans l’intention de détruire leur nouvel allié de circonstance, (cette même Russie).
Cependant, ainsi qu’on l’a remarqué plus haut, l’alliance réalisée pendant la guerre était empreinte d’ambivalence. La Russie a dû affronter seule les assauts des troupes nazies durant trois longues années avant que les Occidentaux ne se décident finalement à déployer des troupes en Europe. Encore faut-il noter que l’engagement occidental sur le théâtre européen n’intervint vraisemblablement à ce moment là, qu’en raison des avancées spectaculaires de l’Armée rouge, alors que la Wehrmacht reculait d’autant, et que l’Allemagne toute entière, et d’autres pays d’Europe centrale, risquaient de passer aux mains de Staline.
À partir de là, un nouvel impératif stratégique a gouverné les plans, les décisions et les actions des capitalistes « occidentaux ». L’objectif majeur est devenu la reprise de l’ouvrage là où il avait été laissé en 1917, quand la priorité suprême était de vaincre l’Union soviétique. C’est pour anéantir le péril communiste que les classes dirigeantes de l’« Occident » avaient sorti de leur manche la carte du régime hitlérien. Ce choix s’était révélé désastreux. Au bout du compte, pour des raisons géopolitiques cyniques, la machine de guerre antisoviétique des nazis avait dû être liquidée au prix d’un préjudice énorme.
Ces ressorts profonds qui ont motivé les décisions de leurs prédécesseurs avant, pendant, et après la guerre, les « Occidentaux » ne les évoquent jamais lors des commémorations qu’ils organisent chaque année pour célébrer la défaite de l’Allemagne nazie et de ses alliés. Mais, à la fin de la Seconde Guerre mondiale, les préoccupations géopolitiques secrètes des puissances capitalistes n’avaient pas varié d’un pouce. Le problème central, c’était la persistance du danger que l’Union soviétique représentait pour l’ordre capitaliste du monde. Les craintes des élites occidentales étaient d’autant plus exacerbées que le prestige de l’Union soviétique grandissait auprès des populations des pays occidentaux, qui n’ignoraient rien des héroïques sacrifices consentis par le peuple russe pour débarrasser l’Europe du joug et de la barbarie fascistes. Au sein des masses populaires de l’« Occident », il y avait en outre la conscience diffuse, palpable, que leurs classes dirigeantes avaient facilité d’une façon ou d’une autre l’ascension du fascisme. Ainsi, en Grande-Bretagne, le mépris de la population laborieuse pour la classe dirigeante explique pourquoi le chef du Parti conservateur, Winston Churchill, le successeur de Chamberlain à la tête du gouvernement après 1940, a été remercié par l’électorat et renvoyé dans ses foyers immédiatement après la guerre. Pour la première fois, les Britanniques avaient choisi de porter au gouvernement les travaillistes qui se réclamaient des idéaux socialistes. Le portrait flatteur de Winston Churchill, le chef de guerre énergique, ferme et décidé, n’avait pas suffi pour emporter l’adhésion des électeurs.
La Seconde Guerre mondiale était à peine terminée que déjà les classes dirigeantes britanniques et états-uniennes déclenchaient la Guerre froide et initiaient des campagnes hostiles contre l’Union soviétique. En un tournemain, le revirement occidental avait fait de Staline, l’allié d’hier, le nouveau Satan. À partir de ce moment, la nation qui avait terrassé l’hydre monstrueuse et criminelle du fascisme en Europe se vit fustigée comme l’ennemi mortel. La propagande occidentale prit alors un tour délirant, alertant à tout-va contre les dangers du « Péril rouge » et la malfaisance de « l’Empire du Mal ». Des décennies de campagnes de propagande haineuses et mensongères, s’appliquant à inspirer la peur de la Russie et du socialisme, allaient suivre. Aujourd’hui, Le communisme n’est plus l’idéologie officielle de la Russie. Néanmoins, la simple existence d’une Russie forte demeure une menace géostratégique pour l’ordre capitaliste de l’Occident et pour ses ambitions d’hégémonie planétaire. Les États-Unis, en particulier, perçoivent la Russie comme un obstacle à leurs visées expansionnistes sur le « Proche-Orient » [6] et le Pacifique. Le soutien décisif que Moscou a apporté à la Syrie a pratiquement fait échouer les efforts déployés à l’initiative de Washington pour imposer un changement de régime, ce qui, par voie de conséquence, a compromis les plans états-uniens visant à affaiblir l’Iran, un autre allié de la Russie.
Plus de vingt ans après l’écroulement de l’Union soviétique et la fin de la Guerre froide, nous assistons à la mise en œuvre d’un expansionnisme agressif des nations regroupées dans l’Otan sous la houlette des États-Unis, et à l’extension de la zone qu’ils contrôlent militairement de plus en plus près des frontières de la Russie. Les raisons qui motivent cette dynamique très particulière sont rarement évoquées dans les discours officiels des « Occidentaux ». Il est toutefois extrêmement instructif de se pencher sur la question.
Cette stratégie agressive que les pays du camp « occidental », dominés par Washington, mènent contre la Russie, est dans la droite ligne de leur attitude à l’égard de Moscou au lendemain de la Révolution bolchevique de 1917. Dès cette époque, ils ont vu en Moscou un ennemi susceptible de nuire à leurs ambitions hégémoniques. Leur politique hostile est dans la droite ligne de l’instrumentalisation du fascisme européen, utilisé comme fer de lance de leurs menées agressives contre l’URSS au cours des années 1930, à l’origine du déclenchement du conflit international, mondialisé, le plus terrible qui ait jamais existé. Elle est dans la droite ligne du déclenchement de la Guerre froide par l’« Occident » en 1945 et de l’isolement imposé à la Russie durant près d’un demi-siècle, lui interdisant le développement normal et harmonieux de ses relations internationales. Elle est dans la droite ligne de la logique qui sous-tend la campagne belliqueuse que mènent actuellement Washington et ses alliés capitalistes occidentaux, qui, tirant prétexte de la crise ukrainienne, déversent une avalanche ininterrompue de mensonges et d’accusations fabriquées de toutes pièces sur la Russie de Poutine..
Couronnant le tout, l’hostilité géostratégique profonde qui s’exprime de façon sous-jacente dans toutes les relations des puissances « occidentales » avec la Russie, éclate aujourd’hui au grand jour à travers ce paradoxe historique en apparence absurde : le 70ème anniversaire de la défaite du fascisme en Europe est le moment choisi par les puissances occidentales pour forger une alliance avec les néonazis qui ont usurpé le pouvoir à Kiev. Il ne faut pas être grand clerc pour voir percer, dans cette affaire, à travers l ‘écran des mensonges et des provocations, le dessein ultime, l’ambition stratégique de toujours, jamais abandonnée : les visées agressives que les puissances impérialistes de l’Occident entretiennent à l’égard de la Russie.
Il ne faut pas chercher plus loin ce qu’il y a derrière la soi-disant « remise à l’heure », par Washington, de ses relations avec Moscou. Les puissances capitalistes occidentales sont prêtes à s’acoquiner avec n’importe quelle force, fût-elle la plus méprisable et la plus dépravée, pourvu qu’elle prête son concours à la réalisation de leurs ambitions hégémoniques.
Si on creuse un peu plus loin ce sillon, on voit poindre une vérité troublante : du point de vue des puissances capitalistes « occidentales », la Seconde Guerre mondiale ne s’est jamais réellement terminée. Elle a seulement connu une courte pause avant d’être relancée par la Guerre froide. Les puissances capitalistes « occidentales » s’emploient aujourd’hui à en pousser de nouveau les feux, contre le pays perçu par eux comme leur ennemi irréductible de toujours : la Russie.

Traduction 
Gérard Jeannesson

Source 
Strategic Culture Foundation

       

[1] L’emploi du terme Occident pour désigner non pas une région géographique, mais les gouvernements pro-US (y compris aujourd’hui des États comme la Colombie ou le Japon), date de la Guerre froide. Il s’agit de poser un conflit entre deux civilisations, d’un côté l’Occident qui serait fondé sur les valeurs de l’individu, et de l’autre l’Orient (autour de la Russie et de la Chine), qui serait intrinsèquement collectiviste, donc naturellement communiste. NdlR.

[2] “All-Ukrainian Union "Svoboda" program”, Voltaire Network, 12 August 2009.

[3] Pieter Lagrou, « Les guerres, la mort et le deuil : bilan chiffré de la Seconde Guerre mondiale », in Stéphane Audoin-Rouzeau et al., dir., La violence de guerre 1914-1945, Bruxelles, Complexe, 2002, p. 322 (313-327).

[4In Our Time : The Chamberlain-Hitler Collusion, par Clement Leibovitz, Monthly Review Press, 1997. Une version ultérieure en français est disponible sous le titre L’Entente Chamberlain Hitler, L’Harmattan, 2011.

[5] Un fait historique méconnu : 
Au lendemain de la signature des Accords de Munich, Neville Chamberlain, le Premier ministre britannique, a invité le chancelier Hitler à un petit entretien privé. Et puis, sans crier gare, il a sorti un papier de sa poche portant cette inscription : 
« Nous ci-devant représentés, le Führer, chancelier d’Allemagne, et le Premier ministre de la Grande-Bretagne, avons eu ce jour un nouvel entretien et sommes tombés d’accord pour considérer que la question des relations anglo-allemandes est de la première importance pour nos deux pays et pour l’Europe. » 
On y pouvait lire également que : 
Les dirigeants de nos deux pays estiment que « l’accord signé la nuit dernière et le traité naval germano-britannique sont le symbole du désir des deux nations de ne jamais se faire la guerre. » 
Les historiens oublient généralement de mentionner ce document. Pourtant, c’est vraisemblablement cet accord non protocolaire qui a laissé les mains libres à Hitler pour entreprendre son agression à l’Est. Ce n’est certainement pas l’accord de Munich qui traitait uniquement du sort de la Tchécoslovaquie ! 

Dans la filmographie historique de l’époque, on retrouve souvent la scène de l’arrivée à Londres de Chamberlain à son retour d’Allemagne, après la signature des Accords de Munich. Il se tient debout près de son avion, brandit une feuille de papier et l’agite devant la foule, et proclame alors d’une voix forte : « Nous avons sauvé la paix ! «  
Et tout le monde pense, dans l’assemblée venue pour l’accueillir, que le Premier ministre tient dans sa main la copie des accords signés à Munich. Et pourtant, le papier que Neville Chamberlain agite devant la foule, n’est autre que la déclaration convenue hors protocole, lors de sa petite réunion complémentaire avec le Chancelier Hitler.

[6] Le « Proche-Orient », en anglais « Middle-East », ne désigne pas une région géographique naturelle, mais l’ensemble du Levant et du Golfe persique en tant qu’objet du colonialisme. L’administration états-unienne parle désormais de « Proche-Orient élargi » (en anglais « Greater Middle East »), pour englober une région allant du Maghreb au Pakistan. NdlR.





Sul tema si vedano anche:

STRATEGIA DELLA TENSIONE IN ISTRIA: LA STRAGE DI VERGAROLLA

GAETANO DATO RISCOPRE L'ACQUA CALDA, TERRORE NELLA A.N.V.G.D.

