Informazione


Il cortocircuito della Catalogna

La secessione catalana implica opportunità e rischi. Per valutare entrambi bisogna evitare gli schematismi, mettere da parte tanto la fascinazione romantica per le \"nazioni senza Stato\" quanto i richiami a elaborazioni teoriche derivanti da scenari ben diversi. 

Scrivo queste note mentre dalla Catalogna giungono le immagini degli scontri con decine di feriti dinanzi ai seggi referendari. Non è la condizione ottimale per un esercizio di razionalità, ma bisogna provarci nonostante tutto. L\'impressione che si è avuta infatti nelle ultime settimane è stata quella di una precipitazione degli eventi in loco, cui hanno corrisposto negli ambienti della sinistra antimperialista mere affermazioni di principio e declaratorie, di orientamento opposto, con poca analisi concreta della situazione concreta e nessuna voglia di soppesare le evidentissime contraddizioni che gli eventi catalani stanno palesando.

Ad esempio, quando Andrea Quaranta scrive (1) che \"la nuova Repubblica rappresenterebbe anche una straordinaria opportunità per riaprire il dibattito sulla natura dell’Unione Europea e per la costruzione di uno spazio politico continentale finalmente irriducibile alle esigenze del capitale finanziario e imperialista\", che cosa esprime oltre a un desiderio? C\'è una corrispondenza fattuale tra tale desiderio e la realtà dei fatti? Secondo Marco Santopadre (2)

\"il composito e variegato schieramento indipendentista catalano è maggioritariamente europeista, ma la forza delle correnti della sinistra radicale che contestano l’austerity e l’autoritarismo di Bruxelles e che in certi casi parteggiano apertamente per l’uscita dall’Eurozona sono consistenti, e il conflitto di questi giorni potrebbe rafforzarle. Tutti i sondaggi danno il partito finora maggioritario, il PDeCat di Luis Puigdemont e Artur Mas, che rappresenta gli interessi della piccola e di parte della media borghesia (l’alta borghesia catalana è contraria all’indipendenza), in forte discesa\".

Un accenno al tema della compatibilità o meno della costruzione statuale catalana con il quadro ordoliberista europeo era stato fatto anche da Sergio Scorza, che riferiva (3) sul Ministro degli Esteri (!) del governo autonomo catalano, Raül Romeva, invocante più UE e quindi meno sovranità (\"la UE si relaziona direttamente con le regioni per finanziare progetti di sviluppo dei territori, dall’altro, lo stato centrale spagnolo ne ostacola in tutti i modi l’attuazione\"). A partire da questo Scorza sviluppava un ragionamento a nostro avviso incongruente, poiché devolution e sussidiarietà sono pilastri del neoliberismo, e gongolare sulle contraddizioni delle (ex)sinistre (europeiste) non risolve certo le nostre, di contraddizioni. Le ragioni per simpatizzare con i catalani, da un punto di vista antiliberista, sarebbero eventualmente opposte a quelle espresse da Romeva.

Alcuni aspetti strutturali della questione erano stati meglio evidenziati da Vicenç Navarro (4) lo scorso luglio, quando nell\'ambito di una approfondita disamina della natura della classe dirigente catalana spiegava:

\"Per comprendere la Catalogna bisogna conoscere il partito CDC, fondato da Jordi Pujol e che è stato il pilastro del pujolismo, una ideologia nazionalista conservatrice che ha sempre considerato la Generalitat de Catalunya come una sua proprietà individuale, familiare e collettiva, con una influenza estesa attraverso politiche di tipo clientelare, con pratiche fortemente corrotte... È ciò che Pablo Iglesias ha definito correttamente come nazionalpatrimonialismo. Il suo vasto predominio nel governo è dovuto al suo chiaro aggancio nella struttura del potere economico, finanziario e mediatico del paese. Il suo dominio sui mezzi di informazione pubblici della Generalitat  è assoluto. E influenza anche quelli privati, in base a laute sovvenzioni (a titolo di esempio, nel 2015 la Generalitat de Catalunya ha concesso 810.719 euro a La Vanguardia; 463.987 a El Periódico de Catalunya; El Punt Avui ne ha ricevuti 457.496, Ara 313.495)... Su TV3, i programmi di economia sono di orientamento ultraliberale, e vengono condotti da uno dei guru della CDC e di settori della ERC, l\'economista Sala i Martín, economista catalano di nazionalità statunitense, che nella UE appoggia il Partito Libertario, un partito di ultradestra che esercita oggi una grande influenza sul Partido Republicano in quel paese [una specie di Partito radicale nostrano, insomma, NdA]. È molto probabile che Ministro della Economia e delle Finanze di una Catalogna indipendente, governata da una coalizione guidata dal PDeCAT, sarà un tale personaggio, o qualcuno vicino al suo orientamento politico.\" 

La riflessione su condizione reale e atteggiamento dei mass-media nella e sulla Catalogna è una riflessione cruciale, in un\'epoca in cui il sistema informativo svolge una funzione strategica analoga a quella che in altre epoche era delle sfere militari. Vanno comprese le ragioni dell\'ampia copertura concessa dai media mainstream alla crisi di questi giorni, con una ostentazione di imparzialità – o forse anche qualcosa di più, visto che si parla, correttamente ma inusualmente, di \"repressione dello Stato spagnolo\" contro \"l\'esercizio della democrazia\" – che per alcune altre cause indipendentiste non si è mai vista. E andrebbe studiata la presenza di radio, portali internet e pubblicazioni catalane all\'interno della vasta rete delle sovvenzioni della Commissione Europea alle iniziative regionali nei paesi membri. 
Così come, per rimanere su terreni affini, andrebbero comprese le ragioni del finanziamento della Open Society Initiative for Europe di Soros al Centre d’Informació i Documentació Internacionals a Barcelona (5), o il motivo per cui già nel 2007 la Fiera del Libro di Francoforte ha deciso di rompere la consuetudine di invitare uno Stato internazionalmente riconosciuto come \"ospite d\'onore\", invitando invece come tale la Generalitat de Catalunya.

In effetti, la posizione delle cancellerie occidentali sulla eventuale secessione catalana non è cristallina. \"Sarà divertente capire come si schiererà realmente l\'Unione Europea\", dice giustamente Marco Rizzo. Le parole di Juncker sono un capolavoro di ambiguità: “Abbiamo sempre detto che rispetteremo la sentenza della corte costituzionale spagnola e del parlamento spagnolo. Ma è ovvio che se un giorno l’indipendenza della Catalogna vedrà la luce, rispetteremo questa scelta. Ma in quel caso la Catalogna non potrà diventare membro dell’UE il giorno successivo al voto”. (6) Le interpretazioni di tali parole divergono nettamente a seconda dei desiderata di chi commenta. Qualche analista sottolinea il fatto che, dovendo la UE rispettare le Costituzioni degli Stati membri, una Catalogna indipendente perderebbe immediatamente lo status di membro della Unione; però qualcun altro annuncia che di fronte a un uso della forza \"sproporzionato\", la Commissione Europea rivedrà velocemente il suo atteggiamento rispettoso nei confronti di Madrid (7). 

In realtà, tutti gli esiti appaiono possibili. Per la Unione Europea, la secessione della Catalogna potrebbe implicare la perdita di un \"pezzo\" (la Catalogna stessa) oppure potrebbe essere un passo in avanti nel progetto regionalista, di devolution ordoliberista che è stato perfettamente esposto nel libro \"Per l’Europa!\" di Guy Verhofstadt e Daniel Cohn-Bendit e così sintetizzato da Alessio Pisanò (8):

Gli Stati nazionali non servono più a niente, perciò è ora di voltare pagina e inaugurare la federazione europea, ovvero gli Stati Uniti d’Europa. (…). L’Europa federale è il cammino per proteggere la nostra sovranità e preservare il nostro modello sociale in un mondo dominato da imperi come Usa, Cina, India, Russia e Brasile (…) Ma cos’è in pratica la federazione europea? Il discorso è lungo, ma si può riassumere così: lo Stato nazionale (Roma, Berlino, Parigi e così via) viene scavalcato sia verso il basso, valorizzando ad esempio il ruolo degli enti locali e delle regioni, che verso l’alto, con la delega di tutta una serie di competenze a Bruxelles, come la politica estera, la difesa e, appunto, la politica economica. Una delle critiche che vengono mosse più spesso all’Euro, infatti, è di non avere uno Stato unitario dietro. Ecco che la federazione europea colmerebbe esattamente questa lacuna.

Dal nostro punto di vista, una volta che la secessione catalana si sarà realizzata, il minimo che dovrebbe succedere – anzi: il minimo che si dovrebbe esigere – è che si apra una battaglia frontale da parte della CUP e degli altri settori antiliberisti contro l\'attuale potere catalano, che la vera sinistra prenda il potere nel nuovo Stato e che l\'allontanamento della Catalogna dalla UE diventi in tal modo irreversibile. Solo così la risultante del processo indipendentista sarà un incremento di sovranità popolare e territoriale e, forse, l\'avvio della crisi esiziale della stessa UE.

In caso contrario si andrà viceversa verso una perdita netta di sovranità. Dal punto di vista di quei settori reazionari che scommettono sulla disgregazione degli Stati nazionali nel nostro continente per realizzare l\'\"Europa delle regioni\" a egemonia tedesca, la secessione della Catalogna dovrebbe aprire infatti ben altri scenari. Il lavorìo che questi ambienti portano avanti, da tanto tempo oramai, è stato da noi seguito ed investigato a fondo nell\'ultimo quarto di secolo (9) e riteniamo persino superfluo accennarvi qui, così come non abbiamo voluto richiamare la mera teoria sulla questione nazionale in generale.

