Informazione

(english / italiano / deutsch)

Vigliacco pronunciamento sul Kosmet all'Aia

0) CIG: La dichiarazione di secessione non viola il diritto internazionale (Politika)
1) UN court upholds Kosovo’s declaration of independence (WSWS)
2) Unwürdige Wortklauberei / Serbisches Parlament beschließt Resolution zum Kosovo (junge Welt)
3) KKE: Decision “adding fuel to the fire” of the imperialist interventions / Decisione che getta benzina sul fuoco degli interventi imperialisti
4) Reactions / reazioni:
Interview: UN court did not say Kosovo's declaration of independence is legal: law experts (Xinhua News Agency)
UN court ruling on Kosovo opens Pandora’s box – lawmaker (Interfax)
U.S. VP [Joe Biden]: Independence is irreversible (Beta)
5) Chain reaction / reazione a catena:
Kosovo, è contagio-indipendenza ora è scontro sui serbi di Bosnia (Repubblica 24/7/2010)
Kyrgyzstan protests against OSCE deployment  (Voice of Russia 26/7/2010)
Tatarstan Nationalist Leader Encouraged By Court Ruling On Kosovo (RFE 26/7/2010)
6) Kosovo: 2 disegni possibili di risoluzione (Politika 17/07/2010)
7) FLASKBACK: l’Iraq appoggia la sovranità serba in Kosovo (febbraio 2010)


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(trad. e sintesi a cura di CNJ-onlus)

Corte Internazionale di Giustizia: La dichiarazione di secessione non viola il diritto internazionale


L'AIA - La Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja (CIG) ha dichiarato che la dichiarazione delle autorità provvisorie a Pristina sull'indipendenza del Kosovo non viola il diritto internazionale.
In questo modo, la Corte dell'Aja non ha riconosciuto il diritto degli albanesi del Kosovo alla secessione, e la decisione sul processo ulteriore di soluzione per il problema del Kosovo è passata alle Nazioni Unite.
La CIG dichiara che la dichiarazione di indipendenza non viola il diritto internazionale perché l'atto di Pristina praticamente non lo tocca.
"Le norme legali internazionali non dispongono delle disposizioni attive che limiterebbero le dichiarazioni di indipendenza. Pertanto, possiamo concludere che la dichiarazione del 17 febbraio, non viola le norme internazionali del diritto", si dice nella decisione del tribunale.
La Corte ha precisato che non discute sul diritto di autodeterminazione o sul diritto di secessione obbligata.
La CIS è difatti rimasta nel quadro del suo mandato, il che significa che si occupa di controversie tra gli Stati, e di fatto il diritto internazionale né riconosce il diritto dei movimenti secessionisti, né li vieta.
"Il caso del Kosovo" è in questo modo restituito all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e la Serbia ha una possibilità di verificare la correttezza della sua politica in autunno a New York.
Il Presidente della Corte internazionale di giustizia, Hisashi Ovada, ha annunciato che 10 giudici hanno votato perchè la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non rappresenta una violazione del diritto internazionale, mentre quattro giudici hanno espresso l'opinione opposta. [...]

Grande interesse

L'aula principale della Corte Internazionale di Giustizia era riempita quasi fino all'ultimo posto.
Oltre alla delegazione serba guidata dal ministro degli Esteri Vuk Jeremic e alla delegazione di Pristina, tra gli ascoltatori interessati nella "sala grande" (l'aula principale) c'erano i rappresentanti di tutti i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, così come dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Secondo il cancelliere della Corte, Andrea Poskakukhin, questo evento rappresenta il più interessante che si ricordi nella storia di questo organo delle Nazioni Unite.
Ha aggiunto che c'erano 96 giornalisti accreditati, i cameramen e fotografi di media leader a livello mondiale, e altri 60 rappresentanti di varie organizzazioni interessate.

Un processo che è durato sette mesi

La decisione è stata attesa per più di sette mesi, dal dicembre dell'anno scorso, quando la CIG ha tenuto un dibattito di più giorni, in cui il parere sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo è stato esposto da 29 delegazioni.
La valutazione che la dichiarazione di indipendenza del Kosovo sarebbe in violazione del diritto internazionale è stata avanzata da Serbia, Cina, Russia, Spagna, Romania, Cipro, Argentina, Brasile, Vietnam, Bolivia, Venezuela, Azerbaigian e Bielorussia.
La tesi opposta, oltre ai rappresentanti kosovari, l'hanno esposta Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Paesi Bassi, Austria, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Bulgaria, Croazia, Albania, Giordania e Arabia Saudita.
Il rappresentante del Burundi ha detto che il Kosovo continuerà ad esistere come entità, indipendentemente dalla decisione della Corte internazionale di giustizia.
Il Kosovo il 17 febbraio 2008 ha emesso la propria dichiarazione di indipendenza, in seguito riconosciuta da 69 paesi.

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Due anni e mezzo dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza

Il preambolo della Costituzione della Serbia afferma che il Kosovo e la Metohija sono parti integranti della Serbia.

"Partendo dalla tradizione statale del popolo serbo e dall'uguaglianza di tutti i cittadini e comunità etniche in Serbia, partendo dal fatto che la provincia di Kosovo e Metohija è parte integrante del territorio serbo, che gode di una posizione di sostanziale autonomia all'interno dello stato sovrano della Serbia e che da questa posizione la Provincia del Kosovo e Metohija segue gli obblighi costituzionali di tutti gli organi di governo per rappresentare e tutelare gli interessi dello stato della Serbia in Kosovo e Metohija, in tutte le relazioni politiche interne ed esterne, i cittadini della Serbia adottano la Costituzione", sta scritto nel più alto atto legislativo della Serbia.

La secessione anti-costituzionale della parte albanese è arrivata otto anni dopo che le forze NATO nel 1999 hanno attaccato la Serbia senza alcuna autorizzazione dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU, per poi far entrare in Kosovo e Metohija  le forze internazionali (KFOR), con l'amministrazione ad interim delle Nazioni Unite sulla provincia (UNMIK).

L'arrivo delle forze internazionali è stato preceduto dalla firma dell'accordo tecnico-militare a Kumanovo il 9 giugno 1999, che rappresentava la fine dei bombardamenti NATO. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l'11 ottobre 2005 ha espresso una decisione sui negoziati tra le autorità di Belgrado e Pristina sulla base della Risoluzione 1244 con cui al Kosovo e Metohija è garantita una sostanziale autonomia.

I negoziati diretti, mediati dall'inviato speciale Martti Ahtisaari, sono iniziati il 20 febbraio 2008 a Vienna, ed in seguito Ahtisaari ha definito il piano, e in data 7 febbraio 2007 l'ha presentato al presidente serbo Boris Tadic.

L'atto con cui la parte albanese ha dichiarato unilateralmente l'indipendenza del Kosovo, è stato adottata il 17 febbraio 2008 con una acclamazione nel parlamento provvisorio, senza la partecipazione dei deputati serbi, e perfino senza la presenza del Capo della amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite, o del Comandante della KFOR.

Il giorno dopo, la decisione unilaterale dell'assemblea provvisoria sull'indipendenza del Kosovo, era già riconosciuta da otto paesi, il primo era l'Afghanistan, poi Stati Uniti, Francia, Albania, Turchia, Regno Unito e Senegal.

Su richiesta delle autorità di Belgrado, l'8 ottobre 2008, l'Assemblea Generale dell'ONU ha avviato un dibattito alla CIG sul tema se la secessione autoproclamata sia conforme al diritto internazionale.

L'Assemblea della Serbia, tenutasi immediatamente, ha confermato la precedente decisione di annullare la secessione anti-costituzionale, e il capo della politica estera Vuk Jeremic, ha ritirato i propri ambasciatori dai paesi che hanno riconosciuto l'indipendenza del Kosovo.

Notizie dalle Agenzie - pubblicato: 22/07/2010


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UN court upholds Kosovo’s declaration of independence


By Julie Hyland and Paul Mitchell 
30 July 2010


The United Nations International Court of Justice (ICJ) ruled last week by ten votes to four that Kosovo’s unilateral declaration of independence from Serbia on February 17, 2008 was legal.

The ICJ agreed to rule on the legality of Kosovo’s secession at the request of Serbia, which argued that the Serbian province’s declaration of independence was prohibited under international law. The verdict was condemned by Serbian President Boris Tadic, who warned that the ICJ opinion could open up “an entire process of creating new states … throughout the world, something that would destabilize many regions of the world.”

The ICJ’s ruling was a highly political decision of dubious legal merit. It provided judicial cover for the final act in a decade-long drive by the major Western powers to dismember Yugoslavia and weaken Serbia.

The most flagrant sophistry in the ruling was its assertion that Kosovo’s declaration of independence was not connected “with the unlawful use of force or other egregious violations of norms of general international law.”

Kosovo has been a constituent part of Serbia for centuries and was internationally recognised as such from 1912. It was only in the aftermath of the collapse of the Soviet Union in 1991 that the imperialist powers switched to backing agitation by Albanian Kosovars for separation as part of their broader geo-political agenda in the Balkan Peninsula.

The demands for Kosovan independence had themselves been encouraged by Western backing for Croatia and Slovenia’s unilateral declarations of independence from Yugoslavia in 1991.

These actions, in which a newly unified and more assertive Germany played the lead role, shattered the delicate political and legal framework that had been established within the Yugoslav federation to protect the rights of various minorities.

The result was a series of nationalist eruptions and reprisals, which were used by the United States to assert hegemony in the Balkans. Washington seized on the Bosnian civil war of 1992 to 1995 to champion Bosnia’s attempt to break from Yugoslavia in the name of “self-determination.”

The one factor unifying the Western powers was a common desire to undermine Serbia—the largest constituent part of Yugoslavia and one which traditionally had the closest relations with Russia—so as to divide the multiethnic Yugoslav state into ever-smaller autonomous units that would be more subservient to their interests.

The bloody outbreak of ethnic cleansing on the part of Croats, Bosnian Muslims and Serbs was encouraged by the West and the resulting humanitarian crisis utilised as a means of expanding imperialist military intervention in the region.

This is what determined the backing of the US and others for the Kosovo Liberation Army (KLA)—a semi-criminal organisation linked to the drug trade and supported by the CIA and British intelligence.

There is no question that Serb policy in Kosovo had, since 1989, been characterised by chauvinism and repression. But when it suited Washington’s policies, as in Croatia’s mass expulsion of the Krajina Serbs in 1995, such atrocities were carried out with direct US support.

In the case of Kosovo, provocations were mounted by the KLA with the intention of causing reprisals by Belgrade, which in turn were used by the US to justify a military attack on Serbia in 1999.

The massive air bombardment of Belgrade between March and June that year was illegal under international law. Never sanctioned by the United Nations Security Council, it was launched unilaterally by the US and NATO. Involving 1,000 aircraft and the use of Tomahawk cruise missiles, it killed an estimated 5,000 Serb civilians, caused a flood of refugees, and gravely intensified the humanitarian crisis as well as leading to further ethnic reprisals.

UN Resolution 1244, which ended the air war, guaranteed the territorial integrity of Serbia, including Kosovo, even as it turned the province into a de facto UN protectorate. Under UN control, Kosovo was turned over to the KLA, which proceeded to attack Kosovan Serbs, forcing thousands to flee.

In its ruling, the ICJ acknowledged that UN Resolution 1244 and subsequent agreements stipulated that any final political settlement for Kosovo was dependent upon agreement by all the parties concerned. It also accepted that under the UN Constitutional Framework for Provisional Self-Government, enacted in May 2001, Kosovo’s own institutions were specifically barred from making any unilateral decisions on the province’s status.

In a legal sleight of hand, the ICJ determined that the 2008 declaration of independence had not been made by the Assembly of Kosovo, even though its name was invoked at the meeting at which the declaration was issued. Rather, it stated obliquely, the declaration was made by “persons who acted together in their capacity as representatives of the people of Kosovo outside the framework of the interim administration.”

In truth, the declaration was made at the behest of the US and the European Union, which had been promoting Kosovo’s separation from Serbia over the preceding years.

It was the UN’s special envoy in Kosovo, Martti Ahtisaari, who, under pressure from Washington, first set down explicitly the plan for the province’s independence in March 2007, giving the green light for the unilateral declaration just 11 months later.

Even before the ICJ’s ruling was announced, Washington made clear it would back Kosovo’s declaration regardless. A White House statement “reaffirmed the United States’ full support for an independent, democratic, whole and multi-ethnic Kosovo whose future lies firmly within European and Euro-Atlantic institutions.”

It should be noted that within months of Kosovo’s declaration of independence, Georgia attacked the separatist enclave of South Ossettia, provoking a brief war with Russia. In that instance, the US adamantly rejected South Ossettia’s demand for independence and continues to do so.

Washington makes no attempt to justify this brazen double standard, other than with the legally absurd assertion that Kosovo is a unique case, which “doesn’t set any precedent for other regions or states.”

The ICJ has similarly declared that its ruling applies solely to Kosovo. Nor would it rule on the “legal consequences” of the unilateral declaration, or as to whether “Kosovo has achieved statehood,” it stated.

The verdict is intended to legitimise Kosovo’s separation from Serbia by clearing its path for membership of the UN. For this, Kosovo requires the recognition of two-thirds of the UN General Assembly. To date, 69 of the 192 member countries have done so. Following the ICJ ruling, US Secretary of State Hillary Clinton reiterated Washington’s “call on those states that have not yet done so to recognise Kosovo.”

Amongst those opposing UN recognition of Kosovo are Russia, China, Indonesia, Spain, Cyprus and Greece. All face secessionist movements in their own countries that will have been encouraged by the ICJ’s ruling.

Condemning the ICJ’s verdict, Russia’s envoy to NATO, Dmitry Rogozin, stated, “We will not accept the splitting of a country that is a member of the United Nations. On principle, we consider Serbia a unified whole.” China’s foreign ministry spokesman, Qin Gang, said that “respecting national sovereignty and territorial integrity is a fundamental principle of international law.”

Spain’s deputy prime minister, Maria Fernandez de la Vega, reiterated that Spain would not “recognize the seceded Serbian province as an independent country.”

Turkey, one of the first countries to recognize Kosovan independence, welcomed the ICJ verdict, hoping that it would aid its case for an independent Turkish state in Cyprus.

Talk of Kosovan independence, however, is little more than a legal fiction. Economically, it is heavily dependent on international aid and all major decisions pertaining to the economy, public spending, social programmes, security and trade are controlled by the US, the European Union and their various agencies.

More fundamentally, what the ICJ ruling has really established is a legal imprimatur for the assertion by the imperialist powers that they alone will determine who has the right to independence, based upon their interests at any given time.



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junge Welt (Berlin), 24./25. 07. 2010

Unwürdige Wortklauberei


Das Rechtsgutachten des Haager Gerichtshofs zum Kosovo unter der Lupe

Von Cathrin Schütz

Nun liegt das mit einiger Spannung erwartete Rechtsgutachten zur Abspaltung des Kosovo von Serbien also vor. Der Internationale Gerichtshof (IGH) in Den Haag erklärte am Donnerstag lapidar: »Die am 17. Februar 2008 verabschiedete Unabhängigkeitserklärung des Kosovo verstieß nicht gegen das Völkerrecht.« Daß die Bewertung derartig eindeutig ausfiel, kam überraschend. Viele Experten hatten einen »ausgewogenen Text« erwartet, der allen Seiten ein bißchen Recht gibt.

Für ein derartiges Ergebnis sprach einerseits die klare Hervorhebung der »Souveränität und territorialen Integrität der Bundesrepublik Jugoslawien« in der UNO-Sicherheitsratsresolution 1244 von 1999. Diese regelt den Status des Kosovo und die Befugnisse einer Interimsverwaltung. Dem entgegen stand der politische Druck einflußreicher westlicher Staaten, die die Unabhängigkeit der serbischen Provinz forciert hatten.

Die Einholung des Gutachtens war auf Initiative Serbiens im Oktober 2008 von der UNO-Vollversammlung beschlossen worden. Die knapp anderthalb Jahre danach vorgelegte Entscheidung fällte das Gericht keinesfalls einmütig. Sie wurde mit zehn gegen vier Stimmen getroffen. Acht der 14 Richter legten der Entscheidung ihre gesonderten und abweichenden Meinungen bei. In diesen wird die Mehrheitsentscheidung teils scharf kritisiert.

So sehen einige Richter die Voraussetzungen für ein Gutachten des IGH nicht erfüllt. Ihre Begründung: Die UNO-Vollversammlung habe es zu einer Frage beantragt, die seit mehr als zehn Jahren nicht auf ihrer Tagesordnung steht, sondern auf der des UN-Sicherheitsrats. Tatsächlich hätte die serbische Regierung direkt beim IGH gegen alle Staaten, die das Kosovo als unabhängigen Staat anerkennen, klagen können – statt den Umweg über die Vollversammlung zu wählen. Doch verbot sich dieser Konfrontationskurs der westlich orientierten Regierung in Belgrad.

Besonders heftig kritisierten mehrere Richter, daß ihre Kollegen die von der Vollversammlung gestellte Frage, ob »die einseitige Unabhängigkeitserklärung durch die vorläufigen Selbstverwaltungsorgane des Kosovo völkerrechtsgemäß« ist, eigenmächtig umformulierten. Die Unabhängigkeitserklärung sei zwar vom Kosovo-Parlament verabschiedet worden. Doch handelte dieses nicht in seiner eigentlichen Eigenschaft als Parlament. Also wurden aus ihm »Repräsentanten der Bevölkerung des Kosovo außerhalb des Rahmens der Interimsverwaltung«.

Mit dieser bemerkenswerten Argumentation gesteht das Gericht ein, daß das Kosovo-Parlament keine Befugnis hatte, die Unabhängigkeit des Kosovo zu erklären. Doch zogen die Richter daraus nicht etwa den Schluß, daß die gestellte Frage folglich klar beantwortet ist, sondern formulierten sie um. Da das Kosovo-Parlament mit der einseitigen Loslösung von Ser bien seine Kompetenzen überschritten habe, hätte es nicht mehr als Teil der »vorläufigen Selbstverwaltungsorgane« gehandelt, von denen in der Anfrage der Vollversammlung die Rede ist.

Peter Tomka, der slowakische IGH-Vizepräsident, findet in seiner der Entscheidung beigefügten Erklärung deutliche Worte für dieses Manöver: »Die Mehrheit (...) gab ihre Antwort jedoch erst, nachdem sie die Frage ›angepaßt‹ hatte. Diese ›Anpassung‹ war für die gegebene Antwort von entscheidender Bedeutung. Tatsächlich bestimmte sie das Ergebnis voraus.«

Festzustellen bleibt, daß der Gerichtshof mit dieser unwürdigen Wortklauberei die eigentliche Frage, ob die Abspaltung des Kosovo von Serbien mit dem Völkerrecht vereinbar ist, gar nicht beantwortet hat.

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http://www.jungewelt.de/2010/07-28/039.php

junge Welt (Berlin), 28.07.2010

Belgrad will verhandeln

Serbisches Parlament beschließt Resolution zum Kosovo mit großer Mehrheit

Klare Worte bezüglich der Haltung Serbiens zum Kosovo fand am Dienstag das Parlament in Belgrad. Mit großer Mehrheit verabschiedete die Skupstina eine Resolution, in der es heißt, man werde die selbsterklärte Unabhängigkeit der serbischen Provinz niemals anerkennen. Nach erregter Debatte stimmten 192 Abgeordnete für die Entschließung, 26 dagegen und zwei enthielten sich.

Der Beschluß erfolgte in Reaktion auf ein Rechtsgutachten des Internationalen Gerichtshofs in Den Haag aus der vergangenen Woche. Darin hatte eine Mehrheit der Richter die Abspaltung des Kosovo von Serbien im Februar 2008 als legitim erklärt. Hierfür erhielt das Gericht Beifall von USA, BRD und anderen westlichen Staaten. Kritik kam unter anderem aus Belgrad, Moskau und Madrid.

In seiner jetzigen Resolution sprach sich das serbische Parlament ausdrücklich für »friedliche Verhandlungen« zur dauerhaften Lösung des Konflikts aus und regte damit eine Wiederaufnahme des Dialogs mit den Verantwortlichen im Kosovo an. Die Regierung der selbsternannten »Republik Kosovo« in Pristina sperrt sich seit Abbruch der Verhandlungen im November 2007 gegen jedes Gespräch mit Serbien. Dessen Staatspräsident Boris Tadic kündigte nun an, daß sich Belgrad bei der nächsten UN-Vollversammlung im September um neue Statusverhandlungen bemühen will. Bis dahin wolle man versuchen zu verhindern, daß weitere Staaten das Kosovo anerkennen.

Tadic betonte, Serbien strebe eine Kompromißlösung an. »Wir sind in einer sehr schwierigen Lage, (...) aber wir werden nicht die Kriegstrommel rühren«, sagte er. »Wir können unsere Interessen im Kosovo nicht wahren ohne Einbindung in die EU und gute Beziehungen zu den USA, Rußland und China«, meinte der westlich orientierte Politiker. Bislang haben 69 Staaten das Kosovo als unabhängigen Staat anerkannt. Die USA und Deutschland gehörten dabei zu den Vorreitern. Viele der 192 in der UN-Vollversammlung vertretenen Länder zögern allerdings trotz des IGH-Gutachtens weiter.

Unterdessen betonte der deutsche Außenminister Guido Westerwelle bei einem Besuch im slowenischen Ljubljana erneut, daß »die territoriale Integrität des Kosovos ein unabweisbares Faktum« sei. Die BRD hatte nach 1990 maßgeblich an der Abspaltung Sloweniens wie auch Kroatiens und Bosnien-Herzegowinas von Jugoslawien mitgewirkt. (AFP/apn/jW)


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Decision “adding fuel to the fire” of the imperialist interventions

The international Court of Hague decided today that the so called “declaration of Kosovo independence” did not violate the International Law. Although this decision is not legally binding it is obvious that it will make a serious legal precedent.

This decision of the International Court of Hague proves once again what KKE has long ago warned of, namely that the international law formed after the Second World War, as a result of the correlation of forces between imperialism one the one hand, and the Soviet Union and the people’s republics on the other, no longer exists. It has gone to pieces! 

On the one hand, the international organisations cover for the USA, NATO and other imperialist forces so that they can promote their interests. On the other hand, they have been turned into a field of confrontation and provisional compromises between the big imperialist powers. For that reason, the decision of the International Court of Hague “legitimates” the war machine of NATO, the imperialist war in Balkans and of course its results, that is the protectorate of Kosovo. 

This decision constitutes a warning for the Greek people as well, who see the Greek governments of PASOK and ND to rely on NATO, the EU and the International Court of Hague as regards the problems between Greece and Turkey. At the same time this decision is particularly dangerous as it adds fuel to the fire of the existing and non existing minority issues which are utilized by the imperialist powers for their interventions. The Balkan region is in danger of entering a new cycle of imperialist interventions and bloody conflicts under the pretext of the “protection” of minorities. 

The peoples should not have any illusions about the so called “international institutions” and the alleged “global democratic governance “of capitalism. The only hope for the peoples is the firm and mass anti-imperialist struggle, their common front against imperialism and its unions, a struggle which is inextricably linked with the struggle for the overthrow of capitalism and the construction of socialism. 

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da Partito Comunista di Grecia - inter.kke.gr/News/2010news/2010-07-23-kosovo
Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Decisione che getta benzina sul fuoco degli interventi imperialisti
 
22/07/2010
 
La Corte internazionale dell'Aja ha deciso oggi che la cosiddetta "Dichiarazione di indipendenza del Kosovo" non viola il diritto internazionale. Anche se la decisione non è legalmente vincolante è evidente che costituisce un precedente giuridico di grande rilievo.
 
Questa decisione della Corte internazionale testimonia un fatto sui cui il KKE aveva messo in guardia da tempo, ossia che il diritto internazionale - formatosi dopo la seconda guerra mondiale come correlazione tra l'imperialismo e Unione Sovietica assieme alle repubbliche popolari - non esiste più, è andato in frantumi!
 
Le organizzazioni internazionali sono contemporaneamente "la foglia di fico" che fornisce a Stati Uniti, NATO e alle altre forze imperialiste la copertura per promuovere i loro interessi, e, dall'altra, il terreno di scontro e di compromesso - temporaneo - tra le potenze imperialiste. Così la decisione della Corte internazionale dell'Aja "legittima" la macchina da guerra della NATO, la guerra imperialista nei Balcani e, naturalmente il suo risultato: il protettorato del Kosovo.
 