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http://www.diecifebbraio.info/2014/06/comunicato-stampa-sul-volume-dello-storico-gaetano-dato-vergarolla-18-agosto-1946/

COMUNICATO STAMPA SUL VOLUME DELLO STORICO GAETANO DATO “Vergarolla 18 agosto 1946″



COMUNICATO STAMPA

In riferimento al volume dello storico Gaetano Dato “Vergarolla 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda”, recentemente edito per i tipi della LEG con prefazione di Roberto Spazzali che sarà presentato il prossimo 13 giugno alla Camera dei Deputati constatiamo che la pubblicazione metta in luce come in base alla documentazione disponibile non sia possibile sostenere la tesi delle responsabilità jugoslave nella strage, tesi negli ultimi tempi suggerita con insistenza, attraverso congetture ed illazioni, da alcune associazioni degli esuli nonché da ultimo nella rappresentazione teatrale “Magazzino 18″ del cantante Simone Cristicchi.

La ricerca di Dato è stata finanziata dal Circolo di Cultura Istro Veneta “Istria” nonchè dal Ministero dei Beni Culturali e dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, dato tanto più significativo se si pensa alle dichiarazioni della Presidente Debora Serracchiani che il 18 agosto dello scorso anno in assenza di riscontri interpretava pubblicamente i fatti di Vergarolla come un “messaggio chiaro dei servizi segreti di Tito agli italiani di Pola e dell’Istria”.

Le conclusioni cui giunge Dato sono in linea con le più rigorose ricerche svolte negli ultimi anni da studiosi croati - Čonč, 2009, Eksplozija na Vergaroli u Puli 18. kolovoza 1946. godine: pokušaj rekonstrukcije i izazovi tumačenja  e Dukovski, 2011, Povijesna ekspertiza tragedije na pulskoj Vargaroli- e italiani come Claudia Cernigoi, che nel suo studio di un anno fa “Strategia della tensione in Istria” (disponibile al sito internet http://www.diecifebbraio.info )sosteneva sostanzialmente, come oggi Dato, che la documentazione esistente non consente di avallare la tesi sulle responsabilità jugoslave, evidenziando altresì indizi di altre possibili responsabilità, italiane o angloamericane.

Ci auguriamo che il contributo di Dato possa contribuire a svelenire il dibattito sulle vicende dell’Alto Adriatico, intervenendo con il rigore del metodo scientifico laddove negli ultimi anni è stata invece allestita una campagna basata su affermazioni infondate e tendenziose. Tale iniziativa di rigore e verità è peraltro già da anni intrapresa, tra gli altri, dagli storici specialisti di queste vicende riuniti nella collana “Resistenza Storica” della casa editrice Kappa Vu, tra cui la già citata Cernigoi.

La Redazione del sito Diecifebbraio.info

11 giugno 2014




http://www.resistenze.org/sito/te/pe/dt/pedtee18-014512.htm

www.resistenze.org - pensiero resistente - dibattito teorico - 18-05-14 - n. 499

I comunisti sono "europeisti"?

Alessandro Mustillo * | senzatregua.it

16/05/2014

Si sente dire spesso che il processo d'integrazione europea appartenga alla nostra tradizione politica. Un elemento ideale di fondo, come quello evocato da Bertinotti nel discorso del 23 marzo 2007 quando da Presidente della Camera parlò dello «spirito della fondazione dell'Europa che oggi celebriamo e che dobbiamo recuperare». È l'idea di un'Unione Europea sorta su un piano ideale più elevato ed oggi costretta in modo forzato nelle anguste visioni tecnocratiche e finanziarie di Bruxelles. Un'Europa da riformare, da ricostruire dalle originarie fondamenta, per riconquistare la reale natura voluta dai suoi fondatori.

Si tratta di uno degli argomenti più in voga utilizzati in questo momento dalla sinistra radicale (post o cripto comunista) che si candida in Parlamento Europeo a sostegno del leader greco di Syriza, e che oggi rivendica con fierezza il proprio contributo ideale a politico alla costruzione dell'Unione Europea. Questa sinistra è impegnata nella ricerca di un passato "nobile" della UE per meglio giustificare il suo sostegno all'integrazione europea dato nel momento più alto della crisi economica, in cui la contrarietà alla UE inizia a farsi strada con forza tra la popolazione. Come ogni storia che si rispetti il passare del tempo allenta la memoria collettiva, sbiadisce e distorce i fatti e ne altera la reale percezione. È un fenomeno molto diffuso nella sinistra di questi anni, che si riduce spesso a difendere posizioni una volta osteggiate, anche con forza, limitando i propri orizzonti in una spirale continua di sconfitte e arretramenti di posizione che conducono inevitabilmente alla capitolazione totale nei confronti del nemico di classe.

Il mito dell'Europa nata sulla spinta ideale progressista, deve cedere il passo alla realtà delle cose. Nel 1957 la ratifica dei Trattati di Roma, con cui venne istituita la CEE e l'Euroatom,  vede il voto contrario e la netta opposizione del PCI, come altrettanta opposizione avviene da parte del PCF in Francia, allora i principali partiti comunisti dei paesi coinvolti. Un'opposizione che si era registrata fin dagli albori del processo d'integrazione anche in riferimento alla CECA e alla mai varata CED, che avrebbe dovuto creare un sistema di difesa comune europea, anch'esso osteggiato dai partiti comunisti e mai entrato in vigore per il voto contrario del Parlamento francese.

Quando nel 1957 alla Camera dei Deputati viene chiesta la ratifica del trattato di Roma, la posizione comunista – espressa da Giuseppe Berti, relatore della mozione con cui si chiedeva di non ratificare il trattato – non potrebbe essere più chiara. Si parlava allora non di CEE ma di MEC poiché la Comunità Economica Europea era conosciuta principalmente con il nome di Mercato comune, una scelta tutt'altro che casuale e che non mascherava la reale natura dell'operazione, che più tardi ha voluto caratterizzarsi per i suoi fini "nobili". Berti, tra gli applausi dei deputati comunisti alla Camera, affermò: «Non ha senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un'altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell'Europa occidentale il capitale monopolistico.» Era il 1957, il processo di integrazione europea era appena iniziato ma le sue finalità apparivano già chiarissime. Basterebbe sostituire l'espressione "Mercato Europeo Comune", oggi desueta, con "Unione Europea" e avremmo una sintesi eccezionale della natura reale del processo di integrazione europeo. Una realtà che i comunisti avevano perfettamente chiara nel 1957 e che ancora oggi, nonostante l'evidenza empirica, sfugge a molti sinistrati.

I trattati di Roma furono approvati a maggioranza con voto favorevole della DC e del MSI (il deputato missino Augusto De Marsanich disse in Aula: "Diamo la nostra leale adesione e il nostro voto a questi trattati, confidando che essi possano in realtà produrre un incremento di civiltà in Italia e in tutta Europa") con l'astensione del Partito Socialista Italiano. Ma questa storia ha bisogno di essere raccontata bene, con tutti i suoi particolari, le posizioni politiche e le conseguenze, anche in relazione alla spaccatura che si creò tra PCI e PSI.  

È il 28 luglio del 1957, mancano pochi giorni al voto di approvazione richiesto per i trattati europei e il PCI ha il compito non facile di far comprendere alla classe operaia e alle masse popolari italiane le ragioni della ferma opposizione comunista, su una questione che appare tanto lontana e, per certi versi, anche spinosa. Fin da allora l'integrazione europea viene presentata come un elemento progressivo, come un mezzo per pacificare definitivamente il continente, rispondere alle esigenze economiche delle nazioni coinvolte. Un'intera pagina dell'edizione de l'Unità viene intitolata «Che cosa significa la sigla MEC» e divisa in riquadri schematici per facilitare punto per punto la comprensione del trattato istitutivo del mercato comune. Si tratta anche oggi di uno strumento utile per comprendere immediatamente la posizione comunista sul trattato istitutivo della CEE. Il primo riquadro è dedicato alla situazione dei lavoratori, il secondo e il terzo alla libertà di scambio e circolazione, il quarto all'agricoltura ed il quinto alla situazione delle colonie.

Si legge nell'articolo: «La manodopera italiana entrerà in concorrenza sugli stessi mercati con la manodopera – a bassissimo costo – dei paesi d'oltre mare» (bisogna ricordare che all'epoca anche le colonie, non ancora indipendenti entravano nel mercato comune, il problema era particolarmente sentito per il nord africa ancora sotto dominio francese n.d.r.); «si prevede un aumento di produttività ma non una riduzione dell'orario di lavoro» e ancora: «l'economia italiana corre il rischio di vedersi privata della mano d'opera migliore attraverso l'emigrazione degli operai specializzati» Il PCI, nel 1957, era ben consapevole dunque degli effetti potenziali dell'integrazione europea relativamente alla condizione dei lavoratori, e la maggiore preoccupazione era legata al Mezzogiorno. Una preoccupazione che si evidenzia particolarmente nei punti seguenti, dove il linguaggio chiaro e semplice con cui il partito voleva comunicare alla classe operaia e ai ceti popolari la reale natura del trattato internazionale, mirava in primo luogo a smascherare la terminologia utilizzata e l'abuso del termine "libertà".

Il PCI definisce senza mezzi termini la libertà di circolazione come «la libertà dei monopolisti». L'analisi semplice e chiara contenuta in questo punto è validissima ancora oggi. «La "libera circolazione dei capitali" significa che i monopoli di ognuno dei sei paesi sono liberi di trasferire i loro capitali da una zona all'altra scegliendo quella dove esistono le possibilità di realizzare maggiori profitti. Date le condizioni di inferiorità nelle quali si trova la nostra economia è possibile che attraverso questa libera circolazione di capitali, vi sia nel nostro paese una penetrazione di tipo imperialistico di capitale straniero, soprattutto tedesco. In secondo è possibile che si verifichi da parte dei monopoli italiani una fuga di capitali dall'Italia.»

Sulla questione dell'abolizione dei dazi doganali e delle barriere al mercato comune il Partito Comunista spiega gli effetti che avranno. «L'eliminazione di queste tariffe provocherà una concorrenza molto più aspra tra le diverse ditte operanti nei paesi aderenti; se si esamina la struttura industriale e la potenza economica delle varie nazioni, si comprende che la posizione dell'Italia è in generale la più debole di tutte quante tanto è vero che finora i dazi doganali italiani sono stati i più alti proprio per proteggere la nostra produzione dalla più robusta concorrenza straniera».  Ma il Partito Comunista non si limita a  parlare di minaccia dall'esterno. La sua non è una posizione "nazionalista" al contrario mette in rilievo come la grande impresa monopolistica nazionale sia parte attiva e promotrice del processo di integrazione economica europea.  «A questo punto – si legge nella pagina dell'Unità – potrebbe sorgere la domanda: perché gli industriali non si oppongono al MEC? Il fatto è che gli iniziatori del MEC sono stati i grossi monopoli industriali che all'interno del mercato comune avranno sufficiente forza per poter sviluppare i loro affari ai danni dei piccoli produttori, sia nazionali che degli altri paesi. La FIAT ad esempio, grazie agli investimenti americani, è riuscita a portare la sua produzione a un'efficienza tale da potere, con i suoi prodotti di massa, battere la concorrenza di tutte le altre case automobilistiche del mercato comune, in quanto è la più grande industria privata in questo campo.»