La Spagna monarchica non è la Jugoslavia socialista, perciò i parallelismi che si possono tracciare ci forniscono degli spunti di riflessione ma hanno valore relativo. 
La lezione jugoslava ci ha insegnato da un lato la compatibilità del regionalismo e dell\'identitarismo con il progetto europeista, liberista e pan-germanico; dall\'altro ci ha dimostrato che la spregiudicatezza delle classi dirigenti che portano avanti questo progetto non ha limiti e da loro c\'è da aspettarsi di tutto. 
Quella lezione non ha però niente da dire a proposito della storia della Spagna e della funzione dei movimenti catalano e basco, che si sono sempre mossi su di un solco di progresso e sono stati in prima linea nelle lotte antifranchiste e repubblicane. Il fatto che Jordi Pujol già nel dicembre del 1990 abbia invitato Kucan a Barcellona per spingerlo alla secessione (10), o la solidarietà di Matteo Salvini o di altri ambienti reazionari verso la lotta dei catalani, non ci alienano la simpatia per la storia e le lotte attuali degli anticapitalisti catalani... purché queste ultime vadano fino in fondo. 

Ciò che conta sono gli esiti rispetto al processo strutturale di edificazione del regime ordoliberista europeo. Quali saranno tali esiti non sappiamo dirlo. 
Si è determinata una vertigine, la sensazione di un crinale stretto tra due piani inclinati e relative accelerazioni possibili, ciascuna senza ritorno. Tale sensazione sicuramente non è solo nostra, di militanti internazionalisti e intellettuali che tengono alla libertà ed alla fratellanza tra i popoli, ma siamo convinti che esista anche nella controparte, nella borghesia europea più influente. Anche la classe dirigente europeista vive oggi, crediamo, una simile vertigine: il giocattolino può finalmente ritorcersi contro chi l\'ha creato, proprio come nella favola dell\'apprendista stregone. 

Dopo un quarto di secolo di atteggiamenti ed azioni eversive – nel senso del sovversivismo delle classi dirigenti – si è determinato un evidente cortocircuito e qualcuno, per forza, ci resterà fulminato.


Andrea Martocchia
(segretario, Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS)


NOTE:

(1) Su Contropiano del 30 settembre 2017

(4) Su Investig\'Action del 12 luglio 2017

(5) Fonte: La Vanguardia, 16 agosto 2016 

(6) Sconcertante il balletto delle smentite e delle interpretazioni:

(7) Si ascolti David Carretta su Radio Radicale del 21 settembre 2017
https://www.radioradicale.it/scheda/520455/lunione-europea-e-la-situazione-in-catalogna-collegamento-con-david-carretta
Dalla Commissione Europea è stato più volte \"velenosamente\" ribadito che si tratta di una questione interna allo Stato spagnolo. 
Si noti per inciso che l’amministrazione statunitense non ha condannato il referendum affermando che “lavorerà con l’entità o il governo che ne usciranno” 
http://contropiano.org/news/internazionale-news/2017/09/28/unione-europea-catalogna-096030
ed anche le dichiarazioni di Trump sono state contraddittorie ( https://youtu.be/0xDEaxybI-M?t=4m14s ).

(8) Fonte: Se l’Europa diventa federale (di Alessio Pisanò | 9 ottobre 2012)

(9) Come Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia, e soggetti collegati, dagli anni Novanta praticamente non abbiamo fatto altro che parlare di questi temi. Una sintesi della questione della esistenza di una \"internazionale reazionaria\" euro-regionalista si trova alla nostra pagina internet 
Si vedano anche le numerose preziose analisi sul tema su German Foreign Policy:

(10) Fonte: Lucio Caracciolo in LIMES del 3/09/1994:



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Unter Separatisten

28.09.2017

BERLIN/MADRID/BARCELONA
 
(Eigener Bericht) - Der katalanische Separatismus ist über Jahre hin von deutschen Stellen begünstigt und gefördert worden. Dies zeigen Aktivitäten im Europaparlament, ein Großereignis der deutschen Kulturpolitik und Äußerungen deutscher Regierungsberater. Im Jahr 2007 hat die Frankfurter Buchmesse katalanischen Separatisten, die damals Aufwind hatten, eine internationale Bühne verschafft, indem sie erstmals nicht einen Staat, sondern eine Teilregion eines Staates zum \"Ehrengast\" ernannte: Spaniens Autonome Region Katalonien. Katalanischen Separatisten bietet darüber hinaus schon seit vielen Jahren die Fraktion \"The Greens/European Free Alliance im Europaparlament eine Bühne, in der Bündnis 90/Die Grünen beträchtlichen Einfluss haben. Der European Free Alliance gehören neben katalanischen Separatisten aus Spanien und Frankreich auch deutschsprachige Separatisten aus Norditalien (Südtirol) und Vertreter der ungarischsprachigen Minderheit Rumäniens an, deren Anhänger einen NS-Kollaborateur gerühmt und für den Anschluss an Ungarn plädiert haben. Madrid solle einem neuen katalanischen Staat \"entgegenkommen\", hieß es 2014 bei der Deutschen Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP). Aktuell sind in Berlin jedoch skeptische Stimmen zu hören; die Krise in Spanien droht sich zu einem weiteren Konfliktherd in der krisengeschüttelten EU zu entwickeln und gefährdet damit die kontinentale Basis der deutschen Weltpolitik.
Unitat Catalana, Unser Land, Bayernpartei...
Politisch-ideologische Rückendeckung erhält der katalanische Separatismus seit 1999 von einer Fraktion im Europaparlament, in der Bündnis 90/Die Grünen starken Einfluss ausüben. Der Fraktion The Greens/European Free Alliance gehören Abgeordnete grüner Parteien, aber auch Abgeordnete von Mitgliedsparteien der European Free Alliance (EFA) an; bei letzteren handelt es sich um Parteien von Sprachminderheiten aus EU-Staaten. Eine der beiden Fraktionsvorsitzenden von The Greens/EFA ist die deutsche Grüne Ska Keller. In der EFA sind etwa katalanische Vereinigungen aktiv, darunter nicht nur eine Organisation aus der spanischen Autonomen Region Katalonien, sondern auch die Unitat Catalana aus Perpignan (Frankreich) sowie Parteien aus dem spanischen Valencia und von den Balearen. Die EFA ist damit pankatalanisch orientiert. Der gemeinsame Nenner all ihrer sonstigen Mitglieder ist allein der Bezug auf Sprach- bzw. Ethno-Minderheiten; zu ihren Mitgliedern gehören dabei neben sich als links einstufenden Parteien auch konservative und rechte Organisationen. EFA-Mitglieder sind zum Beispiel die Bayernpartei, die schlesische Autonomiebewegung Ruch Autonomii Slaska, diverse Deutschtums-Organisationen - etwa Unser Land aus dem Alsace (Frankreich) - und die konservative belgische Nieuw-Vlaamse Alliantie (N-VA), die langfristig den Austritt des niederländischsprachigen Landesteils (Flandern) aus dem belgischen Staat anstrebt.
Anschlusspläne
Die Bereitschaft von Bündnis 90/Die Grünen, dem Ethno-Verband EFA mit der Aufnahme in die gemeinsame Fraktion eine wichtige politische Bühne zu verschaffen, wird auch dadurch nicht beeinträchtigt, dass der EFA Organisationen wie Erdélyi Magyar Neppart oder die Süd-Tiroler Freiheit angehören. Erdélyi Magyar Neppart (Ungarische Volkspartei Transsilvaniens) ist eine Partei der ungarischsprachigen Minderheit Rumäniens, die offiziell für die Autonomie des Minderheitengebiets plädiert. Anhänger der Partei treten sogar für einen Anschluss an Ungarn ein und haben den ungarischen NS-Kollaborateur József Nyirő gerühmt, der für die faschistischen \"Pfeilkreuzler\" tätig war, 1941 Joseph Goebbels huldigte und 1942 in einer Rede forderte: \"Aus dem Weg mit den Brunnenvergiftern, mit denjenigen, die die ungarische Seele destruieren, unsern Geist infizieren, die die ungarische Kraftentfaltung verhindern\" (german-foreign-policy.com berichtete [1]). Die Süd-Tiroler Freiheit wiederum fordert die Abspaltung von Teilen Norditaliens (Bolzano-Alto Adige) und entweder die Gründung eines eigenen Staates Südtirol oder aber - vorzugsweise - den Anschluss an Österreich. Die Süd-Tiroler Freiheit steht in dirkter Tradition zu den sogenannten Südtiroler Freiheitskämpfern, die seit den 1950er Jahren in Italien immer wieder Sprengstoffanschläge verübten, um den Anschluss von Bolzano-Alto Adige an Österreich zu erzwingen.[2]
Europa der Völker
Indem die EFA zahlreiche offen separatistische Parteien organisiert - neben der Süd-Tiroler Freiheit etwa die Esquerra Republicana de Catalunya und die Scottish National Party -, legt sie die Lunte an eine ganze Reihe von EU-Staaten, darunter nicht nur Spanien, sondern etwa auch Großbritannien, Italien und Frankreich. Wie Europa aussähe, sollten die separatistischen Kräfte, die die EFA fördert, Erfolg haben, zeigt eine Karte, die die EFA lange Jahre online verbreitete und die heute noch auf der Internetpräsenz der EFA-Jugendorganisation zu sehen ist. german-foreign-policy.com dokumentiert einen Auszug (siehe rechts).[3]
Ehrengast
Einen kräftigen Aufschwung hat dem katalanischen Separatismus vor ziemlich genau zehn Jahren die Frankfurter Buchmesse verschafft: Im Oktober 2007 konnte damals zum ersten Mal nicht ein Land, sondern mit Katalonien ein Teil eines Staates auf dem international renommierten Großevent als \"Ehrengast\" auftreten. Dies hat nicht nur weithin für Aufmerksamkeit, sondern in Katalonien selbst für heftigen Unmut gesorgt - unter spanischsprachigen Einwohnern der Region; diese wiesen empört darauf hin, dass diejenigen Schriftsteller aus der Region, die nicht in katalanischer, sondern in spanischer Sprache publizierten, in Frankfurt keine Berücksichtigung fänden. Damit werde die Vielfalt Kataloniens auf eine katalanische Ethnokultur reduziert, hieß es. Damals rechtfertigte der Vorsitzende der EFA-Mitgliedspartei Esquerra Republicana de Catalunya, Josep-Lluís Carod-Rovira, diese Praxis mit der Aussage, wenn \"die deutsche Kultur zu einer Buchmesse eingeladen\" wäre, würde man \"auch keine deutschen Autoren zulassen, die auf Türkisch schreiben\" (german-foreign-policy.com berichtete [4]). Gleichzeitig wurden auf der Frankfurter Veranstaltung Landkarten verbreitet, auf denen nicht nur das spanische Valencia und die Balearen, sondern auch Andorra und Teile Südfrankreichs als \"katalanisch\" markiert waren. Dies entspricht vollständig der pankatalanischen Orientierung der EFA.
\"Katalonien entgegenkommen\"
Zeitweise haben auch Berliner Regierungsberater die territoriale Integrität Spaniens offen in Frage gestellt. Die EU könne \"an einen Punkt geraten, an dem zu überlegen wäre, ob eine ausgehandelte Separation nicht einem Zustand permanenter Instabilität vorzuziehen sei\", hieß es 2013 in einem Papier der Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP).[5] 2014 plädierte die Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP) in einer Kurzanalyse dafür, Madrid solle \"auf eine Übereinkunft hinarbeiten\", um \"dem neuen Staat\" - gemeint war Katalonien - \"entgegenzukommen\".[6] Das Plädoyer für die Abspaltung Kataloniens entspricht alten Vorstellungen deutscher Strategen, denen zufolge es für Deutschland nur vorteilhaft sein könne, separatistische Kräfte in anderen Staaten zu fördern - denn damit würden auch Konkurrenten der Bundesrepublik, etwa Frankreich, erheblich geschwächt.
Sorge um die Machtbasis
Zuletzt sind allerdings eher besorgte Stimmen zu hören gewesen. Der katalanische Separatismus, der immer wieder Rückendeckung in Deutschland fand, stürzt den spanischen Staat aktuell in eine tiefe politische Krise. Diese kommt zur ökonomischen Krise hinzu, die ungebrochen weiterschwelt und auf lange Sicht - ähnlich wie die Krisen in Griechenland und Italien - eine Gefahr für den Euro und die EU ist. Damit droht sich der katalanische Sezessionskonflikt zu einem weiteren Brandherd in der krisengeschüttelten EU zu entwickeln, der den Staatenbund empfindlich schwächen könnte - zu Lasten der deutschen Weltpolitik, die in ihrer aktuellen Konzeption auf eine kontinentale Basis, die EU, angewiesen ist.