Questa decisione costituisce un monito per il popolo greco che guarda i governi che si avvicendano al potere - PASOK (socialdemocratici) e ND (Nuova Democrazia, conservatori) - fare affidamento sulla NATO, la UE e la Corte Internazionale dell'Aja per quanto riguarda la situazione greco-turca. Questa decisione è particolarmente pericolosa perché aggiunge benzina sul fuoco delle questioni delle minoranze, reali o artificiose, utilizzate dalle potenze imperialiste per i loro interventi. La regione dei Balcani rischia di entrare in un nuovo ciclo di interventi imperialisti e sanguinosi conflitti sotto il pretesto della "protezione" delle minoranze.
 
I popoli non dovrebbero nutrire illusioni sulle cosiddette "istituzioni internazionali" o sulla presunta "governance democratica mondiale" del capitalismo. L'unica speranza per i popoli è la dura lotta di massa antimperialista, il fronte comune contro l'imperialismo e le sue unioni, una lotta inestricabilmente connessa con la lotta per il rovesciamento del capitalismo e la costruzione del socialismo.




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http://news.xinhuanet.com/english2010/world/2010-07/24/c_13412534.htm

Xinhua News Agency - July 23, 2010

Interview: UN court did not say Kosovo's declaration of independence is legal: law experts  

by Wang Xiangjiang

UNITED NATIONS: In its ruling on Kosovo's declaration of independence, the International Court of Justice ( ICJ) did not declare the breakaway territory's act is legal, simply because international law does not address such declarations, law experts told Xinhua on Friday.

In response to a question raised by UN General Assembly, the ICJ ruled on Thursday that Kosovo's declaration of independence of February 2008 "did not violate general international law." International law experts interviewed by Xinhua said they believed that it was the first time that an international judicial body has ever been asked to rule on such a question.

"Whilst the declaration was not illegal, the Court did not actually declare it legal either; simply that international law does not address such declarations," said Ian Bancroft, co-founder of TransConflict, an organization undertaking conflict transformation projects and research throughout the Western Balkans.

"The broader issue of the legal rights to self-determination and secession, however, do not appear to have been addressed by the Court," Bancroft said.

Echoing a similar point, Paola Gaeta, a law professor of the University of Geneva, said that there exists a difference between legal and not contrary to the law.

"To be very picky I would say better: it is not contrary to international law," she said.

"To say it is not contrary to international law means that international law does not prohibit it; to say it is legal it means that has been done in accordance with international law, as if international law regulates the issue of declaration of independence, which is not the case."

Gaeta also said that the Court has not discussed whether Kosovo had the right to exercise the right of self-determination and to become an independent state, a right which surely exists under international law for certain categories of people.

Therefore, the Court has only discussed the legality of Kosovo' s act of declaring independence and clarified that general international law does not prohibit people from declaring independence, said the law professor.

"Although the Court has not discussed it, however, it is clear that Kosovo cannot come under the three categories of people surely entitled to self-determination -- people subjected to foreign occupation, colonial domination and apartheid," Gaeta said.

Dex Torricke-Barton, an international security analyst, noted the importance not to exaggerate the legal impact of the Court's decision.

"The ICJ ruled that nothing in international law prevented Kosovo declaring its independence. But it didn't make any broader claims about rights to self-determination or independence," Torricke-Barton said. "This was a highly specific ruling and shouldn't be used to set a precedent, partly why it was a non- binding judgment."

IMPLICATION

Bancroft expressed concern about the ICJ ruling's implication on international politics.

"The ruling itself in a way emphasizes the prevalence of realpolitik over international law. What is important are the ' facts on the ground', not the legal arguments advanced for or against independence or secession," he said.

"The implication of the ruling is that states can no longer rely upon international law to guarantee their territorial integrity," Bancroft said.

"If a secessionist movement is prepared to take the step of declaring independence and other sovereign nations are willing to recognize that, then the country set to lose part of its territory will have to find other ways to deter and prevent this," he said.

"Unfortunately, this will include a resort to the use of force and other means of discouragement. In many ways this has always been the case, but now there is greater legal clarity about declarations of independence." he said.

Gaeta, however, played down the implication of the Court's ruling and the possibility that separatists around the world would invoke it as a lawful precedent.

"I don't think so, unless one wants to read in the ruling what the ruling clearly does not say," she said. 

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http://www.interfax.com/newsinf.asp?id=178886

Interfax - July 22, 2010

UN court ruling on Kosovo opens Pandora’s box – lawmaker

MOSCOW: Dangerous trends could make themselves felt after the UN highest court ruled that Kosovo's independence does not break international law, said Leonid Slutsky, the first deputy chairman of the State Duma's International Affairs Committee.

The International Court of Justice earlier on Thursday ruled that Kosovo's declaration of independence from Serbia in 2008 did not break international law.

"This ruling could be likened to Pandora's box, and I can foresee a lot of dangerous trends emerging globally similar to what was going on in Kosovo at one time," Slutsky told Interfax.

But he said that the International Court of Justice's decision was predictable.

"It is awful, though, that a majority of the world's advanced nations backed the position of unilateral recognition of Kosovo's self-proclaimed independence. Yet, this is happening in the 21st century," Slutsky said.

"This ruling and the position assumed by a majority of Western countries seems extremely strange, to say the least. We were witnessing one ethnic group aggressively ousting and destroying another ethnic group that had lived in Kosovo for centuries," he said.

Today's ruling is a vivid example of how double standards are being applied in the politics of many countries, he continued. "Neither logic, nor common sense is to be found here. Kosovo's self-proclaimed independence is recognized as normal, while the independence, proclaimed by Abkhazia and South Ossetia, is not recognized by an overwhelming majority of the international community," he said.

The ruling passed by the International Court of Justice is "a clearly collective and very serious twist in international politics, in institutions of law and in the world's leading nations," Slutsky said.

The International Court of Justice's decision is political, rather than legal, said Leonid Kalashnikov, first vice chairman of the International Affairs Committee.

"But if the question is tossed to the UN court, whether the self-proclaimed independence of Abkhazia and South Ossetia was legitimate, the answer will be different in principle - negative," he said.

The International Court of Justice "has actually legitimatized the deadly bloodshed we witnessed several years ago before Kosovo's self-proclaimed independence," he also said.

Kalashnikov said that most countries recognized Kosovo's independence long before the ruling was passed, "which fuelled separatist sentiment in a number of trouble regions."

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http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2010&mm=07&dd=22&nav_id=68591

Beta News Agency - July 22, 2010

U.S. VP: Independence is irreversible 

WASHINGTON: U.S. Vice-President Joe Biden said that "Kosovo’s independence is irreversible" and that economic progress and integration progress await Kosovo. 

After meeting with Kosovo Albanian Prime Minister Hashim Thaci, Biden said that the American administration holds the Kosovo government’s orientation towards implementing the rule of law in high regards. 

He assured Thaci that the "territorial integrity of Kosovo" cannot be questioned and that rights and laws must be implemented on the "entire territory of Kosovo". 

Biden said that Kosovo’s future is within the European Union and NATO. 

According to a statement from Biden, the two officials talked about current political events in Kosovo, the economic process, and the progress made in achieving democratic standards.

Thaci said that he is convinced that there would be a new wave of recognitions for Kosovo soon, which would "prove that Kosovo’s independence has contributed positively to peace, stability, and development in the region". 

During his visit to Washington, Thaci met with senior officials of the State Department, International Monetary Fund and World Bank.  


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Kosovo, è contagio-indipendenza ora è scontro sui serbi di Bosnia

Repubblica — 24 luglio 2010   pagina 16   sezione: POLITICA ESTERA

ALL' INDOMANI del parere favorevole all' indipendenza kosovara da parte della Corte internazionale di giustizia altre voci secessioniste si sono fatte sentire, in altre regioni del pianeta. Voci che le cancellerie e gli Stati sovrani hanno subito cercato di tacitare. I serbi di Bosnia, per esempio, hanno ieri ribadito con forza il loro desiderio di indipendenza dal mosaico nazionale che Washington abbozzò, forse con troppa fretta, all' indomani della sanguinosa guerra finita nel 1995. A perorare la causa dell' autonomia della Repubblica serba di Bosnia (Srpska) è stato il suo primo ministro, Milorad Dodid, il quale s' è detto pronto a combattere per un nuovo status «compatibile con la legge internazionale, in linea, cioè, con la Corte dell' Aja». Alle velleità indipendentiste del premier Dodid ha risposto l' ambasciatore statunitense a Sarajevo, Charles English, IL PREMIER Il primo ministro della repubblica serba di Bosnia, Milorad Dodik, è tornato a chiedere la indipendenza dalla BosniaErzegovina. sentenziando che «ogni divisione della Bosnia è inaccettabile per legge». Oltre all' Abkhazia (che si è de facto staccata dalla Georgia nel 2008), hanno applaudito al pronunciamento della Corte anche la Croazia e la Macedonia. Per il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, il Kosovo rappresenta un caso "particolare" e non dovrà perciò creare precedenti. La posizione tedesca corrisponde a quella dei 69 Paesi che hanno riconosciuto l' indipendenza kosovara ma che non intendono sottoscrivere la tesi del "vaso di Pandora" aperto dalla Corte internazionale. Temendo un effetto di contagio alla Catalogna e ai Paesi Baschi, il governo spagnolo ha invece confermato che non intende riconoscere l' indipendenza del Kosovo. In serata, Belgrado s' è detta pronta a lanciare una vasta offensiva diplomatica per arginare gli effetti del pronunciamento di due giorni fa, spedendo inviati in una cinquantina di paesi che potrebbero riconoscere la sovranità del Kosovo. Sempre ieri, le forze dell' Unimik hanno arrestato a Pristina il governatore della banca centrale del Kosovo, Hashim Rexhepi. Un arresto non casuale, perché l' Ue insiste da tempo sulla necessità che il paese balcanico lotti a fondo contro la dilagante corruzione. Pristina ha capito che Bruxelles continuerà ad elargirgli aiuti finanziari a patto che vengano sconfitti il malcostume e la disonestà, a partire dai più alti livelli istituzionali. - PIETRO DEL RE

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http://english.ruvr.ru/2010/07/26/13428012.html

Voice of Russia - July 26, 2010

Kyrgyzstan protests against OSCE deployment 

Residents of Bishkek and Osh have resumed protest actions against the deployment of OSCE police forces in southern Kyrgyzstan. Fearing the repetition of the so-called “Kosovo scenario”, participants in numerous rallies say they will take extreme measures if the government refuses to comply with their demands. 
In an interview with the Russian media, President of Kyrgyzstan Roza Otunbayeva stressed that the political decision on deploying an OSCE mission in southern regions has already been made by the interim government. 
Through training and consulting, the 50-strong group of police officers will aid the republic's law enforcement agencies in easing interethnic tension between the Kyrgyz and Uzbeks. Over 300 people were killed and some 2,000 sustained injuries in mass disorders which hit the south of the country in June this year.

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http://www.rferl.org/content/Tatarstan_Nationalist_Leader_Encouraged_By_Court_Ruling_On_Kosovo/2109747.html

Radio Free Europe/Radio Liberty - July 26, 2010

Tatarstan Nationalist Leader Encouraged By Court Ruling On Kosovo 

KAZAN, Tatarstan: There have been mixed reactions in the Russian republic of Tatarstan to the International Court of Justice's (ICJ) ruling that Kosovo's 2008 declaration of independence from Serbia did not violate international law, RFE/RL's Tatar-Bashkir Service reports.
There has been no official comment by officials in Tatarstan about the court's ruling on July 22.
But the decision was welcomed by Fauzia Bayramova, the chairwoman of the Milli Medjlis, a self-proclaimed pan-Tatar national assembly. She said on July 23 that she hopes Tatarstan can follow the same path as Kosovo and declare its independence.
"The [ICJ] decision on Kosovo gives us [Tatar independence activists] hope and the chance that in the future Tatarstan and other nations of [Russia's] Volga region can become independent," Bayramova told RFE/RL. "But the leadership of Tatarstan has never appealed to the international community asking for recognition of Tatarstan's sovereignty [and] I don't believe they would do it now."
In 2008, the Milli Medjlis sent out a proclamation on Tatarstan independence to the United Nations and more than 30 other countries. The appeal was later published on several websites and received a lot of publicity.
It came just a few months after Russia had recognized the independence of the breakaway Georgian regions of Abkhazia and South Ossetia.
Russian authorities said the Milli Medjlis appeal was an attempt to violate Russia's territorial integrity and that it provoked interethnic hatred.
In February, Bayramova was found guilty of fomenting interethnic hatred via the media and given a one-year suspended sentence. 
But Midkhat Farukshin, a professor of political science at Kazan State University, said the UN court decision will make no impact on political life in Tatarstan.
"Tatarstan and Kosovo are in different situations," he told RFE/RL. "You can't compare them to each other. The status of Kosovo can be compared to Abkhazia or South Ossetia, but never to the republics in the Russian Federation. There is no separatism [in Russia]."
Tatarstan is about 800 kilometers east of Moscow. It has a population of some 3.8 million that includes a large ethnic Russian minority. 


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Kosovo: 2 disegni possibili di risoluzione



(trad. e sintesi a cura di CNJ-onlus)

Possibili due progetti di risoluzione

Subito dopo la decisione della Corte internazionale di giustizia e prima del dibattito dinanzi alle Nazioni Unite, il Kosovo tenterà con un nuovo riconoscimento della propria indipendenza

17/07/2010
 
Dopo l'annuncio del parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia, con il dibattito nell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la questione del Kosovo sarà di nuovo passata dal terreno legale a quello politico. Qualora il parere della Corte non sia risolutivo e se nessuna delle parti interessate si arrenderà, il terzo martedì di settembre, in occasione della riunione annuale dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, si svolgerà la battaglia politica intorno alle due risoluzioni proposte. Una che ha già annunciato la Serbia, che chiede che la formulazione del parere consultivo possa essere letta in favore di Serbia, in cui si chiederebbero negoziati globali con gli albanesi del Kosovo, ed un'altra, che hanno presentato i paesi che hanno riconosciuto l'indipendenza del Kosovo (forse anche il Kosovo), con cui si "cementifica" l'indipendenza e si interpellano tutti i paesi che si sono finora astenuti a riconoscere il Kosovo.

Qualunque sia la proposta di risoluzione adottata, è certo che la Serbia dovrà affrontare conseguenze politiche. Se il parere della Corte sarà tale che la Serbia con l'aiuto dei paesi che la sostengono, a New York potrà spingere avanti una risoluzione con cui si affermi chiaramente che l'indipendenza del Kosovo è illegale, questo fermerebbe i nuovi riconoscimenti dell'indipendenza del Kosovo; ma, visti gli avvertimenti dei diplomatici dei paesi che danno sostegno all'indipendenza, ciò comporterebbe il deterioramento delle relazioni con gli Stati Uniti e l'Unione Europea.

Non sono soltanto gli stati che hanno riconosciuto l'indipendenza del Kosovo a seguire le mosse della Serbia. Anche i paesi che hanno sostenuto la Serbia, tra cui anche un certo numero di paesi importanti nel panorama politico internazionale, aspettano di vedere come si muoverà la Serbia, e da questo dipenderà, ovviamente, il dibattito in Assemblea Generale. "Stiamo già ricevendo informazioni secondo cui le dele

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Tutti in Serbia a speculare

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Le parole di Marchionne (OB 28/7/2010)
2) FIAT IN SERBIA: 30MILA POSTI (Sole24Ore 27/7/2010)
3) OMSA CHIUDE A FAENZA E APRE STABILIMENTO IN SERBIA (ANSA 26/07/2010)
4) Movimenti di Capitale all’estero: chi dopo l’OMSA? (G. Bugani, 30/7/2010)
5) FLASHBACK: Italia: firmato il prestito a Fiat per 400 milioni (16 giugno 2009)


LINK: 

A CHI CONVIENE ANDARE IN SERBIA
Parlano gli imprenditori italiani che hanno delocalizzato. Produrre per il mercato locale non è più redditizio. Ma i costi restano competitivi se l'obiettivo è esplorare. Come vuole fare Marchionne. (Economy - 29-07-2010)

http://www.confindustriamodena.it/file.html?_id1=9&_id2=0000011464.pdf


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Le parole di Marchionne

Cecilia Ferrara 
28 luglio 2010

Le reazioni in Serbia e in Italia all'annuncio Fiat sul trasferimento della produzione della nuova monovolume a Kragujevac. La lenta transizione dalla Zastava alla Fijat Automobili Srbije, l'attuale situazione della Punto classic. L'appello dei sindacati serbi all'unità tra i lavoratori del gruppo Fiat
“Produrremo in Serbia la nuova monovolume. Con sindacati più seri si faceva a Mirafiori”. Con questo virgolettato attribuito a Sergio Marchionne (amministratore delegato Fiat), l’apertura di Repubblica di giovedì 22 luglio ha fatto andare di traverso il caffè a molte persone tra la Serbia e l’Italia. Salvatore Tropea scrive che la Fiat è pronta a mandare avanti l’investimento di 1 miliardo di euro in Serbia di cui 400 milioni saranno dati dalla Banca per gli investimenti europei (BEI), 250 dal governo serbo e i restanti 350 dalla Fiat. Marchionne ci tiene a precisare che è colpa dei sindacati italiani se la nuova monovolume, L0, che dovrebbe sostituire la Musa, l’Idea e la Multipla, sarà prodotta a Kragujevac, dove prima si produceva la Yugo della Zastava, invece che a Mirafiori.
“Dopo la dichiarazione di Sergio Marchionne di spostare la produzione del nuovo modello in Serbia, si sono scatenate mail di soci che si congratulano e mi chiedono se a questo punto non si possano chiudere gli affidi”. Chi parla, arrabbiato, è Gilberto Vlaic presidente dell’Onlus “Non bombe ma solo caramelle” che dal 1999 si occupa di affidi a distanza per la città di Kragujevac.
L’Onlus triestina decise di aiutare la popolazione di Kragujevac perché i bombardamenti NATO avevano colpito anche la Zastava, la mitica fabbrica auto dell’ex Jugoslavia, privando i cittadini della loro principale fonte di sostentamento. Ogni tre mesi “Non bombe ma solo caramelle” organizza una visita a Kragujevac, incontra le 180 (c.a.) famiglie che sono sostenute da altrettante famiglie italiane, promuove con le autorità locali piccoli progetti di cooperazione, e incontra i lavoratori della Zastava. Il contatto locale per gli affidi è, infatti, da sempre il Sindacato Indipendente della Zastava oggi della FAS (Fijat Automobili Srbije). Secondo l’ultima relazione dell’associazione, in via di scrittura, la Fijat Srbija ha in forze 998 operai con uno stipendio medio di 270 euro mensili mentre altri 1200 circa sono ancora impiegati nella Zastava Automobili quindi pagati dallo stato con una media di 218 euro al mese. “In Italia non ci si rende conto che un serbo con 270 euro al mese muore di fame”, conclude Gilberto Vlaic.
Questo è solo un piccolo aspetto della vicenda che da Pomigliano d’Arco porta a Kragujevac passando per Mirafiori, ma è emblematico di come il comportamento di una multinazionale abbia ripercussioni “transfontaliere” sulla vita di molte persone.
Lo stesso arrivo della Fiat in Serbia fu determinante, secondo molti analisti, per la vittoria della coalizione democratica guidata da Boris Tadić. L’11 maggio del 2008, infatti, si sarebbero tenute le elezioni politiche in cui si confrontavano, sul filo del rasoio, il democratico ed europeista Tadić e l’allora ultranazionalista Tomislav Nikolić. Il 29 aprile avvenne a Belgrado la firma del memorandum d’intesa tra il ministro dell’Economia Dinkić e il vicepresidente Fiat Altavilla, per stabilire la joint venture tra il governo e la casa automobilistica torinese per rilevare la Zastava. La Fiat mise sul piatto 700 milioni di euro di investimenti a Kragujevac e la produzione di due nuovi modelli, il governo offrì condizioni estremamente favorevoli, fra cui una zona libera da dazi per l’importazione dall’Italia e l’utilizzo gratuito dei 400.000 metri quadri degli stabilimenti. La Serbia l’11 maggio votò per Tadić e per l’Europa.
Nei due anni che hanno seguito il memorandum d’intesa, i ritardi e gli annunci hanno creato nervosismo in Serbia, fino a che finalmente si è arrivati all’arrivo del primo vero finanziamento di 100 milioni di euro (più i 50 milioni che secondo il contratto mette lo Stato serbo) e all’assunzione dei primi mille lavoratori nel febbraio 2010. La Fijat Automobili Srbije (67% Fiat, 33% dello Stato serbo) sta ufficialmente prendendo il posto della gloriosa Zastava Automobili, che anche se per ora continua ad esistere, è sostanzialmente una scatola vuota. Il lavoro con la Fiat è in ogni caso iniziato già da tempo: dalla primavera del 2009 si assemblano le Punto Classic, un modello vecchio che viene venduto in Serbia grazie agli incentivi statali (più una minima quota di esportazione in Repubblica Srpska, in Ucraina e in paesi nordafricani). La crisi si fa comunque sentire e quest’anno si produce a ritmo ridotto, solo le auto che si vendono. Secondo i dati di Vlaic sono state assemblate 8.500 auto dal primo gennaio al 25 giugno 2010. Secondo la Jedinstvena Sindikalna Organizacija Zastava, la fabbrica è ferma e ci sono 4.500 auto invendute nel piazzale, mentre i 1.060 lavoratori della FAS sono in cassa integrazione al 65% per cento del loro stipendio.
In questa situazione l’annuncio di Marchionne è stato esplosivo in entrambi i paesi. In Italia il governo ha convocato per oggi Fiat e sindacati, chiedendo chiarimenti alla Fiat sulle dichiarazioni di Marchionne. In Serbia per la verità non c'è niente di nuovo, se non il timore che il governo italiano possa spingere la casa torinese a ritirare l'investimento. Aleksandar Ljubić, sottosegretario del ministero per l'Economia che si occupa della FAS, in questi giorni sta occupando tutti i media serbi per rassicurare che va tutto bene, che la Fiat non cambierà i piani serbi e Kragujevac diventerà la Detroit dei Balcani.
I sindacati sono più perplessi: «Sono almeno due anni che si parla di nuovi modelli della Fiat da produrre in Serbia - spiega Zoran Mihajlović, rappresentante del Sindacato indipendente della FAS. Non sapevamo i dettagli, quali modelli, ma sapevamo che avremmo prodotto 300mila auto l'anno, e che ci sarebbero stati investimenti di 700-800 milioni di euro». «La sorpresa è che in un anno si cambia per la terza volta l'annuncio del modello, e questo ci rende un po' scettici. Potrebbe cambiare di nuovo».
«La crisi ha rallentato le vendite quindi si montano solo le macchine che possiamo vendere, circa mille al mese - continua Mihajlović - si lavora solo otto giorni e per il resto è cassa integrazione». La Jedinstvena Sindikalna Organizacija Zastava dice di vedere in questo girotondo di annunci "il tentativo di dividere i lavoratori dei nostri due paesi, ed invita all'unità di tutti i lavoratori del gruppo Fiat". A Kragujevac, dunque, si continua ad aspettare.


I finanziamenti della Bei 

Da dove vengono i finanziamenti della BEI? Facendo una piccola ricerca si scopre che c'è già unfinanziamento dalla Banca Europea per gli Investimenti a Fiat [ http://www.eib.org/projects/press/2009/2009-110-italia-firmato-il-prestito-a-fiat-per-400-milioni.htm?lang=-en ] approvato nel marzo del 2009. Il prestito fu concesso nell'ambito del piano Bei European Clean Transport Facility, per ridurre in sostanza le emissioni di CO2. 
Come ci spiega Marco Santarelli responsabile comunicazione della Bei per l'ltalia, Malta e i Balcani, non si tratta degli stessi 400 milioni. "Nel marzo del 2009 la Fiat ottenne un prestito Bei per la ricerca e lo sviluppo in Italia. Oggi stiamo lavorando ad un finanziamento per la produzione in Serbia, la cifra che ha detto Marchionne è quella che dovrebbe essere del finanziamento". Quindi non è ancora firmato il finanziamento? "Stiamo lavorando tutti i giorni a stretto contatto con la Fiat e siamo molto vicini all'obbiettivo". Ma quando la Fiat ha firmato l'accordo con il governo serbo l'idea del finanziamento c'era già? "Beh ci stiamo lavorando da un anno e mezzo. E' come quando si compra casa prima si fa il giro delle banche per vedere se ci concedono il mutuo. Ovviamente se si tratta di quasi mezzo miliardo di euro i tempi sono più lunghi". Le condizioni del prestito? "Noi abbiamo il vincolo confidenziale, se poi il cliente vuole divulgare le condizioni di tassi e tempi, lo può fare". 
La BEI è la banca dell'Unione europea i suo azionari e governatori sono gli stati membri, la sua mission è quella della coesione economica e sociale dell'Ue, i suoi prestiti sono perciò erogati - come si legge sul sito - senza lo scopo di massimizzare i guadagni prestando a tariffe vicine al costo del prestito delle sue risorse (Cecilia Ferrara)


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(Riportiamo l'articolo che segue per conoscenza e per completezza, nonostante il suo spiccato carattere propagandistico. IS)

Vedi anche: La mappa interattiva degli stabilimenti del Lingotto nel mondo


Fiat in Serbia: 30mila posti


dal nostro inviato Cristina Casadei 27 luglio 2010

KRAGUJEVAC - «Kragujevac vuole diventare la città della Fiat». Le parole che il sindaco Veroljub Stevanovic dice con la determinazione di un ex dissidente serbo costretto a lasciare il suo lavoro di capo del montaggio alla Zastava auto per le sue scelte politiche, forse a Torino non suonano bene, ma in questa città a 130 chilometri a sud di Belgrado stanno generando un fermento e una positività che ricordano gli anni della ricostruzione vissuta da molte città industriali dopo il secondo conflitto mondiale. Trent'anni fa dire Kragujevac era come dire Zastava. Adesso nella gente c'è la volontà che dire Kragujevac sia come dire Fiat.