In definitiva concludeva l'analisi del PCI «Il coordinamento economico di cui si parla nel trattato si risolverà in pratica in intese sempre più strette tra i vari monopoli per la spartizione del mercato a scapito dei piccoli e medi produttori sostituendo così alla protezione doganale una spartizione delle sfere di influenza tra i grandi monopoli.»

La preoccupazione del Partito era rivolta anche all'agricoltura dove si evidenziava il rischio del medesimo processo di concentrazione della proprietà a danno dei contadini salariati e dei piccoli contadini autonomi. Così come la libertà di circolazione delle persone era già messa in relazione al problema dell'immigrazione interna alla sfera comune, con le sue ripercussioni sui livelli salariali e sui diritti dei lavoratori. Riguardo alla situazione francese il problema delle colonie e la loro integrazione nel MEC erano giudicati uno strumento di pressione per compromettere il legittimo diritto all'autodeterminazione dei popoli coloniali.  Per queste ragioni il PCI nel 1957 votò contro l'approvazione dei trattati europei, ma la sinistra italiana che pure si richiama a vario titolo alla tradizione e alla storia del PCI non lo ricorda.  


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1957: quando il PCI disse no all'Europa

Alessandro Mustillo | senzatregua.it

17/05/2014

A Giuseppe Berti intellettuale comunista, dirigente del partito e deputato alla Camera, è affidato il compito dell'analisi dei trattati, che a grandi linee sarà pubblicata sempre su l'Unità nei giorni del dibattito parlamentare. Bisogna tenere a mente che gli anni che precedono il voto sui trattati europei sono cruciali nello sviluppo storico successivo. La morte di Stalin nel 1953, con il XX congresso del PCUS, l'invasione dell'Ungheria e il progressivo distacco PCI-PSI, ma anche la questione del canale di Suez, con Francia e Inghilterra che ritirano su ordine degli USA le proprie truppe dall'Egitto.  Sullo sfondo dei trattati c'è lo scontro tra il blocco capitalista e quello socialista, la questione coloniale, e la conseguente perdita di territori per i paesi a capitalismo avanzato con i quali tenere livello di scambio economico. Il nuovo potenziale economico tedesco che viene ricostruito non ha territorio sufficiente essendo bloccata ad est dai paesi socialisti. La Francia sta perdendo il suo impero coloniale. Insomma alla radice del mercato comune europeo c'è la necessità di aprire quegli spazi economici che la divisione in blocchi e in parte la decolonizzazione fanno progressivamente mancare alle economie capitalistiche avanzate.

Oggi quando pensiamo all'Unione Europea siamo abituati a pensare ad un processo spontaneo dei popoli europei, a dimenticare la divisione della guerra fredda, e l'influenza di quella divisione sugli equilibri europei. Anche qui il passaggio del tempo distorce la verità, la mitologia  si sostituisce alla realtà. Allora al contrario i comunisti non avevano alcun dubbio sull'origine del processo di integrazione dell'Europa occidentale, che Pajetta definiva negli interventi alla Camera "la piccola europa", proprio per metterne in luce la parzialità rispetto alla chiusura ad est. Si trattava di un processo voluto dal grande capitale e appoggiato con forza dagli Stati Uniti in funzione anti-sovietica per rispondere all'integrazione economica tra paesi socialisti all'est. Un progetto che teneva insieme interessi monopolistici del grande capitale, privato degli sbocchi naturali sul continente e sulle colonie, con quelli al riarmo specie della Germania in funzione anticomunista, nel quadro della comune alleanza militare con gli USA per il tramite della Nato.

L'analisi di Berti, che il deputato comunista riproporrà nei suoi interventi alla Camera è profonda, non scontata, minuziosa e chiarissima per quanto embrionale fosse lo stato del giudizio che allora si poteva dare sulla nascente comunità economica europea. E' un'analisi che ha il pregio di parlare anche a noi, a sessant'anni di distanza, e che nonostante lo sconvolgimento politico ed economico che è avvenuto negli ultimi anni individua correttamente situazioni che ci troviamo ad affrontare quotidianamente.

I comunisti – dice Berti  – sono contro il MEC «perché sono contro il tentativo dei monopoli di asservire il progresso tecnico, l'automazione, l'energia atomica ai loro propri fini creando una comunità sovrannazionale sotto la loro direzione. E' falso il quadro di un capitalismo ascendente e trionfante […] Si, c'è oggi una congiuntura favorevole, ma per quanto tempo? Il capitalismo esce da due catastrofi di colossale grandezza: la perdita di potere su quasi la metà del globo, la perdita di vastissimi territori coloniali. Ecco perché alla base del MEC esistono obiettivi elementi di crisi: si cerca un mercato più vasto perché si sono perduti i territori dell'Europa orientale e i territori coloniali; ma appunto per questo ci si contenta in senso antisocialista e antidemocratico e si approfondisce la frattura nel mondo e si domanda alle masse lavoratrici di pagare le spese di questa operazione.»

Berti affronta il quadro spinoso del rapporto sovranità nazionale apertura internazionale in modo chiarissimo, e con una capacità d'analisi che oggi non si intravede minimente nei dirigenti della sinistra radicale post-comunista e opportunista. Come si coniuga l'internazionalismo tradizionale del movimento comunista con la contrarietà al processo unitario tra i paesi europei? Un dilemma a cui ancora oggi in tanti non riescono a rispondere senza vedere contraddizioni, lì dove al contrario è lampante la soluzione al problema. I comunisti sono internazionalisti ma non per le unioni internazionali dei capitalisti. I comunisti sostengono la lotta comune in ogni paese del mondo, ma non per questo non comprendono quali processi si celino dietro l'integrazione europea. Oltre le illusioni e le favole, i comunisti guardano ai rapporti di produzione. E capita che il PCI venga accusato di essere "protezionista" da chi usa strumentalmente questo elemento per attaccare la posizione dei comunisti.

In aula Berti replica a queste accuse. «Non è vero che i comunisti pongano l'accento soltanto sui riflessi tariffari: è ridicolo sostenere che i comunisti sono "protezionisti". Il problema tariffario esiste ed è grave per l'industria e soprattutto per l'agricoltura del mezzogiorno e delle isole: ma il problema più grave è che cosa il ceto privilegiato sostituisce al protezionismo tariffario. Esso sostituisce l'accordo sovrannazionale dei monopoli all'interno del MEC per schiacciare le masse lavoratrici, la piccola economia contadina per rendere impossibile o più difficile uno sviluppo sociale democratico. Non ha perciò senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un'altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell'Europa occidentale il capitale monopolistico. Ci si dice che in questa battaglia noi siamo isolati. Ma noi siamo in larga e qualificata compagnia: i lavoratori italiani, i piccoli e medi produttori economici, hanno già compreso quali gravi danni apporterà il MEC a loro e al paese. Noi non cesseremo la nostra lotta alla testa del popolo italiano.»

Un punto di grandissima rilevanza è il rapporto con il PSI in relazione al voto dei trattati. Nel 1957 il Partito socialista con un voto a maggioranza del suo comitato centrale (59 favorevoli, 13 contrari, 2 astenuti) decise di astenersi sul trattato istitutivo della CEE e di votare a favore di quello sull'Euratom. La decisione del PSI acuiva ulteriormente la frattura creatasi con il PCI al momento dell'intervento sovietico in Ungheria e costituiva una delle prime scelte che vedevano un voto sensibilmente differente tra PCI e PSI, con ripercussioni anche sulla CGIL. Il voto era il risultato anche dell'attività dell'Internazionale socialista che da mesi si era spesa fortemente per l'integrazione europea. Una parte di primo piano l'avevano fatta i socialisti francesi che dalla formazione del governo Mollet esercitavano insieme con i socialisti tedeschi una funzione di traino nel processo di costruzione del mercato comune. In Parlamento la scelta del PSI di astenersi fu oggetto di dure critiche del PCI ed in particolate da Pajetta che più volte interruppe Lombardi (PSI) mentre esponeva le motivazioni dell'astensione. Due episodi devono essere considerati per comprendere le preoccupazioni dei comunisti.

Il 21 luglio l'Unità apriva il giornale con un titolo a lettere cubitali: «Confindustria punta sul MEC per liquidare l'industria di Stato» basandosi sulle dichiarazioni di Malagodi, segretario del Partito Liberale «i cui legami con la Confindustria – scrive l'Unità – sono noti a tutti» Malagodi «ha mostrato con grande chiarezza il vero volto dell'operazione che il governo si accinge a varare. Infatti dopo le consuete, generiche espressioni di fiducia sul Mercato comune, come risolutore di tutti i principali problemi italiani […] Dai trattati -  egli ha rilevato -  non possono che derivare logiche conseguenze di politica interna poiché non è possibile seguire un indirizzo (che è quello della massima libertà ai potenti monopoli interni e internazionali) per applicare il Mercato comune e l'Euroatom, e uno diverso all'interno del paese.» Il segretario liberale aveva illustrato alla Camera la necessità di aprire una stagione di liberalizzazioni, dismissioni delle imprese di Stato e evitare ogni nuova forma di nazionalizzazione e aveva favorevolmente accolto l'astensione socialista, che testimoniava a detta di Malagodi, il fatto che i socialisti non erano più insensibili all'idea della libertà. Parole che al PCI suonavano come un forte campanello d'allarme.

La seconda questione riguarda la CGIL. La posizione del sindacato infatti era molto più simile a quella del PSI che non a quella del PCI, nonostante il Partito Comunista facesse di tutto per evitare che questa frattura si palesasse e avesse ripercussioni sull'unità della CGIL. Il 19 luglio la CGIL si era espressa a favore del processo di integrazione europeo, pur tuttavia mettendo in evidenza i lati negativi e indicando la necessità della lotta dei lavoratori contro le possibilità che tale processo si svolgesse in senso reazionario. Non ci fu nessuna polemica esterna. L'Unità pubblicò il dispositivo della CGIL come se nulla fosse, ogni commento dei comunisti riguardava le critiche contenute al MEC ma non si nominava mai il passaggio precedente. Ma se sulla critica comunisti e socialisti erano uniti, sulla posizione immediata erano su posizioni differenti. Il sì generico della CGIL restava ed era chiarissimo: «Nonostante gli inconvenienti di natura transitoria, (…) il Comitato Esecutivo ritiene che essa vada appoggiata e incoraggiata, perché può recare – in prospettiva – un contributo fondamentale e – in una certa misura – insostituibile allo sviluppo generale delle economie europee e al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori». La parte socialista della CGIL aveva fatto il suo, ma certamente Di Vittorio, con cui c'erano state frizioni interne al PCI sull'Ungheria, non l'aveva osteggiata troppo, probabilmente anche in accordo con il vertice del PCI che di certo non avrebbe consentito in quella fase una rottura dell'unità sindacale con i socialisti, proprio mentre quella politica sembrava irrimediabilmente compromessa. Ma con la neutralizzazione della CGIL, che si decideva di mantenere fuori dalla questione, il PCI veniva privato dello strumento più importante per la battaglia politica contro la CEE, che infatti non superò mai le porte del Parlamento. Come, e forse ancora di più che in altri casi, la critica parlamentare del PCI e l'opposizione è durissima, ma questo non porta a nessuna reale mobilitazioni delle masse lavoratrici.