[1] S. dazu Ein positives Ungarn-Bild.
[2] S. dazu Der Zentralstaat als Minusgeschäft und Krisenprofiteure.
[3] S. dazu Europa der Völker und Völker ohne Grenzen.
[4] S. dazu Sprachenkampf.
[5] Kai-Olaf Lang: Katalonien auf dem Weg in die Unabhängigkeit? Der Schlüssel liegt in Madrid. SWP-Aktuell 50, August 2013.
[6] Cale Salih: Catalonia\'s Separatist Swell. DGAPkompakt No 12, October 2014. S. dazu Ein inoffizielles Plebiszit.



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(italiano / english / castellano)

La vertigine catalana

segnalazioni in ordine approssimativamente cronologico

1) George Soros finanzia l’indipendentismo catalano / George Soros financió a la agencia de la paradiplomacia catalana
2) A proposito del referendum in Catalogna (George Gastaud, PRCF)
3) Catalogna, a rischio il referendum. PCPE: «Il nostro cammino è l’indipendenza della classe operaia»
4) L’Unione Europea contro la Catalogna: bene censura e repressione (M. Santopadre)
5) Indipendenza della Catalogna e lotte di classe: intervista a Quim Arrufat (Cup)


ALTRI LINK:

Sostegno del PCE alle mobilitazioni in difesa delle libertà democratiche e del diritto all’autodeterminazione (Partido Comunista de España, 20/09/2017)
... Rajoy, con l’aiuto di Ciudadanos sta cercando di dinamitare la convivenza dei cittadini attraverso la creazione di uno stato di emergenza con conseguenze imprevedibili, proprio quando Unidos Podemos propone una via di buon senso per una soluzione concordata alla crisi istituzionale che ha portato lo scontro tra il Governo centrale e quello catalano. Di fronte a questa nuova dimostrazione di autoritarismo, con arresti e interventi che si verificano in Catalogna, il PCE ribadisce che la soluzione per ripristinare la normalità democratica e evitare la rottura della convivenza pacifica è un accordo tra le amministrazioni per consentire al popolo catalano di votare pacificamente e in completa sicurezza, per decidere sulle differenti forme di organizzarsi come nazione e allo stesso tempo decidere come garantire i diritti sociali e lavorativi che i governi di Rajoy e Puigdemont / Màs hanno rubato dal 2010. Di conseguenza, il PCE sostiene le mobilizazioni che, in difesa delle libertà democratiche e in difesa del diritto di autodeterminazione, sono convocate in questo senso...
Catalogna, Rizzo (PC): \"Motore della rivolta è la classe borghese catalana. E l\'Unione Europea sarà il metro\" (26 settembre 2017 ore 13:10, Andrea Barcariol)
... Sarà divertente capire come si schiererà realmente l\'Unione Europea. Sarà il metro con cui comprenderemo meglio la situazione rispetto allo scacchiere internazionale. Queste spinte indipendentiste sono forti e non credo che la questione finirà qui, il tema è molto complesso.

Catalogna: Trump si schiera contro l’indipendenza (PTV News 27.09.17 - Allarme a Basilea)


FLASHBACKS:

CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA (di Lucio CARACCIOLO, da LIMES DEL 3/09/1994)
... Non c’è troppo entusiasmo a Zagabria e Lubiana, la sera del 25 giugno 1991, quando si festeggia la dichiarazione di indipendenza. Sloveni e croati restano quasi isolati internazionalmente. Ad incoraggiarli, un fronte alquanto eterogeneo: da Alpe Adria alla Dc italiana, da Le Pen ai terroristi baschi e agli autonomisti catalani – il cui presidente Jordi Pujol già nel dicembre del 1990 aveva invitato Kucan a Barcellona per spingerlo alla secessione (124)...

EUROPA: UNIONE E DISGREGAZIONE (DOSSIER, 1997)
... Bisogna infatti tracciare una linea di demarcazione tra l\'intellettualismo borghese, che porta avanti valori romantici, passatisti e reazionari che si esauriscono nella esaltazione delle \"differenze\", dall\'internazionalismo ed antiimperialismo marxista, che riconosce i diritti di tutti perche\' vuole l\'unione tra eguali anziche\' il dominio del piu\' forte...

CRISIS PROFITEERS (GFP 2012/11/27)
... Germany has recently been supporting Catalonia\'s secessionist efforts, which are oriented on the notion that Catalonia - the richest region of the country - would not have entered the crisis, if it would not have to share its wealth, via the central government\'s redistribution with Spain\'s poorer areas... While Catalan separatism is grabbing attention throughout Europe, South Tyrolean secessionist efforts are also making bigger waves. Once more, the German austerity dictate to counter the Euro crisis is the direct cause. Rome is obliged to execute drastic budget cuts, as demanded by Berlin, which effect the financial margin of maneuver for the Bolzano Alto Adige (\"South Tyrol\") province. The cancellation of resources earmarked for South Tyrol has provoked protests...

¿Qué pasa en Catalunya?: lo que no se dice en los medios, ni en Catalunya ni en España (VICENÇ NAVARRO, 12 Jul 2017)
... Para entender Catalunya, hay que conocer a dicho partido, CDC, fundado por Jordi Pujol y que ha sido el eje del pujolismo, una ideología nacionalista conservadora que siempre ha considerado la Generalitat de Catalunya como su propiedad individual, familiar y colectiva, extendiendo su influencia a través de unas políticas de tipo clientelar, con prácticas intensamente corruptas... Es lo que Pablo Iglesias ha definido acertadamente como nacionalpatrimonialismo. Su largo dominio en el gobierno se debe a su claro encaje en la estructura de poder económico, financiero y mediático del país. Su dominio sobre los medios públicos de información de la Generalitat es casi absoluto. E influencia también en gran manera a los privados a base de subvenciones amplias (a modo de ejemplo, en 2015 la Generalitat de Catalunya otorgó 810.719 euros a La Vanguardia; 463.987 a El Periódico de Catalunya; El Punt Avui recibió 457.496; y el diario Ara, 313.495 euros)... En TV3, sus programas económicos son de orientación ultraliberal, los cuales son conducidos por uno de los gurús económicos de CDC y sectores de ERC, el economista Sala i Martín, economista catalán, de nacionalidad estadounidense, que apoya en EEUU al Partido Libertario, un partido de ultraderecha que tiene gran influencia hoy en el Partido Republicano de aquel país. Es más que probable que el Ministro de Economía y Finanzas de la Catalunya independiente gobernada por una coalición liderada por el PDeCAT fuese tal personaje, o alguien próximo a él en su orientación política...

INTERPRETAZIONI DIVERGENTI DELLA QUESTIONE CATALANA (Rassegna JUGOINFO del 26.9.2017)
0) Links
1) Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije
2) Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi (Marco Santopadre)
3) Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE ...
4) A propos du référendum en Catalogne ibérique (Georges Gastaud)
5) Comunicato  solidarietà con il popolo catalano (Rete dei Comunisti)
6) Un commento di Eros Barone
https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/8771


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George Soros finanzia l’indipendentismo catalano

Rete Voltaire | 28 Settembre 2017
Traduzione: Rachele Marmetti (Il Cronista)

L’anno scorso La Vanguardia [quotidiano edito a Barcellona, ndt] ha rivelato che nel 2014 la fondazione Open Society Initiative for Europe di George Soros ha finanziato organizzazioni che militano per l’indipendenza della Catalogna.

Secondo documenti interni, la fondazione ha versato: 
  27.049 dollari al Consell de Diplomàcia Pública de Catalunya (Consiglio di Diplomazia Pubblica di Catalogna), organismo creato dalla Generalità di Catalogna insieme a diversi partner privati; 
  24.973 dollari al Centre d’Informació i Documentació Internacionals a Barcelona (CIDOB – Centro d’Informazione e Documentazione Internazionale di Barcellona, un think tank indipendentista.

Il CIDOB svolge il ruolo di “pre-ministero” degli Esteri per la Generalità di Catalogna. In ogni occasione sostiene lo stesso punto di vista di Hillary Clinton.