Basta sedersi ai tavolini del caffè Da Vinci in Radicevica e si sente parlare di motori. Basta chiedere al portiere dell'hotel Nova Sicilijana, in Kralja Petra, per avere la conferma che gli ingegneri torinesi sono tornati di casa qui. E il simbolo sta anche nel progetto del sindaco di mettere un modello del Lingotto alla seconda rotatoria di ingresso alla città. O in quello del rettore dell'università, Slobodan Arsenijevic, di istituire un corso di lingua e letteratura italiana. Fiat qui vuol dire futuro, anche se le condizioni economiche degli stipendi attuali e quelle che si prospettano nell'immediato non garantiranno ai lavoratori il tenore di vita del passato, degli anni prima della guerra, delle sanzioni, dei bombardamenti Nato.

Nel suo piccolo appartamento a Stara Radnicka Kolonija, l'operaio della Zastava Dragic Asic che prima della guerra guadagnava mille marchi al mese e con le bambine e la moglie Snczana, anche lei impiegata alla Zastava, poteva persino andare dieci giorni al mare non ha dubbi: «Questo progetto è il futuro dei nostri giovani». Non importa che gli euro siano 350 o 400 al mese e che economicamente non restituiscano più le condizioni di vent'anni fa. «Bisogna capire che il mondo è cambiato e che non si può rimanere prigionieri del passato», dice il sindaco Stevanovic.

È un passato difficile quello di questa città. La guerra qui ha fermato l'orologio per vent'anni e i suoi abitanti adesso vogliono accelerare il giro delle lancette. Costi quel che costi, anche condizioni di vita difficili per il momento. Negli anni '80 era una delle aree più avanzate delle repubbliche socialiste, gli eventi storici l'hanno trasformata nella «valle della fame – dice Stevanovic –. E sa cosa le dico? Non ha senso parlare di quanto guadagnavo io e del tenore di vita di 30 anni fa, questi posti di lavoro sono fondamentali per i nostri giovani». E lo sono per molti, se è vero che secondo uno studio presentato a Belgrado dalla Siepa, l'agenzia serba per gli investimenti, il progetto della Fiat, tra diretti e indiretti, a regime porterà 30mila posti di lavoro.

L'annuncio del Lingotto qui a Kragujevac ha provocato la rottura degli argini di un fiume di investimenti. I coreani della Yura, che fanno cablaggi e adesso stanno lavorando per la Kja e la Hunday, sono già arrivati, hanno aperto uno stabilimento e assunto 1.500 persone. I tedeschi della Leoni che producono gli stessi componenti, pure. E altri sono in arrivo.
All'indotto il comune di Kragujevac ha riservato un'area di 67 ettari che verranno concessi "gratuitamente", assicura Stevanovic. Con in più infrastrutture che agevoleranno in tutti i modi la logistica. Il comune ha già ultimato 10 nuovi chilometri per il collegamento con l'autostrada ed entro la fine del 2011 ne completerà altri 15 per i quali ci sono già i progetti e i fondi. C'è fermento dentro e fuori dalla città. Si marcia in avanti, senza guardarsi troppo indietro e senza pensare al passato. Kragujevac è il simbolo di un paese che vuole rialzare la testa, costi quel che costi. Da molti anni ormai i suoi abitanti non vivono sotto l'ala dell'industria protetta e pur di ritornare in sella sono disposti a fare molte rinunce. Quando Dragic Asic torna dal supermercato confessa che «sì, è vero, servirebbero più di 500 euro solo per fare la spesa». E invece lui ne guadagna la metà e la moglie che oggi è in pensione ancora meno. Però 10 anni di kiflicc a colazione, pranzo e cena fanno scivolare il denaro in secondo piano. Prima vengono i tasselli per la ricostruzione e a Kragujevac il progetto della Fiat è sentito come il volano per reinserirsi in un mercato profondamente mutato, con la consapevolezza che le garanzie di un tempo non ci sono più.

La considerazione è molto chiara non solo tra gli operai. Lo è a partire dall'aristocrazia intellettuale. Il rettore Arsenijevic sostiene che «in futuro non esisterà più lo stato classico, ma ci saranno tante città paese sviluppate intorno a un'industria». È senz'altro un'estremizzazione ma sembra il modello che Kragujevac vuole assumere. Deve essere anche per questo che ha messo a disposizione di una multinazionale anche il centro nevralgico del suo sapere. Non è per caso che il rettore ci riceva nella sede dell'università, pochi chilometri fuori dalla città, proprio al termine di un incontro con un gruppo di manager Fiat. È molto impegnato, spiega, perché dalla collaborazione tra l'ateneo e Fiat sta per nascere l'Accademia di discipline industriali, che avrà il compito di colmare vent'anni di gap tecnologico e scientifico. L'accademia preparerà mille persone ogni anno, destinate non solo a Fiat auto Serbia (Fas), ma a tutte le aziende dell'indotto che si sta insediando.

Intorno alla Fas le istituzioni hanno creato tutte le condizioni per fare crescere velocemente il progetto. Il sindaco manager della città puntualizza che non spetta a lui parlare di modelli che si potrebbero produrre a Kragujevac ma la speranza è chiaramente che la Fiat decida di fare qui anche un modello di auto piccola, in quantitavi molto rilevanti.
L'avanzamento dei cantieri e il grande sostegno delle istituzioni e della gente fanno pensare che la tabella di marcia possa davvero essere rispettata. La London school of economics ha già fatto della Fas un case study che mostra come questo possa già considerarsi il primo esempio di successo di una joint venture tra un governo dell'ex blocco di repubbliche socialiste e una multinazionale. Da Londra arriva la spiegazione scientifica del perché dai suoi 64 metri quadrati nella Stara Radnicka Kolonija Dragic, Asic dice con la forza dell'istinto: «Fiat è il futuro dei nostri giovani».



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LAVORO: OMSA; CHIUDE FAENZA E APRE STABILIMENTO IN SERBIA

26/07/2010 20:29 | LAVORO - ITALIA


FAENZA (RAVENNA), 26 LUG - La Golden Lady Company, proprietaria dello stabilimento Omsa di Faenza (Ravenna) - di cui è stata decisa la chiusura con il licenziamento di 350 dipendenti, in gran parte donne - ha formalizzato un accordo con il ministro dell'Economia serbo per l'apertura di uno stabilimento in Serbia, il terzo del gruppo nella regione. Lo ha reso noto la Filctem-Cgil di Faenza, che ha protestato perchè i sindacati hanno incontrato la proprietà il 20 luglio ma nessuno li ha informati. 
«Abbiamo appreso di questo accordo dai giornali locali», ha spiegato Samuela Meci della Filctem-Cgil faentina, indignata perchè «a questo imprenditore è stato permesso di chiudere un'azienda italiana di 350 persone senza che nessuno, soprattutto il Ministero, abbia posto dei vincoli e fatto richieste a tutela della forza lavoro in Italia». La Cgil se la prende anche con le istituzioni locali e la Regione che «avrebbero dovuto puntare i piedi», ha sottolineato Idilio Galeotti. 
Ora, finita la processione dei politici che in campagna elettorale sono andati a fare visita alle lavoratrici in lotta davanti allo stabilimento di Faenza, resta la cassa integrazione per cessazione di attività per i 350 dipendenti. Ma se a marzo del prossimo anno almeno il 30% non troverà una ricollocazione, la cig cesserà per tutti. E al momento, nonostante la ricerca di possibili nuovi acquirenti o di una riconversione del sito faentino, non si intravedono altre possibilità. «Penso che sia necessario che tutti comincino a prendere posizioni forti contro le aziende che nei loro 'piani strategicì decidono una delocalizzazione così forte da mettere a rischio i posti di lavoro in Italia», ha affermato Samuela Meci. Intanto, le macchine che sono state portate fuori dallo stabilimento di Faenza, secondo i sindacati finiranno in parte nell'impianto di Mantova e in parte nella nuova fabbrica in Serbia. Il gruppo, che fa capo all'industriale mantovano Nerino Grassi, detiene marchi prestigiosi come Omsa, Golden Lady, Sisì, Philipe Martignon, Filodoro. Tra i leader mondiali del settore conta 7.000 dipendenti e, al momento, 15 stabilimenti, 9 in Italia, 4 in Usa e 2 in Serbia, che presto diventeranno tre. (ANSA).


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Movimenti di Capitale all’estero: chi dopo l’OMSA?

Posted on Redazione on luglio 30, 2010

Bologna. Martedì 27 luglio 2010, viene data comunicazione che l’azienda di calze di Faenza, OMSA, chiuderà lo stabilimento faentino e aprirà in Serbia. La CGIL di Faenza è stata abbandonata da CISL e UIL nella lotta contro la chiusura. Ma a Bologna altra aziende rischiano la stessa sorte, e l’abbandono questa volta, riguarda anche la CGIL bolognese. I casi riguardano per ora la Breda Menarini Bus e La Perla. Per la Breda MB, alcuni dipendenti denunciano da molto tempo il rischio di una delocalizzazione in Serbia dell’ azienda, in quanto, sempre secondo le denunce dei dipendenti, all’ interno della Breda MB, da mesi stanno seguendo un corso di formazione lavoratori serbi. Non è chiaro se uno stabilimento è già stato costruito nel paese dell’ex Jugoslavia. Le denunce non sono state prese in considerazione dalla FIOM di Bologna, e nemmeno dalle RSU dell’azienda. Sul gruppo La Perla, esisterebbe già una lista di nomi delle dipendenti che verranno licenziate al termine della Cassa Integrazione Speciale, vale a dire alla fine del 2010. I sindacati confederali di categoria, per ora tacciono, ma tra le dipendenti, la sensazione di una chiusura, anche parziale, circola con insistenza, davanti anche al silenzio dei mass media. Altri lavoratori di aziende come la Fini Compressori, stanno attendendo iniziative legali di sindacati di base, dopo che la Fiom ha firmato un accordo negativo, a parere dei lavoratori interessati. La Ducati di Borgo Panigale dovrebbe avere già uno stabilimento in Croazia, e i giochi di urbanizzazione dell’area dove sorge la storica azienda di Moto, non aiutano a stare tranquilli. La crisi FIAT- Serbia insegna. La deindustrializzazione italiana sta compiendo il suo progetto senza che giornali, radio, televisioni, e qualsiasi altro strumento di comunicazione metta in allarme questo progetto. Stupisce che la delocalizzazione industriale nazionale, avvenga con al governo nazionale il più grande partito territorialista. Come in un grande Twin Peaks, tutti conoscono i segreti della morte dell’ industria italiana, ma nessuno parla. Per paura di non sapere quali soluzioni trovare.
Giuliano Bugani, Freelance

=== 5 ===

Italia: firmato il prestito a Fiat per 400 milioni

• Release date: 16 June 2009
•  Reference: 2009-110-IT

La Banca europea per gli Investimenti (BEI) e il Gruppo Fiat hanno firmato il contratto di finanziamento di 400 milioni di euro approvato dal Consiglio di amministrazione della BEI lo scorso mese di marzo. Il prestito e` finalizzato a sostenere i progetti in Ricerca e Sviluppo del gruppo automobilistico e si inserisce nell`ambito della European Clean Transport Facility (ECTF), il piano della BEI rivolto ai produttori europei per  investimenti finalizzati alla riduzione di emissioni di anidride carbonica e alla maggiore efficienza energetica.

"Siamo particolarmente soddisfatti di contribuire a realizzare i programmi della Fiat, primo gruppo manifatturiero italiano e tra i protagonisti mondiali dell`auto, nella progettazione e realizzazione di nuove tecnologie a ridotto impatto ambientale per il settore dei trasporti", ha dichiarato Dario Scannapieco, Vicepresidente della BEI responsabile per le operazioni in Italia, Malta e Balcani Occidentali. "Gli investimenti in Ricerca e sviluppo costituiscono infatti la base per lo sviluppo duraturo di un`impresa e sono ancor piu` decisivi in un momento come quello attuale, in cui occorre guardare avanti, mirando a rafforzare la propria competitività, concetto che  la FIAT dimostra di avere ben chiaro", ha aggiunto.

Sono grato alla BEI per il contratto di finanziamento”, ha detto l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, “che è un contributo importante per proseguire nella ricerca di soluzioni sempre più ecocompatibili e nello sviluppo di tecnologie volte alla riduzione di consumi ed emissioni. Si tratta di una scelta strategica che Fiat ha abbracciato da tempo e con convinzione, sia per quanto riguarda i motori tradizionali sia per le alimentazioni alternative come il metano, di cui abbiamo una leadership riconosciuta”.



(italiano / english / francais)

Kosovo: romanzo criminale


1) Orrori di guerra, dalla casa gialla ai morti d'uranio
Recensione dei libri Lupi nella nebbia e L'urlo del Kosovo (23 luglio)

2) Arrestato Hashim Rexhepi
"Governatore" della "Banca centrale"- sic (24 luglio)

3) Ri-arrestato Haradinaj
I buffoni dell'Aia ritornano sui loro passi e ordinano l'arresto del terrorista UCK Haradinaj, precedentemente assolto (21 luglio)

4) EULEX chief on “pressure over probes” / EULEX asks PM to sack ministers accused of corruption 
Pressioni su Thaci e Limaj (4 giugno)

5) IL CASO "LLAPI GROUP" E LA NUOVA STAGIONE EULEX
Sui criminali di guerra la EULEX stavolta fa sul serio? Può darsi: avendo terminato il "lavoro sporco" per cui erano stati ingaggiati... Servono adesso "facce pulite" a recitare la parte della classe dirigente di quello che non è altro che un protettorato coloniale (15 maggio)


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Sui libri di cui si parla qui si veda anche:

Alessandro Di Meo: L'URLO DEL KOSOVO
ed. ExOrma 2010

Giuseppe Ciulla e Vittorio Romano: LUPI NELLA NEBBIA
ed. Jaca Book 2010

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da Il manifesto del 23/7/2010 p. 9

DUE LIBRI

Orrori di guerra, dalla casa gialla ai morti d'uranio

di T. D. F.

A rompere il lungo silenzio editoriale su un enigma irrisolto d'Europa, il Kosovo, sono usciti in questo periodo due libri importanti, originali perfino nel metodo di approccio ai Balcani. All'inizio dell'anno, Lupi nella nebbia. Kosovo: l'Onu ostaggio di mafie e Usa di Giuseppe Ciulla e Vittorio Romano (ed. Jaka Book); e in questi giorni L'urlo del Kosovo di Alessandro Di Meo (ed. Exòrma). 
Per Lupi nella nebbia, si tratta di un prezioso lavoro di giornalismo d'inchiesta che prende le mosse da semplici osservazioni e domande che tutti quanti avrebbero dovuto farsi in questi 11 anni dalla fine della guerra della Nato del 1999. Vale a dire: il Kosovo è grande come l'Abruzzo ed è diventato stato; dovrebbe essere il paese più sicuro al mondo con una miriade di osservatori internazionali e ben 14mila soldati della Kfor-Nato, invece si spara ancora e c'è tensione armata soprattutto a nord; le poche minoranze rimaste vivono in enclave superprotette mentre in 300mila sono fuggiti nel terrore; ci sono stati innumerevoli uccisioni e sparizioni di serbi, rom e albanesi «collaborazionisti»; i magistrati internazionali, l'Interpol, l'Osce, le Nazioni unite che pure lo hanno amministrato, denunciano che l'illegalità delle mafie governa il paese, diventato ormai snodo dei traffici malavitosi verso l'Occidente di prostituzione, droga, organi, armi. Ciononostante svetta la statua di Bill Clinton sulla piazza di Pristina a eterno riconoscimento della guerra «umanitaria» della Nato contro quella che era ancora Jugoslavia. 
Così gli autori hanno pensato bene di indagare a partire dal non-detto degli organismi internazionali. Per scoprire che qualche agente della sicurezza internazionale si chiede se «non abbiamo bombardato la parte sbagliata»; che esistono e sono numerose le inchieste e le denunce sul nesso indissolubile tra traffici illeciti e leadership dell'Uck (l'esercito di liberazione nazionale, con diramazioni in Macedonia, valle di Precevo, Montenegro), l'attuale governo guidato da Hashim Thaqi, capo indiscusso dell'Uck, la stessa cosiddetta opposizione, primo fra tutti Ramush Haradinay, anche lui premier in pectore e leader militare Uck; che ognuno di queste inchieste è stata monitorata, revisionata, bloccata e nuovamente istruita da funzionari americani, prima inviati e rappresentanti dell'Onu, poi diventati all'improvviso «esperti» dei ministeri kosovari. Pubblicando, ecco la novità del libro, per ognuna delle inchieste e denunce, prove concrete di tutta la documentazione internazionale. Fino alla scoperta del «Rapporto ufficio persone scomparse» dell'Onu del febbraio 2004, del documento-dossier del 30 novembre 2005 e di quello conclusivo del 10 febbraio 2006 del quartier generale dell'Onu a Pristina, sui delitti della «casa gialla» - denunciata nel suo libro «La caccia» dall'ex procuratore Carla Del Ponte - , l'edificio di Burrell nel nord dell'Albania, dove vennero deportati centinaia di serbi e dove, in una sala operatoria fatiscente, subirono l'espianto di organi utilizzato per finanziare l'Uck. Nessuno di questi crimini di guerra - feroci anche quelli contro i rivali albanesi della brigata Mergimi legata al leader Ibrahim Rugova - è mai stato punito. «Per non destabilizzare il Kosovo», dicono i governi complici dell'Ue e degli Usa.
E singolarmente, proprio dalla «casa gialla» inizia L'urlo del Kosovo di Di Meo. Se gli autori di Lupi nella nebbia hanno trovato la testimonianza di un albanese che sentiva «lamenti in serbo» venire dalla «casa», Di Meo comincia a raccontare con il nome di Jelena, una donna serbo kosovara ora profuga in Serbia, che ha perso il marito rapito con altre centinaia di serbi e albanesi «collaborazionisti» fin dal giugno del 1998 e forse finito nella «casa gialla». La figlia Dragana ogni anno viene ospitata in Italia grazie al sostegno di alcune Ong come Un Ponte per..., che insieme ad altre come Abc sono impegnate nelle adozioni a distanza verso i profughi e i bambini serbi e rom. Ecco la novità di questo narrare. Si tratta di testimonianza diretta nel tentativo di ricostruire quello che la menzogna dei media e poi la guerra della Nato, ben oltre i nazionalismi locali, ha inesorabilmente strappato: il legame umano e il senso d'appartenenza. Testimoni è meglio che inviati. Perché non è il diritto-dovere di cronaca che può far scoprire i profughi più dimenticati di tutti, quelli serbi - dalla Krajina croata, dalla Bosnia, dal Kosovo. È solo il testimone che può decidere di ri-attraversare scuole, ospedali, città, monasteri rasi al suolo, cercando a ritroso la devastazione degli «effetti collaterali», quei raid dell'aviazione della Nato che per 78 giorni colpirono quasi esclusivamente obiettivi civili. 
Un rapporto di Amnesty International del 2000 indicò questo effetti collaterali come «omicidi mirati» a terrorizzare. Provate allora a parlare con i sopravvissuti, ad inventariare i nomi dei bambini, provate a stenografare le loro storie di vittime infinite e non riconosciute da nessuno. A raccogliere e interpretare queste vite, ad adottarle come chiave di comprensione del presente. Non è un caso che il libro si apra con la dedica ad un'altra ragazza, Sladjana, morta da poco di cancro alle ossa. Perché i bombardamenti «umanitari» erano anche all'uranio impoverito. Ci siamo battuti perché proprio l'uranio impoverito venisse riconosciuto come la causa della morte di decine di soldati italiani reduci dalla Bosnia e dal Kosovo, ma nessuna commissione parlamentare si è mai occupata delle vittime civili provocate dalle bombe «intelligenti» quando colpivano ospedali, scuole, fabbriche, ponti, autobus, vagoni ferroviari, piazze, scuole.


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Kosovo, arrestato per corruzione il governatore della Banca centrale

il Piccolo — 24 luglio 2010   pagina 05   sezione: ATTUALITÀ

PRISTINA Il giorno dopo il riconoscimento della «non illegittimità dell'indipendenza del Kosovo» dalla Serbia da parte della Corte dell'Aja, un terremoto giudiziario colpisce il mondo politico-finanziario di Pristina. Il governatore della Banca centrale del Kosovo, Hashim Rexhepi, è stato arrestato ieri mattina per corruzione nel suo ufficio e dopo perquisizioni effettuate anche nella sua abitazione. Lo ha riferito un responsabile dell’ufficio kosovaro di collegamento con la Missione europea di polizia e giustizia in Kosovo (Eulex), istituito mesi fa dal governo di Pristina per combattere la corruzione dilagante nel Paese. Rexhepi - che è anche il rappresentante al Fondo monetario internazionale (Fmi) e che ha pure la responsabilità della vigilanza sulle banche del Kosovo, dove la moneta più usata è l'euro - era già inquisito da un paio di mesi nell'ambito della mega-inchiesta su casi di corruzione tra alti funzionari pubblici e esponenti di governo (una ventina in tutto). Un mese fa, secondo la stampa, era stato interrogato dagli inquirenti ma nulla era filtrato in merito. Ieri la svolta. Il portavoce dell'Eulex, Breim Krasniqi, ha detto che il governatore della Banca centrale è sospettato di avere abusato della sua posizione e dell'autorità che ne derivava, di avere accettato tangenti, di evasione fiscale e frode, di riciclaggio di denaro sporco e di «traffico di influenze illecite» (nella nuova normativa internazionale punisce chi si propone, in quanto titolare di un incarico di prestigio, come mediatore per traffici illeciti). Proprio giovedì la Corte internazionale di giustizia dell'Aja aveva fatto sapere che la dichiarazione unilaterale d'indipendenza del Kosovo dalla Serbia (17 febbraio 2008) non viola il diritto internazionale. Ma i Paesi dell'Unione europea (22 su 27 hanno riconosciuto l'indipendenza) da tempo insistevano sulla necessità, per il piccolo Paese, di lottare contro la dilagante corruzione. Tant'è che nell'inchiesta di Eulex un mese fa erano finiti anche il ministro dei Trasporti e Telecomunicazioni Fatmir Limaj e un suo stretto collaboratore. Per Shpend Ahmeti, responsabile del Kosovo’s Institute for Advancede Studies, l'arresto di ieri non è stato affatto casuale. «Subito dopo il pronunciamento dell'Aja - ha commentato - ecco il primo arresto che era stato promesso dall'Eulex». Un segnale, ha sottinteso: Pristina ha capito che gli aiuti finanziari stanziati dall'Unione europea e dalla Banca mondiale per affrancarla dal potere economico di Belgrado saranno presumibilmente elargiti e anche aumentati a patto che il Paese si metta seriamente al lavoro contro la corruzione, a partire dai più alti livelli istituzionali. La decisione (non vincolante) dell'Aja continua peraltro ad alimentare il dibattito politico. E dopo che gli Usa avevano giovedì auspicato il pieno riconoscimento internazionale del Kosovo, la Spagna ieri ha ribadito il proprio secco «no». Gli altri Paesi Ue schierati con Madrid sono Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia. Ieri anche Cipro ha ribadito il non riconoscimento. Il tema è poi stato messo nell'agenda del Consiglio esteri dell’Ue, previsto lunedì a Bruxelles. I capi delle diplomazie dei Ventisette analizzeranno l'impatto del parere della Corte dell'Aja sulle prospettive europee per tutta l'area dei Balcani e le possibili conseguenze su altre aspirazioni secessioniste in Europa. Sotto esame sarà anche l'atteggiamento di Belgrado. Che anche ieri ha ripetuto: «I serbi non riconosceranno mai l'indipendenza del Kosovo, che è e resterà la culla della nostra cultura». Ieri il governo serbo si è riunito a tarda sera in seduta straordinaria per analizzare l'opinione della Corte e determinare i prossimi passi. Il primo ministro Mirko Cvetkovic ha dichiarato ieri che la decisione dell'Aja richiede un’«analisi minuziosa» e ha annunciato un'iniziativa diplomatica in vista del dibattito dell'Assemblea generale Onu. «La posizione della Serbia - ha ribadito il premier - è che una soluzione sul Kosovo che porti a una pace duratura e stabile potrà essere presa solo mediante il dialogo».