Nonostante ogni tentativo comunista di modificare la posizione del PSI, di aprire contraddizioni in seno ai socialisti (che non avevano votato all'unanimità in comitato centrale ma con 13 contrari e 2 astenuti) mettendo in chiaro come fosse la Confindustria ed il grande capitale a volere l'integrazione europea, il PSI rimase sulla sua posizione. Alla Camera la mano tesa del PCI si tramutò in attacco esplicito, quando Lombardi intervenne contro Malagodi, sostenendo che la sua fosse una posizione ingenua e che lo sviluppo italiano nel mercato comune non avrebbe potuto fare a meno della direzione statale.

A Pajetta toccò l'intervento nella seduta del 25 luglio nel quale il PCI annunciava il voto contrario.  La polemica con il PSI è evidente fin dall'apertura. Dice Pajetta: «Alcuni giorni fa ci è stata rivolta una ingenua domanda dal giornale del Partito Socialista Italiano. L'Avanti ha domandato ai comunisti: ma credete davvero che risolverete i gravi, complessi problemi del Mercato comune con il vostro voto contrario? Noi non vogliamo rispondere con la troppo facile battuta: ma credete che questi problemi gravi, profondi, complessi si risolvano con un'astensione?»

Nel suo intervento Pajetta rimarca il giudizio del PCI con toni molto forti e netti. «L'esame della situazione e la stessa storia ci autorizzano quindi a porre queste domande: a che cosa servirà questo strumento, il Mercato comune? Chi lo impugnerà? Contro chi verrà impugnato? Noi il fascino di questo europeismo lo respingiamo e non possiamo allinearci dietro la stessa barricata per difendere gli interessi della Confindustria nel nostro paese. Sbaglia profondamente chi pensa che un'economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso nell'avvenire.»

Pajetta accusa esplicitamente Lombardi e il PSI di ingenuità rispetto alla natura reale del MEC anche in relazione all'intervento di Malagodi. «Non vedere questi pericoli, essere sordi a queste indicazioni significa voler soltanto appiccicare un cartellino con sopra scritto "speranza" a questa macchina al cui volante siedono forze ben precise: queste forze non dimentichiamolo, sono i Valletta, sono i Marinotti, sono i potenti monopoli tedeschi, sono quelle forze che appoggiarono ogni politica più retriva e più antipopolare, che oggi sostengono il mercato comune. Credo del resto che sia difficile che queste forze sbaglino quando uniscono il loro amore per il mercato comune al loro sogno di difendere una economia basata sulla proprietà privata e sul profitto monopolistico: perché è difficile pensare alla prospettiva di un'economia diretta senza le leve della tariffa doganale, dei contingenti, della politica valutaria. Le classi popolari all'interno del Paese e tutta l'Italia nell'ambito della "piccola europa" pagheranno caramente l'approvazione di questi trattati.»

L'intervento di Pajetta presenta alcuni passi che testimoniano quanto il PCI fosse consapevole di quello che il mercato comune avrebbe rappresentato. Pajetta esprime bene l'impossibilità dei popoli di scegliere un cammino differente da quello capitalistico una volta ingabbiati nel meccanismo del mercato comune. Un elemento oggi estremamente acuito dalla perdita della sovranità monetaria con l'introduzione dell'euro. La metafora della speranza e del volante poi, si addice davvero bene a quelle forze che pensano ancora di poter modificare dall'interno il corso politico della UE, nonostante l'evidenza di questa impossibilità.

La dichiarazione finale sul voto comunista è data il 30 luglio dall'allora capogruppo alla Camera Pietro Ingrao con queste parole: «Votando contro questi trattati intendiamo indicare alla classe operaia una prospettiva di autonomia e di lotta, intendiamo chiamare la classe operaia a battersi assieme a tutte le forze sane e minacciate da questi trattati per dare un corso diverso alla politica internazionale.» L'Italia entrava ufficialmente a far parte della CEE con il voto di astensione dei socialisti, con il voto contrario del PCI, unico partito italiano ad opporsi al processo di integrazione europea.


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Comunisti e Europa, considerazioni finali

Alessandro Mustillo | senzatregua.it

19/05/2014

Come noto la posizione del PCI mutò negli anni seguenti durante la segreteria Berlinguer e il progressivo distacco da Mosca. Allora il PCI abbracciò insieme al PCE e al PCF – quest'ultimo non senza contraddizioni e ripensamenti allora – la politica dell'eurocomunismo con un avvicinamento alla socialdemocrazia europea e in generale al processo di integrazione comunitaria.  L'associazione ideale del movimento comunista con il percorso di unificazione europea parte da questo preciso momento storico, lo stesso del progressivo abbandono del marxismo-leninismo, del cedimento politico ed ideologico del PCI con cui il partito comunista si sarebbe incamminato verso il suo mutamento radicale avvenuto formalmente nel '91, ma nella sostanza già evidente da tempo. Non si tratta di una coincidenza temporale casuale. Nel momento in cui si allenta la tensione ideologica tra i partiti comunisti a livello internazionale, si incrementa l'idea della reciproca autonomia, delle vie nazionali al socialismo si perdono anche i riferimenti di analisi che avevano portato ad un giudizio tanto negativo sulla Comunità Europea nel 1957. Dunque non è all'origine della costituzione della CEE che i comunisti sposarono la causa dell'integrazione europea. Questo accadde solo nel momento in cui il Partito Comunista Italiano andava trasformandosi in un partito socialdemocratico. In questo equivoco di fondo si inserisce anche la figura di Altiero Spinelli, padre nobile della sinistra europeista, e oggi invocato a gran voce a copertura di questa operazione. Tutti ricordano Altiero Spinelli eletto al Parlamento Europeo (come indipendente) nelle liste del PCI nel 1979, quando ormai il PCI aveva compiuto la sua parabola sulla CEE e sulla Nato. Pochi ricordano però che Spinelli negli anni della lotta del PCI contro l'integrazione europea era consulente di De Gasperi, e che fu membro della commissione europea con prevalente incarico alla politica industriale dal 1970 al 1976. L'ennesimo ed inequivocabile segno della consumata deriva del PCI in quegli anni, c'è da ricordare che Spinelli era stato espulso dal PCI durante gli anni della clandestinità per le sue posizioni marcatamente anticomuniste.

Dal momento dell'accettazione della CEE, della Nato e delle istituzioni internazionali del capitalismo occidentale da parte del PCI, nasce la visione europeista della sinistra italiana, non a caso quando di fatto si abbandona definitivamente la prospettiva comunista e si inizia a costruire un partito finalizzato al suo superamento, e al superamento del patrimonio ideale del marxismo. Gli esecutori materiali della fine del PCI saranno anche la generazione di nuovi dirigenti della sinistra italiana che contribuiranno a portare l'Italia nell'euro e a completare il processo di integrazione della nuova Unione Europea. Saranno la parte determinante della classe dirigente che ha portato l'Italia al disastro. La stessa sinistra radicale, nonostante qualche distinguo su questioni limitate, subirà negli anni e subisce tuttora il fascino dell'operazione europeista di cui, dimenticando completamente la storia, arriva addirittura a considerarsi artefice. Qui si consolida l'equivoco di fondo.

Il PCI in precedenza peccò di gravi errori sul piano strategico, anche in occasione del voto sulla CEE, che non provocò –come purtroppo spesso accadde negli anni della segreteria Togliatti – alcuna conseguenza sul piano della mobilitazione generale delle masse, restando uno scontro, per quanto alto e ineccepibile dal punto di vista dei contenuti, tipicamente parlamentare. Era la linea tattica, si diceva, del PCI di allora. Una linea che alla fine si rivelò per tutta la sua portata strategica nell'accettazione del Parlamento come unico, o almeno privilegiato, luogo di scontro (istituzionale) nel Paese. La linea del non dare pretesti, del dimostrare la "responsabilità" del PCI e che ha condotto a capitolare passo dopo passo. Ma se tali rimproveri possono oggi essere fatti con il senno di poi a quel grande partito che era allora il Partito Comunista Italiano, nulla si può obiettare sulla posizione politica che il PCI prese riguardo all'integrazione europea, che è cristallina, coerente e assolutamente attuale anche oggi, nonostante il modificarsi di molte situazioni storiche, e ci consente di fare dei paralleli molto importanti.

Fin da subito la nascente CEE cercò di utilizzare il contrasto tra condizioni e livelli salariali dei lavoratori per abbassare il costo del lavoro e ottenere una leva di ricatto contro le rivendicazioni operaie. Lo fece inizialmente con le colonie francesi, e durò pochi anni senza riuscire a dispiegare a pieno i suoi effetti perché nel 1962 l'Algeria ottenne la sua indipendenza. Paradosso della storia ha voluto che questa fase si riprendesse con forza proprio con la caduta del socialismo nell'est Europa, terreno naturale di espansione dell'imperialismo europeo.

La struttura economica dei paesi della "piccola europa" ha subito importanti variazioni. In tutti questi paesi i monopoli hanno aumentato la loro influenza strategica nelle economie nazionali. L'Italia tra i paesi originari è quella che ha subito i mutamenti più grandi insieme con la Germania, che ha utilizzato l'annessione della DDR come strumento per lanciare ulteriormente il suo rafforzato potenziale economico, pagato a caro prezzo dai cittadini della vecchia DDR e dal resto d'Europa. Tuttavia la diversità iniziale, nonostante il dato generale della crescita dei monopoli nei singoli paesi ormai intrecciati in una comune ragnatela continentale, ha continuato a mantenersi nella forma dell'influenza esercitata nelle economie nazionali dal tessuto delle piccole e medie imprese. Un elemento come noto, particolarmente importante per l'Italia. Ciò che la politica di sovranità sulla moneta aveva evitato, non senza conseguenze sui lavoratori, è stato reso possibile con l'introduzione dell'euro. L'Europa dei monopoli, di quella che già il PCI nel 1957 giustamente definiva la "libertà per i monopolisti" ha avuto un ulteriore sviluppo privando gli stati della possibilità di intervenire sulla moneta. Il risultato è stato un'ulteriore crescita della concentrazione monopolistica a scapito della piccola impresa, una perdita di posizioni dei paesi con più elevato livello di piccole e medie imprese, che hanno risentito maggiormente del combinato dell'introduzione della moneta unica e dell'allargamento delle aree di libera circolazione (anche attraverso trattati con stati non aderenti alla UE in un'economia sempre più globalizzata). Le linee generali di quanto il PCI aveva giustamente previsto nel 1957 si sono realizzate, anche se con modalità storiche diverse e allora oggettivamente imprevedibili.

Il risultato è oggi un'Europa dei grandi monopoli nazionali e transnazionali che comprime i diritti dei lavoratori, che costringe al fallimento migliaia di piccole imprese e che concentra sempre in mani più ristretta la ricchezza prodotta, generando disoccupazione, precarietà, distruzione.