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George Soros financió a la agencia de la paradiplomacia catalana

La fundación del financiero colaboró con 27.000 dólares para diversas actividades del Diplocat y también con 24.949 para el CIDOB

QUICO SALLÉSBarcelona, 
16/08/2016 

La Fundación Open Society Initiative for Europe de George Sorosfinanció con 27.049 dólares actividades del Consell per la Diplomàcia Pública de Catalunya, el Diplocat, la agencia ‘paradiplomática’ catalana. Según los documentos que se han filtrado de las actividades del financiero, Soros aportó estos dólares para cofinanciar una jornada sobre la xenofobia y el euroescepticismo que se celebró en Barcelona en enero de 2014 ante las elecciones al Parlamento Europeo.

Fuentes de la dirección del Diplocat han admitido a La Vanguardia la financiación de este proyecto por parte de la fundación del famoso financiero. De hecho, no es la única aportación a agencias o think tanks catalanes a los que Soros ha ayudado económicamente. El CIDOB, think tank de prestigio internacional bajo el paraguas de diversas administraciones catalanas, también recibió 24.973 dólares para financiar una jornada sobre la integración.

El seminario internacional del Diplocat, titulado “Eleccions Europees 2014: l’augment de la xenofòbia i els moviments euroescèptics a Europa”, fue coordinado por Elisabet Moragas y se realizó a puerta cerrada y al que sólo se podía asistir por invitación.

Según las explicaciones del Diplocat, que preside Albert Royo, se realizó en forma de diálogo abierto entre los expertos académicos y representantes políticos, todos con experiencia sobre el tema del debate, junto con periodistas o representantes de medios de comunicación influyentes de diferentes países de la UE.

[FOTO: La explicación de la financiación de Soros al Diplocat (Quico Sallés)


=== 2 ===


di George Gastaud, segretario nazionale del Polo della Rinascita Comunista in Francia (PRCF),  Antoine Manessis, responsabile PRCF delle relazioni internazionali, e Annette Mateu-Casado, membro della segreteria politica del PRCF, difensora della cultura catalana.

da initiative-communiste.fr, 19 settembre 2017

Traduzione di Marx21.it

Poiché il diritto dei popoli alla propria autodeterminazione non è negoziabile agli occhi dei comunisti, il PRCF condanna il comportamento grossolanamente repressivo del potere di Madrid contro gli eventuali partecipanti al referendum catalano. Anche l\'attaccamento di Mariano Rajoy e del re Felipe alla “democrazia” è sospetto, perché appare in continuità con quella Spagna franchista, in cui il centralismo, certo non democratico, ma fascistaè stato in larga parte responsabile storicamente delle divisioni della Spagna attuale.

Tuttavia, dobbiamo anche interrogarci sull\' “indipendentismo” della grande borghesia catalana.Esso si iscrive completamente nella costruzione “euro-atlantica” che è la negazione stessa dell\'indipendenza dei popoli e, ancor più, del loro diritto inalienabile a costruire il socialismo. Come le odierne componenti dei governi regionali degli Stati esistenti (Spagna, Francia, Italia, Belgio, ex Jugoslavia, ex Cecoslovacchia...) possono essere più forti di fronte all\'Asse Bruxelles-Berlino-Washington (dunque di fronte all\'oligarchia euro-atlantica che mette i popoli in competizione tra loro), isolandosi le une dalle altre, piuttosto che unirsi alle altre nel rispetto delle diversità culturali? Come i proletari di ciascuna delle “grandi regioni” che coltivano l\'euro-separatismo possono essere più forti per lottare contro il capitale se, all\'interno di ogni “nuovo paese” separato dagli Stati esistenti e trasformato in una nuova micro-stella della bandiera europea, i lavoratori sono ulteriormente divisi secondo la lingua e la nazionalità?

Nella stessa Francia, forze reazionarie stanno lavorando, in diverse regioni limitrofe del paese, a smantellare la Repubblica una e indivisibile nata dalla Rivoluzione, a stringere la lingua francese tra l\'inglese transatlantico e la lingua regionale impugnata come arma di divisione. Sullo sfondo di questo separatismo regionalista che si presume opposto a “Parigi” e allo “Stato”, il potere “parigino” stesso si scatena contro il “giacobinismo” (una fase spiccatamente progressista della nostra storia in cui, sotto l\'autorità di Robespierre, l\'unità territoriale del paese si era coniugata con una diffusa autonomia comunale) e difende quello che esso definisce il “patto girondino”: Macron intende in questo modo minare l\'unità, sbarazzarsi delle conquiste nazionali del popolo (contratti collettivi di ramo, statuti, diplomi nazionali, sicurezza, servizi pubblici di Stato, pensioni), favorire le grandi regioni, le “regioni trasfrontaliere” e le Euro-metropoli distruttrici dei comuni e dei dipartimenti.

Per quanto riguarda la Francia, e pur difendendo molto chiaramente le lingue e le culture regionali in quanto patrimonio indivisibile della nazione, il PRCF chiama i lavoratori, da Lille a Perpignan e da Brest a Sarténe, a sconfiggere il Macron-MEDEF, l\'UE sovranazionale, il Patto transatlantico in gestazione, la NATO, tutti quelli che vogliono allo stesso tempo cancellare le conquiste sociali del CNR, l\'autonomia dei comuni della Francia, la sovranità del nostro paese e il diritto dei suoi lavoratori a costruire tutti insieme il socialismo, nella prospettiva del comunismo.

Nel rifiutare in ogni modo la violenza del potere di Madrid contro la popolazione che vive nella Generalità catalana, il PRCF appoggia le rivendicazioni dei comunisti e dei progressisti della Spagna che propongono l\'istituzione di una Spagna repubblicana e socialista, confederale, indipendente dall\'UE e dalla NATO, pienamente rispettosa delle sue nazionalità e in marcia verso il socialismo.


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Catalogna, a rischio il referendum. PCPE: «Il nostro cammino è l’indipendenza della classe operaia»

22 settembre 2017

Nella mattinata di mercoledì la Guardia Civil spagnola ha fatto irruzione nei palazzi governativi catalani arrestando 14 membri della Generalitat de Catalunya, sequestrando il materiale referendario e facendo calare – in sostanza – la scure dell’impossibilità della celebrazione del referendum indipendentista convocato per il 1° ottobre. Mariano Rajoy, Primo Ministro Spagnolo, infatti, ha dichiarato alla stampa: «Il referendum non può essere celebrato, non è mai stato legale o legittimo, ora è solo una chimera impossibile. Lo Stato ha agito e continuerà a farlo, ogni illegalità avrà la sua risposta. La disobbedienza alla legge è l’opposto della democrazia. Siete ancora in tempo per evitare danni maggiori». Le organizzazioni politiche spagnole non sono mai riuscite ad amalgamare un consenso realmente cospicuo in Catalogna, tanto che alle scorse Elezioni Generali il Partito di Governo (il Partito Popolare) nella circoscrizione catalana è andato ben sotto la media nazionale (33%) attestandosi attorno al 13%.

L’azione repressiva da parte del governo centrale, con l’appoggio dell’UE, ha scatenato le proteste di massa in difesa del diritto democratico al referendum con anche uno sciopero degli scaricatori di porto che hanno impedito l’approdo di 16.000 agenti della Polizia Nazionale e Guardia Civile inviati dalle autorità statali centrali.

La situazione, in ogni caso, è decisamente complessa e l’analisi più completa del fenomeno e del “processo” è necessaria per una comprensione a 360°. È l’obiettivo del documento realizzato dal PCPE (Partito Comunista dei Popoli di Spagna) sull’attuale relazione tra la Catalogna e la Spagna e il “processo” (di autodeterminazione nda): chi lo porta avanti, verso dove va e se ha qualcosa di positivo per la classe operaia e il popolo lavoratore. Il PCPE sostiene il diritto di autodeterminazione della nazione Catalana e condanna la repressione dello Stato spagnolo contro il popolo catalano ma considera che la classe lavoratrice non otterrà alcuna soluzione alla sua penosa condizione dal referendum del 1° Ottobre sia se voterà SI che NO e che tale processo, nelle condizioni attuali, è destinato al fallimento senza riuscire ad indebolire né lo Stato né il regime del ’78. «Le seguenti riflessioni – si legge nel lungo scritto realizzato dall’organizzazione Comunisti Catalani affiliata al PCPE e reso pubblico il 6 settembre scorso – si inquadrano nella nostra campagna “Nostro cammino: l’indipendenza della classe operaia”, con cui vogliamo dare il nostro contributo affinché la classe operaia avanzi verso la sua propria indipendenza politica per conquistare un mondo fatto su sua misura».


Alcuni cenni storici e di base

Prima di addentrarsi nell’analisi del “processo”, il documento si sofferma su alcuni concetti e cenni storici per una migliore comprensione: «L’idea di una nazione spagnola coesa e immutabile creata da re cattolici è una grande menzogna. La Spagna feudale pre-capitalista, uguale a molti stati vicini, era un conglomerato di popoli con culture e lingue proprie. La nazione è una comunità umana stabile con una base ideologica, territoriale, economica e psicologica/culturale in comune, nasce dallo sviluppo capitalista, concretamente in Spagna nel XIX secolo. E’ la comparsa di una necessità materiale, ossia, un mercato nazionale per la borghesia, ciò che impulsa una confluenza linguistica e psicologica/culturale di un popolo. Con una volontà politica conseguente alla borghesia ascendente, si promosse un’unità di criteri mercantili, dazi che proteggessero questo mercato e puntellassero la dominazione borghese. Tutto questo impulsò la fusione di diversi popoli e culture nel consolidamento degli Stati-nazione

«Le nazioni non sono qualcosa di eterno o immutabile, ma sono un prodotto storico determinato, con una nascita, evoluzione e scomparsa in funzione dello sviluppo delle società e, fondamentalmente, dello sviluppo economico a partire dall’attività e la lotta delle classi, che muove il resto. […] Agli inizi del XIX secolo le remore del feudalismo erano ancora forti in gran parte del territorio e nella capitale, nei centri di potere. La borghesia centralista, molto legata a relazioni redditiere e poco produttive non apportava le stesse dinamiche rispetto ad una borghesia catalana più avanzata nel processo di industrializzazione. Le relazioni di produzione capitaliste più sviluppate entrarono dalla periferia e si svilupparono fondamentalmente in Catalogna e nel Paese Basco. Quando la borghesia spagnola cerca di creare un quadro nazionale unico in tutto lo Stato trova che ci sono mercati nazionali creati, con borghesie proprie, con interessi propri e con uno sviluppo nazionale molto avanzato. La creazione di uno Stato-nazione con un’unica lingua, cultura e quadro economico cozza frontalmente con l’esistenza di altri quadri nazionali consolidati.»