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Ramus Haradinaj e’ stato arrestato ieri in Kosovo    

21. jul 2010. 

L’ex comandante della cosiddetta UCK Ramus Haradinaj e’ stato arrestato ieri in Kosovo, su mandato di cattura spiccato dal tribunale dell’Aja ed e’ stato trasferito nel carcere del tribunale, dove la corte d’appello ha annullato la sentenza con la quale e’ stato assolto da 37 punti d’accusa ed ha imposto il parziale rinnovamento del suo processo. Lo ha confermato la rappresentante del tribunale Nerma Jelacic, dopo che il presidente dei giudici Patrick Robinson, comunicando la decisione del rinnovamento del processo, ha aperto il mandato di cattura contro Haradinaj che e’ stato segretato e che e’ stato spiccato il 19 luglio. La corte ha valutato che dall’inizio alla fine del processo contro Haradinaj i testimoni della procura sono stati intimiditi, minacciati, uccisi. Il processo sara’ rinnovato parzialmente anche contro gli ex membri dell’UCK Idriz Baljaj, assolto da tutti i capi d’accusa e Ljah Brahimaj, condannato a sei anni di reclusione.

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TPI : retour à la case prison pour Ramush Haradinaj
Ramush Haradinaj sera rejugé par le TPI et a été placé en détention à La Haye jusqu’à son nouveau procès. Accusé de crimes de guerre et de crimes contre l’humanité, l’ancien commandant de l’UCK et ancien Premier ministre du Kosovo avait été acquitté par le TPI en avril 2008. Ce premier procès a été cassé en raison des pressions exercées sur les témoins.
Procès de Ramush Haradinaj : vers un nouveau fiasco judiciaire ?

Pressions sur les témoins : le TPIY inculpe les « anges gardiens » de Ramush Haradinaj 

Impossible justice au Kosovo : témoin aujourd’hui, mort demain  

Kosovo : comment la LDK fait taire les témoins « protégés » du procès Haradinaj  

Kosovo : l’ancien Premier ministre Ramush Haradinaj acquitté à La Haye 


--- FLASHBACK I ---

KOSOVO: HARADINAJ, IN SERBIA FEDINA LUNGA E PESANTE

(ANSA) - BELGRADO, 8 MAR - Stragi, rapimenti, attentati, torture: e' lungo il dossier confezionato dai serbi sull'ex premier kosovaro Ramush Haradinaj, e comprende ben 108 capi di imputazione, tutti molto pesanti.
Haradinaj, ricordano a Belgrado, era comandante dell'Esercito di liberazione albanese (Uck) nella zona di Metohija (Dukadjin in lingua albanese), nel Kosovo occidentale. Era a capo di un gruppo denominato 'Aquile nere' che i serbi considerano responsabile degli episodi piu' brutali del conflitto kosovaro.
Sarebbero state appunto le Aquile nere, sostiene Belgrado, a trucidare il 12 giugno del 1998 un numero imprecisato di rom che partecipavano a un matrimonio nei pressi della citta' di Djakovica. Il commando, racconta l'emittente B-92, aveva fermato la colonna dei gitani festanti portandoli tutti in una cantina di un albergo: li', afferma B-92, lo stesso Haradinaj avrebbe violentato la sposa - poi brutalizzata da altri miliziani - e torturato i restanti ostaggi. Molti uomini avrebbero subito anch'essi violenze sessuali: fra le tante atrocita' di quella strage, l'emittente serba riferisce di unghie strappate, di sigarette spente sulla pelle dei prigionieri, di orecchie mozzate fatte poi ingoiare a forza alle vittime. Solo dopo ore di sevizie, i rom sarebbero stati fucilati.
Al premier kosovaro dimissionario Belgrado imputa la morte di 40 serbi i cui corpi sono stati ritrovati nel lago di Radonjic (in serbo Radonjicko Jesero) e in alcuni pozzi vicini con addosso evidenti segni di torture. Quelle vittime sarebbero state rapite dalle loro case nel settembre del 1998 e tenute in carceri clandestine attorno al monastero di Decani, prima dell'uccisione.
Sempre Haradinaj e' additato dai serbi come il responsabile di diversi massacri di famiglie serbe avvenuti nell'estate del 1998 nella zona di Glodjan, cittadina natale dell'ex premier: il bilancio delle vittime era di almeno 20 civili, i cui cadaveri sono stati ritrovati semisepolti in un campo agricolo. Altra strage che ebbe larga risonanza in Serbia e della quale Haradinaj e' ritenuto responsabile, e' quella avvenuta a Pec nel dicembre del 1998: una bomba a mano venne lanciata in un caffe' della citta', il 'Panda', uccidendo sei liceali serbi.
Il dossier sull'ex premier non si ferma qui: anche alcuni albanesi sarebbero stati vittime della brutalita' delle 'Aquile nere', secondo Belgrado. Attribuito ad Haradinaj e' ad esempio il rapimento di quattro sostenitori del moderato Ibrahim Rugova, oggi presidente del Kosovo: i quattro sarebbero morti per le torture subite durante la prigionia. Per quella vicenda, il fratello Daut Haradinaj e' stato condannato nel dicembre del 2002 da un tribunale di Pristina a cinque anni di reclusione: misteriosamente, da quel processo e' stata stralciata - e si e' persa poi nel nulla - la posizione di Ramush.
Altra accusa che per le autorita' serbe lega i due fratelli Haradinaj e' l'irruzione, nel luglio del 2000, nella casa della famiglia albanese Mussaj, in passato bollata come 'collaborazionista'. Uno degli attaccati venne ucciso, ma gli altri si difesero: una granata feri' gravemente l'ex premier, poi curato secondo l'agenzia serba Beta in una base militare tedesca.
Stando agli inquirenti serbi, Haradinaj era stato il capo dei servizi segreti dell'Uck, e quindi implicato nelle operazioni piu' sporche della guerra. Il lungo e scioccante elenco e' stato inviato gia' negli scorsi anni dal ministero della giustizia serbo ai magistrati del Tribunale penale internazionale.
Spettera' all'Aja decidere sulla fondatezza o meno di quelle accuse: ma in Serbia, Haradinaj resta un ricercato eccellente per reati di terrorismo, strage, associazione eversiva. (ANSA). OT

08/03/2005 18:56

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Fonte: LA   NEWSLETTER   DI   MISTERI   D'ITALIA
Anno 6 - n. 99    13 aprile 2005

KOSOVO: DA PREMIER AD IMPUTATO DI CRIMINI DI GUERRA

Il primo ministro del Kosovo, Ramus Haradinaj, si è dimesso dal suo incarico dopo aver ricevuto l'incriminazione per crimini di guerra da parte del Tribunale penale internazionale dell'Aja (TPI).

Ex capo del gruppo terroristico UCK (Esercito di liberazione del Kosovo) e noto trafficante di droga, Haradinaj era stato inopinatamente nominato a capo del gioverno provvisorio della provincia serba sotto tutela dell'ONU. Impotente, difronte a questa nomina, era rimasta la comunità internazionale che aveva sostenuto la "guerra umanitaria" per la liberazione del Kosovo.

Haradinaj è stato immediatamente trasferito all'Aja, sede del TPI. Con lui c'e' anche un alto ufficiale del Corpo di protezione civile del Kosovo (TMK), la finzione in cui è stato trasferito tuitto l'apparato militare del disciolto UCK. L'ufficiale è Lahi Ibrahimi, 35 anni, cugino di Haradinaj e fra il 1998 e il 1999suo braccio destro proprio nell'UCK.

Terzo incriminato è Alush Agushi, 46 anni, anch'egli un ex appartenente all'UCK e attualmente detenuto nel carcere di Pristina per crimini di guerra per i quali è imputato insieme a Daut Haradinaj, fratello del premier.

Stragi, rapimenti, attentati, torture: è lungo il dossier su Ramush Haradinaj e comprende ben 108 capi di imputazione, tutti molto pesanti.

Haradinaj era il comandante dell'UCK nella zona di Metohija (Dukadjin in lingua albanese), nel Kosovo occidentale. Era a capo di un gruppo denominato Aquile nere, ritenuto responsabile degli episodi più brutali del conflitto kosovaro. Sarebbero state appunto le Aquile nere a trucidare il 12 giugno del 1998un numero imprecisato di civili, di etnia rom, che partecipavano a un matrimonio nei pressi della città di Djakovica. Il commando aveva fermato la colonna dei gitani festanti, portandoli tutti in una cantina di un albergo: lì lo stesso Haradinaj avrebbe violentato la sposa - poi brutalizzata da altri miliziani - e torturato i restanti ostaggi. Molti uomini avrebbero subito anch'essi violenze sessuali. Fra le tante atrocità di quella strage: unghie strappate, sigarette spente sulla pelle dei prigionieri, orecchie mozzate fatte poi ingoiare a forza alle vittime. Solo dopo ore di sevizie, i rom sarebbero stati fucilati.

Al premier kosovaro è imputata anche la morte di 40 serbi i cui corpi sono stati ritrovati nel lago di Radonjic (in serbo Radonjicko Jesero) e in alcuni pozzi vicini con addosso evidenti segni di torture. Quelle vittime sarebbero state rapite dalle loro case nel settembre del 1998e tenute in carceri clandestine attorno al monastero di Decani, prima dell'uccisione.

Sempre Haradinaj è additato come il responsabile di diversi massacri di famiglie serbe avvenuti nell'estate del 1998nella zona di Glodjan, sua cittadina natale: il bilancio delle vittime era di almeno 20 civili, i cui cadaveri sono stati ritrovati semisepolti in un campo agricolo.

Altra strage che ebbe larga risonanza in Serbia e della quale Haradinaj è ritenuto responsabile, è quella avvenuta a Pec nel dicembre del 1998: una bomba a mano venne lanciata in un caffé della città, il Panda bar, uccidendo sei liceali serbi.

Il dossier sull'ex premier non si ferma qui: anche alcuni albanesi sarebbero stati vittime della brutalità delle Aquile nere. Attribuito ad Haradinaj è il rapimento di quattro sostenitori del moderato Ibrahim Rugova, oggi presidente del Kosovo: i quattro sarebbero morti per le torture subite durante la prigionia. Per quella vicenda, il fratello di Ramush, Daut Haradinaj, è stato condannato nel dicembre del 2002da un tribunale di Pristina a cinque anni di reclusione: misteriosamente, da quel processo è stata stralciata - e si è persa poi nel nulla - la posizione dell'influente ex capo della guerriglia kosovara.

Un'altra accusa che lega i due fratelli Haradinaj è l'irruzione, nel luglio del 2000, nella casa della famiglia albanese Mussaj, in passato bollata come collaborazionista. Uno degli attaccati venne ucciso, ma gli altri si difesero: una granata ferì gravemente l'ex premier, poi curato in una base militare americana in Germania.

Stando ad inquirenti di parte serba, Haradinaj sarebbe stato il capo dei servizi segreti dell'UCK, implicato nelle operazioni più sporche della guerra.

Su proposta del presidente Ibrahim Rugova, l'ex comandante dell'UCK era stato eletto primo ministro con la maggioranza dei voti del parlamento kosovaro, il 3 dicembre scorso.

Altri tre albanesi, tutti appartenenti al disciolto Esercito di liberazione del Kosovo, sono sotto processo davanti al Tribunale per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia.

La prima udienza si è svolta lo scorso 15 novembre quando nell'aula dell'Aja sono comparsi in manette Fatmir Limaj, 33 anni, Haradin Bala, 57 e Isak Musliu, 34. Tutti e tre sono accusati di "uccisioni, trattamenti crudeli, torture e atti inumani" commessi contro civili serbi e albanesi del Kosovo detenuti in un campo di prigionia della guerriglia albanese a Lapushnik, nella parte orientale del paese.

Musliu e Bala furono imprigionati il 18 febbraio 2003 mentre Limaj, esponente politico di spicco del Kosovo, si consegnò volontariamente alle autorità austriache qualche settimana dopo.


--- I nostri LINK su Haradinaj ---

Who is Ramush Haradinaj? (2004)

A Prime Minister with a Kalashnikov (2004)

HARADINAJ SITUATION THREATENS TO UNLEASH MASSIVE VIOLENCE IN KOSOVO (2005)

Kosovo: Haradinaj incriminato all’Aja (08.03.2005)

Il danese ed il kosovaro, un sodalizio per il futuro del Kosovo (08.03.2005)
Dal più alto funzionario UNMIK Jessen-Petersen arrivano parole di gratitudine nei confronti di Haradinaj... 

Kosovo: trottola continua? (06.04.2005)
Dopo le dichiarazioni di Jessen-Petersen ritenute da alcuni troppo amichevoli nei confronti dell'ex Primo ministro Ramush Haradinaj si fanno insistenti le voci su una sua possibile partenza...

Un attentato al futuro del Kosovo? (18.04.2005) 
Kosovo sconvolto dall'omicidio di Enver Haradinaj, fratello minore dell'ex primo ministro, ora all'Aja... http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/4131/1/51/

The UN in Kosovo praises potential war criminal - why? (2005)

L'incriminazione di Haradinaj: via libera per la secessione del Kosovo? (2005)

Ritorno a casa (10.06.2005) 
Dopo soli tre mesi in prigione all'Aja Ramush Haradinaj, ex premier del Kosovo, è ritornato. I giudici gli hanno permesso di aspettare il processo, previsto per il 2007, a casa. Non poco sulla decisione hanno pesato le garanzie a suo favore date dai rappresentanti UNMIK [sic]

U.S. praises indicted former Kosovo P.M. (2007)

Witness in Haradinaj case murdered (2007)

Kosovo suspect is hardly a pariah (2007)
"He is a good guy, and innocent"

Haradinaj's Political Friendships (2008)

Vanity Fair meets Ramush Haradinaj (2008)


--- FLASHBACK II ---

TPI: RICORSO DEL PONTE CONTRO LIBERTA' PAROLA A HARADINAJ

(ANSA) - L'AJA, 20 OTT - L'ex primo ministro del Kosovo Ramush Haradinaj non deve essere autorizzato a svolgere un sia pur limitato ruolo pubblico. E' quanto sostiene il procuratore generale del Tribunale penale internazionale (Tpi) per la ex Jugoslavia nel ricorso presentato oggi contro la decisione presa nei giorni scorsi dai giudici dell'Aja. Haradinaj, 36 anni, e' accusato di crimini di guerra commessi contro civili serbi, rom e albanesi durante il conflitto del 1998-99 tra l'Armata di liberazione del Kosovo (Uck) del quale era il comandante, e le forze serbe. Dopo essersi consegnato in marzo all'Aja, ha ottenuto la liberta' provvisoria in giugno, dopo che le forze dell'Onu, che controllano il Kosovo, si sono impegnate a garantire che non si sottrarra' al processo. Dopo essersi consegnato Haradinaj si e' anche dimesso da primo ministro. Il 12 ottobre scorso il Tpi ha concesso all'ex premier la facolta' di parola e quindi di partecipare parzialmente alla vita pubblica. Del Ponte ha subito preannunciato un ricorso, ottenendo la sospensione del provvedimento, che oggi ha provveduto a depositare. Per il procuratore i giudici hanno dato ''troppo peso all'impegno della missione Onu e troppo poco a quello delle vittime''. Del Ponte richiama poi il fatto che gli imputati in attesa di giudizio da parte del Tpi non sono autorizzati a partecipare alla vita politica o ad occupare cariche elettive. (ANSA). VS

20/10/2005 13:00

TPI: KOSOVO; DEL PONTE, HARADINAJ ERA UN GANGSTER ASSASSINO

(ANSA) L'AJA, 5 MAR - L'ex primo ministro kosovaro Ramush Haradinaj e' stato un ''un gangster'', le cui mani sono ''macchiate di sangue''. Il procuratore generale del Tribunale penale internazionale (Tpi) per la ex Jugoslavia Carla del Ponte e' stata particolarmente dura nella requisitoria che ha oggi aperto il processo contro l'ex comandante dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), accusato insieme a Lahi Brahimai, 37 anni e Idriz Balaj, 35, di crimini di guerra e contro l'umanita'. ''Non dubitate che questo capo guerriero, i suoi luogotenenti e complici hanno le mani macchiane di sangue'', e che si tratta di ''gangster in uniforme, con in mano il potere, una combinazione mortale'', ha aggiunto il procuratore. Haradinaj, 38 anni, e' stato primo ministro del Kosovo, una volta finita la guerra, solo per un centinaio di giorni e si e' dimesso quando e' stato incriminato all'Aja per le atrocita' commesse nel biennio 1998-99 dai separatisti albanesi. L'atto di accusa a carico di Haradinaj, rimasto per diverso tempo segreto, e degli altri due imputati che erano ufficiali dell'Uck, include numerosi reati tra i quali, omicidi, torture, stupri contro la popolazione serba e civili albanesi accusati di aver collaborato con il nemico. I tre accusati si sono finora dichiarati non colpevoli. Il governo del Kosovo, dove Haradinaj e' trattato come un eroe, ha comunque chiesto e ottenuto per lui la liberta' vigilata prima del processo e gli offerto assistenza legale per gestire la propria difesa. ''Vi assicuro che non c'era nulla di eroico e di nobile nei crimini contenuti nel dossier che riguarda i tre imputati'', che ''erano degli assassini brutali'', ha avvertito Del Ponte. Nella prossima udienza la parola passera' agli imputati. (ANSA). RED-VS 

05/03/2007 16:28 


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Notizie Glassrbije (Radioyu.org) - 05. aprile 2008. 19:02

Tadic: urgentemente presentare un ricorso alla liberazione di Haradinaj

Il Presidente della Serbia Boris Tadic ha chiesto alla procura del tribunale dell’Aia di presentare urgentemente ricorso alla decisione scandalosa e sbagliata del tribunale di liberare definitivamente Ramus Haradinaj, ha comunicato l’ufficio stampa del presidente serbo. „Haradinaj ha commesso pesanti crimini di guerra. La sentenza sulla sua innocenza e’ una decisione che offende le sue vittime innocenti. Per questa ragione chiedo alla procura del tribunale di presentare ricorso e che Haradinaj sia condannato per i crimini che ha commesso. La Serbia e’ disposta ad aiutare il tribunale dell’Aia e consegnare le prove dei suoi delitti. L’ex procuratore capo Carla del Ponte ha confermato che i testimoni della procura nel processo contro Haradinaj erano minacciati, intimiditi e uccisi per impedire che deponessero le testimonianze contro di lui“, ha dichiarato il presidente serbo Boris Tadic.

Kostunica: L’Unione europea deve pronunciarsi sulla legalita’ del tribunale dell’Aia
 
Il premier serbo Vojislav Kostunica ha chiesto all’Unione europea di avviare il processo della verifica della credibilita’ del tribunale dell’Aia dopo che esso ha emesso la sentenza di innocenza dell’ex lieder dell’UCK Ramus Haradinaj. „Se l’Unione europea continuera’ ad ignorare le pesanti violazioni nei confronti del diritto e la giustizia del tribunale dell’Aia e la sua derisione della giustizia ed equita’ la Serbia dovra’ porre in modo responsabile la questione del lavoro del tribunale dell’Aia. I cittadini della Serbia a molta ragione sono rammaricati del lavoro di questo tribunale. Bisogna porre il quesito come il tribunale dell’Aia possa essere rilevante per la valutazione dei rapporti tra la Serbia e l’Unione europea“, ha dichiarato il premier serbo Vojislav Kostunica.


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http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2010&mm=06&dd=04&nav_id=67584

Beta News Agency - June 4, 2010

EULEX chief on “pressure over probes” 

BRUSSELS: EULEX chief Yves de Kermabon said Brussels on Thursday that “nobody in Kosovo could be above the law”.
Beta news agency reports that he thus “dismissed objections from the U.S. and some other Western governments that investigations into the alleged corruption of certain members of the Pristina government were destabilizing Kosovo”.
This was Kermabon's response when asked by European Parliament rapporteur for Kosovo Ulrike Lunacek, at the European Parliament's Subcommittee for Security and Defense, how he viewed comments from the U.S. and other Western countries that continuing EULEX investigations would impact the stability of Kosovo. 
The head of EULEX also told journalists that he was not interested in commenting on statements by Kosovo Albanian Premier Hashim Thaci that the probe into Kosovo Transport Minister Fatmir Limaj and some other ministers had been conducted in an "uncivilized manner". 
Kermabon replied that, according to his knowledge, whenever they met, Thaci had voiced support to EULEX and sought that more be done and that he be personally involved, as well as the Kosovo justice system, in the fight against organized crime and corruption. 
Kermabon further stated that the role of EULEX in Kosovo was to ensure justice without interference, adding that he had no regard for any pressure. 
The head of the European mission also stressed that he did not believe the investigations into Pristina government members were undermining Kosovo's stability. ...

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http://www.adnkronos.com/AKI/English/Politics/?id=3.1.493741290

ADN Kronos International (Italy) - June 4, 2010

Kosovo: PM asked to sack ministers accused of corruption

Pristina: The European Union mission in Kosovo (EULEX) is pressing prime minister Hasim Thaci to dismiss three ministers suspected of corruption, local media reported on Friday. “It has been recommended to premier Thaci to continue government reform and for the start demands resignation or sacks three ministers being investigated for corruption,” Pristina daily Zeri said.
EULEX recently searched the transport and communications ministry. It is investigating the minister Fatmir Limaj, who is suspected of defrauding the budget for several million euros.
Limaj is a member of Thaci’s Democratic Party of Kosovo (DPK) and has refused to resign. 
Two other ministers, one from DPK and another from president Fatmir Sejdiu’s Democratic Alliance of Kosovo, are also being investigated, the newspaper said.
EULEX was deployed in Kosovo in 2008, after ethnic Albanians declared independence from Serbia.
It recently said that it was carrying out about 100 investigations, including several involving six senior government officials.
EULEX chief Ives de Kermabon told the European Parliament on Thursday that he was under pressure from the United States and several western countries to soft pedal investigations because they might endanger Kosovo stability.
But Kermabon said he was paying no attention to such pressure because “no one in Kosovo can be above the law”. The rule of law could only strengthen the stability, he added.


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SABATO 15 MAGGIO 2010

IL CASO "LLAPI GROUP" E LA NUOVA STAGIONE EULEX

Nell'ottobre del 2009 la Corte distrettuale di Pristina, composta da un giudice del Kosovo e due di EULEX, ha emesso un verdetto relativo al caso "LLAPI GROUP". Tale gruppo, costituito da uomini appartenenti all'UCK (esercito di liberazione del Kosovo), durante la fase più acuta del conflitto 1998-1999 ha compiuto violenze e uccisioni nei confronti di tutti coloro che riteneva "traditori", "collaborazionisti dei serbi" o potenziali nemici per il controllo futuro dell'ex provincia serba. Latif Gashi, Nazif Mehmeti e Rrustem Mustafa, posti ai vertici della struttura, sono stati giudicati colpevoli di crimini di guerra per il trattamento disumano inflitto ai prigionieri civili, per la violenza e la tortura perpetrata ai danni dei detenuti civili. Un quarto uomo Naim Kadriu, anch'esso ritenuto colpevole nel processo del 2003, nel frattempo è deceduto.
- Latif Gashi condannato a 6 anni di carcere 
- Nazif Mehmeti condannato a 3 anni di carcere. 
- Rrustem Mustafa condannato a 4 anni di carcere.
I tre non sono persone qualunque. Gashi appartiene alla National Intelligence Service, un'organizzazione ombra formata nel 1999 dal governo provvisorio del Kosovo, Mehmeti è un membro del Servizio di polizia del Kosovo e Mustafa, conosciuto come Remi, era un alto comandante dell'UCK ed ora siede in Parlamento nelle fila del Partito Democratico del Kosovo, PDK, e ricopre anche la carica di presidente della commissione per gli affari interni e la sicurezza nazionale.