Anche la pretesa di pace che l'Unione Europea sostiene di realizzare e che in questi giorni ci viene propinata a reti unificate dagli spot europeisti del governo e della UE nasconde ben altro. Come disse giustamente Pajetta nel 1957 «Sbaglia profondamente chi pensa che un'economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso nell'avvenire», e aggiungo sebbene fosse già sottointeso, strumento di pace. L'Unione Europea ha dimostrato di essere pronta a scatenare e sostenere conflitti in nome degli interessi dei grandi monopoli che rappresenta. Lo ha fatto negli anni passati in Iraq, in Afghanistan, negli innumerevoli interventi di natura imperialistica sul continente africano, e oggi anche sul suolo europeo con il sostegno aperto garantito alle forze più reazionarie in Ucraina in nome della difesa di quegli interessi.

L'Unione Europea di oggi non è più la "piccola europa" del 1957. L'unificazione tedesca ha ricomposto una nazione economicamente in grado di esercitare una funzione di traino dell'area europea, che era oggettivamente ridotta al rango di protettorato USA quando sul suo odierno territorio correva il confine con il blocco comunista. E sebbene i rapporti con gli Stati Uniti siano centrali nella politica interna ed internazionale della UE, la situazione dal 1957 è fortemente mutata, per il peso che l'Unione Europea ha assunto nella competizione imperialistica globale. Pensare all'Unione Europea come strumento di pace è davvero utopia.

La stessa che tanta sinistra ancora oggi manifesta. Pajetta criticando il PSI e le forze di sinistra che non si opposero o votarono favorevolmente all'ingresso nella CEE disse: «Non vedere questi pericoli, essere sordi a queste indicazioni significa voler soltanto appiccicare un cartellino con sopra scritto "speranza" a questa macchina al cui volante siedono forze ben precise: queste forze non dimentichiamolo, sono i Valletta, sono i Marinotti, sono i potenti monopoli tedeschi, sono quelle forze che appoggiarono ogni politica più retriva e più antipopolare, che oggi sostengono il mercato comune.»  Basterebbe sostituire Valletta e Marinotti con Marchionne e Profumo, oppure Benetton, Marcegaglia, De Benedetti e il resto è ancora valido. Come l'illusione di voler attaccare un cartellino con sopra scritto "speranza" che potrebbe essere assunta a paradigma della campagna elettorale di una certa sinistra radicale ancora oggi. Con l'aggravante che nel 1957 il Mercato comune era oggettivamente un qualcosa di sconosciuto, dove solo l'analisi economica dei rapporti di produzione e dei rapporti di forza in quel processo, poteva dare un'indicazione. Oggi la natura dell'Unione Europea è sotto gli occhi di tutti, come i risultati delle politiche europee.

Il sogno di un'Unione Europea progressista e pacifica è un'illusione che non è mai appartenuta ai comunisti. Chi oggi cerca di dipingere l'antieuropeismo dei settori più coerenti del movimento comunista in Italia e a livello internazionale, come posizione estremistica, estranea alla nostra storia e tradizione politica, o peggio come cedimento alla destra e alle forze definite populiste, dimentica che i comunisti hanno compreso fin dall'origine la reale natura della UE. E fino a quando le loro posizioni sono state coerenti ideologicamente con il patrimonio teorico e di analisi del marxismo si sono opposti al processo di integrazione europea. La destra, che oggi si scopre paladina della sovranità nazionale, al contrario fu complice della creazione della CEE in funzione marcatamente anticomunista, sia a livello internazionale, per la sua opposizione all'URSS e al blocco comunista, sia interna, con il fine di arginare le possibilità di trasformazione della società in senso socialista.

Ma oggi una sinistra colpevole e complice dimentica tutto questo e consente alle forze neofasciste di rifarsi una verginità politica, attacca chi coerentemente mantiene una netta contrarietà all'Unione Europea dipingendolo come settario, eretico, o peggio ancora. Nel dare il proprio sostegno al processo di integrazione europea e  nel costruire artificialmente il mito dei nobili ideali all'origine dell'Unione Europea, la sinistra radicale post o cripto comunista contribuisce a farsi portatrice dell'inganno storico che subiamo, di cui diviene parte attiva. Al servizio, oggi come ieri, dei padroni di questa Europa, dei grandi monopoli industriali e finanziari le cui regole sono divenute diritto comune a scapito dei lavoratori. Una enorme responsabilità storica.

* Segretario del Fronte della Gioventù Comunista




INIZIATIVE SEGNALATE

1) Ronchi (Go) 14/6: DI COS'È IL NOME UN NOME?
2) Brescia 21/6: F E S T A Z A S T A V A 2 0 1 4
3) Trieste/Trst 26/6: LIPA, reading musicale per commemorare una strage
4) È uscito il nuovo numero della rivista MARX 21


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sabato 14 giugno

Giornata della cultura resistente
area feste Selz di Ronchi (Go) via Monte Cosich
dalle 16.30 alle 19.00 

Convegno storico, sociale e culturale:
DI COS'È IL NOME UN NOME?
con l'adesione di ANPI, ANED, Istituto di studi storici Gasparini, SKRD Jadro, circolo Arci Curiel San Canzian, circolo culturale e sportivo dell'Olmo; in collaborazione con la libreria la Linea d'Ombra di Ronchi e la casa editrice Kappa Vu

• Introduce e modera Luca Meneghesso
• Boris Pahor Proiezione video-intervista realizzata per il convegno
• Maurizio Puntin: La Ronchi “plurilinguistica” dei secoli passati
• Marco Barone: Ronchi “dei partigiani” le ragioni di una proposta
• Alessandra Kersevan: L'invenzione del nome “Venezia Giulia”
• Piero Purini: Costruzione della Nazione. I cambiamenti nelle denominazioni delle località dall'unità d'Italia al secondo dopoguerra.
• Wu Ming 1: Nomi tossici e Grande guerra
• Dibattito
Segue rinfresco con proposta di alcuni canti della tradizione sociale e politica di fine Ottocento - inizio Novecento, introdotti da brevi spiegazioni contestualizzanti il brano.

Dalle 21.00 alle 23.00 presentazione del nuovo libro del Collettivo WU MING “l'Armata dei Sonnambuli” con la presenza di WU MING1


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F E S T A Z A S T A V A 2 0 1 4

 L’ Associazione Zastava - Brescia invita  la gente amante della pace e della solidarietà alla annuale  cena  che si terrà
S A B A T O 2 1 G I U G N O 2 0 1 4
Presso la Casa del Popolo di Urago Mella, via Risorgimento, 18 - BRESCIA

LA SCELTA DI QUESTO RISTORANTE, GESTITO DALLA ASSOCIAZIONE “ ARCIMBOLDO “,

E’ DOVUTA ALLA OTTIMA QUALITA’ DEI SUOI PIATTI OLTRECHE’ ALL’ ATMOSFERA PIACEVOLE OFFERTA DA UN AMBIENTE AMICO DEI VALORI DELLA PACE E DELLA SOLIDARIETÀ CHE ISPIRANO LE NOSTRE ATTIVITÁ.

Il ritrovo è previsto per le ore 20.00 Il costo della cena è di 20 €

PIACEVOLI MUSICHE ACCOMPAGNERANNO LA SERATA

A causa del numero limitato dei posti ( 70 ), è necessario prenotare entro il 15 giugno, telefonando a uno dei seguenti numeri :

        - Alfredo -             030/2703114 - 347/2259942
Maria Grazia - 030/2312135 - 328/6460306
- Riccardo -          030/2793551 - 347/3224436
IN CASO DI BEL TEMPO STABILE, LA CENA POTRÀ TENERSI IN GIARDINO.
 In chiusura della serata avverrà l’ estrazione dei biglietti vincenti della nostra sottoscrizione a premi.
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GRAN PARTE DELLA SERBIA E’ STATA COLPITA DA UNA GRANDE ALLUVIONE CHE HA CAUSATO IMMENSI DANNI A COSE E PERSONE.
LA NOSTRA ASSOCIAZIONE, ASSIEME ALLE ALTRE CHE DA ANNI OPERANO IN FAVORE DELLE FAMIGLIE SERBE IN GRAVE DIFFICOLTA’ A CAUSA DEI BOMBARDAMENTI NATO DEL 1999, SI STA ADOPERANDO PER AIUTARE A SUPERARE ANCHE QUESTA CALAMITA’ CHE AGGIUNGE UN SERIO COLPO ALLE MAGRE ECONOMIE DELLE FASCE SOCIALI PIU’ DEBOLI E PER QUESTO, L’ INTERO RICAVATO DELLA SERATA SARA’ UTILIZZATO PER RICOSTRUIRE LE STRUTTURE SOCIALI DISTRUTTE.
Nel corso della serata verrà presentato e sottoposto all’ approvazione degli associati il bilancio consuntivo 2013.

http://digilander.iol.it/zastavabrescia/ mail : zastavabrescia@... fb: www.facebook.com/ZASTAVABRESCIA




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Comunicato Stampa - Lipa di Giuseppe Vergara - 26 giugno 2014


con cortese preghiera di diffusione
 
Lipa, un reading musicale per commemorare una strage
 
Giovedì 26 giugno 2014 alle 21.00 presso la Basilica di San Silvestro in Piazza San Silvestro a Trieste si replicherà lo spettacolo Lipa di Giuseppe Vergara.
Gli attori Tiziana Bertoli, Luca Giustolisi, Katia Monaco e Stefano Vattovani leggeranno ed interpreteranno il testo di Vergara con l’accompagnamento musicale dei Bachibaflax, la band di nove elementi diretta da Marco Vilevich autore anche della colonna sonora dello spettacolo. 
All’interno delle mura della più antica chiesa della città, che sorge accanto alla Chiesa di Santa Maria Maggiore, si potrà ascoltare la storia del paese di Lipa che il 30 aprile del 1944 fu raso al suolo da un rastrellamento nazifascista trasformatosi in una strage di innocenti civili. 269 persone furono trucidate quel triste giorno, 121 di loro erano bambini, gli altri anziani e donne. Un episodio poco conosciuto anche a Trieste che dista solo una sessantina di km dal paesino croato. L’intento dello spettacolo è quello di far conoscere questa triste vicenda attraverso un testo che intreccia il linguaggio storico a quello narrativo, grazie alla forma del reading musicale, per uno spettacolo della durata di quasi due ore. L’entrata sarà ad offerta libera.
 
Per maggiori informazioni e per la visione di contributi video, quali trailer e spezzoni dello spettacolo, è attiva la pagina Facebook  "Lipa" disponibile anche per chi non è iscritto al Social Network.
 
http://www.facebook.com/lipa1944
 
per contatti e prenotazione posti
gvergar64@...


=== 4 ===

Da: MARX VENTUNO <marxventuno.rivista@...>
Oggetto: nuovo numero della rivista “Marxventuno”
Data: 03 giugno 2014 07:41:47 CEST
A: undisclosed-recipients:;


È uscito il nuovo numero della rivista “Marxventuno”:

numero doppio, 1-2 del 2014 (euro 12).


La rivista Marxventuno può essere spedita a richiesta. Scrivere a marxventuno.rivista@...

 

Il n. 1-2 del 2014 consta di 164 pagine, con un corposo supplemento sulla crisi ucraina, introdotto dall’esemplare analisi di Manlio Dinucci sull’espansione della Nato ad Est e la strategia usamericana verso (e contro) la Russia e verso (e anche contro) gli alleati subalterni della Ue.