Questione nazionale catalana e la contraddizione con lo Stato-nazione spagnolo

In merito alla questione della ‘nazione’ catalana, Comunisti Catalani-PCPE scrive come: «Il processo di creazione della nazione catalana proviene da una borghesia che rispondeva solo ai suoi interessi di creare un mercato economico determinato. […] Al consolidarsi del capitalismo in Spagna, gli interessi della borghesia centrale cozzano per decenni con quelli delle borghesie periferiche. Dalla fine del XIX secolo, con l’apparizione del catalanismo politico, e durante tutto il XX secolo lo scontro nazionale è una caratteristica propria del tentativo di costruzione dello Stato-nazione spagnolo. Sotto lo scontro nazionale, c’è un sigillo di classe dello scontro di interessi tra le differenti borghesie. Questo conflitto si svolge in un quadro di unità e lotta, trascinando dietro di sé gli strati popolari che sinceramente e legittimamente cercavano di difendere il loro patrimonio culturale e la loro identità. In questa relazione di unità e lotta, le borghesie, da un lato, hanno lottato tra sé per difendere i rispettivi interessi: questioni commerciali e produttive (il corridoio del mediterraneo/centrale è l’ultimo esempio), di riparto del bilancio statale, del riparto dell’azionariato di grandi compagnie, ecc., ma dall’altro lato, entrambe le borghesie condividevano un interesse comune basato nelle loro condizioni di classe dominante e sfruttatrice della classe operaia. Entrambe le borghesie sono state molto unite quando si è trattato di schiacciare la maggioranza operaia e popolare. In nessun momento della sua storia, la borghesia catalana ha aspirato all’indipendenza. Durante tutto il XX secolo abbiamo molteplici esempi di collaborazione tra borghesie o tra i loro rappresentanti politici», facendo riferimento all’appoggio al franchismo, alla guerra civile, ai patti costituzionali e all’appoggio a leggi e governi della transizione.

Il “processo” è lontano dall’essere guidato dalla classe operaia

Il processo indipendentista catalano non è guidato dalla classe operaia catalana, ma da settori borghesi: «La radice del conflitto è il lucro o interesse economico, un interesse di classe che, più o meno legittimo, dobbiamo saper separare e analizzare. In caso contrario ci faranno passare interessi estranei come nostri e finiremo per partecipare in lotte nelle quali non abbiamo alcuna speranza di miglioramento dei nostri problemi reali come classe operaia.

Il processo indipendentista cresce su problematiche politiche: annullamento dello Statuto votato dai catalani, attacchi alla lingua e la cultura, bassi investimenti in certi settori, ecc. Ma il “processo” come lo intendiamo oggi, come processo indipendentista (non per il patto fiscale o altre iniziative) scoppia nel 2011-2012, nei momenti più duri della crisi economica, e con alcuni fattori che vanno molto al di là di queste problematiche reali.

L’elemento chiave per comprendere il processo indipendentista sono le conseguenze del naturale sviluppo del sistema capitalista. Le leggi economiche di questo sistema, basate nell’accumulazione di capitale, nella produzione conducono inesorabilmente alle seguenti conseguenze: concentrazione del capitale sempre più in meno mani, impoverimento relativo, e a volte assoluto, del resto della popolazione in cui non si concentra il capitale e crescita dei monopoli che dominano rami della produzione e anche paesi interi».

In questo sviluppo si forma quello che Comunisti Catalani-PCPE definisce blocco oligarchico-borghese a livello statale spagnolo con l’unità dei settori monopolistici: «La storica borghesia catalana ha concentrato il suo capitale durante tutto il XX secolo, creando importanti monopoli che hanno dominato sempre più il mercato, in principio nel resto dello Stato e dopo a livello internazionale. Parallelamente, la borghesia spagnola ha seguito un processo simile, compartendo zone di mercato con la borghesia catalana. Le leggi dell’economia operarono e alla fine del XX secolo e inizi del XXI, al calore dell’impulso economico e delle grandi privatizzazioni dei monopoli pubblici, si compì un processo di fusione di capitali nella forma di compartizione azionaria delle grandi compagnie. Questo processo si realizzò dall’integrazione dei monopoli spagnoli nel sistema capitalista-imperialista internazionale e dall’omologazione delle forme di dominazione con i paesi dell’Unione Europea. L’interrelazione di capitali oggi è profonda, e la maggioranza delle grandi oligarchie nate in uno e l’altro lato dell’Ebro condividono azioni delle principali Banche e compagnie dell’IBEX35. Questo ha creato una tal comunione di interessi tra le differenti borghesie dello Stato spagnolo che rende imprescindibile parlare di un blocco oligarchico-borghese spagnolo. […] Il blocco oligarchico-borghese non è né catalano, né basco, né madrileno, è un blocco di carattere spagnolo mentre la sua base di accumulazione e dominazione non è nazionale, ma nel quadro statale. Questo si riflette direttamente nell’ambito politico visto che la nazione catalana ha smesso di esser un progetto utile per la classe dominante in Catalogna. I suoi rappresentanti storici (CiU) sono stati spodestati. Questo è un elemento che differenzia la situazione nel XXI secolo, elemento che in nessun caso si invertirà. L’oligarchia in Catalogna non tornerà mai più a difendere, mantenere o promuovere la nazione catalana.

Il ruolo della piccola e media borghesia catalana

Lo sviluppo imperialistico spagnolo – nel quadro dell’UE- con il suo processo di concentrazione e accentramento, ha avuto il riflesso della reazione della piccola borghesia che di fronte alla caduta delle sue posizioni e condizioni dei suoi piccoli affari rispetto ai grandi monopoli ha assunto sempre maggior protagonismo cavalcando il malcontento diffuso e generando una proposta politica che si riflette nell’attuale “processo”: «L’elemento chiave che spiega l’impulso del processo indipendentista è stato il processo di proletarizzazione accelerato vissuto da ampi strati della piccola e media borghesia catalana nei momenti più duri della crisi economica. Inoltre, la scomparsa di un mercato nazionale catalano, profondamente inter-relazionato con quello della Spagna ha radicalizzato questi strati che vedono “il loro mondo” – o contesto di sussistenza – scomparire.

Pertanto, la proposta politica di questa classe è stata segnata da due elementi:

  1. Dal fatto che la grande borghesia si è fusa con quella del resto dello Stato e si è convertita in borghesia spagnola, perdendo il quadro nazionale e non rappresentando più gli interessi del territorio sul quale si sostenta il mercato della piccola e media borghesia.
  2. E soprattutto, la minaccia massiva di proletarizzazione l’ha portata a sollevare una proposta di scontro radicalizzato contro le conseguenze del capitalismo monopolista attuale, ma non contro il capitalismo come sistema, giacché desiderano un capitalismo che non tenda alla concentrazione di capitali, senza grandi corporazioni e basato nel regime di piccole proprietà come le loro.

Tutto questo ha portato la piccola borghesia a sviluppare una proposta politica con un certo grado di conflitto contro la classe oligarchica ma senza generare un movimento di rottura o indipendente da essa.»

L’impraticabilità del “processo”

Comunisti Catalani-PCPE, in sostanza, delinea l’impraticabilità del “processo” d’autodeterminazione catalano se non viene spodestata l’oligarchia-reggente a livello statale tramite un processo rivoluzionario.

«[…] Poco a poco si va visualizzando l’unico orizzonte realista per l’indipendentismo e tutti i difensori del diritto all’autodeterminazione, orizzonte che da tempo noi comunisti annunciamo: che non sarà possibile alcun processo di autodeterminazione e, pertanto, nemmeno di indipendenza, senza distruggere il potere statale dell’oligarchia. Non si può spodestare l’oligarchia dal potere in maniera pacifica, posto che è sempre disposta a utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per mantenere il suo regime di interessi». E gli eventi di questi giorni confermano pienamente questa tesi. E ancora: «Per rovesciare il potere dell’oligarchia si richiede, così come la storia dimostra, un processo rivoluzionario. E’ l’indipendentismo disposto a portare avanti un processo rivoluzionario? La risposta a questa domanda è profondamente no. L’indipendentismo oggi non ha né forza né capacità di resistenza per affrontare un conflitto reale con lo Stato. E questo non avviene per una condizione codarda intrinseca dei catalani, ma nelle condizioni di classe del “processo”. La piccola borghesia non è una classe rivoluzionaria e pertanto i movimenti politici che sviluppa non hanno nessuna caratteristica (ideologica, politica e organizzativa) rivoluzionaria. In definitiva, il processo indipendentista è destinato al fallimento a causa della classe sociale che lo fomenta, dirige e gli dà forma».

Il ruolo della classe operaia e il suo cammino

Di fronte a questo scenario, il compito dei comunisti è quello di delineare una posizione e percorso indipendente per la classe operaia sulla base dei suoi interessi e non alla coda dei vari settori della borghesia. «La classe operaia deve apprendere dalle sue esperienze, e pertanto deve organizzarsi per creare un movimento con orientamento nettamente operaio dove si difendono i suoi interessi al di sopra di quelli dei padroni […] Né lo spagnolismo difensore dello status quo né l’indipendentismo con proposte utopiche irrealizzabili, servono gli interessi della classe operaia, hanno entrambi un sigillo di classe estraneo ad essa».

Le une e le altre proposte sono irricevibili dai comunisti per cui «solo in un processo rivoluzionario nel quadro spagnolo, ossia statale, in cui la classe oligarchica sia definitivamente sostituita al potere dalla classe sfruttata, la classe operaia, ci saranno le condizioni materiali per dare un reale diritto all’autodeterminazione della Catalogna».