COS'E' SUCCESSO? 
Da ottobre 1998 fino ad aprile 1999, Latif Gashi, Nazif Mehmeti e Rrustem Mustafa, agendo di concerto con altri individui non identificati, hanno ordinato e compiuto violenza nei confronti di civili albanesi detenuti nel centro di detenzione situato a Llapashtica/Lapaštica, lasciandoli in condizioni disumane, privandoli di servizi igienici adeguati, senza cibo, acqua e le necessarie cure mediche. Il trio ha applicato misure di intimidazione e di terrore, ordinato e partecipato a pestaggi e torture nel tentativo di costringere i detenuti a confessare atti di slealtà verso l'UCK. Questo tragico caso iniziò con la raccolta di dati e testimonianze nel 2001/02. Nel 2003 iniziò il primo processo e furono emesse le sentenze di condanna. Nel 2005, però, la Corte Suprema del Kosovo chiese un nuovo processo. Si è giunti così alla data del 7 luglio 2009: il nuovo processo venne riavviato e la Corte distrettuale di Pristina condannò i tre criminali. Ma subito dopo cos'è successo? L'arresto di questi loschi figuri albanesi ha provocato un'ondata di proteste contro la comunità internazionale. L'associazione dei veterani dell'UCK, quella degli invalidi di guerra dell'UCK e delle famiglie dei martiri, hanno portato in piazza 5.000 manifestanti albanesi per chiedere a gran voce la liberazione del trio. I manifestanti hanno attaccato la polizia internazionale e minacciato le guardie locali dell'OSCE. La nuova missione EULEX non si è lasciata intimidire da questi eventi e pare decisa ad aprire un nuovo capitolo e accantonare la strategia sino ad ora usata da Unmik, fatta di immobilismo verso i criminali anche di fronte a prove certe. Questo nuovo messaggio di Eulex è arrivato a molti, anche ad Hashim Thaci. Il Primo Ministro e uomo vicino agli accusati, non si è scomposto e ha fatto sapere di essere fiducioso per l'assoluzione degli imputati dalle accuse. Come devono essere intese le parole di Thaci? Avra lanciato qualche segnale ai suoi? E' presto per capire se questa presunta nuova stagione di Eulex sia qualcosa di più sostanzioso di un semplice fuoco di paglia. Non ci resta che attendere.




L'operaio low cost e la "Fiat Bomba"

1) L' operaio low cost di Zastava: Con quei 400 euro sono rinato (E. Livini)

2) La Fiat Bomba / Le newco del mondo libero (A. Di Meo / A. Robecchi)


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L' operaio low cost di Zastava 

Con quei 400 euro sono rinato

KRAGUJEVAC - L' incubo di Mirafiori è un omone di un metro e 90 con una stretta di mano che fa scrocchiare le nocche: «Piacere Boris Djoric!» si presenta nell' anticamera del suo piccolo appartamento tra i casermoni di Stara Radnika Kolonija a Kragujevac, 140 km. a sud di Belgrado. Il cognome stampato con una vecchia Dymo sotto il campanello di casa sarebbe un altro. Ma lui strizza l' occhio: «Non ci faccia caso - dice - . Mi fido di lei e la ricevo solo perché mi è stato presentato da un carissimo amico». Messaggio ricevuto. «La prego di capirmi. Ho quasi cinquant' anni, fino a vent' anni fa non ci sarebbero stati problemi - spiega sprofondando in una vecchia poltrona - Lavoravo alla catena di montaggio di Zastava-Fiat. Prendevo 1.800 marchi (quasi mille euro) di stipendio al mese. E con mia moglie ci concedevamo il ristorante una volta alla settimana. Ma sa qual è adesso il più bel giorno della mia vita? Il 28 febbraio scorso. Quando ho finito il periodo di prova in Fiat Automobili Srbija. E, dopo aver buttato via due decenni della mia esistenza, ho ritrovato un posto di lavoro fisso». Stipendio? «Poco più di 400 euro, una fortuna che non posso permettermi di rischiare ora». Nell' era del «Dopo Cristo» dell' auto - per dirla con Sergio Marchionne - la felicità è una categoria soggettiva. A Mirafiori è allarme rosso per la decisione del Lingotto di spostare a Kragujevac la produzione della nuova monovolume del gruppo. Boris invece - l' operaio low cost che guadagna un quinto di quanto prendeva nel `90 - fa festa. «Capisco i miei colleghi italiani. Siamo tutti sulla stessa barca, spero alla fine ci sia lavoro per tutti. Ma per me è la fine di un incubo». La sua storia è quella del suo Paese. «Tutto è iniziato ad andare male con le sanzioni a inizio anni ' 90», racconta. Poi è arrivata la guerra. «Ho visto gli aerei Nato bombardare la fabbrica dove lavoravo. E nel ' 95 sono rimasto senza lavoro». Come altri 45mila qui a Kragujevac, orfani dello smantellamento del glorioso conglomerato serbo. «Come ho fatto a campare? Mi sono arrangiato - ricorda facendo ballare tra le mani una tazza di caffè - Ho vissuto per oltre 10 anni con un assegno mensile di 16mila dinari (150 euro) garantiti dallo Stato. Ho arrotondato vendendo metallo e macchinari recuperati delle fabbriche distrutte. Ho avuto qualche impiego saltuario nell' edilizia». Ristoranti zero. «In tavola ci sono stati solo pane e frittelle di grano per mesi. Ho tagliato le sigarette da 20 al giorno a due alla settimana». Una vita d' inferno: «Già nel ' 93 con mia moglie avevamo abbandonato il sogno di un figlio. Nel ' 97 mi hanno tagliato la corrente perché non pagavo le bollette. Due anni dopo ho lasciato casa mia, 120 euro d' affitto al mese, per trasferirmi in una baracca con i servizi di fortuna a 70. E solo tre anni fa il governo mi ha trasferito a 100 euro qui. E chiude un occhio se ritardo con i pagamenti». Il vento però è cambiato. Boris, i suoi affitti arretrati e la sua rassegnazione («trent' anni fa non mi sarei mai immaginato che la vita potesse andare indietro invece che avanti») sono un' occasione irripetibile per un capitale che insegue per il mondo la stella polare dei bassi costi. I politici di Belgrado e Veroljub Stevanovic, storico sindaco di Kragujevac e per 15 anni direttore di Zastava-Fiat, hanno cavalcato l' onda: «Eravamo, siamo e saremo la città dell' automobile. Eravamo, siamo e saremo figli della Fiat», dice il primo cittadino. Hanno messo sul piatto incentivi d' oro, benefici fiscali, 200 milioni di investimenti statali per risistemare la fabbrica (su un miliardo totale). E persino, ciliegina sulla torta, il progetto di un maxi-monumento alla Fiat: «Un' automobile su una piattaforma girevole nella seconda rotonda all' ingresso del paese, subito dopo il grande Crocefisso della prima rotonda», anticipa l'orgoglioso borgomastro [cfr. https://www.cnj.it/documentazione/orrori.htm ]. Sforzi che come dimostra il caso di Boris (e malgrado i 20mila disoccupati sui 200mila abitanti della città) iniziano a pagare. «Quando l' autunno scorso mi hanno convocato con i 3mila reduci di Zastava auto per i colloqui in Fiat ero emozionato come per un esame a scuola», racconta. Ha preso il suo foglio, risposto a quasi tutte le domande del test («di quelle di meccanica non ne ho sbagliata una». E quando a gennaio il Lingotto ha assunto le prime mille persone («saranno 2.500 quando nel 2012 produrremo 220mila auto l' anno, come vent' anni fa», dice soddisfatto il sindaco») Boris era nella lista. «Il giorno in cui me l' hanno detto ho chiamato mia moglie e per la prima volta dal ' 91 siamo usciti a cena». Salsicce, verdure e dolce con vista sul fiume Lepenica («una volta sapevamo di che colore stavano verniciando le auto dalla tinta dell' acqua», scherzano qui). Prezzo 900 dinari, nove euro. «Un mezzo tesoro per noi, ma dopo tanti guai». E' la legge dei vasi comunicanti. L' Italia e gli operai di Mirafiori rischiano di scendere la scala dei diritti sociali e del lavoro. Kragujevac e il suo operaio low-cost Boris ritornano a salire. «So che sono uno strumento, non sono stupido. Fiat è qui per guadagnare, non per migliorare la mia vita. Ci pagano poco, in fabbrica tra di noi ci lamentiamo. E magari tra 15 anni perderemo il lavoro a favore di una fabbrica a basso costo in Africa. Ma dopo tutto quello che ho passato non penso al domani. E mi tengo stretti i miei 400 euro. L' unico problema è che in Fiat non posso più fumare alla catena di montaggio come si faceva in Zastava». Qualcuno in Italia - buttiamo lì - sostiene che la scelta di Kragujevac per la monovolume sia solo una boutade di Marchionne per strappare concessioni a Mirafiori. Boris si irrigidisce sulla poltrona, trangugia l' ultimo sorso di caffè e guarda fuori dalla finestra, verso le gru gialle al lavoro per rinnovare lo stabilimento di Fiat Automobili Srbija. «Non ci voglio nemmeno pensare». Con quel che ha passato è difficile dargli torto.


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La Fiat Bomba

Nell’articolo di Alessandro Robecchi di domenica scorsa su “il manifesto”, “Le newco del mondo libero”, mancava all’elenco un modello di auto: la Fiat Bomba.
Questa potrebbe davvero essere prodotta in Serbia, proprio in quella fabbrica, la Zastava, distrutta dai bombardamenti del 1999. Ci racconta Rajka Veljovic, del sindacato Samostalni, che ormai non esiste più, messo all’angolo e lasciato senza i secondi...
“Nel 99 fummo uniti a difendere la Zastava. Stavamo dentro, invitammo le maggiori testate televisive europee per dire che non avremmo abbandonato quella che era la nostra seconda casa. Ma ci bombardarono lo stesso.”
L’intera intervista è riportata nel film-documentario “L’urlo del Kosovo”, che in questi giorni esce unitamente al libro di cui Tommaso Di Francesco ha scritto appassionata recensione il 23 luglio [cfr. http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6808 ].
Quella che era la Torino dei Balcani, la città jugoslava di Kragujevac e quella che era la Fiat dei Balcani, la Zastava, furono bombardate senza nessun tipo di remora o ritegno, il giorno della Pasqua ortodossa, mandando in frantumi strutture, macchinari e... uova pasquali, colorate e pronte da distribuire fra i lavoratori. In un vortice dove tutto si mischia, vita e morte, dramma e grottesco, lacrime e scoppi di risate, fu bombardata quella che era la seconda casa di questi lavoratori, così come tutta la Serbia e così come tutto il Kosovo, ultima amputazione in ordine cronologico della Jugoslavia, ultimo schiaffo in faccia ai Serbi.
A Kragujevac un inquinamento ambientale spaventoso dovuto alle fuoriuscite di materiale tossico e oli combustibili usati nelle lavorazioni industriali, ha causato e causa tuttora, nascite con malformazioni e l’insorgenza di malattie tumorali mentre i profughi, che da Kragujevac a Kraljevo vivono sparsi in decine di migliaia, molti dei quali provenienti dalle fabbriche satelliti della Zastava, in particolare da Pec, nel Kosovo occidentale, hanno reso, loro malgrado, la situazione di vita quotidiana drammatica per tutti. Cacciati senza nessuna possibilità di ritorno dalla loro terra, dalla loro vita, nel giro di poche ore dal 10 giugno del 1999, con la Kfor che assisteva “distratta” alle violenze dell’estremismo panalbanese, vivono spesso di sussidi, aiuti, e lavori saltuari. Lavoro diventato una chimera anche per chi lo aveva sempre avuto garantito.
Salari che non arrivano ai 200 euro, prezzi che salgono alle stelle, le verdure più semplici che arrivano anche a un euro al chilo, mentre rasenta i due euro al chilo la carne, senza contare le spese fisse per elettricità, riscaldamento e altro, con il dinaro che ogni mese perde  punti, (dall’inizio dell’anno a oggi è passato da 95 per 1 euro ai 105 attuali), se non fosse per le secolari capacità di adattamento alla tragedia delle donne e degli uomini di questo popolo, sarebbe la catastrofe.
E invece, eccoli che ancora resistono. Si resiste a Kragujevac, città che nell’ottobre del ’41 vide intere generazioni di uomini e ragazzi e adolescenti ammazzate in un giorno e mezzo dalla belva nazifascista. Oggi un parco ricorda quell’eccidio al cui confronto le nostre Fosse Ardeatine diventano una carezza. Sa sopportare la gente di Kragujevac il destino avverso, ci vuole ben altro che un Marchionne qualunque per piegarla. Ma questa contrapposizione fra lavoratori italiani e serbi fa molto male, soprattutto a loro. Perché nella sede del vecchio sindacato campeggiano alle pareti le foto della solidarietà, che ancora unisce i lavoratori italiani e serbi, attraverso i sostegni a distanza di centinaia di famiglie di operai o ex operai della Zastava. Dalla Fiat non è arrivata una lira, ancora oggi, mentre dai lavoratori delle varie organizzazioni sindacali la solidarietà non è mai mancata, da quel maledetto 24 marzo 1999 fino a oggi. Non avrebbero mai pensato di doversi trovare coinvolti in queste strumentalizzazioni, vere e proprie guerre fra poveri.
Dalla Fiat, che prima delle bombe era solita mandare panettoni, sono arrivati solo diktat e imposizioni che hanno avuto, come conseguenza, licenziamenti in massa, subappalti, ritmi di lavoro disumani, perdita di garanzie e diritti, impoverimento dei salari, perdita di futuro.
Bisogna che questi ponti fra lavoratori italiani e serbi non vengano distrutti dalla superficialità e dalla propaganda, così come vennero distrutti tanti ponti della Serbia durante i bombardamenti. Vogliono le guerre fra i poveri, ma è ora che i “poveri” comincino a guardare oltre il loro stretto utile quotidiano, perché ci sarà sempre qualcuno più ricattabile pronto a fare gli interessi di manager e aziende senza scrupoli. E gli stessi lavoratori dovranno diffidare dei tanti, soprattutto politici che, a parole, sono con loro ma poi, nei fatti, li lasciano soli. Chi sta rischiando davvero di essere ridotto alla fame, sono soltanto loro, i lavoratori. Pensano di ridurli  a più miti pretese, tenendoli sotto ricatto. Ma potrebbero sbagliare e dare modo alla solidarietà di avere il sopravvento.
E allora, questa Fiat Bomba davvero potrebbe diventare un veicolo affidabile, da prodursi in cooperazione Italo-Serba. La Fiat Bomba, della solidarietà.

Alessandro Di Meo

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Il Manifesto del 25.07.2010, p.1

FOGLIETTONE   |   di Alessandro Robecchi

Le newco del mondo libero

Grazie alle nostre talpe nella sede centrale Fiat, a Detroit, siamo giunti in possesso dei futuri piani di sviluppo dell'azienda americana. Eccoli.

La Fiat Lapa, burinissima e riconoscibile dai tatuaggi sulle portiere, verrà prodotta nel Borneo meridionale. L'accordo prevede sgravi fiscali per i prossimi duemila anni ad aziende guidate da figli di scrittori imbolsiti il cui nome cominci per E e finisca per lkann. Per ogni operaio assunto, il governo darà alla Fiat l'equivalente di ottomila dollari in banane. Marchionne si è mostrato interessato. Il Corriere della Sera ha lodato la maturità dei sindacati locali.

La Fiat Kakka, la monovolume di forma cilindrica allungata, sarà prodotta in Corea del Nord. I sindacati nordcoreani sono entusiasti per il salto di qualità salariale dei loro iscritti: «Una banana al mese per una famiglia nordcoreana è come vincere al totocalcio». I turni di lavoro di 32 ore consecutive con una pausa per il bagno di ventisei secondi sono considerati lussi occidentali, «esagerati» secondo La Stampa di Torino.

La Fiat Sòla, la macchina sportiva per fughe veloci, si produrrà molto probabilmente in Brasile. Il governo si impegna a fornire alla Fiat sgravi fiscali, soldi in contanti per ogni operaio assunto e incentivi per tutti i manager con la panza che si presentino in maglione anche se ci sono 54 gradi all'ombra. Tutto in anticipo, così quando Fiat dirà che non se fa più niente, avrà già incassato un discreto gruzzoletto e potrà annoverare la Fiat Sòla tra i suoi successi.

La Fiat Panda. Dovevano farla a Pomigliano, ma disgraziatamente il sindacato non è collaborativo come quello di Pyongyang. In linea con lo stile Fiat, chiuderà anche Mirafiori e il nuovo modello si costruirà in Serbia, con un nuovo nome. Si chiamerà Fiat Rappresaglia: per ogni macchina costruita si licenzieranno quattro lavoratori italiani. I rastrellamenti sono già cominciati a Termini Imerese e risaliranno la penisola nei prossimi mesi.


(italiano / english / deutsch)

Kosovo: Life under the toxic mountain

1) Negligenza mortale (VI puntata)

2) Flashback: “Scandalous treatment of Roma in Kosovo” (Tanjug, february 2010)


LINKS:

Kosovo: Life under the toxic mountain (video)

16/07/2010 - After the destruction of their homes and forced expulsion from South Mitrovica in Kosovo in 1999, the Roma people were displaced to temporary UN camps at the foot of mountains of toxic lead waste. Ten years later, families are still there suffering from chronic lead poisoning.

Link: http://www.guardian.co.uk/world/video/2010/jul/15/lead-refugees-mitrovica-kosovo


* UNICEF-Studie zur Lage der Roma-Kinder aus dem Kosovo: Kinder ohne Chance 

8. Juli 2010 - Rund 5.000 Kinder aus Familien der Roma und weiterer ethnischer Minderheiten sollen in den kommenden Jahren aus Deutschland in den Kosovo abgeschoben oder rückgeführt werden, obwohl sie dort kaum eine Perspektive auf Schulbildung, medizinische Versorgung und gesellschaftliche Integration haben. Zu diesem Ergebnis kommt eine neue UNICEF-Studie zur Lage von Roma-Kindern in Deutschland und im Kosovo.  

http://www.roma-kosovoinfo.com/index.php?option=com_content&task=view&id=259&Itemid=1


* UNICEF: Zur Situation von Kindern kosovarischer Roma, Ashkali und Ägypter in Deutschland und nach ihrer Rückführung in den Kosovo 

http://www.unicef.de/download.php?f=content_media/presse/Roma-Studie_2010/UNICEF-Studie_Roma_2010neu.pdf


* Thomas Hammarberg: "Children victimised when families are forced to return to Kosovo" 

08 July 2010 - The Council of Europe Commissioner for Human Rights (CHR), Thomas Hammarberg, has published a comment today following a UNICEF report on what has happened to those who were forcibly returned from Germany to Kosovo. Highlighting that in the last few years, several thousand persons, including Roma,Ashkali and Egyptians, have been forcibly returned to Kosovo by west European states (mainly from Austria, Germany, Sweden and Switzerland) the CHR expresses his concern that children are the ones most affected by these forced returns, as many of them have little or no attachment at all to Kosovo. Furthermore, as they are often sent away without warning, they find themselves with no documents in Kosovo, rendering them de facto stateless.

The comment is available here: http://commissioner.cws.coe.int/tiki-view_blog_post.php?postId=56

The UNICEF Report is available in German only here:

http://www.unicef.de/download.php?f=content_media/presse/Roma-Studie_2010/UNICEF-Studie_Roma_2010neu.pdf


* Abschiebung ins Nichts, DRadio Wissen, 8.7.2010 

http://wissen.dradio.de/index.33.isuv.html?dram:article_id=4033

* "Ich kann mir vorstellen, wie verzweifelt die Leute sind", junge welt, 5.7.2010 

http://www.jungewelt.de/2010/07-05/027.php


* Was sollen die im Kosovo?, tageszeitung, 30.6.2010 

http://www.taz.de/1/politik/deutschland/artikel/1/was-sollen-die-im-kosovo/


* Gruppenabschiebung nach Kosovo gestoppt, Neues Deutschland, 23.6.2010

http://www.neues-deutschland.de/artikel/173713.gruppenabschiebung-nach-kosovo-gestoppt.html

* Council of Europe calls deporting refugees back to Kosovo irresponsible, Deutsche Welle, 15.4.2010 

http://www.dw-world.de/dw/article/0,,5469539,00.html


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Negligenza mortale (VI puntata)

by Paul Polansky

[continuaHarri Hermanni Holkeri

L'ANTI-PREMIO CITAZIONE INUTILE: alla persona che amava fare citazioni giornaliere, ma queste citazioni non hanno salvata nemmeno una vita in Kosovo. Riguardo ai Rom e agli Askali, Harri rifiutò di mettere in pratica quanto predicava, da qui questo anti-premio.

Le Citazioni giornaliere di Holkeri

  • Quello che possiamo fare come individui può non essere molto nella scala globale, ma dobbiamo iniziare il cambio vivendo come insegniamo.
  • Se non accettiamo il pensiero altrui, non si può progredire nel proprio interesse. Abbiamo bisogno dell'altrui aiuto per ottenere risultati.
  • Uomini e donne hanno il loro ruolo - i loro ruoli sono differenti, ma i loro diritti sono uguali.
  • Ci sono molte sfide, ci sono molti ostacoli: cerchiamo di cambiare gli ostacoli in vantaggi.
  • Abbiamo gli strumenti, ma dobbiamo imparare come usarli. Questa è la mia filosofia politica.
  • In crisi nazionali o internazionali, ci sono sempre questioni di mancanza di confidenza. Devi cambiare le menti delle persone se vuoi ottenere risultati.
  • Non voglio parlare di sovrappopolazione o di controllo delle nascite, ma penso che l'istruzione sia la maniera di dare nuovo impeto alla questione della povertà.
  • Non puoi prendere decisioni facili se prima non ti impegni per difficili soluzioni.

Holkeri è nato il 1 gennaio 1937 ad Oripaa, Finlandia. Divenne membro del Partito della Coalizione Nazionale di Finlandia (Kokoomus) e poi del Parlamento dal 1970 al 1978. Holkeri fece parte del tavolo dei direttori della Banca di Finlandia nel 1978-97 e fu candidato alle elezioni presidenziali nel 1982 e nel 1988. Fu Primo Ministro dal 1987 al 1991. Più tardi divenne speaker dell'Assemblea Generale dell'ONU (2001-2001). Giocò anche un ruolo costruttivo nell'Accordo del Buon Venerdì in Irlanda del Nord. I suoi sforzi vennero premiati con il cavalierato onorario conferitogli dalla regina Elisabetta II. Venne poi nominato Rappresentante Speciale del Segretario Generale in Kosovo.

Se sotto l'SRSG Steiner tutti gli aiuti alimentari ai campi zingari vennero interrotti, sotto l'SRSG Holkeri i campi furono completamente ignorati. Nonostante gli appelli a portare la questione all'attenzione del suo staff, l'invisibile Holkeri rimase tale eccetto per le sue dichiarazioni quotidiane. Nel maggio  2004 Holkeri si ritirò dalla sua posizione presso l'UNMIK, adducendo problemi di salute dopo un collasso per esaurimento a Strasburgo. Il collasso avvenne il giorno dopo che Holkeri aveva visitato il quartiere generale ONU a New York, dove disse al Consiglio di Sicurezza che l'orgia di violenze di metà marzo (2004) aveva scosso la missione nelle "sue fondamenta". A seguito di intensi scontri tra la KFOR ed estremisti albanesi, l'UNMIK riportò che 4.366 Serbi ed alcuni Rom erano stati costretti a fuggire dalle loro case. Inoltre erano state distrutte o danneggiate circa 950 case, assieme a 36 chiese, monasteri ed altri monumenti serbi. Sotto Holkeri l'ONU fu lento a reagire. Molti osservatori ritengono che lui non comprese a sufficienza la situazione in Kosovo. Però, concordò nell'evacuare dalle loro case oltre 4.000 Serbi usando la polizia ONU, creando così un precedente in Kosovo per lo sgombero forzato quando le vite umane fossero a rischio. Fino ad oggi, non ha elaborato una dichiarazione per quella filosofia umanitaria.


PREMIO TESCHIO E TIBIE INCROCIATE al funzionario ONU sotto il cui sguardo morirono più bambini e feti di ogni altra epoca, nei nove anni in cui l'ONU amministrò questi campi della morte per gli zingari del Kosovo.

Jessen-Petersen nato nel 1945 a Nørrensundbay, Danimarca, venne nominato Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per il Kosovo e capo dell'UNMIK il 16 giugno 2004 e mantenne la posizione sino alla fine di giugno 2006. Jessen-Petersen è attualmente Direttore dell'ufficio di Washington Indipendent Diplomat, lettore presso la Scuola di Servizi Esteri all'Università di Georgetown, e Studioso Ospite all'Istituto di Pace degli Stati Uniti (USIP).

Jessen-Petersen ha avuto una lunga carriera nelle Nazioni Unite. Avvocato e giornalista per formazione, iniziò il suo servizio nel 1972 presso l'ufficio dell'Alto Commissario ONU per i Rifugiati (UNHCR) in Africa. Nei successivi 30 anni salì diversi gradini nell'UNHCR, nei vari uffici di Stoccolma, Ginevra e New York ed infine nel 1998 venne nominato Inviato Speciale dell'UNHCR nella ex Jugoslavia. Attualmente risiede a Washington DC con la moglie di diciannove anni e due dei suoi quattro figli.