Accanto ad articoli che analizzano i precedenti e le dinamiche del colpo di stato a Kiev (si veda il documentatissimo articolo di Bensaada), la pesante ingerenza occidentale, il ruolo della destra neonazista e delle sue formazioni militari armate, nonché l’attacco ideologico del revisionismo storico all’esperienza dell’Ucraina sovietica (cui risponde documentatamente la storica marxista Annie Lacroix-Riz) vi è una sezione dedicata ai comunisti ucraini, alla loro linea politica (cfr. l’art. di L. Marino), alla loro azione in questi ultimi mesi, fino all’insorgenza del Sud-est russofono (si veda l’articolo di Pettinari).

Segnaliamo la corposa cronologia sull’Ucraina post-sovietica, con una dettagliata sezione sugli eventi da novembre a fine aprile. Abbiamo ritenuto con ciò di fornire ai lettori uno strumento per una corretta comprensione dei processi in corso (similmente fu fatto nel numero speciale di settembre-ottobre 2013 dedicato alle “riforme costituzionali”).

Nel fascicolo si affronta anche il contemporaneo esplodere di un tentativo di “rivoluzione colorata” in Venezuela (cfr. art di Lamattina) per riportare sotto il controllo imperialista la repubblica bolivariana e se ne propone una lettura contestuale.

La riflessione di Alessandro Leoni sulla “fase post-sovietica”, pur elaborata nell’agosto scorso a ridosso del possibile acuirsi della crisi siriana, mantiene tutta la sua pregnanza alla luce di quanto sta accadendo in Ucraina.

Per la preparazione della parte speciale sull’Ucraina prezioso è stato il supporto del sito dell’associazione Marx XXI (www.marx21.it) e del suo direttore Mauro Gemma, con un’imponente pubblicazione di documenti tradotti dall’originale, nonché del profilo Facebook “Con l’Ucraina antifascista”:

(https://www.facebook.com/ucrainaantifascista).

 

La crisi ucraina, che riporta la guerra in Europa, rivela sempre più chiaramente la portata mondiale dei processi in corso, che solo una visione provinciale di una certa sinistra in Italia si ostina a non cogliere o a rimuovere. Altrove, nella Repubblica Popolare Cinese, si organizzano invece Forum sulla grande crisi capitalistica e sulle prospettive del socialismo nel mondo. Il IV Forum mondiale del socialismo, tenutosi a Pechino a fine ottobre 2013, rappresenta un notevole contributo di analisi economico-sociale e politica che l’Accademia cinese delle scienze sociali (che pubblica da tre anni in inglese la rivista internazionale International critical Thought, cfr. scheda in quarta di copertina) e il PCC apportano al movimento comunista e operaio internazionale, nella ricerca, pur tra le diversità e differenze presenti, di punti forti di convergenza per un nuovo “rinascimento socialista”. La crisi capitalistica, infatti, apre un’intera fase storica che può condurre a vittorie decisive del proletariato o ad amare disfatte. I comunisti sono di fron­te al compito storico della transizione al nuovo ordine sociale. Se ne dà nel fascicolo un ampio resoconto (A. Catone), insieme con la pubblicazione del discorso introduttivo del presidente dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali Wang Weiguang.

 

Il quadro delle questioni internazionali è arricchito, inoltre, da un’analisi delle politiche del Partido dos Trabalhadores brasiliano (cfr. M. A. da Silva) e da report su iniziative di solidarietà con la causa della liberazione del popolo palestinese (O. Terracini, M. Musolino).

 

Sul piano interno, il fascicolo propone, insieme con un’analisi giuridico-istituzionale del “caso ILVA” e degli embrioni di stato neo-corporativo che le soluzioni legislative adottate per esso adombrano (cfr. gli articoli di D’Albergo e Bucci), un report sul convegno dell’associazione “Futura umanità” dedicato a “Togliatti e la Costituzione”, insieme con la pubblicazione di alcune relazioni in esso presentate (A. Hoebel, P. Ciofi, presidente dell’associazione “Futura umanità”): questione quanto mai attuale in questa fase di accelerati tentativi di ulteriore stravolgimento dell’impianto costituzionale.

 

La riaffermazione dei valori della Costituzione repubblicana, l’indisponibilità a vanificare i diritti da essa contemplati e la superiorità della Carta costituzionale rispetto a qualunque trattato internazionale costituiscono uno dei punti fondamentali del documento sulle “Idee e programma dei comunisti italiani per le elezioni europee”, che la rivista propone a mo’ di editoriale. In esso sono sintetizzate diverse questioni che anche il piccolo lavoro di analisi ed elaborazione di questa rivista ha contribuito a definire: il carattere regressivo, oligar­chico, antidemocratico e imperialista del­l’Unione Europea; la centralità del settore pubblico dell’economia per una programmazione democratica; la netta opposizione alle politiche di Ue e Nato; la necessità di rafforzare i legami tra i partiti comunisti, i movimenti anticapitalisti, antimperialisti e progressisti insieme con quella – nonostante le grandi difficoltà e le occasioni perse (si veda in proposito l’articolo di Bruno Steri, direttore della rivista “Essere comunisti” – di unire in Italia i comunisti su basi di affinità politica, programmatica, ideale e di collocazione internazionalista in un unico partito comunista, che si ispiri alla migliore tradizione del PCI, attualizzandola, bandendo ogni settarismo e subalternità.

Per ricostruire il soggetto politico comunista, fondamentale è l’attività di formazione politica marxista e comunista (si riporta qui l’esperienza della scuola “Gramsci” di Ancona”, diretta da R. Giacomini), di elaborazione culturale per l’analisi del presente e per riappropriarsi della storia dei comunisti (nella rivista vi è una breve scheda del volume curato da A. Hoebel e M. Albeltaro, “Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia”, frutto di due convegni promossi nel 2011 dall’Associazione Marx XXI). È importante che si sviluppino associazioni e una rete di associazioni che promuovano e favoriscano il dialogo e l’elaborazione collettiva, terreno su cui è nata l’associazione Marx XXI, di cui si propone un ampio programma di attività (cfr. l’art. di Hoebel e Pellegrini), come anche riviste quali “Gramsci oggi”, che ha compiuto 10 anni (cfr. l’art. del suo direttore Giai-Levra).

La rivista “Marxventuno” continuerà nei prossimi fascicoli ad ospitare interventi e riflessioni, come anche report di esperienze di associazioni e riviste marxiste e comuniste, per favorire il dialogo e la costruzione dell’intellettuale collettivo, del soggetto politico comunista.

 

Ai lettori, a quanti trovano di una qualche utilità il nostro lavoro volto alla ricostruzione del soggetto politico comunista, fornendo strumenti per la lettura critica della realtà, insieme con l’elaborazione di indicazioni programmatiche, chiediamo di sostenerci con proposte di pubblicazione, articoli, suggerimenti, critiche. E chiediamo anche – last but not least – un contributo concreto, abbonandosi o rinnovando l’abbonamento, condizione essenziale perché si possa continuare in questa impresa.

 

Andrea Catone

 

Indice e abstracts

 

Comunisti in Europa uniti per la pace, il lavoro e la solidarietà internazionale

Idee e programma dei comunisti italiani per le elezioni europee

 

Manlio Dinucci - La vera posta in gioco nella crisi ucraina

L’Ucraina è una pedina fondamentale nel piano Usa di espansione a est, cominciato con l’in­globamento nella Nato di paesi dell’ex patto di Varsavia, dell’ex URSS e dell’ex Jugoslavia e corredato più di recente dal­l’in­stal­lazione di basi e forze militari a ridosso della Russia.

 

Mauro Gemma - L’Ucraina, l’Unione europea e la NATO

Quanto accade in Ucraina non è circoscrivibile alle vicende di quella repubblica ex sovietica. È parte di un piano organico elaborato da tempo dagli USA, dalla Nato, dai gruppi dominanti della Ue volto a destabilizzare, rovesciare e poi annettere, anche in Europa, quei paesi e governi che non accettano la tutela euro-atlantica

 

Federico La Mattina - Imperialismo occidentale e golpismo reazionario in Venezuela e Ucraina

In Venezuela la destra neofascista sta provando ad abbattere il legittimo governo di Maduro, con il supporto delle oligarchie economiche e mediatiche e degli USA. In Ucraina USA e NATO hanno supportato un golpe nazionalista, diretto da forze nazionaliste e neonaziste. Occorre lottare per lo smntellamento della nato e delle basi USA in territorio europeo.

 

Ahmed Bensaada - Ucraina: anatomia di un colpo di stato

Il cambio di governo in Ucraina è stato presentato come legittimo ed espressione della volontà popolare. Ma il golpe neonazista, ampiamente sostenuto dalle potenze imperialiste, non è che un tentativo di isolare la Russia e limitarne la crescente importanza nelle que­stioni internazionali.

 

Chiara Stella Smaldino - Il fumo nero di Kiev

Con il golpe del 22 febbraio, avvenuto con il benestare e il sostegno delle potenze imperialiste occidentali, salgono al potere uomini politici che si rifanno esplicitamente al Terzo Reich, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale

 

Annie Lacroix-Riz - Holodomor: nuovo avatar dell’anticomunismo“europeo”

Una scarsità di raccolti, dipendente, in parte da fenomeni naturali, in parte dall’ostilità dei Kulaki, fornisce recentemente l’occasione al Parlamento Europeo di accusare l’URSS di “Holodomor”, un genocidio programmato nei confronti della popolazione ucraina, con cifre superiori a quelle dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti.

 

Flavio Pettinari - La sollevazione dell’Ucraina sud-orientale

La richiesta di un referendum per uno stato federale che rispetti i diritti delle minoranze e il rifiuto dell’accordo di associazione alla ue sono alla base della sollevazione, con marcati caratteri antifascisti, dell’Ucraina sud-orientale

 

Luigi Marino - La linea politica del Partito comunista d’Ucraina

Nato nel luglio del 1918, Il PCU ha avuto un’importanza fondamentale nella storia dell’URSS sino all’illegale sua proibizione nel 1991. Riorganizzatosi nel ’93, Mantenendo fermo l’obiettivo del socialismo, ha varato un programma minimo: contro il presidenzialismo, per l’intervento pubblico e la pianificazione in economia, contro l’imperialismo e la NATO.

I comunisti nella crisi ucraina. Documenti

 

Cronologia dell’Ucraina post-sovietica

 

Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia. Breve scheda e indice

 

Andrea Catone - Il IV Forum mondiale del Socialismo a Pechino

Il IV Forum mondiale del socialismo, tenutosi a Pechino a fine ottobre 2013, rappresenta un notevole contributo di analisi economico-sociale e politica che l’Accademia cinese delle scienze sociali e il PCC apportano al movimento comunista e operaio internazionale, nella ricerca, pur tra le diversità e differenze presenti, di punti forti di convergenza per un nuovo “rinascimento socialista”.

 

Wang Weiguang - Le promettenti prospettive del marxismo e del socialismo nel mondo

Il processo storico mondiale mostra, con la grande crisi attuale, la natura decadente del capitalismo e l’i­nevitabile vittoria del socialismo, che però non sarà facile, né realizzabile in breve tempo. Bisogna intensificare lo studio su a) l’esperienza storica del socialismo in URSS e le cause della sua sconfitta; b) i nuovi aspetti del capitalismo. Il socialismo con caratteristiche cinesi mostra, di fronte alla crisi finanziaria internazionale, la sua vitalità.