Dunque, il PCPE conclude il documento lanciando un appello alla classe operaia e i settori popolari.

  • A rafforzare la lotta operaia. Rafforzare il sindacalismo di classe e combattivo e le file del Partito Comunista. Lottare contro la penetrazione delle idee di altre classi sociali dentro la nostra classe come sono la socialdemocrazia e ogni tipo di nazionalismo.

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(français / english / castillano / srpskohrvatski / italiano.
Segnalazioni in ordine approssimativamente cronologico)


Interpretazioni divergenti della questione catalana

0) Links
1) Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije
2) Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi (Marco Santopadre)
3) Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE ...
4) A propos du référendum en Catalogne ibérique (Georges Gastaud)
5) Comunicato  solidarietà con il popolo catalano (Rete dei Comunisti)
6) Un commento di Eros Barone



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Links:

The Federal State - A Loss-Making Business (II – G.F.P. 17.10.2012)
... Cooperation with Catalonia as the \"Partner Nation\" in 2007, at the prestigious Frankfurt Book Fair, provided the separatists with an appreciable boost. German federal state Baden Wuerttemberg\'s special cooperation with Catalonia provides economic support for its secessionist efforts - and points to Europe\'s breakup into an economically successful core and poverty-stricken, hopeless marginalized zones, just as has crystallized under Euro zone pressure...

Farewell to Catalonia (JUGOINFO del 29 ago 2015)
An Unofficial Plebiscite (GFP 7.8.2015)
Risoluzione della Conferenza Nazionale del PCPC sulla questione nazionale (27/09/2014)
Auch zu lesen: Los von Madrid (Berliner Experten plädieren für Abspaltung Kataloniens – GFP 30.10.2014)

Peoples without Borders (G.F.P. 23.9.2015)
Just days before regional elections in Spain\'s Catalonia - elections declared a plebiscite on secession - a political partner of the German Green Party is calling for the rapid secession of that region from Spain. Ethnically defined \"peoples\" throughout Europe should have the \"right to self-determination,\" recognizing \"no borders,\" according to a declaration signed by the Spanish member organization of the \"European Free Alliance\" (EFA). The EFA unites separatist parties of various political orientations from numerous EU member countries... The EFA\'s map of Europe also depicts Germany merged with Austria and territories of neighboring countries to form a Greater Germany...

Il catalanismo e la Catalogna nella Spagna contemporanea. Un dialogo con Borja de Riquer (a cura di Andrea Geniola. In: Nazioni e Regioni. Studi e ricerche sulla comunità immaginata. 8/2016: 89-107)
... Attenendoci ai fatti, l’alta borghesia catalana è assolutamente contraria al processo di autodeterminazione e all’ipotesi indipendentista. Questa ha cercato di pianificare una cosiddetta terza via, soprattutto nella forma della richiesta di autonomia fiscale, ma senza essere ascoltata né dalle istituzioni dello Stato né dai partiti né dal grosso delle classi intellettuali spagnole. Ci troviamo dinnanzi a un fenomeno assolutamente nuovo, risultato dell’esaurimento del catalanismo di sinistra e di destra che avevano avuto un ruolo in questi decenni... non si tratta di un movimento anti-spagnolo bensì contro il regime attuale e quella che si considera essere una rottura del patto costituzionale delle autonomie con quote di autogoverno progressivamente maggiori. Si tratta inoltre di un movimento politicamente contro il PP e il PSOE, soprattutto questo per la sua involuzione nei confronti della realtà catalana. E per concludere si presenta come un movimento popolare civico e democratico. Non c’è un elemento essenzialista, sebbene ci possano essere settori o casi concreti in questo senso, che rivendica il fatto che in quanto nazione la Catalogna ha diritto all’autodeterminazione, bensì la richiesta di votare in quanto soggetti dotati di diritti civili e democratici universali...

¿Qué pasa en Catalunya?: lo que no se dice en los medios, ni en Catalunya ni en España (VICENÇ NAVARRO, 12 Jul 2017)
... En realidad, Catalunya ha estado gobernada 30 de 37 años por las derechas, es decir, 9 de 11 legislaturas, mostrando la gran hegemonía de las derechas... Para entender Catalunya, hay que conocer a dicho partido, CDC, fundado por Jordi Pujol y que ha sido el eje del pujolismo, una ideología nacionalista conservadora que siempre ha considerado la Generalitat de Catalunya como su propiedad individual, familiar y colectiva, extendiendo su influencia a través de unas políticas de tipo clientelar, con prácticas intensamente corruptas... Es lo que Pablo Iglesias ha definido acertadamente como nacionalpatrimonialismo. Su largo dominio en el gobierno se debe a su claro encaje en la estructura de poder económico, financiero y mediático del país. Su dominio sobre los medios públicos de información de la Generalitat es casi absoluto. E influencia también en gran manera a los privados a base de subvenciones amplias (a modo de ejemplo, en 2015 la Generalitat de Catalunya otorgó 810.719 euros a La Vanguardia; 463.987 a El Periódico de Catalunya; El Punt Avui recibió 457.496; y el diario Ara, 313.495 euros)... En TV3, sus programas económicos son de orientación ultraliberal, los cuales son conducidos por uno de los gurús económicos de CDC y sectores de ERC, el economista Sala i Martín, economista catalán, de nacionalidad estadounidense, que apoya en EEUU al Partido Libertario, un partido de ultraderecha que tiene gran influencia hoy en el Partido Republicano de aquel país. Es más que probable que el Ministro de Economía y Finanzas de la Catalunya independiente gobernada por una coalición liderada por el PDeCAT fuese tal personaje, o alguien próximo a él en su orientación política...

Comunistes pel Sì: un appello per la Repubblica Catalana interroga le sinistre europee (Andrea Quaranta / Comunistes pel SÍ)
... Per Comunistes pel SÍ la Repubblica Catalana rappresenta un’opportunità sia per rompere i legami col vecchio regime che per avviare politiche di segno opposto al dogma liberista. In questo senso il manifesto chiama in causa implicitamente le sinistre europee e i comunisti in particolare, affermando che il miglior contributo internazionalista è il sostegno al referendum del 1 ottobre, all’autodeterminazione di Catalunya e alla nascita di una Repubblica al servizio delle classi popolari.
Il manifesto rappresenta inoltre un invito ad approfondire l’analisi dello scenario internazionale e svilupparne una visione non eclettica, così da definire da sinistra un altro modello di Europa. La riflessione su Catalunya implica cioè una riflessione sull’Unione europea, sulla natura antipopolare delle politiche della Troika e sul carattere imperialista del polo europeo...
Il testo originale del manifesto si trova alla pagina: https://comunistespelsi.com/manifest/

Catalogna e autodeterminazione (di Dante Barontini, 21 settembre 2017)
... Il groviglio catalano è sorto all’interno di almeno tre faglie decisionali diverse: l’ambito territoriale della Catalogna, quello della Spagna storica e lo spazio dell’Unione Europea. Abbiamo una “comunità indigena” unita da lingua e tradizioni culturali che persegue l’indipendenza da tempo immemorabile; uno Stato-nazione classico che non riconosce al suo interno altre nazionalità; un quasi-Stato sovranazionale che assume competenze chiave (le politiche di bilancio, in primo luogo) senza alcuna verifica “democratica” effettiva (il voto popolare sulle decisioni rilevanti)...

Le radici economiche dell’indipendentismo catalano (di Alessandro Bartoloni  23/09/2017)
... il processo di autodeterminazione del popolo catalano, ha radici economiche che ne permettono l’effettiva realizzazione. Tuttavia non bisogna pensare che questo processo sia un fatto meramente interno alla borghesia, con quella catalana che non riuscendo a prendere il pieno controllo del paese sembra tuttavia matura per assumersi la responsabilità della spoliazione della propria classe lavoratrice senza più dover fare i conti con Madrid. Quanto sta avvenendo, infatti, è la manifestazione di un conflitto molto più profondo: quello tra l’enorme sviluppo delle forze produttive avvenuto in una trentina d’anni, a partire dalla fine della dittatura militare, e la cornice entro cui ancora oggi si sviluppano i rapporti politici ed istituzionali, ingessati in quel compromesso tra forze democratiche e fascisti che ha guidato il passaggio alla monarchia costituzionale e garantito la pace sociale e l’ordine capitalistico.


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Napad u Barceloni i Soroseva ”pomoć” neovisnosti Katalonije

29/08/2017    SAŠA. F. 

Nakon terorističkog napada na La Rambli u Barceloni i atentata u Cambrilsu, portal Rambla Libre piše kako su oba čina pokazala neuspjeh integracije i nekonzistentnost identiteta koji se temelji na različitosti, što je samo po sebi proturječno.

Kako bi se izašlo iz ove teške situacije, koja ometa planove Carlesa Puigdemonta, lidera katalonskog pokreta za odcjepljenje, iz sjene je trebao izaći pokrovitelj kolektivnog samoubojstva Katalonije, George Soros, piše katalonski portal.

Prvo, svi mediji izravno ili neizravno povezani sa Sorosevim Otvorenim društvom su napisali niz članaka o tome ”kako je upravljanjem u kriznim situacijama i tijekom napada Katalonija pokazala da može biti neovisna”.

Prvi je bio The Wall Street Journal, a sada The Guardian, koji podržavaju Kataloniju i njezinu sposobnost da funkcionira kao samostalna država, posebno nakon onoga što je pokazala tijekom terorističkih napada.

To tvrdi Luka Stobart, profesor političke ekonomije, koji je napisao kolumnu naziva ”Odgovor Katalonije na terorizam pokazuje da je spremna za nezavisnost”.

Osim toga, mediji bliski Sorosu čak i na nacionalnoj razini u Španjolskoj, kao El Confidencial, umanjuju štetne ekonomske posljedice od hipotetskog razbijanja španjolskog jedinstva.

Novinar Juan Carlos Barba piše: ”Španjolska će gotovo sigurno pasti u kratku recesiju, ali će njen utjecaj biti ograničen. Katalonija će zbog sadašnjih političkih problema također pretrpjeti recesiju koja će, međutim, biti kratkog vijeka i nakon toga je čeka snažan ekonomski rast. Osim toga, ako se prijateljski raziđe sa Španjolskom, Kataloniju uopće ne bi trebala pogoditi recesija.”