Nonostante una carriera apparentemente distinta con l'Alto Commissario ONU per i Rifugiati, Jessen-Petersen perse il proprio compasso morale in Kosovo quando i bambini Rom/Askali iniziarono a morire di avvelenamento da piombo nei campi UNHCR e lui si rifiutò di evacuarli come richiesto dall'OMS. Sino a novembre 2004, in molti non sapevano che i campi zingari fossero così pericolosi, nonostante il rapporto medico ONU inviato all'SRSG Bernard Kouchner ad ottobre 2000. Ma quando nel 2004 venne portata a conoscenza la morte di Jenita Mehmeti nel campo ONU di Zitkovac, venne svelato il tentativo dell'UNMIK di nascondere la verità, anche se Jessen-Petersen tentò di far luce sulla tragedia. Quando la TV del Kosovo chiese a Jessen-Petersen del mio libro dove spiegavo l'avvelenamento da piombo, l'SRSG replicò "Polansky non ha di meglio da fare."

Per mascherare il proprio dilemma morale, Jessen-Petersen tentò di dire alla stampa che gli Zingari si stavano avvelenando da sé smaltendo le batterie delle auto. Anche se l'ONU aveva davvero dato licenza per smaltire le batterie e permesso di tenerle nei campi ONU, un dottore tedesco (Klaus Runow) aveva raccolto campioni dei capelli in 66 bambini dei campi e trovato 36 elementi tossici nel loro corpo, non presenti nelle batterie delle macchine. Jessen-Petersen tentò allora di "curare l'avvelenamento da piombo" donando150.000 euro prendendolo dal budget per il Kosovo. Ma fu solo un tentativo cosmetico, neanche un euro servì a curare un bambino dato che vennero sprecati per voci non mediche: 24.000 euro per latte scremato, 12.000 per saponi e shampoo, 9.500 euro per fumigare le baracche e 33.000 euro per i kit di analisi del suolo. Nonostante venisse detto che l'avvelenamento da piombo non potesse essere curato finché i bambini e le donne incinte (i più vulnerabili) non fossero rimossi dalla fonte dell'avvelenamento, Jessen-Petersen rifiutò ancora di evacuare i campi. Sotto il suo sguardo morirono più di 30 Zingari.


Fine sesta puntata. Le puntate precedenti:

http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3919
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3933
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3946
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3956
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3966


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FLASHBACK:

http://www.b92.net/eng/news/society-article.php?yyyy=2010&mm=02&dd=16&nav_id=65233

Tanjug News Agency - February 16, 2010


“Scandalous treatment of Roma in Kosovo” 


KOSOVSKA MITROVICA: Council of Europe Human Rights Commissioner Thomas Hammarberg called for an end to forcible return of Roma to Kosovo. 

After his second visit in ten months to the contaminated Roma camps in Cesmin Lug and Osterode, Hammarberg said that the situation had not changed, and called for an urgent evacuation of the settlements.

“The fact is that these camps have been inhabited for an entire decade is scandalous. The international community is partly to blame for this situation,” Hammarberg said. 

He said that the lead contamination posed a very serious danger for the people and children of the community. 

“New, safe housing is needed for about 600 people, in order to close the camps. They all need immediate medical care as well,” he said. 

Hammarberg said that he is concerned about the fact that Europe is implementing a forcible return of Roma to Kosovo. 

According to UN statistics, 2,500 people from EU countries were returned to Kosovo in 2009. 

Some of the Roma forced to go back to the province were sent to the contaminated camps, most of them being from Austria, Germany, Sweden and Switzerland. 

“I am calling on European countries to stop the forcible return until Kosovo is ready to secure the necessary conditions of life, medical care, education, social services and jobs,” he said.

He reminded that Kosovo has already signed readmission agreements with several countries. 

“In Kosovo alone there are 20,000 internally displaced persons and the unemployment rate is at about 50 percent, which clearly shows that Kosovo still lacks the infrastructure needed to allow a sustainable reintegration of refugees,” Hammarberg said. 

He added that some of the refugees have lived in other countries for a long time and have children that were born in European countries, speak the languages of these countries fluently and have no ties to Kosovo. 

“The result is that many refugees are trying to return as soon as they can to the countries they used to live in,” the commissioner said. 

In a report published last summer, Human Rights Watch said that the Roma district in the northern city of Kosovska Mitrovica was attacked by ethnic Albanians in June 1999. 

"By June 24, the district had been looted and burned to the ground, and its 8,000 inhabitants had fled. Many were resettled by the UN in camps in a heavily contaminated area located near a defunct lead mine. The move was originally intended to be temporary, yet about 670 Roma still live in camps near the site, with damaging consequences for their health," said the report.  




IL MINISTRO DEL GOVERNO CHE APPROVA L'INDIPENDENZA DEL KOSOVO



Corriere della Sera, 23 luglio 2010 - Pagina 6

Il governo a Bolzano: via i cartelli in tedesco o lo facciamo noi

Ultimatum di Fitto: 60 giorni per farli sparire 
Il procuratore Guido Rispoli: «Soluzione semplice: basta mettere davanti a tutti i nomi via, malga o rifugio»

Sarà che gli «italiani» del Tirolo hanno perso la pazienza. O forse perché il ministro s' è innamorato delle montagne dell' Alto Adige («Ci vado ogni anno da quando sono diventato papà», ha dichiarato al Corriere dell' Alto Adige). Fatto sta che il ministro per le Regioni, Raffaele Fitto, ha deciso di passare ai fatti: «In Alto Adige, i 36 mila cartelli in montagna scritti solo in lingua tedesca devono sparire». Se non lo farà la Provincia autonoma di Bolzano, provvederà lo Stato. Fissato il tempo per sostituirli: 60 giorni. Parole dure. Che rischiano di aprire un altro fronte nell' annosa questione «etnica» del Tirolo, tra italiani e comunità tedesca. La querelle non è nuova. Da anni si combatte una vera e propria battaglia sulla «toponomastica». Da una parte la minoranza tedesca, rappresentata soprattutto dai partiti che stanno alla destra della Svp (il partito di maggioranza relativa) che spingono per una «germanizzazione» dei nomi di vie, piazze e sentieri. Dall' altra gli italiani, che denunciano il sopruso. E il pericolo. Quale? Di andare in montagna e rischiare di cadere o perdersi perché le scritte sono solo in tedesco. In Alto Adige, il «Cai» versione tedesca si chiama «Alpenverein», finanziato dalla Svp. Sono loro che piazzano i cartelli scritti solo in lingua tedesca. Il Landeshauptmann (il presidente della provincia di Bolzano), «re» incontrastato della Svp, Luis Durnwalder, dice di non saperne nulla: «I cartelli della Provincia sono tutti bilingui. Quelli contestati sono stati installati da terzi che non spettava a me come gestirli». E per la prima volta, ieri, ha risposto in modo durissimo all' ultimatum del ministro: «Me ne frego». Luis, come lo chiamano tutti, non è un estremista ed è molto amato dal suo popolo. Ha avuto un leggero appannamento d' immagine solo quando è stato lasciato dalla moglie: s' era messo con una donna di Monaco molto più giovane di lui (particolare omesso in un libro Der Luis, edito da Athesia, che ha fatto finire la sua biografia al 1998 proprio per non ricordare il divorzio). Il suo «me ne frego» si spiega con la politica tutta interna alla comunità tedesca. La Svp negli ultimi anni ha perso consenso elettorale, a favore dell' aggressivo Die Freiheitlichen, una forma di opposizione antitaliana e degli Schützen, il movimento indipendentista capeggiato da Eva Klotz, che vorrebbe ritornare ai nomi precedenti al periodo fascista e che dalla Corsica commenta: «Fitto? Faccia pure, faccia pure...». Così Luis per non perdere contatto con il suo popolo (che riceve fuori orario d' ufficio, tutti i giorni, a partire dalle 6 del mattino) ha virato a destra. La guerra dei nomi delle vie s' inquadra in questa logica. Due anni fa italiani e tedeschi s' erano azzuffati per un outlet: alcuni imprenditori austriaci avevano osato chiamare al confine un centro commerciale con il nome italiano «Brennero». Per i tedeschi c' era una «o» di troppo (in tedesco è Brenner). Alla fine, su pressioni della Svp, la «o» era stata rimossa. Sulla questione ha esternato pure il procuratore capo Guido Rispoli: «La soluzione è semplice: basta mettere davanti a tutti i nomi via, malga o rifugio. Applicare la legge è l' unica cosa sensata». 

Agostino Gramigna 




Da Liberazione sulla Zastava

1) Quando l'Italia bombardava le fabbriche serbe
G. Vlaic, R. Pilato - 25/7/2010

2) «Ci hanno affamato, ora ci ricattano» 
Intervista a Radoslav Delic - 25/7/2010

3) Flashback: Lo stile Fiat sbarca a Kragujevac
F. Salvatori - 24/12/2009

Per i passati aggiornamenti sulla Zastava e una galleria fotografica da Kragujevac si veda:


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Liberazione, 25/7/2010

http://lettura-giornale.liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=81733&pagina=4&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=542693

La campagna di solidarietà coi lavoratori della Zastava partita subito dopo l'aggressione Nato del 1999

Quando l'Italia bombardava le fabbriche serbe

Gilberto Vlaic*
Riccardo Pilato**


Perchè parliamo di solidarietà internazionale con la Serbia in un momento in cui in Italia si parla di Serbia in tutt'altro senso e con la strisciante idea che proprio da lì venga una concorrenza accanita contro i lavoratori italiani di Mirafiori? Perchè c'è molta disinformazione, per non dire cattiva volontà in tutto questo parlare senza avere cognizioni di causa sulle vicende. La solidarietà internazionale con la Serbia, e specialmente con la città di Kragujevac e con i lavoratori della Zastava è partita subito a ridosso dei bombardamenti Nato del 1999, che hanno portato distruzione, perdita di lavoro, danneggiamenti di ogni genere colpendo settori trainanti dell'industria con l'obiettivo non tanto occulto di mettere in ginocchio un Paese per farlo allineare alle politiche liberiste dell'Occidente. Non dimentichiamo che il complesso metallurgico Zastava di Kragujevac con i suoi 36.000 dipendenti fu pesantemente bombardato con la motivazione che lì si producevano armi. In realtà la Zastava produceva una vasta gamma di prodotti, dagli aghi per insulina alle auto, ai camion, ai fucili da caccia; ciò che fu colpito e distrutto furono i reparti auto, camion, la fucina, la centrale termica, il centro di calcolo. La campagna di solidarietà è partita da alcuni settori del sindacato italiano della Cgil e del sindacalismo di base, che non digerivano la scelta del governo italiano di partecipare ai bombardamenti in palese contrasto con la Costituzione, e non accettavano la subordinazione dei vertici sindacali alle posizioni del governo. Un dato sembra importante per connotare da subito questa azione di solidarietà, che si rivolgeva inizialmente in affidi a distanza per i figli dei lavoratori Zastava rimasti senza lavoro a causa dei bombardamenti: è stato un atto politico e non una semplice beneficienza, e questo lo dimostra bene il caso della fabbrica bresciana Alfa Acciai dove circa 150 operai sostengono da oltre 10 anni, collettivamente, gli affidi di 26 ragazzi e ragazze di Kragujevac. Questa iniziativa di solidarietà è nata come risposta a una richiesta di aiuto che il sindacato serbo Samostalni ha lanciato nell'aprile del '99 ai lavoratori europei e alle loro organizzazioni nel tentativo di contrastare questa aggressione. Da subito in molte città italiane, Roma, Torino, Milano, Brescia, Bologna, Bari, Napoli, Bolzano, Lecco, Trieste, e altre ancora, sono nate associazioni fondate da gruppi di lavoratori e da persone che volevano prendere una pubblica posizione contro i bombardamenti, al fine di mettere in atto azioni di solidarietà nei confronti dei lavoratori serbi. Si sviluppò in quel periodo una forte consapevolezza che era necessario dar corpo a forme di solidarietà materiale al popolo e ai lavoratori bombardati. Ci fu una primissima fase emergenziale, durante la quale il sostegno era caratterizzato dalla spedizione di numerosi camion di aiuti, soprattutto vestiario, prodotti per l'igiene personale, materiale scolastico, medicinali. Poi si attivò una campagna di affidi a distanza dei figli dei lavoratori Zastava, attività che dura tutt'ora perchè la situazione del paese rimane di estrema povertà, disoccupazione e bassi salari per chi riesce a lavorare. Il sindacato Samostalni creò da subito una apposita struttura, l'Uffico adozioni-Ufficio rapporti internazionali, con il compito di seguire le relazioni con le varie associazioni italiane e di fornire e aggiornare le liste dei ragazzi e ragazze di famiglie in maggiore difficoltà. Attualmente gli affidi sono circa 1500. La particolarità di questa campagna sta nel fatto che la consegna del denaro avviene in apposite assemblee pubbliche direttamente ai genitori, con la firma di ricevuta, e senza alcuna trattenuta sui fondi che i sottoscrittori versano, nel senso che le spese di viaggio per andare a consegnare il denaro sono a carico di chi vi partecipa. Nel 2004, da parte di alcune associazioni, si è deciso di affiancare agli affidi anche una serie di interventi mirati di carattere sociale rivolti a fasce deboli della città di Kragujevac e appositamente richiesti dal sindacato Samostalni e da varie associazioni locali. Questi interventi sono realizzati nel campo della scuola, della disabilità fisica e mentale, della sanità pubblica e hanno potuto contare anche sull'intervento finanziario di alcune istituzioni pubbliche e di altre associazioni di volontariato italiane. Una fonte preziosa di finanziamento di questi progetti è stato il 5 per mille sottoscritto per le nostre associazioni.


*Non Bombe ma Solo Caramelle Onlus Trieste
**Associazione Zastava Brescia


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Liberazione, 25/7/2010

http://lettura-giornale.liberazione.it/giornale_articolo.php?id_pagina=81732&pagina=2&versione=sfogliabile&zoom=no&id_articolo=542682

Radoslav Delic segretario generale di Samostalni

«Ci hanno affamato, ora ci ricattano.
Per questo dobbiamo lottare insieme»

Raika Veljovic

Radoslav Delic è segretario generale delle aziende dell’ex gruppo Zastava per il sindacato Samostalni, i metalmeccanici serbi.

Cosa c’è di vero nell’intenzione della Fiat di spostare le produzioni da Torino a Kragujevac?

Il nostro governo non ha dato nessuna informazione ufficiale che riguardi questa presunta intenzione resa nota da Marchionne e i massmedia in Serbia non hanno fatto altro che diffondere le notizie pubblicate dalla stampa italiana.

Ci sono stati incontri tra Marchionne e il sindacato serbo?

Assolutamente no.

La Fiat sta giocando al ricatto con i lavoratori degli stabilimenti italiani, prima contrapponendo Tychy (Polonia) a Pomigliano. Ora sta facendo lo stesso gioco contrapponendo Torino a Kragujevac. Lo scopo è quello di scatenare una guerra tra poveri dove sopravvivono i lavoratori che si offrono alle peggiori condizioni. Non credi che occorra unirsi per evitare di essere messi gli uni contro gli altri? E se è così, cosa si deve fare?

Da molti anni abbiamo rapporti con organizzazioni territoriali e aziendali della Cgil e con varie associazioni, rapporti costruiti intorno alla solidarietà con il popolo serbo maturati durante i bombardamenti scatenati dalla Nato contro il nostro Paese nel ’99. Queste relazioni solidali hanno prodotto centinaia di adozioni a distanza che durano tutt’ora. Sul piano sindacale, il nostro segretario dell’ex gruppo Zastava e vicesegretario nazionale di Samostalni Zoran Mihajlovic è stato invitato due anni fa dalla Fiom di Torino per concertare un’iniziativa finalizzata ad unire in una rete tutti i sindacati Fiat del mondo. In quell’occasione tutti fummo d’accordo, ma l’idea è rimasta allo stato delle intenzioni. Una delle nostre proposte fu che si doveva promuovere l’unità a livello della lotta sindacale: pensavamo che se sciopera il nostro compagno in Italia o in Spagna, bisogna trovare la forza di scioperare in tutte le fabbriche Fiat del pianeta, perché solo così è possibile opporsi validamente al padrone, che altrimenti ha gioco facile ad isolarci, a contrapporci e a batterci gli uni dopo gli altri.

Gli operai di Tychy hanno scritto ai loro compagni di Pomigliano una lettera molto forte, chiedendo loro di non farsi intimidire e proponendo di fare causa comune contro la prepotenza della Fiat. Perché questo avvenga è necessario costruire un plafond di diritti comuni. Ma come è possibile se le condizioni di partenza sono così diverse?

Nel già citato convegno torinese fu proprio la Fiom italiana a proporre che si convenisse su una piattaforma che individuava alcuni fondamentali diritti per i quali battersi in tutte le aziende del gruppo Fiat. Questo è indispensabile, al di là delle differenze economiche e sociali che continuano a sussistere e che temo sussisteranno ancora a lungo nei diversi Paesi. Certo, ci sono grandi difficoltà. Per esempio, il lavoro minorile va combattuto ovunque, anche se da noi il problema fondamentale, in un quadro devastato dalla disoccupazione, è dare il lavoro agli adulti.

La debolezza dei lavoratori serbi, il loro assoluto bisogno di lavorare è cinicamente usato dalla Fiat per imporre condizioni di lavoro e di salario pessime, per poi spiegare ai lavoratori italiani che devono fare altrettanto perché lo impongono le regole della competizione internazionale. Non è giunto il momento che in Europa si consolidi un coordinamento sindacale capace di impedire questo gioco al ribasso?

Naturalmente dobbiamo impedire questo gioco perverso. Noi lavoratori e il nostro sindacato abbiamo perfettamente chiaro che il padrone è sempre in cerca della realtà in cui può fare maggiore profitto. I lavoratori serbi sono ora divenuti il bersaglio privilegiato perché dopo più di dieci anni di embargo, bombardamenti e liberalizzazioni selvagge si sono trovati a vivere sotto la soglia della povertà, avendo essi bisogno di tutto per sopravvivere. La sporca guerra che abbiamo subito e l’instaurazione in Serbia di un vorace capitalismo che ha privatizzato tutto ciò che vi era di pubblico si sono trasformati in un boomerang anche per i lavoratori italiani contro i quali oggi viene scatenato il dumping. Per impedire questo genere di ricatti dobbiamo essere uniti e ripetiamo per l’ennesima volta che la nostra battaglia sindacale deve essere comune. Non possiamo chiudere gli occhi davanti alle difficoltà e alle minacce che oggi subiscono i lavoratori fratelli di altri paesi. Tuttavia bisogna sapere che ci sono la nostra estrema debolezza e la nostra povertà alla base di tutto, perché se noi ora stessimo meglio il padrone italiano non sarebbe venuto qui, e noi non avremmo accettato un salario di 200 euro al mese.


=== FLASHBACK ===

Liberazione del 24 dicembre 2009


http://lettura-giornale.liberazione.it/a_giornale_index.php?DataPubb=24/12/2009

Lo stile Fiat sbarca a Kragujevac

Fabrizio Salvatori

Nei giorni scorsi è arrivata in Italia una delegazione di sindacalisti della Zastava, ospiti dell’ass. “Non bombe ma solo caramelle”. Ha portato la sua testimonianza e ha voluto approfondire le reali intenzioni della Fiat

Il gioco è chiaro: sembra la fotocopia di quanto già accaduto in Italia: profitti privati e oneri pubblici. Con azzeramento delle relazioni sindacali, condizioni di lavoro da anni ’50, e clima di tensione


Un grande striscione con su scritto "Bentornata Fiat". Un anno e mezzo fa Kragujevac, cittadina industriale di 200mila abitanti a meno di cento chilometri da Belgrado, aveva almeno la speranza.
Dieci anni dopo i drammatici bombardamenti sulla Serbia. Dieci anni di povertà, malattie e disperazione. Dieci anni a tenere in piedi quella fabbrica, la Zastava, contro la quale la Nato aveva riversato tonnellate di bombe all'uranio impoverito perchè - così sosteneva - in quel sito, che dava da mangiare alle famiglie di quasi quarantamila tute blu, in realtà si producevano armi. In realtà vennero quasi azzerati gli impianti di produzione auto e la centrale termica.
L'accordo per l'arrivo della Fiat è servito, almeno per il momento, a far vincere le elezioni ai "neofurbi" liberisti che in Serbia abbondano. Il 29 aprile del 2008 c'è stata la firma tra il presidente della Repubblica Boris Tadic ed il vicepresidente Fiat Altavilla, alla presenza del ministro dell'economia Dinkic, e l'11 maggio si sono svolte le elezioni.
Un tempismo straordinario quello di Tadic e Dinkic. Sul resto è ancora buio pesto. Lo striscione, per decenza è stato tolto. E il sogno di diventare la piattaforma per un mercato potenziale di 800 milioni di persone, così continuano a scrivere i giornali italiani, per il momento è meno di una mera ipotesi.
Nei giorni scorsi è arrivata in Italia una delegazione di sindacalisti della Zastava, ospiti dell'associazione "Non bombe ma solo caramelle". Ha portato la sua testimonianza a Brescia e a Trieste. Ed ha voluto approfondire le reali intenzioni della Fiat.
Finora le auto prodotte sono state quindicimila. Prodotte è una parola grossa. Il modello è quello della vecchia Punto, che i mille operai serbi non fanno altro che assemblare con componenti che arrivano dalle più svariate province dell'Impero Fiat. Alla Zastava, insomma, non viene prodotta nemmeno una vite.
"La Fiat entro il 31 marzo del 2009 - scrive Nenad Popovic, presidente del Consiglio economico del Partito democratico serbo - doveva versare 200 milioni del capitale iniziale. L'anno prossimo sarebbe dovuta partire la produzione di un modello nuovo, per la quale dovevano essere assunti circa 2.500 lavoratori. Cosa c'è da festeggiare?"
Ma la beffa non è finita qui. I lavoratori vengono retribuiti con le sovvenzioni del Governo della Serbia, che in questo accordo dovrà metterci 300 milioni. La Fiat ci mette solo i componenti ed ha il 10% di contributo statale garantito su ogni vettura. Se l'azienda è ripartita è stato grazie ai serbi, in realtà, che hanno speso 14 milioni per gli impianti e avevano comprato per 3 milioni la licenza per riscattare il marchio e chiamare la vettura "Zastava10". Ora però, se l'accordo diventerà operativo la proprietà tornerà in mano alla Fiat con il 66% delle azioni. E quindi anche la licenza di produzione di quel modello di auto.
Il gioco della Fiat è chiaro. E sembra la fotocopia di quanto è già accaduto in Italia: profitti privati e oneri pubblici.
Senza metterci una lira di investimento, Marchionne ha imposto lo "stile Fiat": azzeramento delle relazioni sindacali, condizioni di lavoro da anni '50, soprattutto per quel che riguarda la verniciatura, e clima di tensione contro chi prova anche soltanto a sollevare dubbi e perplessità. La Polonia non è così lontana. E i manager lasciano capire che a trasferire la misera quota di produzione di circa ventimila vetture all'anno, non ci vuole poi granchè.
La Serbia, intanto, si sta letteralmente svenando per convincere la Fiat a restare: terreni risanati e regalati, zona franca e infrastrutture. L'assalto all'Est Europa è pronto. "Quattroruote" scrive che il prossimo anno partirà la produzione del nuovo modello, ma gli impianti, fanno sapere i delegati del sindacato serbo dei metalmeccanici, non ci sono ancora. "Per montarli - dicono - non ci si può mettere meno di due anni". Le previsioni economiche dell'Istituto centrale di statistica parlano chiaro: si passerà secondo le previsioni da una crescita del Pil del +5,4% del 2008 al -3% del 2009, sono calati drasticamente gli investimenti esteri, la disoccupazione è cresciuta di 2 punti percentuali (dal 14,4 al 16,4%) ed in genere la Serbia spende più di quel che produce.
La Fiat non è certo una dama di San Vincenzo.




La FIAT contro i lavoratori italiani e serbi


Riproduciamo più sotto il comunicato del sindacato unitario della Zastava di Kragujevac in merito alle provocatorie dichiarazioni rilasciate da Sergio Marchionne alla stampa italiana.