 

Alessandro Leoni - L’epoca presente come “fase post-sovietica”

La realtà della Russia post-sovietica va interpretata in tutta la sua novità al fine di mutare i parametri fin ad oggi utilizzati dalle forze alternative/rivoluzionarie per definire le proprie linee guida politico-programmatiche.

 

Salvatore d’Albergo - Ilva: dalla crisi di Taranto ai privilegi dei Riva

Lo schermo dell’“interesse strategico nazionale”, sia se adoperato in modo surrettizio (come nel caso “Alitalia”), sia se anteposto in modo ostentato (come nel caso Ilva), non può essere utilizzato come una sorta di spot idoneo a legittimare violazioni crescenti di norme costituzionali ancora formalmente in vigore, come gli artt. 41 e 43 della Costituzione.

 

Gaetano Bucci, Salvatore D’Albergo - L’Ilva e gli embrioni di uno Stato neo-corporativo

Nella vicenda dell’Ilva, si deve osservare come la normativa adottata dal Governo per disciplinare un settore produttivo ritenuto enfaticamente di “in­teresse strategico nazionale”, risulti “an­ti­de­mo­cra­tica” ed “antisociale” perché contrasta con l’im­po­sta­zione e con le finalità della Costituzione.

 

Bruno Steri - Il congresso del Prc: un’occasione persa

Il congresso del Prc tenutosi a dicembre 2013 a Perugia non fa fare concreti passi in avanti a questioni vitali quali il processo di unificazione dal basso dei comunisti e la costituzione di un polo (o fronte) della sinistra di alternativa, formula che invece, in altri contesti europei, ha consentito ai comunisti di mantenere la propria identità politico-organizzativa in sintonia con la storia e la specifica esperienza politica dei diversi Paesi

 

Marcos Aurélio da Silva - Sulla strada del riformismo: il Brasile sotto i governi del PT

I governi del PT in Brasile, succeduti al regime dittatoriale e oppressivo dei militari, hanno operato per sanare le piaghe economiche del paese. Mentre parte della sinistra, considerando alcuni aspetti negativi come caratteri dominanti, si lancia in una critica feroce, l'autore ritiene, sulla base di una concezione dialettica della trasformazione sociale ispirata a Lenin e Gramsci, che le scelte economiche del PT vadano inquadrate in un processo progressivo.

 

Ornella Terracini - Mai complici di Israele

Intervento tenuto in occasione della ma­ni­fe­sta­zio­ne contro il vertice Letta-Netanyahu (2-12-2013), in cui si legge un bilancio complessivo e sentito delle iniziative a cui l’autrice ha preso parte, accompagnato da considerazioni sul­l’oc­cu­pazione sionista in Palestina e sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

 

Maurizio Musolino - Per non dimenticare… il diritto al ritorno

Resoconto del viaggio dei 17 membri della delegazione del Comitato “Per non dimenticare… Il diritto al ritorno” a Gaza, agli inizi di gennaio. Un viaggio motivato dal­­l’e­si­genza di rafforzare la solidarietà ai profughi palestinesi ed il lavoro internazionale per il loro diritto a tornare nella loro terra.

 

Francesco Valerio Della Croce - La cultura togliattiana nella Costituzione del ’48

Report sul convegno “Togliatti e la Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro”, organizzato a Roma l’8 novembre 2003 da “Futura Umanità, associazione per la storia e la memoria del PCI”.

 

Alexander Höbel - Togliatti, la “democrazia di tipo nuovo”, la Costituente. Un’elaborazione di lunga durata

La linea della democrazia progressiva, cioè della costruzione di una democrazia organizzata, articolata, partecipata, è per Togliatti uno dei cardini dell'avvicinamento al socialismo. L’importanza del contributo togliattiano a questo tema sta nel fatto che esso si lega alla sua battaglia per l’Assemblea costituente e per una Costituzione che non si limiti a codificare gli assetti esistenti, ma che sia un programma per il futuro.

 

Paolo Ciofi - Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e socialismo

La strategia di Palmiro Togliatti, il rivoluzionario costituente, ponendo i comunisti alla testa della guerra di liberazione e cementando l’unità dei partiti antifascisti, consentì di liquidare la monarchia e il fascismo e aprì la strada alla Costituzione del ’48 che mette  il lavoro a fondamento del patto tra gli italiani e che è il vero progetto per cambiare l’Italia e l’Europa.

 

Ruggero Giacomini - La scuola di formazione Gramsci

Tradizionalmente importante e molto curata nelle scuole di partito del PCI, la formazione è stata completamente trascurata dagli anni ’80. La Scuola di formazione politica Antonio Gramsci,sorta su iniziativa del Pdci-Marche e di Marx XXI vuole dare un segnale di inversione di tendenza e si propone di irrobustire la conoscenza e la coscienza dei militanti comunisti e della sinistra, specialmente dei più giovani.

 

Rolando Giai-Levra - La rivista “Antonio Gramsci oggi” compie dieci anni

Incoraggiante bilancio di 10 anni di attività e prospettive future della rivista digitale politico-culturale Antonio Gramsci oggi, sorta a Milano nel 2003 su iniziativa di un gruppo di compagni per aprire un dibattito sull’unità dei comunisti e sul possibile fronte della Sinistra.

 

Alexander Höbel, Paola Pellegrini - Rilanciare e rafforzare l’associazione Marx XXI

Bilancio e direttrici di un vasto programma di attività dell’associazione politico-culturale Marx XXI, fondata nel 2010 con l’obiettivo di produrre elaborazioni, studi e programmi che, sul piano teorico e culturale, ponessero le basi per il lavoro politico teso alla riunificazione in Italia delle forze che si richiamano al marxismo e al comunismo, nel quadro di un confronto con il complesso delle tendenze culturali e politiche anticapitaliste, progressive e democratiche a livello nazionale ed internazionale.

 

La rivista International critical Thought

 

ABBONAMENTO ANNUALE ORDINARIO: 30 EURO

ANNUALE ESTERO POSTA PRIORITARIA: 65 EURO

ANNUALE SOSTENITORE 80 EURO (O PIÙ)

 

PER STUDENTI, CASSINTEGRATI, ESODATI, DISOCCUPATI: 20 EURO.

 

 

SI PUÒ EFFETTUARE IL VERSAMENTO:

 

- SUL C/C POSTALE N. 001014700429  INTESTATO A: MARXVENTUNO EDIZIONI, II STRADA PRIVATA BORRELLI, N. 34, BARI

 

- TRAMITE BONIFICO BANCARIO:

IBAN: IT97 W076 0104 0000 0101 4700 429

 

- ON LINE DAL SITO WWW.MARX21.IT:

HTTP://WWW.MARX21.IT/COMPONENT/CONTENT/ARTICLE/32-LA-RIVISTA-MARXVENTUNO/549-CAMPAGNA-ABBONAMENTI-2012.HTML







Evropsko glasanje i perspektive komunista prema PdCI

1) Povodom iskustva Belgije (Fausto Sorini)
2) Prva analiza italijanskog glasanja (Cesare Procaccini)
3) Neke početne razmatranja na europskim izborima (Fausto Sorini)

(prevod: Jasna Tkalec)


=== 1 ===

(il testo originale, in lingua italiana:
Sulle prospettive dei comunisti in Italia: spunti dall'esperienza del Belgio
di Fausto Sorini, segreteria nazionale PdCI, responsabile esteri - 30 Maggio 2014

O perspektivama komunista u Italiji: povodom iskustva Belgije

Fausto Sorini, nacionalni sekretar PdCi (Paartije Talijanskih Komunista) za vanska pitanja

Pozivam sve drugarice i drugove da vrlo pažljivo pročitaju ovaj članak [http://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-europa/24144-brillante-successo-elettorale-del-partito-del-lavoro-del-belgio.html] i da prouče iskustva PTB (Radničke partije Belgije).

Ta malena lenjinistička partija imala je do prije nekoliko godina samo nekoliko hiljada članova i na nacionalnim izborima dobijala je manje od 1% glasova. Zahvaljujući inteligentnom i strpljivom radu, koji se nije osvrtao na izbornu logiku, kao ni na političke i institucionalne prodore, za svega nekoliko godina uspjela je ne samo pojačati vlastitu društvenu ukorijenjenost, već postati partija koja raspolaže sa kadrovima i sa aktivistima, umnožila je članstvo (na kvantitativnoj i selektivnoj osnovi, najvećim dijelom radi se o aktivnim članovima): na kraju je postigla nevjerojatne rezulate, koje ni sama nije očekivala; prešla je izborni prag od 5% glasova i u nacionalni parlament uvela 4 komunistička zastupnika.

Treba proučiti to iskustvo ne kopirajući ga doslovno, već iz njega crpeći one aspekte koji su općeprimjenjivi i u našem kontekstu, a ono je sigurno korisno, gledajući na velike teškoće na koje komunisti nailaze u našoj zemlji, u cilju da se odrupremo konkretnim primjerima razornim likvidatorskim tendencijama.

Iskustvo male (ali sve manje male...) Belgijeske Partije rada (PTB) i to lenjinističke pokazuje, između ostalog, koliko je neutemeljena likvidatorska teza, koja se danas širi na sve strane u debeti koja se vodi na talijanskoj ljevici, a prema kojoj u najrazvijenijim kapitalističkim zemljama (kakve su Italija i Belgija...) navodno nema više objektivno mjesta za postojanje male i revolucionarne komunističke partije sastavljene od kadrova i od aktivista, koji čvrsto politički i ideološki uz nju pristaju, prihvataju organizaciju lenjinističkog tipa sa znatnim utjecajem na mase , koji je itekako društveno koristan (to jest ne predstavlja isključivo grupice ili ostatak izvjesnog političkog iskustva).

Belgijsko iskustvo predstavlja, između ostalog, sjajnu negaciju takvih likvidatorskih težnji.



=== 2 ===


(il testo originale, in lingua italiana:
In Europa crescono i comunisti. Prima analisi del voto italiano
di Cesare Procaccini, segretario nazionale PdCI - 26 Maggio 2014


Cesare Procaccini, nacionalni sekretar Pdci (Partije talijuanskih komunista), piše:

Rezultat evropskog glasanja, kojeg treba analizirati mirno i sa svim konačnim podacima, pokazuje napredovanje antievropskih i nacionalističkih snaga. Gromoglasan, ali ne i neočekivan, jest uspjeh francuskogFront national i ostalih partija ekstremne desnice, počevši od Grčke, do Španije i Cipra.

U Italiji snažnu pobjedu Pd (Partito democratico –Demokratske partije) treba više pripisati ogromnoj popularnosti Renzija (bez podcijenjivanja učinka obećanih 80 Eura povišice) nego upravo evropskim usmjerenjima, budući da Italija plaća jako visoku cijenu politici Evropske Unije. Taj rezultat ipak odbacuje i to metlom ljevičarsku manjinu, koja postoji unutar te partije.