Istovremeno, list La Vanguardia otkriva da su George Soros i njegovo  Otvoreno društvo za Europu službeno s 27 100 dolara financirali ”Diplomatsko vijeće Katalonije” (Diplocat), te s 24 973 dolara udrugu CIDOB (Catalunya i la cooperació da Desenvolupament). To su svote koje su službeno priznate.

Osim toga, regionalni direktor Otvorenog društva za Europu, Jordi Vaquer Fanés, koji ”radi na promicanju vrijednosti institucija otvorenog društva u zemljama Europske unije i Zapadnog Balkana”, bio je direktor CIDOB-a između 2008. i 2012. godine.

Sva ova tijela središnje vlasti nazivaju ”paradržavnim strukturama Katalonije”. Međutim, nije problem što su ona osnovana ili što Katalonija želi neovisnost, nego što se netko unaprijed pobrinuo da se puna neovisnost ove španjolske autonomne pokrajine nikada ne ostvari.

”Onaj koji izgleda kao dobročinitelj i učenik Karla Poppera, G. Soros, zapravo je jedan od najvećih zagovornika globalizacije, koji više i ne kriju da im je cilj uništiti nacije, granice i nametnuti svjetsku vladu. Čak su i Katalonci naivno upali u njegovu mrežu”, zaključuje Rambla Libre.



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Perché i referendum in Lombardia/Veneto e in Catalogna sono assai diversi


di Marco Santopadre*

Nelle prossime settimane si terranno due appuntamenti elettorali su materie apparentemente simili ma in realtà di segno molto diverso. Il primo ottobre dovrebbe svolgersi in Catalogna (il condizionale è d’obbligo) un referendum per l’indipendenza dallo Stato Spagnolo, mentre il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si voterà per chiedere maggiore autonomia dal governo centrale italiano.
Come detto, ad uno sguardo superficiale le due consultazioni potrebbero sembrare equivalenti, ma le differenze sono notevoli.

I referendum in Lombardia e Veneto sono promossi e sostenuti dalla maggioranza dei partiti, dalla Lega fino al Pd, e mirano a ottenere una maggiore autonomia, soprattutto in campo fiscale, per le due regioni del nord Italia. Si tratta quindi di un proseguimento e di un approfondimento delle politiche, portate avanti prima dai governi di centrosinistra e poi da quelli di centrodestra nel corso del decennio scorso, che introdussero il cosiddetto ‘federalismo’. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: le imposte e i balzelli locali per i cittadini sono notevolmente aumentati, man mano che lo Stato cedeva competenze agli enti locali che a loro volta privati dei finanziamenti statali si vedevano obbligati ad aumentare la tassazione e a tagliare o esternalizzare importanti servizi. Col risultato che oggi i cittadini, i lavoratori, i pensionati pagano assai più cari servizi di qualità peggiore. Sul fronte dell’autogoverno, della possibilità cioè delle comunità locali di incidere maggiormente sulle decisioni di natura politica e territoriale, nulla è cambiato, anzi.

Di fatto i referendum indetti in Lombardia e in Veneto il 22 ottobre su iniziativa dei governatori Maroni e Zaia si inseriscono nel solco di quel ridisegno regressivo dell’assetto costituzionale e istituzionale tendente a facilitare una maggiore integrazione del nord del paese all’interno della struttura produttiva, economica e politica dell’Unione Europea. Nelle due regioni, come ha ricordato Sergio Cararo qualche giorno fa su Contropiano, si concentra quel 22% d’imprese che realizzano l’80% del valore aggiunto e delle esportazioni di tutto lo Stato. Sono questi i territori che a Bruxelles, Parigi e Berlino interessa integrare e cooptare nel nucleo duro dell’Unione Europea, mentre il resto del paese si fa sempre meno interessante perché poco appetibile.

Comunque si tratta di referendum di tipo consultivo per i quali non è previsto alcun quorum, e l’impatto del loro risultato potrebbe essere assai scarso. Di fatto una sorta di megaspot a favore dei due governatori e delle loro rispettive maggioranze, anche se poi le consultazioni sono sostenute dal Pd e dai suoi cespugli. Certo, in caso di vittoria del Sì e di forte partecipazione alle consultazioni, i promotori e i loro sponsor – il padronato medio-piccolo, le lobby finanziarie locali agganciate agli ambienti europei che contano – potrebbero rivendicare più voce in capitolo nei confronti del governo e rosicchiare qualche privilegio in più. Ad esempio, ottenendo di poter stringere accordi ‘autonomi’ con gli ambienti economici tedeschi, finanziamenti ad hoc per migliorare le infrastrutture, agevolazioni fiscali o incentivi alle imprese o agli enti locali.

I riscontri positivi per le popolazioni delle due regioni sarebbero insignificanti. Anzi, com’è successo dopo l’introduzione del cosiddetto ‘federalismo fiscale’, i processi di concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di ambienti sempre più ridotti e di tipo oligarchico potrebbe subire una ulteriore accelerazione.

Mentre i due referendum in Lombardia e Veneto sono puramente funzionali agli interessi del padronato locale e del meccanismo di gerarchizzazione del territorio europeo gestito in maniera spesso spericolata da una borghesia continentale sempre più sovranazionale, il quesito catalano del Primo ottobre ha risvolti assai più interessanti e di rottura.

La rivendicazione indipendentista catalana ha una storia pluricentenaria, in opposizione ad una costruzione nazionale spagnola di tipo autoritario e sciovinista che è ricorso alla dittatura per ben due volte nel ventesimo secolo (quelle di Miguel Primo de Rivera dal 1923 al 1930 e poi quella di Francisco Franco dal 1936 fino alla fine degli anni ‘70). Fu non solo per reprimere i movimenti dei lavoratori e i moti rivoluzionari che le classi dirigenti spagnole scelsero il terrore, ma anche contro le rivendicazioni indipendentiste dei baschi, dei catalani e delle altre nazionalità inglobate a forza in uno stato autoritario e feudale.

Dopo la morte di Franco all’interno del regime si affermò l’ala più modernista e liberale in economia (ma non per questo meno fascista) che era interessata a integrare la Spagna nell’allora Comunità Economica Europea e nella Nato. Così il regime non venne travolto ma semplicemente si autoriformò, cambiando pelle pur di continuare a garantire, con forme nuove, il dominio dell’oligarchia economica e politica.
Se il Movimento di Liberazione Basco, da posizioni socialiste rivoluzionarie, rifiutò e contestò a lungo l’autoriforma del regime accettata supinamente dalle opposizioni di sinistra spagnole, il movimento nazionalista catalano si integrò senza particolari scossoni all’interno del cosiddetto ‘Stato delle autonomie’. La borghesia catalana, ampiamente integrata sia a livello statale che internazionale, ha gestito il potere politico ed economico a livello locale in maniera pressoché ininterrotta dall’inizio degli anni ’80 fino ai nostri giorni. I partiti regionalisti e autonomisti catalani – in primis Convergència Democràtica de Catalunya – hanno a lungo relegato le rivendicazioni indipendentiste al livello simbolico, mirando ad aumentare il proprio potere e il proprio radicamento a livello locale in cambio del sostegno ai governi statali formati alternativamente dai due partiti nazionalisti spagnoli, il Partito Popolare e il Partito Socialista Operaio (sic!) Spagnolo.

Ma questo equilibrio si è rotto all’inizio del decennio. La gestione autoritaria e liberista della crisi economica da parte dei governi spagnoli – sotto dettatura Ue – e di quelli regionali ha provocato la politicizzazione di decine, forse centinaia di migliaia di catalani da sempre lontani dalla contesa tra il campo autonomista e quello nazionalista (spagnolo). In reazione ai licenziamenti di massa, degli sfratti con l’uso della forza pubblica e dei tagli ai salari e al welfare le piazze si sono riempite: scioperi, manifestazioni, picchetti e assemblee hanno scosso la Catalogna.

Nel frattempo un blando tentativo di riforma dello Statuto di Autonomia varato dopo l’autoriforma del regime franchista, promosso dagli autonomisti e da alcune forze federaliste di centro-sinistra, ha visto una reazione sproporzionata e violenta da parte dello Stato e delle sue istituzioni. Un testo già ampiamente mutilato dagli stessi promotori catalani è stato ulteriormente sfregiato dalle istituzioni statali, manifestando così l’impossibilità di una riforma graduale e negoziale dell’autonomia di Barcellona.

La confluenza dei due processi – lotta contro l’austerity e lotta per una maggiore autonomia – unita ad una crescente mobilitazione sociale e politica contro lo stato e i suoi apparati repressivi, oltre che contro la corruzione e l’autoritarismo repressivo del governo regionale ha causato una frattura di tipo storico all’interno dello scenario catalano, con l’indebolimento dell’egemonia di Convergència – nel frattempo trasformatasi in Partit Demòcrata Europeu Català – e il rafforzamento di un variegato fronte indipendentista sorretto dalla mobilitazione permanente dell’associazionismo nazionalista trasversale e dall’affermazione elettorale di varie forze di sinistra, tra le quali le Candidature di Unità Popolare (Cup), anticapitaliste oltre che indipendentiste.

La mobilitazione a sinistra e indipendentista ha di fatto condizionato i regionalisti catalani obbligandoli ad abbracciare rivendicazioni di tipo nazionalista, che hanno portato alla formazione di un governo il cui obiettivo dichiarato è quello di traghettare la Catalogna verso l’autodeterminazione attraverso un processo di ‘disconnessione’ politica ed istituzionale con Madrid e i suoi apparati. Il momento di rottura formale dovrebbe essere rappresentato dal referendum che il parlamento catalano si appresta a convocare per il prossimo 1 ottobre. Che il referendum si tenga veramente ed in forme ufficiali – per intenderci sulla falsariga di quelli realizzati in Scozia ed in Quebec – è tutto da vedere: i partiti nazionalisti spagnoli e gli apparati dello Stato non hanno alcuna intenzione di permettere la celebrazione del voto popolare, non riconoscono ai catalani l’esercizio del diritto all’autodeterminazione e stanno intraprendendo un boicottaggio che potrebbe arrivare all’intervento delle forze di sicurezza contro i promotori del referendum, alla sospensione dello statuto di autonomia di Barcellona e all’esclusione degli indipendentisti dalle istituzioni e dagli uffici pubblici, per non parlare dei ricatti sul fronte economico.