Seguirà a breve la relazione del viaggio della associazione "Non bombe ma solo caramelle" a Kragujevac, effettuato circa 20 giorni fa.
In merito alla strategia FIAT di mettere i lavoratori dei vari paesi gli uni contro gli altri, ed a proposito della leggenda degli "investimenti" FIAT a Kragujevac (dove gli italiani hanno solamente bombardato e poi acquisito *gratuitamente* gli enormi impianti Zastava, senza per adesso sganciare un soldo ed approfittando invece dei fondi elargiti da BERS e governo serbo), segnaliamo anche i seguenti link:


"Produrremo in Serbia la monovolume - con sindacati più seri si faceva a Mirafiori". Intervista a Marchionne:
Alla stessa pagina sono pubblicate molte centinaia di commenti, di cui una parte forniscono informazioni circostanziate sulla truffa degli "investimenti FIAT a Kragujevac"



Nostra registrazione audio di un recente colloquio con Zoran Mihajlović del Samostalni Sindikat della Zastava di Kragujevac e dell'intervento di Gilberto Vlaic alla assemblea per la consegna delle quote di affido ai figli dei lavoratori (3 luglio 2010 - MP3 - 24m):



Passati aggiornamenti e GALLERIA FOTOGRAFICA da Kragujevac:



«Troppe incertezze». Fiat sposta in Serbia la monovolume L Zero

... L'operazione serba risolve in realtà un altro problema a Fiat: fa avanzare il progetto di joint venture con la Zastava, che dopo la firma dell'accordo di 2 anni fa era ancora in attesa di un modello forte da produrre; né il progetto della piccola Topolino né quello di una low cost da esportare hanno infatti finora avuto via libera. L'investimento in Serbia vale quasi un miliardo di euro per arrivare a una capacità produttiva di 190mila vetture annue; la produzione della nuova monovolume dovrebbe iniziare tra la fine del 2011 e i primi mesi del 2012. La somma di 1 miliardo di euro verrà coperta per 250 milioni dal governo di Belgrado; 400 verranno da un prestito dalla Bei e il resto dall'azienda torinese; quest'ultima dovrebbe spendere dunque una somma comparabile con quanto avrebbe investito per produrre la L0 a Mirafiori; nel 2008 si era parlato per Zastava di un investimento di 700 milioni, di cui 200 contribuiti da Belgrado. ...


Fiat, bufera sul trasferimento in Serbia
Fiat, «Fabbrica Italia» perde pezzi - I fondi per Mirafiori? In Serbia
La monovolume Fiat si produrrà in Serbia
Fiat. Marchionne arrogante e provocatore: la LO in Serbia. A rischio Mirafiori


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COMUNICATO DEL SINDACATO UNITARIO DELLA ZASTAVA

Jedinstvena Sindikalna Organizacija Zastava
Samostalni Sindikat Srbije - Savez Metalaca Srbije
jsozastava @ nadlanu.com

Kragujevac, 23 luglio 2010

Per quanto riguarda gli articoli pubblicati in questi giorni in Italia e tradotti e pubblicati anche in Serbia, comunichiamo che - sulla base delle informazioni in nostro possesso - non esiste nessun Accordo ufficiale ne' informazione ufficiale del governo serbo (che è proprietario del 30% della Fiat Auto Serbia) relativa alle dichiarazioni (intenzioni) di Marchionne.
I fatti sulla situazione attuale nella fabbrica di Kragujevac:
* La fabbrica è ferma a causa delle vetture non vendute ferme nel piazzale (circa 450 unità).
* Tutti i 1060 lavoratori della Fiat Auto Serbia sono in cassa integrazione (percepiscono il 65% del salario).
* La ricostruzione dei reparti viene eseguita da imprese appaltatrici, nonostante che migliaia di lavoratori della Zastava [*] stiano a casa senza lavoro. Proprio 2 giorni fa un lavoratore di un'impresa appaltatrice è morto sul lavoro.
* Circa il 70% dei lavoratori della Fiat Auto Serbia sono sovvenzionati dal governo serbo per arrivare al minimo garantito in Serbia che è pari a 160 euro.
* Noi al Sindacato abbiamo seri dubbi per quanto riguarda la decisione di Marchionne, perchè in un anno ha cambiato il piano 3 volte.
* Il sindacato della Zastava vede in questo girotondo di annunci il tentativo di dividere i lavoratori dei nostri due paesi e invita all'unità di tutti i lavoratori del gruppo Fiat.

Il segretario
Radoslav Delic

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[*] Quelli cassaintegrati più quelli licenziati e forzati al prepensionamento in totale ammontano a decine di migliaia: il "kombinat" di Kragujevac era infatti il più grande complesso metalmeccanico dei Balcani prima della aggressione della NATO e dell'inizio delle selvagge politiche liberiste alla fine del 2000 (ndCNJ).




Negligenza mortale

Le prime quattro parti di questo importante testo di Paul Polansky, sull'avvelenamento e l'apartheid cui sono costretti i rom del Kosovo per responsabilità del regime coloniale instaurato nel 1999, si possono leggere sul blog sivola.net:
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3919
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3933
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3946
http://www.sivola.net/dblog/articolo.asp?articolo=3956
o sull'archivio della nostra newsletter: 

In merito ci è giunto il seguente commento di Marino Andolina, medico primario dell'ospedale Burlo di Trieste e componente del Comitato Scientifico della nostra onlus:

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Serbi e ROM

Quanto scritto da Polansky mi fa ricordare i giorni in cui incontravo i profughi ROM ai confini col Kosovo, mentre attraversavo il confine con l'aiuto di un poliziotto serbo per portare aiuto ad una famiglia albanese nei guai. Ricordo i volti che esprimevano una cupa perdita di speranza; mi chiesero solo di chiedere informazioni di alcuni loro congiunti che non erano riusciti a scappare. Non fui loro utile neanche in quello.
In questi giorni ho collaborato con i colleghi serbi del centro trapianti dell'Istituto Madre e Bambino di Belgrado, preparando un bambino ad un trapianto di midollo. Il suo cognome era tipicamente albanese, il nome tipicamente islamico; parlavano solo serbo. Il livello culturale di mamma e bambino era più che accettabile. La madre mi disse candidamente di essere una Rom kosovara. Quindi i serbi spendevano decine di migliaia di euro per curare un bambino Rom, profugo dal Kosovo.  Normale si dovrebbe dire. Come normale mi sembrò che il primo bambino che abbiamo trapiantato assieme a Belgrado, durante la guerra in Bosnia, avesse un nome musulmano. Allora come oggi ai serbi non sembra di aver fatto alcunchè di eccezionale; è strano che la cosa sembri eccezionale a noi occidentali abituati a considerare i Rom subumani e i serbi nazionalisti sanguinari. In fondo in Romania, paese dell'Unione, in un orfanotrofio una deputata italiana vide in uno stanzone dei bambini gattonare nudi nei loro escrementi. La direttrice le chiarì che "non erano bambini, erano Rom". Chissà com'è l'Europa vista dalla Serbia.
 
Marino Andolina

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Negligenza mortale (V puntata)

by Paul Polansky

[continua


Hans Haekkerup

L'anti-premio NATOS: vergogna a tutti i pianificatori militari (specialmente i politici) che raramente prendono in considerazione gli effetti che i bombardamenti inutili avranno sui bambini. Come Ministro Danese della Difesa (prima di diventare il 3° SRSG in Kosovo) Haekkerup fu coinvolto nella preparazione del bombardamento del Kosovo, che non distrusse alcun obiettivo militare ma obbligò alla chiusura tutte le scuole e lasciò traumatizzata un'intera generazione di bambini.

I nonni putativi
non dovrebbero avere un favorito.
Io ce l'ho.
Un piccolo zingaro di quattro anni
di Plemetina
Con i pugni contusi come un pugile.

All'età di un anno
durante i bombardamenti della NATO in Kosovo
Aveva fracassato così tante cose
Che i suoi genitori
L'hanno ribattezzato
NATOS

Tre anni dopo
Continua a fracassare le cose,
Ogni volta che un aereo
Passa in cielo.

Hans Haekkerup nacque il 3 dicembre 1945 a Frederiksberg, Copenhagen. Dopo la laurea nel 1973 con un master in Arti ed Economia all'università di Copenhagen, Haekkerup servì in diverse posizioni di governo. Dopo essere stato eletto al Parlamento nel 1979, fece parte di diverse commissioni. Fu membro della Commissione Difesa dal 1985 al 1993, e ne fu il presidente dal 1991 al 1993.  Dal 1993, Haekkerup fu Ministro della Difesa, prima di essere nominato Rappresentante Speciale del Segretario Generale e capo della Missione ONU di Amministrazione ad Interim in Kosovo (UNMIK) dal dicembre 2000 al dicembre 2001.

Durante il suo breve periodo come SRSG, Haekkerup dovette confrontarsi con diverse questioni controverse. L'uso da parte della NATO nei Balcani di armi all'uranio impoverito, attirò l'attenzione di molti giornalisti ed OnG internazionali. Le domande sui molti casi di leucemia, specialmente tra le truppe italiane di stanza dove vennero gettate le bombe, non ottennero mai risposte soddisfacenti. Al momento di entrare in carica, Haekkerup dichiarò che voleva tenere il Kosovo lontano dalle prime pagine, ma durante il suo ufficio di 12 mesi raramente ci fu un giorno in cui il Kosovo non apparisse nei titoli di testa internazionali, incluse le minacce alla sua vita degli Albanesi (molti ritengono ex comandanti dell'ALK tramutati in politici) perché Haekkerup cercava di raggiungere un accordo con le autorità della Repubblica Federale di Jugoslavia ed aprire un ufficio UNMIK a Belgrado. Haekkerup disse che non intendeva rinnovare il suo mandato SRSG, per poter passare più tempo con sua moglie incinta. Però, molti osservatori occidentali ritennero che i politici albanesi fossero contro Haekkerup per il suo tentativo di porre fine al crimine organizzato. Haekkerup offese anche i protettori oltremare degli Albanesi che volevano che il Kosovo fosse lasciato ai locali Albanesi il prima possibile. L'atteggiamento burocratico di Haekkerup, inclusa la stretta aderenza all'orario d'ufficio, provocò insoddisfazione nel suo staff UNMIK. Anche l'ufficio USA di Pristina ebbe da dire con Haekkerup per il suo tentativo di dare un voto a Belgrado negli affari del Kosovo.

Dopo il ritorno in Danimarca, Haekkerup scrisse un libro intitolato "Le molte facce del Kosovo". Gli Zingari di Mitrovica che morivano di avvelenamento da piombo nei campi ONU, non vennero menzionati.


Michael Steiner


[FOTO: Michael Steiner e la sua assistente Minna (immagini da Unmikonline.org e da Harvard.edu)]

IL PREMIO CHIACCHIERE TRA LE LENZUOLA: al quarto "protettore" ONU del Kosovo a cui piaceva sbattere i tacchi e parlare duro. Più tardi divenne ospite dello show BBC Hard Talk. Ma in realtà Steiner vince questo anti-premio per aver usato la sua posizione in Kosovo per mettere nei guai diverse donne del suo staff ed essere diventato il don Giovanni dei Balcani... mentre i primi  bambini romanì nei campi ONU iniziavano a morire per avvelenamento da piombo.

Michael Steiner è nato il 28 novembre 1949 a Monaco di Baviera, in Germania. Dal 1970 al 1977 ha studiato legge a Monaco e a Parigi, passando con distinzione il Primo Esame Statale in Legge a Monaco. Dal 1977 al 1980 ha svolto pratica legale in Baviera e fu junior lecturer di Diritto Internazionale alle università di Monaco e Parigi . Nel 1978 passò il Secondo Esame Statale in Legge sempre con distinzione. Nel 1981 entrò nell'Ufficio Federale Tedesco degli Esteri e dal 1986 al 1989 fu a New York al tavolo politico della missione tedesca dell'ONU. Dopo vari incarichi a Praga, Zagrabia, Bonn, Sarajevo, fu ambasciatore tedesco a Praga nel 1998, quando pubblicai nella capitale ceca i miei primi libri sull'Olocausto Zingaro nel protettorato del Reich di Heydrich. Dopo essere stato a Berlino Direttore Generale dell'Ufficio Federale degli Esteri, Steiner venne nominato Rappresentante Speciale del Segretario Generale dell'ONU per il Kosovo dal 2002 al 2004.

Uno dei primi compiti di Michael Steiner in Kosovo fu di rimpiazzare l'amministrazione ONU nei comuni più etnicamente divisi con una delle sue amanti, Minna Jarvenpaa, a cui si riferiva amabilmente come "E' il mio braccio destro".

Anche se molti nel suo staff consideravano questa bionda trentunenne di "origine scandinava" come l'ultima padrona del suo harem ONU, Minna in realtà collaborò con Steiner dal 1996 al 1998 presso la missione ONU in Bosnia Herzegovina quando Steiner era vice dell'Alto Rappresentante ONU. Educata ad Harvard, Jarvenpaa lavorò a Sarajevo come consigliera sulle "questioni rifugiati".

Prima di essere nominata emissario speciale per Mitrovica, Jarvenpaa fu ufficialmente "consigliera per la pianificazione" nell'ufficio di Steiner. Nel suo nuovo lavoro, Jarvenpaa promise di migliorare le condizioni di vita a tutti i cittadini di Mitrovica, ma né lei né Steiner visitarono mai i campi rom/askali avvelenati dal piombo nella città di Mitrovica, dove ogni bambino nasceva, se ansceva, con danni irreversibili al cervello.

Michael Steiner è scapolo. Non è dato sapere se abbia figli.


Fine quinta puntata




www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 05-06-10 - n. 322

1950/2010: 60° anniversario della guerra di Corea, devastata dagli USA anche con armi chimiche e batteriologiche
 
di Sergio Ricaldone
 
Sessant’anni sono un lasso di tempo abbastanza lungo che consente anche ai ricordi più nefasti e alle emozioni più violente, vissute nel corso di eventi drammatici come la guerra, di decantare, stemperarsi, persino di farci diventare indulgenti verso chi ha commesso le più grandi atrocità.  Sempre, beninteso, che il tempo trascorso abbia permesso ai due nemici di allora , Corea del Nord e Stati Uniti - il nano e il gigante – di trovarsi, parlarsi, capirsi, rispettarsi reciprocamente e vivere in pace.
 
Nel caso della Corea del Nord è successo l’esatto contrario: il tempo della pace vera non è mai arrivato e il piccolo nano ha dovuto vivere sei decenni con la pistola del gigante puntata alla tempia.
 
Malgrado tutto, chi arriva nella capitale Pyongyang (che nel 1953 aveva solo tre case in piedi) osserva una città pulita, ordinata, efficiente, dallo stile quasi scandinavo.  Dalla culla alla bara, ogni coreano gode dei diritti garantiti dallo Stato, il lavoro e il cibo inanzitutto, l’assistenza medica è gratuita, la scuola è obbligatoria fino ai 17 anni.  Gli appartamenti degli operai sono piccoli, ma comodi e confortevoli.  La gente, memore delle atrocità subite durante la guerra, è sempre convinta di vivere oggi in uno dei migliori mondi possibili e appare decisa a difendersi dagli intrusi.
 
Lo hanno constatato sul posto visitatori non certo indulgenti verso il comunismo e tanto meno verso il regime di Kim Il Sung e quello attuale di Kim Jong Il.  Tra questi, Tiziano Terzani, come sempre raffinato e coinvolgente nei suoi reportage raccolti nel volume “Asia”.  Ma poi, quando i visitatori assistono alle spettacolari parate militari di un piccolo esercito armato ed equipaggiato con armi moderne, i pregiudizi si fanno barriera, scatta la sindrome di Orwell in “1984”, e la Corea del Nord appare come l’incubo di una società totalitaria, circondata da un muro invalicabile, ossia un mostro armato fino ai denti che minaccia la pace e la stabilità di tutto l’Estremo Oriente. Nessuno si domanda se, dopo essere stata rasa al suolo già una volta nel 1950, ed essere stata tenuta sotto tiro per più di mezzo secolo, dai missili e dai B52 americani, la Corea del Nord non abbia il sacrosanto diritto di difendersi come ogni paese sovrano minacciato di distruzione nucleare.  Credo sia utile  fare un po’ di cronistoria vera di quei giorni terribili. Ci aiuterà a capire la tragica continuità del dramma che si continua a vivere oggi in quella parte del mondo e dei pericoli veri che sessant’anni fa ha vissuto l’intero pianeta.  E per colpa di chi.
 
Il mondo sull’orlo di una guerra mondiale nucleare.
 
25 giugno 1950. Era da poco passato mezzogiorno quando Arturo Colombi, segretario del PCI della Lombardia, mi chiama nel suo ufficio, insieme ad alcuni altri compagni.  Dopo averci mostrato i dispacci delle agenzie di stampa Reuters e A.P. annuncianti che l’esercito “comunista” della Corea del Nord aveva varcato il 38° parallelo e stava invadendo il sud del paese controllato dagli americani, ci aggiorna sui primi allarmanti giudizi ricevuti dalla direzione del partito.  Abituato a soppesare bene ogni parola le conclusioni di Colombi, “dobbiamo aspettarci il peggio”, alludono ai rischi di una possibile terza guerra mondiale. Questa volta nucleare.
 
E’ il preludio di un dramma che, sebbene si stia svolgendo alla distanza di 9 fusi orari, ci fa apparire il mondo molto più piccolo e molto più fragile.  La soverchiante regia imposta dai media occidentali riesce in pochi giorni a gettare nel panico i benpensanti dell’intero pianeta. Ricorda lo storico francese Gerard A.Jaeger : “Da New York a San Francisco si costruiscono ovunque rifugi antiaerei. La grancassa mediatica sostiene che la Corea è stata scelta come laboratorio militare dai comunisti quale premessa ad una loro offensiva contro il resto del mondo. Nei porti europei le barche a vela di qualunque stazza si vendono come arche di Noè.  Si fa incetta di benzina, di viveri, ci sono lunghe code davanti ai consolati dell’America latina per ottenere un visto” (1).
 
L’epicentro dello scontro tra est e ovest, spesso raccontato dai “noir” di John Le Carrè, si sposta ora dal Charlie Point di Berlino al 38° parallelo che divide in due la penisola coreana.  Con un differenza non da poco rispetto alla Germania divisa in quattro zone di occupazione: il sud è controllato militarmente e politicamente dagli Stati Uniti e governato da un quisling di estrema destra, Syngman Rhee, mentre il nord è una repubblica popolare sovrana governata dai comunisti.  La propaganda non esita un attimo ad emettere la sentenza: è iniziata una guerra di aggressione di Pyongyang che, col sostegno di Mosca e Pechino, vuole annettersi l’intera Corea. Ma, come vedremo più avanti, le cause e la responsabilità del conflitto stanno altrove, e la posta in gioco ha ben altre dimensioni.
 
La nascita della Cina popolare moltiplica le dimensioni del “campo socialista”.
 
Questo repentino allargarsi del confronto socialismo/imperialismo dall’Europa all’Asia non è casuale.  E’ il continente nel quale pochi mesi prima era stata proclamata la nascita della Repubblica Popolare cinese.  I rapporti di forza tra i due blocchi antagonisti sono perciò cambiati e questo viene giudicato insopportabile dagli strateghi di Washington ossessionati dall’idea che il comunismo stia dilagando e perciò disposti a tutto pur di impedirne l’espansione.
 
Il 1950 si era palesato fin dall’inizio come un anno piuttosto difficile per le ambizioni geopolitiche della Casa Bianca.  Il 13 gennaio l’Unione Sovietica chiede l’ammissione all’ONU della Cina popolare.  Il 31 gennaio il campo socialista riconosce il governo di Ho Ci Minh in lotta per l’indipendenza del Vietnam. Il 14 febbraio Stalin e Mao Tse Tung firmano a Mosca un trattato di alleanza e di amicizia che suscita viva inquietudine in Occidente.  Il 22 febbraio i comunisti sono messi al bando negli Stati Uniti ed è l’inizio della caccia alle streghe. In contemporanea la Casa Bianca ordina ai fisici di Teller di accelerare la costruzione della bomba H.   Il 18 marzo viene lanciato l’appello di Stoccolma contro l’uso militare dell’atomo. Il successo raccolto da questo appello è immenso : ovunque nel mondo, su iniziativa dei comunisti, si raccolgono in poche settimane oltre seicento milioni di firme, ossia ben oltre i confini politici e ideologici dei promotori.  Il 5 giugno gli Stati Uniti impongono al Giappone la messa al bando di ogni attività comunista sul suo territorio.
 
L’estrema destra americana accende la miccia della guerra.
 
Ormai è chiaro che la politica del presidente USA, Harry Truman, è dettata dai falchi: Douglas Mac Arthur, Foster e Allen Dulles, Edgar Hoover, G. Taft, Joseph MacCarty, già all’epoca vengono definiti “il partito della guerra preventiva al comunismo”.  Il Pentagono, la CIA, il Dipartimento di Stato, l’FBI sono sotto il loro controllo.
 
In quella torrida giornata di giugno la lobby guerrafondaia era riuscita nell’intento ordito da tempo: accendere la miccia di una possibile terza guerra mondiale addossandone la colpa agli “invasori comunisti della Corea del Nord”.  Qualcosa di simile a Saraievo e Danzica, i noti pretesti serviti a scatenare i primi due conflitti mondiali.
 
Era infatti da mesi che reparti militari sudcoreani, comandati da “consiglieri” americani agli ordini di Mc Arthur, si spingevano con continue provocazioni armate oltre il confine mettendo a ferro e fuoco i villaggi di frontiera.  Un vero e proprio stillicidio con lo scopo di provocare una reazione che rendesse evidente l’intenzione dei comunisti di aggredire la Corea del Sud rendendo la trama presentabile al mondo come una nuova Pearl Harbour.
 
Ma fin dal primo giorno della cosiddetta “invasione”, come racconta il giornalista americano I.F. Stone nel suo libro “The Hidden History of the Corean War” del 1952, la versione fornita ai giornalisti dai portavoce del Pentagono comincia a far acqua da tutte le parti. Uno di loro ammette che “gli Stati Uniti si attendevano l’attacco”.  L’ammiraglio Roscoe H. Hillenkoetter dichiara poi che “i servizi d’informazione americani erano a conoscenza che in Corea esistevano condizioni tali da poter provocare un’invasione quella settimana stessa o la successiva”. Insomma, tutto ben noto e calcolato, altro che una nuova Pearl Harbour.
 
A dissipare ogni dubbio ci pensa il governo di Pyongyang che documenta come nella notte del 24 giugno le forze sudcoreane avevano passato il parallelo in tre diversi punti ma erano state respinte. Dopo di che, esaurita la pazienza, Kim Il Sung ordina alle sue truppe di passare alla controffensiva. E per come si sono svolti i fatti successivi risulta chiaro che la decisione è stata presa senza consultare né Mosca né Pechino.
 
L’ONU delega il comando delle operazioni militari agli Stati Uniti.
 
Nel giro di poche ore, cogliendo al volo l’occasione offerta dalla volontaria assenza del delegato sovietico, gli Stati Uniti riescono ad ottenere dal Consiglio di sicurezza dell’ONU la condanna degli “aggressori” e la delega del comando di tutte le operazioni militari contro Pyongyang.  Il colpaccio di immagine è notevole ed è dovuto ad una ingenuità diplomatica commessa dall’Unione Sovietica. Il delegato dell’URSS Malik aveva infatti abbandonato da circa sei mesi il proprio seggio al Consiglio di Sicurezza in segno di protesta per la mancata ammissione all’ONU della Cina popolare: un errore di tipo aventiniano (poi riconosciuto) compiuto per un eccesso di solidarietà con Pechino che lasciò nelle mani degli Stati Uniti la bandiera dell’ONU.
 
Ma ben presto la strategia militare del Quartier Generale di Tokio e il teatrale protagonismo del suo comandante in capo, generale Mc Arthur, toglie ogni dubbio sulle responsabilità e i veri scopi di quella guerra.
 
I.F.Stone, lo scrive apertamente nel libro sopra citato: “In una corte di giustizia si potrebbe sostenere che MacArthur stava cercando di trascinare gli Stati Uniti e le Nazioni Unite in una guerra con la Cina e la Russia. Egli tentava di provocare la terza guerra mondiale. Né Washington, né Parigi, né Londra avrebbero potuto pretendere di non essere state preavvisate”.  Vengono altresì citate le deliranti parole del generale comandante dell’aviazione, Arvil Andersen : “Datemi l’ordine di farlo e in una settimana farò a pezzi i cinque depositi russi di bombe atomiche e quando mi trovassi davanti a Cristo potrei spiegargli che io ho salvato la civiltà”(2).
 
La guerra divampa e investe tutta la penisola coreana.  Ma la strategia iniziale del Quartier Generale di MacArthur, non manca di sollevare perplessità e interrogativi. Alcune delle più prestigiose firme del giornalismo americano – Walter Lippmann, James Reston, Hanson Baldwin, I.F. Stone - non nascondono stupore per la condotta delle operazioni militari che consente ai nordcoreani di dilagare nel sud del paese fino a rinchiudere in un piccola sacca attorno al porto di Pusan ciò che resta dell’esercito sudcoreano e del contingente americano.  Qualcuno comincia a chiedersi se non si tratti di una nuova Dunquerke asiatica volutamente pianificata.
 