Grillo, koji ima ipak još mnogo uspjeha, sa svojim zadnjih blesavim izjavama o „narodnim sudovima“ upravo se svojski potrudio da izgubi (od posljednjih izbora dva miliona glasova). Ne treba zapostaviti, na kraju krajeva, ni poraz partije Forza Italia (Berlusconijeva stranka prim. prev.) sa prelivanjem glasova u Pd (Demokratsku partiju).

Rezultat od 4% glasova, koji je dobio Tsipras, kojem ne treba zaboraviti da je izjavio da ine želi ići s Pdci (Partijom talijanskih komunista) jest rezultat koji bi mogao biti bolji da je bolje uspio povećati i proširiti jedinstvo ljevice u Italiji i u Evropi, krenuvši od pojačanja Evropske ljevice (Gue- gauche EU). Pred tim opredjeljenjima, pogrešnim svakako, reakcija Partije talijanskih komunista bila je racionalna i hladna, sa pogledom koji je gledao dalje od izbornih rezultata, i nije se zatvorio u vlastitu ljusku zbog teške diskriminacije, koju je doživio, održavajući otovrenom diskusiju sa najnaprednijim kandidatima liste Tsipras. Ovom prilikom želim zahvaliti svima onima, koji su potpisali naš programski manifest, izražavajući nadu da će se upravo na tim temama sljedećih tjedana nastaviti važan zajednički rad.

Jasno je da će se definitivno moći odlučiti, kad se bude vidjelo tko je izabran, no analiza rezultata ne može nas navesti da podcijenimo velik neizlazak na izbore i vrlo jako personaliziranje politike. Što se tiče naše zemlje, i bez kandidata vodili smo autonomnu izbornu kampanju, sa snažnim optuživanjem državnog udara u Ukrajini, ne preskačući teme koje se odnose na rad i na tematiku, koju su drugi podcijenili, antifašizma. Svim drugaricima i drugovima, koji su bez ekonomskih sredstava, ali s oduševljenjem i požrtvovanjem vodili kampanju ne štedeći sebe, veliko hvala. Isto tako treba izraziti zahvalnost na teritorijima, gdje su bili i administrativni izbori, drugovima iz Partije talijanskih komunista, koji su se borili za socijalna prava radnika.

Evidentno je, da i izvan liste Tsipras, nema alternative za budućnost komunista i općenito za budućnost ljevice, osim pristupanjem stvaranju širokog jedinstvenog fronta lijevih snaga na socijalnom i političkom planu, čija će osnovica biti svijet rada i radnih prava, u kojem će komunisti biti prisutni sa svojim autonomnim radom i doprinosom, koji će biti jači i više strukturiran od onog drugih političkih subjekata u igri. Moramo na nov i još neispitan način otvoriti „pitanje komunista u Italiji“. Treba nam jedinstveni front, koji će biti sposoban u borbi da uspostavi odnos sa onim dijelom populacije talijanske ljevice (ma kako oni danas bili politički locirani) koji će umijeti ponuditi radnicima, kao i mladima onu političku obalu i onu opciju, koje danas nema te bi bilo kratkovidno smatrati, da je ona jedino sadržana u rezultatima liste Tsipras.


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(il testo originale, in lingua italiana:

Alcune prime considerazioni sul voto europeo
di Fausto Sorini, segreteria nazionale PdCI, responsabile esteri - 27 Maggio 2014

Fausto Sorini, zadužen za vanjska pitanja PdCI (Partije talijanskih komunista), piše:


Očekujući dublju analizu glasanja za novi Evropski parlament kazao bih da se zasad mogu izvući sljedeći zaključci:

  • Od 800 miliona ljudi, koji predstavljaju ukupno Evropski kontinent, više od 500 miliona žive u zemljama što čine Evropsku Uniju (koja nije nipošto cijela Evropa). Od njih 400 miliona ima pravo glasa, a od tih je svega 43% izišlo pred biračke kutije (oko 170 miliona otprilike): jednaki postotak je glasao na evropskim izborima i 2009, sa danas vrhuncima neizlaska u Slovačkoj 13% i najvećeg izlaska u Italiji od 59% (izuzetak je Belgija sa 90%, gdje je izlazak na glasanje obavezan, odnosno u toj zemlji neizlazak na glasanje podliježe sankcijama).


  • Uzimajući u obzir bijele glasačke listiće ili one nevažeće, činjenica je, da gotova trećina „važećih“ listića pripada ili krajnjoj desnici ili krajnjoj ljevici, što ukazuje na radikalno kritičan odnos prema ovoj sakatoj „Evropi“, kapitalističkoj, liberističkoj i atlantskoj, kakva je danas Evropska Zajednica; zato nije pretjerano ustvrditi da bar 3 građanina Evropske Zajednice, od njih 4, takvu zajednicu osjećaju tuđom i neprijateljskom (i u tome su potpuno u pravu).


-Zabrinjava iz niza razloga, koji se odnose i na stanje ljevice u Evropi (u izvjesnim slučajevima i na komuniste),da zbog njene slabe ukorijenjenosti i zato što ona više nije alternativa sistemu, već je politikanstka, udaljena kako od radnika tako i od mladih, koji su tu pred njom svojim živim tijelom, to izražavaje nezadovoljstva narodnih masa i nelagode najsiromašnijih slojeva društva, najteže pogođenih kapitalističkom krizom, biva iskorišteno od populističkih fomacija ekstremne desnice, u pojedinim slučajevima otvoreno fašističkih ili filonacističkih. Najteži slučaj predstavlja Francuska, gdje je antisocijalna i militarističkapolitika Socijalističke partije Hollandea, potpuno podložne vodećim euro-atlanskim usmjerenjima, kao i cijeli niz poteškoća i podjela na lijevom frontu kao i podijela među komunistima, koje potječu od davnih vremena (iako još nisu toliko teške i komplicirane kao u Italiji...), ostavio ogroman prostor jednoj fašistoidnoj političkoj formaciji, kakav je Front national, koji se danas postavlja tako kao da želi postati pokretač politike u jednoj od ključnih zemalja evropskog i svjetskog konteksta.


- Ima i situacija gdje,- nasuprot navedenom primjeru -, kao što je to slučaj u Portugalu, ali na izvjestan način i u Grčkoj i na Cipru, fundamentalni i najborbeniji dio socijalnog nezadovoljstva okreću prema sebi i organiziraju solidarne i vrlo odlučne komunističke partije, koje su suštinski dio borbene i masovne ljevice, počevši od sindikata; u tim su zemljama sindikati klasni i pored toga vrlo jaki i uopće nisu podložni onima, koji se slažu sa sistemom i na taj način oni umanjuju i zadržavaju napredovanje reakcionarnog populizma, dok najborbeniji dio svijeta rada kao i svijeta mladih nalazi u tim partijama pozitivan i napredan izlaz za vlastitu socijalnu nelagodu.



-U toj općoj slici ističe se suštinska stabilnost i još veće jačanje partija, koje dominiraju u Njemačkoj (Narodna i Spd) kao i vodstvo gospođe Merkel, unutar „velike koalicije“ (koja predstavlja shemu bipolarnih vlada Evropske Unije, koje smo već vidjeli u prošlosti i koje ćemo izgleda vidjeti i u godinama koje dolaze): to je primjer novog njemačkog imperijalizma, koji je u isto vrijeme solidaran, a ujedno i u kompeticiji sa američkim imperijalizmom; on raspolaže nesumnjivim koliko i zabrinjavajućim društvenim pristankom, štoi obuhvaća i široke mase stanovništva, i što želi biti pokretačem jedne Evropske Unije sve više germanocentrističke, što vlada nad drugim zemljama i nad drugim narodima euro-zone, na prešutan, ali vrlo agresivan način, i koja je– uz SAD – sukrivac ponovnog rađanja neonacizma i to u zemlji, koja je ključna za evropsku ravnotežu i za odnose Istok-Zapad i za zemlje kao što je Ukrajina.


- Što se tiče Italije, nju je daleko lakše pročitati, unutar njene negativnosti:

- ističe se veliki uspjeh Renzija, koji je izvrsno uspio pobijediti u natjecanju s Grillom kao i sa Berlusconijem. Unutarnja lijeva manjina PD-a (Demokratske partije) ispala je tim uspjehom masakrirna. Posljedice svegta toga su vrlo ngativne, kako za zemlju tako i za cijelu talijansku ljevicu. I to će se vrlo brzo pokazati, nakon početne opijenosti.


-ListaTsipras jedva jedvice je prešla izborni prag (s nekoliko hiljada glasova), ali ne uspijeva utjecati, na značajan način, i zbog izborne ogrničenosti i zbog politikanstva, kojim je prožeta, niti na izbornu masu ljevice PD (Demokratske partije) niti na Grillov pokret zvan 5 zvijezda. Izbile su kao hegemone odnosno kao vodeće njezine unutarnje najumjerenije komponente, što je bilo i predvidivo, na planu zastupanja u Evropskom parlamentu.

To neka posluži kao pouka onima, koji su, kao Rifondazione comunista (Ponovno osnovani komunisti) ili drugi slični, mislili da će imati koristi i da će za njih biti neka predsnost, ukoliko se bude diskriminirao jedan dio komunista.

Neka nam bude dopušteno istaći, sa malo ironije (i samoironije) da je glas jednog dijela tradicionalnih glasača komunista bio apsolutnopresudan u postizanju kvoruma za izborni prag. Ovo nije sud, nego kostatacija. A to je bilo moguće jer je upravljačka grupacija naše partije reagirala hladno i politički racionalno i gledajući dalje od izbornih rezultata i zaboravljajući na tešku diskriminaciju, kojom smo postali objektom, budući da su nas prisilno izbacili iz izbornog natjecanja i zato smo se osobno založili da se članstvo ponaša odgovorno i da se izbjegne mogući neizlazak na izbore, kao i to, da postanemo žrtve podcjenjivanja.

Nadilazeći rezultat iste Tsipras , nema alternative za budućnost komunista i za talijansku klasnu ljevicu, osim stvaranja jedinstvenog fronta sa svim snagama ljevice u društvu i u politici, i to fronta koji će imati vlastito utemeljenje u protoganističkoj ulozi, koja se pridaje svijetu rada, u kojem će komunisti biti prisutni svojom vlastitom partijom, koju treba potpuno iznova izgraditi. Radi se o jedinstvenom frontu socijalne borbe, ujedinjene sa sindikalnom i poolitičkom borbom. I to borbe koje će umijeti ponuditi radnicima kao i mladima u našoj zemlji onu političku obalu, koju čitavu tek moramo izgraditi. I za koju bi bilo kratkovidno smatrati da lista Tsipras (sa svim svojim ishodišnim ograničenjima) predstavlja izvjesno najavljivanje.







LA NUOVA RIVOLUZIONARIA FASE DELLA POLITICA ITALIANA


«Per un po’ di anni sono stata … la Madonna del Presepe vivente del mio paese… Sono stata la prima chierichetta femmina nella storia della parrocchia dei santi Ippolito e Cassiano. Pensa tu che record! E sono stata catechista per cinque anni». Ha inoltre partecipato a due giornate mondiali della gioventù wojtyliana.

(Maria Elena Boschi, Ministro per le Riforme costituzionali e per i Rapporti con il Parlamento del Governo Renzi.