La sospetta strategia a perdere del Pentagono
 
Se non fosse che la guerra è sempre una faccenda tremendamente seria, oltre che oscena, lo spettacolo parrebbe una commedia dell’assurdo: infatti al largo delle coste coreane incrocia la più potente flotta da guerra del mondo, mentre dalle basi giapponesi centinaia di bombardieri B29 sono in grado di levarsi in volo e annientare la capacità di resistenza di un insignificante nano militare quale era all’epoca la Corea del Nord.  Invece Marina e Aviazione USA si voltano dall’altra parte e lasciano che un mini esercito di 40 mila uomini, sicuramente motivati, ma armati in modo primitivo, tenga sotto scacco la potente America che ha appena sconfitto un gigante militare come l’Impero del Sol levante.
 
Il 7 luglio il NYT scrive che le armi catturate ai nordcoreani includevano fucili della prima guerra mondiale” e aggiungeva che “né l’esercito né l’aviazione nord coreana possedevano alcuna arma sovietica del dopoguerra”. Ma il paradosso più evidente è quello politico/diplomatico: URSS e Cina popolare (ovviamente solidali con la Corea del Nord) denunciano le provocazioni americane, protestano, si indignano, lanciano allarmi e moniti, ma non mostrano alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere nel conflitto. Vogliono la pace e non fanno nulla per nasconderlo.
 
E i primi a capirlo sono gli americani in buona fede : Il generalissimo Stalin con un calcio avrebbe potuto gettarci nel Mar di Corea, se solo l’avesse voluto. Ma stava diventando chiaro che Stalin non voleva aiutare i nordisti a darci questo calcio” scrive Hanson Baldwin sul NYT.  Appariva dunque chiaro che i russi e i cinesi non intendevano intervenire nel conflitto per nessuna ragione e tanto meno entrare in una guerra a causa della Corea.
 
Ma è appunto a partire da questi due macroscopici paradossi che la guerra diventa dal luglio in poi un affare maledettamente serio.  La lobby della “guerra preventiva al comunismo” rompe gli indugi e mostra i veri scopi di quella “strana” guerra pianificata da tempo.  MacArthur non nasconde l’allarmante sintonia del suo pensiero con quello di Ciang Hai Shek che dal suo rifugio di Formosa farnetica di una imminente riconquista della Cina continentale anche a costo di una guerra mondiale nucleare.
 
L’imperialismo americano mostra le sue vere intenzioni.
 
Lo storico francese Gerard A. Jaeger scrive che di una terza guerra mondiale si era già iniziato a parlarne pochi mesi dopo la fine della seconda, e la Corea poteva essere “l’incidente perfetto” per regolare i conti con tutto l’universo comunista.  “Stiamo scivolando verso la catastrofe” , scrive sul NYT, Walter Lippmann.  “Una terza guerra mondiale è in preparazione” proclama Patrick Hurley, ambasciatore degli Stati Uniti in Cina, mentre getta alle ortiche il suo bicorno da diplomatico. Più che esplicita la nota che il presidente Truman redige per il suo Segretario di Stato : “Se non mostriamo ai russi il nostro pugno di ferro una nuova guerra è in gestazione”.(3)
 
E’ appunto l’Unione Sovietica di Stalin e il potenziale propulsivo che esercita sul movimento operaio in Occidente a creare incubi sulle rive del Potomac.  Un altro autore americano, I.A. Brown,citato da Jaeger, spiegherà poi nel suo libro “The US Plan war with the Soviet Union” l’esistenza di un piano “Dropshot mirante a scaricare sull’URSS , nei primi trenta giorni di guerra, centotrenta bombe atomiche su settanta città sovietiche, di cui otto su Mosca e sette su Leningrado (....). Infine più di sei milioni di soldati dovevano occupare i territori comunisti liberati.” (4)
 
Dopo avere ostentato per un paio di mesi il ruolo di vittima aggredita, Washington ritiene sia giunto il momento di ristabilire le giuste proporzioni con il nano impertinente che ha osato sfidare la sua potenza militare.
 
L’imponente sbarco del 15 settembre ad Inchon, presso Seul, in perfetto stile D-Day, ripropone ai marines di MacArthur i giorni della guerra totale.  Marina e aviazione USA si scatenano, città e villaggi nordcoreani (e la stessa Seul) sono ridotti ad un cumulo di macerie. La strategia USA è sempre quella insegnata a West Point fin dai tempi dello sterminio degli indiani d’America: fare terra bruciata e ridurre il nemico all’età della pietra..
 
La penisola è tagliata in due e le truppe nordcoreane intrappolate al sud sono date per accerchiate e disperse, benchè i prigionieri esibiti siano solo poche centinaia. Il Quartiere Generale di Tokio canta vittoria.  La strada verso la frontiera della Manciuria e quella dell’URSS è aperta. E tanto per non essere frainteso MacArthur lancia provocatori attacchi aerei contro il territorio sovietico e quello cinese: l’8 ottobre un aeroporto nei pressi di Vladivostok viene attaccato in pieno giorno da caccia bombardieri americani.  Il 7 novembre la città di Sinuiju, sul confine della Manciuria, di fronte ad Antung, viene rasa al suolo dai B 29. “Con questi mezzi i guerrafondai speravano di appiccare il fuoco al mondo”(5).
 
Le misurate reazioni di Mosca e Pechino e i loro ripetuti inviti al cessate il fuoco vengono scambiati per segni di debolezza.
 
Da settembre a fine ottobre sono per MacArthur i giorni della vittoria.  Le truppe al suo comando proseguono l’avanzata verso est e verso nord : Pyongyan, Wonsan, Hungnam vengono devastate e occupate. L’avanzata si spinge pericolosamente e irresponsabilmente verso il fiume Yalu, la frontiera che separa la Corea dalla Manciuria.  Le grandi dighe che alimentano la regione più industrializzata della Cina popolare vengono bombardate. Al nord le truppe ONU sono ormai a pochi chilometri dalla frontiera sovietica.
 
La “valanga gialla” e la minaccia atomica contro Cina e URSS
 
Nei primi giorni di novembre accade perciò l’inevitabile: volontari cinesi, veterani della “lunga marcia”, passano il fiume Yalù per combattere a fianco dei nordcoreani. Prende corpo quello che il cinema razzista di Hollywood dipingerà, moltiplicando le cifre per cento, come lo scatenarsi della “valanga gialla” e delle “orde mongole”.  La guerra assume dimensioni che gli strateghi di Washington avevano incautamente ignorato.  Arroganza e presunzione fanno commettere a MacArthur lo stesso errore di Custer a Little Big Horn. La sua promessa ai soldati americani “a Natale tutti a casa” si sta trasformando in una micidiale trappola : “Mai un generale mise così pienamente in luce la trappola in cui insisteva a voler cacciare le sue truppe, né mai informò così tanto il nemico di tenere la trappola pronta perché stava arrivando” (6).
 
Nel giro di qualche settimana la situazione sul campo si capovolge e i marines capiscono che quel Natale lo dovranno invece passare accerchiati sui gelidi campi di battaglia del nord subendo l’iniziativa di un nemico che non fa sconti agli invasori. Il loro morale lo si indovina leggendo i resoconti dal fronte del NYT riassumibili nel gesto di Achille che sconsolatamente guarda al suo tallone. E’ ormai chiaro che i cinocoreani stanno mettendo nei guai la più potente forza militare del pianeta.
 
Il 30 novembre, nel corso di una conferenza stampa il presidente Truman ufficializza le voci di un possibile impiego dell’arma atomica contro la Cina e l’URSS. Il 16 dicembre la Casa Bianca decreta lo stato di emergenza in tutto il territorio americano e richiama alle armi tre milioni e mezzo di soldati americani. In molti fanno notare che l’iniziativa era già stata presa all’inizio di due guerre mondiali.  Francia e Gran Bretagna, fedeli alleati, ingoiano l’amara pillola ma cominciano a domandarsi cosa stia accadendo in Corea. La prima è alle prese con due grosse gatte da pelare in Indocina e Algeria.  La seconda sta facendo i conti con il dissolvimento del proprio impero.  Entrambe cercano di uscire col minor danno possibile dal vespaio coreano. La stessa coalizione dei paesi ONU che sostengono gli Stati Uniti, comincia ad incrinarsi.
 
Capovolte le sorti del conflitto.
 
Appaiono sempre più chiari due elementi nuovi di questa guerra : gli Stati Uniti la stanno perdendo sul campo di battaglia mentre i due principali antagonisti, URSS e Cina non vogliono umiliare militarmente l’aggressore ma bensì ristabilire lo status quo antecedente al conflitto. Nel mese di dicembre le sorti del conflitto si sono capovolte e i marines di MacArthur, accerchiati a migliaia nell’estremo nord, subiscono una grossa disfatta .  Ma i cinocoreani non infieriscono e lasciano aperto un varco che permetta loro di iniziare la ritirata fin sotto il 38° parallelo.  Il primo gennaio 1951, liberato il nord, i cinocoreani rimettono piede a Seul e ostentatamente si fermano. Nei tre mesi successivi le operazioni militari languono in attesa di soluzioni politiche e MacArthur cerca la rivincita sui giornali sparandole grosse.  Si vanta di avere fatto 134.616 prigionieri in due mesi di disastrosa ritirata, più di quanti ne hanno fatto i sovietici nella vittoriosa battaglia di Stalingrado Ma le cifre diH.Baldwin sul NYT sono alquanto diverse: “Noi sapevamo di avere esattamente 616 comunisti cinesi prigionieri. Non molto contro gli 8531 americani prigionieri del nemico”(7).  Cifre, quelle di MacArthur, ancor più ridicole se rapportate al numero dei volontari cinesi presenti in Corea: 75 mila secondo l’Associated Press, 50 mila secondo il NYT.
 
Il 24 marzo i cinocoreani si ritirano sul 38° parallelo con la chiara intenzione di restarci. Il 2 aprile il nuovo ministro degli esteri britannico, Herbert Morrison, dichiara che MacArthur deve essere rimosso e che devono iniziare conversazioni di pace.  L’11 aprile, il presidente Harry Truman, considerato il rischio di lasciare un pericoloso piromane come MacArthur a gestire l’incendio coreano, lo licenzia dal comando delle truppe ONU sostituendolo col generale Ridgway.
 
La guerra avrebbe potuto finire lì con un risultato di parità. Gli Stati Uniti avrebbero salvato l’onore e la faccia, la Corea quel poco che era rimasto in piedi dopo i bombardamenti dei B 29.  E invece durò ancora per quasi tre anni senza peraltro cambiare di un metro i risultati territoriali acquisiti sul campo.  Ma erano gli anni della caccia alle streghe del senatore Mac Carty.
 
Si scatena il terrorismo chimico e batteriologico.
 
Lo spettro della “valanga gialla”, alimentato dalle sconfitte militari, dalla paranoia anticomunista e dall’intenso traffico di bare dei soldati caduti nel cimitero di Arlington in Virginia, indusse il presidente Truman a dare il via libera all’uso di armi chimiche, batteriologiche e nucleari contro la Cina e la Corea, il solo modo che restava alla superpotenza di consumare una feroce vendetta contro il piccolo popolo che l’aveva sfidata.  Ma la Gran Bretagna e altre nazioni “alleate” si opposero apertamente all’uso delle bombe atomiche, temendo che l’Unione Sovietica, i cui bombardieri distavano due ore di volo da Londra, decidesse di rendere pan per focaccia.  Gli Stati Uniti, sempre più soli militarmente, dovettero pertanto limitarsi a sperimentare in prima battuta la nuova tremenda miscela chimica chiamata napalm le cui bombe furono lanciate a migliaia sulla Corea del Nord.
 
Il terrorismo di massa praticato con l’arma aerea si scatena con tutta la sua micidiale potenza distruttiva contro gli esseri umani e quel poco che è rimasto ancora in piedi. Persino i fienili delle case contadine diventano, in mancanza d’altro, bersaglio dei cacciabombardieri USA.
 
Ma gli eroici difensori della civiltà occidentale fecero anche di peggio: alimenti infetti (cereali e altre “ghiottonerie”) furono disseminate su zone densamente popolate con l’intenzione di sterminare i civili affamati. I coreani che consumavano derrate infette morivano dopo avere sputato sangue per due/tre giorni.
 
I segreti di questa sporca guerra sono rimasti a lungo sotto chiave negli archivi top secret del Pentagono e il popolo americano ha sempre ignorato quello che le unità della guerra batteriologica hanno compiuto in Corea fino a che due storici americani dell’Università dell’Indiana, Stephen Endicott e Edward Hagerman, sono riusciti a documentarlo con prove schiaccianti.   Nel loro libro – The Unided States and Biological Warfare – Indiana University Press, 1999, si legge di come il Pentagono, si sia servito dell’esperienza di un criminale di guerra giapponese, il generale Ishii, già responsabile della guerra batteriologica contro i cinesi, in Manciuria nel 1937. Reclutato e riciclato dal Pentagono alla causa del “mondo libero”, per la modesta cifra di 25 mila yen, il generale Ishii e alcuni suoi collaboratori furono trasferiti negli Stati Uniti con il grado di “consiglieri speciali” degli esperti americani del settore (8).  Gli autori citano inoltre le testimonianze dei piloti americani che parteciparono direttamente alla guerra batteriologica (9).
 
Questo immane massacro compiuto con mezzi chimici, convenzionali e batteriologici è durato, con intensità più o meno maggiore, fino al giorno dell’armistizio, firmato a Panmunjon il 27 luglio 1953.  Più di due milioni di morti su una popolazione inferiore ai venti milioni è il prezzo pagato dal popolo nordcoreano.  E col paese ridotto ad un cumulo di macerie.  Quali le ragioni che hanno scatenato una simile ondata di barbarie ? Perché sessanta anni dopo la fine di quella guerra lo scenario coreano presenta ancora analogie e prospettive altrettanto tenebrose e inquietanti ?
 
Sessant’anni di precario armistizio sul 38° parallelo.
 
Occorre innanzitutto ricordare che anche dopo la firma dell’armistizio gli Stati Uniti si sono ben guardati dal concludere una vera pace.  E’ invece continuato uno stato di “non guerra”, ovvero di “guerra strisciante” accompagnata da tantissimi “incidenti”.  Questi sei decenni sono stati, per la superpotenza, un infinito alternarsi di bugie, minacce, provocazioni militari, false promesse, finte aperture, fallimenti negoziali e ricatti ai paesi alleati.
 
La Corea del Nord è così diventata, giorno dopo giorno di violenti attacchi mediatici, il prototipo dello “stato canaglia”.  Non occorre andare molto indietro nel tempo per riscoprire la ossessiva continuità delle ambizioni imperialiste di Washington verso questa piccola porzione di territorio dell’Estremo Oriente, insignificante per dimensioni, ma diventato il crocevia di traffici economici e politici di tre giganti economici, Cina, Russia e Giappone, destinati a diventare nell’immediato futuro, insieme a tutta l’Asia, il centro del mondo contemporaneo.
 
Secondo Gavan Mc Cormack, grande conoscitore della Corea e autore del libro: “Target North Korea: Pushing North Korea to the brink of nuclear castrophe”, Nation Books, New York, 2004, le ragioni che inducono Washington a tenere la pistola puntata alla testa di Pyongyang sono coerenti con le sue ambizioni imperiali: il pericolo nordcoreano, reale o inventato che sia, concorre a giustificare il dominio che gli Stati Uniti esercitano sul Giappone e la Corea del Sud sotto forma di una massiccia presenza militare e nucleare.  Senza questa minaccia, afferma l’autore, “gli strateghi di Washington dovranno trovarsi altre ragioni per perpetuare le loro basi in questi due paesi e per la messa in opera del costosissimo sistema antimissile progettato per questa regione”,costruito a presidio di una postazione strategica avanzata di vitale importanza.  La Corea è infatti una gigantesca portaerei terrestre che consente ai bombardieri e ai missili USA di raggiungere in pochi minuti sia la Cina che la Russia.
 
Sono dunque decenni che Washington aspira a rovesciare, in un modo o in un altro, il regime al potere a Pyongyang ma, paradossalmente, se questo dovesse succedere, sostiene Gavan Mc Cormack, i suoi alleati, Sud Corea e Giappone, non avrebbero più alcun motivo di restare subalterni agli Stati Uniti sul piano strategico. Anzi, un indebolimento dell’egemonia americana in Asia Orientale spingerebbe invece a rafforzare i legami tra i paesi della regione che, grazie al loro dinamismo economico sarebbero in grado di trascinare e integrare, dopo qualche riforma, anche la Corea del Nord.  Che ne sarebbe allora del predominio americano in un area considerata dalla Casa Bianca un crocevia strategico di importanza planetaria ?
 
Certo, gli strateghi americani dispongono di un “nemico” di riserva in grado di rimpiazzare la Corea del Nord, ma le dimensioni di questo “nemico”, la Cina, sconsigliano qualsiasi replica di una politica basata sulle minacce militari come quella seguita contro Pyongyang.
 
Gli Stati Uniti devono comunque continuare ad avere un vero nemico per poter continuare a mantenere la rete di basi militari in Asia orientale e per giustificare la presenza di quasi centomila soldati, di cui 37 mila in sud Corea.  Per mantenere efficiente questo dispositivo militare e per poterlo modernizzare senza sosta, specie quello nucleare, Washington non ha altra scelta che quella di perpetuare il confronto con Pyongyang, qualunque sia stato e sia il presidente in carica alla Casa Bianca: da Harry Truman a Barak Obama, nessuno escluso.(10)
 
Non è dunque senza ragione che il popolo del nord non abbia mai dimenticato i due milioni di morti massacrati dagli americani. I loro fantasmi sono sempre presenti nell’immaginario collettivo. Solo una normalizzazione pacifica dei rapporti nord-sud e l’avvio di un processo di riunificazione potrebbe farli dissolvere. Ma è appunto quello che la superpotenza americana teme di più e cerca in tutti i modi di impedirlo.
 
Rileggendo senza pregiudizi i fatti che hanno impietosamente segnato la lunga storia del conflitto tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti come è possibile credere oggi alla ennesima provocazione del sommergibile fantasma che affonda la corvetta sudcoreana ?  Ma per favore... Possibile che tutti si siano dimenticati di quello che è successo nel Golfo del Tonchino il 6 agosto 1964 e cosa è costato quell’infame “incidente” provocato dalla CIA al popolo del Vietnam?
 

Note:
 
1) Gerard A: Jaeger “Les Rosemberg”, Edition du Felin, 2003
 
2) I.F. Stone “The Hidden History of the Corean War”, Monthly Review Press, New York, 1952.
 
3) Gerard A. Jaeger “Les Rosemberg”
 
4) Ibidem
 
5) I.F: Stone
 
6) Ibidem
 
7) ibidem
 
8) “Il progetto giapponese si basava essenzialmente sull’antrace ed era già stato testato su 1000 soggetti umani, tra cui 150 prigionieri di guerra americani. Nel 1945 i giapponesi avevano uno stock di 400 kg. di antrace. I germi erano stati lanciati sopra città cinesi dentro bombe speciali che si aprivano a un’altitudine programmata disseminando il loro contenuto su una superficie molto estesa. I giapponesi avevano inoltre osservato che gettando pulci infette sui campi di cereali i germi si diffondevano rapidamente veicolati dai roditori. (....)  La tattica americana di guerra batteriologica contro la Corea del Nord è stata assai simila a quella del progetto giapponese “731”. Le bombe USA erano caricate con insetti e prodotti vegetali infettati ed erano trasportate da aerei pilotati da ufficiali superiori che volavano in coda alle formazioni di bombardieri.  Le bombe batteriologiche venivano perciò sganciate dopo quelle “normali”. Dopo ogni attacco le squadre nordcoreane che arrivavano sul posto per curare i feriti e riparare i danni diventavano potenziali diffusori dei batteri.”
 
9) “Almeno 36 piloti americani catturati hanno confessato di avere lanciato bombe batteriologiche su obbiettivi coreani e cinesi. Le loro confessioni menzionano in dettaglio il luogo di fabbricazione delle armi (Terra Alta, Indiana), la struttura di comando della guerra batteriologica (Unita 406 di base in Giappone), i tipi di batteri usati e molti dettagli sulle tattiche dei bombardamenti. Questi ufficiali sono stati rimpatriati nel 1953 e, come era prevedibile, hanno ritrattato le loro confessione dopo essere stati minacciati di deferimento alla corte marziale. Analogamente, scienziati e giornalisti che avevano osato rivelare qualche sporco segreto sono stati ridotti al silenzio sotto minaccia di essere processati per tradimento”.
 
10) Bruce Cuming, esperto americano di politica asiatica dell’Università di Chicago, ha scritto recentemente che nel giugno 1994 l’amministrazione Clinton, ben prima di Bush, si era trovata ad un passo dal lanciare un attacco preventivo contro i reattori nucleari nordcoreani di Yongbyon, a circa 60 km. dalla capitale Pyongyang.  Quattro mesi più tardi , grazie all’intervento moderatore di Jimmy Carter, i nordcoreani furono convinti ad accettare l’accordo “framework” negoziato con l’amministrazione Clinton.



QUELLI CHE CREDONO DI ESSERE DI SINISTRA



Tra il credere e l’essere


Ma credere di essere di sinistra è sufficiente per esserlo? una ricerca  inglese dimostra che la questione è più complessa


NOTIZIE – Questo potrebbe almeno in parte spiegare gli stravaganti comportamenti della sinistra italiana, che talvolta assume posizioni più conservatrici della sua controparte politica (più di qualcuno si ricorderà il regista Nanni Moretti che qualche anno fa nel film Aprile supplicava Massimo D’Alema di dire “qualcosa di sinistra”). Secondo la ricerca di James Rockey del dipartimento di economia dell’Università di Leicester gli individui con un alto tasso di scolarizzazione fanno assunzioni erronee per quanto riguarda il loro orientamento politico. In particolare si considerano più a sinistra di quanto invece dimostrino i loro reali comportamenti e opinioni su questioni specifiche. Il risultato sarebbe che persone dall’atteggiamento piuttosto conservatore finirebbero per votare a sinistra.

Lo studio per ora è stato pubblicato solo online sulle pagine di economia dell’Università di Leicester, quindi è d’obbligo seguire gli sviluppi futuri di questa ricerca e vedere magari se verrà pubblicata in qualche rivista peer-review di rilevanza internazionale. Intanto però ci offre alcuni interessanti spunti che vale la pena di approfondire.

Rockey ha usato i dati della World Values Survey, tenendo conto delle opinioni di ben 136.000 individui, in 32 nazioni per un periodo di 20 anni. Lo scienziato ha confrontato i giudizi sulla posizione ideologica (in una scala da 1 a 10) con le opinioni riguardo a questioni specifiche (per esempio su come il denaro pubblico dovrebbe esser utilizzato).

“Gli individui con alta scolarità tendono a considerarsi di sinistra ma in realtà credono in cose che se comparate con il resto delle popolazione risultano essere piuttosto di destra,” ha commentato Rockey. In compenso altri risultati confermano – e su questo non sembra esserci veramente dubbio –  che le persone più ricche tendono a essere di destra (ed esserne coscienti).

La spiegazione di Rockey per questo fenomeno è dettata dal buon senso: da giovani le persone molto istruite sarebbero dei sostenitori genuini delle idee di sinistra, ma man mano che crescono, pur non rassegnandosi, tenderebbero ad assumere comportamenti conservatori. In effetti, altri studi, in area più strettamente cognitiva hanno dimostrato che con l’avanzare dell’età si tende a diventare ideologicamente meno tolleranti. Solo che probabilmente non ci si arrende all’evidenza.

“La conclusione generale del lavoro è che le persone decidono, o non sono capaci, di non valutare correttamente la propria posizione ideologica. Questa è una prova ulteriore non solo che gli elettori sono lungi da essere ben informati ma che non sanno nemmeno posizionarsi correttamente nello spettro politico.”

Come dargli torto?


15 luglio 2010
Federica Sgorbissa





This videotape was secretly filmed by the 12th detachment of the Yugoslav Army’s counterintelligence service (KOS) in 1990 before the war in Croatia started. It shows Tudjman’s defense Minister Martin Spegelj and his Interior Minister Josip Boljkovac discussing preparations for war with the Yugoslav Peoples Army (JNA). They discuss the importation of weapons from Hungary, how they will murder JNA soldiers and their families, how they will slaughter the Serbs, and how they are receiving support from the United States. This video proves beyond any doubt that the Serbian war objective in Croatia was self-defense, and that the Croatian objective was ethnic cleansing and the creation of a Greater-Croatia. For those who don't speak Serbo-Croat here is a link to an English transcript of the video produced by the Hague Tribunal, and here is the link to the original video in Serbo-Croathttp://video.google.com/videoplay?docid=7456935228727451929&hl=en#