Ma le contraddizioni esistono anche nel fronte catalano: il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, ha già perso pezzi consistenti del suo schieramento politico e il sostegno di alcuni importanti dirigenti del suo stesso partito politico. Di fronte all’acuirsi dello scontro e all’avvicinarsi del momento della verità molti di coloro che, da posizioni catalaniste, hanno a lungo agitato la parola d’ordine dell’indipendenza scelgono di fare un passo indietro. In fondo gli spezzoni dominanti della borghesia catalana non hanno mai abbracciato pienamente la parola d’ordine della separazione da Madrid e la sua scelta sarà improntata ad un pragmatico bilancio costi/benefici. Se lo scontro con Madrid si facesse troppo duro settori consistenti e maggioritari di PDeCat potrebbero tirare i remi in barca, sospendendo la procedura di ‘disconnessione’ in cambio magari di un aumento dell’autonomia fiscale e amministrativa che poi è il succo delle rivendicazioni autonomiste della borghesia catalana. Una scelta che però non sarebbe né facile né indolore per il partito liberal-conservatore catalano, che a quel punto dovrebbe subire l’offensiva delle forze autenticamente indipendentiste e in particolare dei partiti di sinistra catalani, Erc e Cup.

Come detto, a Barcellona in queste settimane si gioca una partita molto interessante, dagli esiti non scontati e che avrebbe forti ripercussioni non solo sugli equilibri dello Stato Spagnolo ma su tutta l’Unione Europea. In Catalogna, nel fronte indipendentista, si scontrano due diverse tendenze politiche: una europeista, liberista, conservatrice sul piano sociale e affatto interessata a mettere in dubbio le attuali collocazioni internazionali, ed un’altra che insieme all’indipendenza chiede l’uscita dalla Nato e dall’Unione Europea, la rottura con le politiche liberiste e una forte rottura con gli attuali equilibri politici ed economici.

La Monarchia autoritaria spagnola perderebbe un pezzo consistente, e nascerebbe una Repubblica Catalana all’interno della quale i movimenti sociali e politici progressisti o esplicitamente antagonisti avrebbero un peso consistente in grado di contendere alle forze moderate la guida del processo di costruzione del nuovo stato, di mutare i rapporti di forza, di introdurre nel dibattito politico e nel processo decisionale degli elementi di rottura con la brutta china imposta dal processo di costruzione del polo imperialista europeo.

L’esito di questa dialettica è ovviamente tutt’altro che scontato, ma che la rottura di Barcellona con Madrid apra spazi consistenti alle rivendicazioni di classe è innegabile.
Per questo equiparare i referendum di Lombardia e Veneto con quello catalano è un grave errore da parte di forze che si richiamano al progresso e al cambiamento.

* Rete dei Comunisti

31 agosto 2017



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Declaración del Secretariado Político del Comité Central del PCPE sobre la situación en Catalunya de cara al referéndum del 1 de octubre


1.     El ejercicio del derecho a la libre autodeterminación de los pueblos es un requisito imprescindible para superar el fracaso histórico de la burguesía española en su objetivo de construir España como nación que reconozca la realidad de su carácter plurinacional, y que desarrolle el marco de convivencia necesario para sentar las bases materiales de una nación española que sea reconocida como patria por quienes vivimos en este Estado. La nación española que ha impuesto la burguesía, especialmente después del fin de su fase colonial en 1898, es incapaz de adquirir esta condición y se desarrolla como cárcel de pueblos oprimidos en la dictadura del capital. Este derecho a la libre autodeterminación no es tal si no incluye el derecho a la independencia.

2.     Mariano Rajoy representa, hoy, la continuidad del proyecto político de la vieja España, fracasada en su intento de unificar a los distintos pueblos y naciones. Intento de unificación que, siempre ignorando sus derechos, se ha realizado desde la imposición y la violencia. Esa es la misma incapacidad política que hoy pone en evidencia el Gobierno del PP, que no tiene ninguna vía política de superación del actual conflicto con el Govern de Generalitat, y que recurre a la utilización instrumental de los aparatos del Estado y a la intervención represiva de los cuerpos de policía. 

3.     El proceso que se desarrolla en Catalunya, a iniciativa de un amplio sector de su burguesía, tiene el objetivo de una mejor recolocación de esa clase social en la cadena imperialista. La burguesía catalana entra así, una vez más, en contradicción con la oligarquía española. Contradicción que tiene su base material en la existencia de un marco específico de acumulación capitalista en Catalunya, que el capitalismo español (pese a haberlo intentado) no ha conseguido nunca integrar en el marco general de la acumulación capitalista en España de forma unificada. No es, por tanto, un proceso de liberación nacional de base popular, si bien se apoya y utiliza los sentimientos nacionales históricamente arraigados en el pueblo, para obtener una amplia legitimación de masas a su particular estrategia. Estamos frente a un intento de proceso de recomposición capitalista, sobre la base de la continuidad de la propiedad privada y de la explotación de la clase obrera y los sectores populares por una clase social parasitaria.

4.     El SP del CC del PCPE entiende que, en una situación así, la posición del Partido de la clase obrera es la de clarificar los intereses en juego ante el pueblo trabajador y, también, la de aprovechar las contradicciones que se dan en el marco del bloque de fuerzas dominantes para incidir sobre ellas favoreciendo los intereses de la clase obrera y los sectores populares. Por ello, aun respondiendo esta situación que se da en Catalunya a un conflicto dentro del bloque de poder dominante, es necesario que la clase obrera intervenga en el mismo para debilitar a la clase dominante y favorecer el desarrollo de los intereses proletarios.

5.     Ante la convocatoria del referéndum del 1 de octubre, el PCPE, coincidiendo con las posiciones expresadas por el PC del Poble de Catalunya, hace un llamamiento a la clase obrera y a los sectores populares a participar en ese proceso, manifestando su voto nulo, como expresión contra un proyecto de la burguesía catalana que se inserta en la alianza imperialista de la UE y en la OTAN, y que quiere dar continuidad a la actual explotación de la clase obrera catalana bajo nuevas formas.

6.     El SP del CC del PCPE llama a combatir todas las formas de utilización violenta de los aparatos del Estado para reprimir los derechos de la clase obrera catalana por parte del Gobierno de Mariano Rajoy, a hacer una firme defensa del legítimo derecho de autodeterminación de los pueblos, y a fortalecer el bloque obrero y popular en torno a sus propios intereses de clase, que es un requisito imprescindible para impulsar el proceso que lleve al reconocimiento de Catalunya como nación. 

7.     El SP del CC del PCPE, como expresión de los acuerdos del X Congreso del Partido, reitera su propuesta de superación de la actual situación en base a su propuesta de República Socialista de carácter Confederal, como salida política de futuro a esta situación. Un proceso hegemonizado por la clase obrera, que liquidará no solo a la decrépita monarquía española sino, también, a las estructuras de dominación capitalista que someten a los pueblos y naciones del Estado a la opresión nacional, y a su clase obrera a unas miserables condiciones de vida bajo la dictadura del capital.


Secretariado Político del Comité Central del PCPE a 10 de Septiembre de 2017



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Septembre 19, 2017

A propos du référendum en Catalogne ibérique

Une réflexion de Georges Gastaud, secrétaire national du PRCF, d’Antoine Manessis, responsable PRCF aux relations internationales, et Annette Mateu-Casado, membre du secrétariat politique, défenseur de la culture catalane


Le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes n’étant pas négociable aux yeux des communistes, le PRCF condamne l’attitude grossièrement répressive du pouvoir de Madrid à l’encontre des éventuels participants au référendum catalan. D’autant que l’attachement de Mariano Rajoy et du roi Felipe à la « démocratie » est aussi suspect qu’est évidente leur commune filiation avec l’Espagne franquiste dont le centralisme, non pas démocratique, mais fasciste, est largement responsable historiquement des divisions de l’Espagne actuelle.

Il n’en faut pas moins s’interroger sur l’ « indépendantisme » de la grande bourgeoisie catalane. Il s’inscrit totalement dans la « construction » euro-atlantique qui est la négation même de l’indépendance des peuples et plus encore, de leur droit inaliénable à construire le socialisme. Comment des actuelles composantes régionales des Etats existants (Espagne, France, Italie, Belgique, ex-Yougoslavie, ex-Tchécoslovaquie…) seraient-elles plus fortes face à l’Axe Bruxelles-Berlin-Washington (donc face à l’oligarchie euro-atlantique qui met les peuples en coupe réglée) en s’isolant les unes des autres, plutôt qu’en s’unissant aux autres composantes dans le respect des diversités culturelles ? Comment les prolétaires de chacune de ces « grandes régions » cultivant l’euro-séparatisme seraient-ils plus forts pour lutter contre le capital si, à l’intérieur de chaque « nouveau pays » séparé des Etats existants et transformé en nouvelle micro-étoile du drapeau européen, les travailleurs sont divisés encore davantage selon la langue et selon la nationalité ?

D’autant qu’en France même, des forces réactionnaires travaillent, dans plusieurs régions limitrophes du pays, à démanteler la République une et indivisible issue de la Révolution, à prendre la langue française – élément unificateur majeur du pays – en étau entre le tout-anglais transatlantique et la langue régionale érigée en arme de division. A l’arrière-plan de ce séparatisme régionaliste soi-disant opposé à « Paris » et à l’ « Etat », le pouvoir « parisien » lui-même se déchaîne contre le « jacobinisme » (phase éminemment progressiste de notre histoire où, sous l’autorité de Robespierre, l’unité territoriale du pays s’est conjuguée avec la généralisation de l’autonomie communale) défend ce qu’il appelle un « pacte girondin » : Macron entend ainsi saper l’unité de la République, exploser les acquis nationaux du peuple (conventions collectives de branche, statuts, diplômes nationaux, Sécu, services publics d’Etat, retraites…), favoriser les grandes régions, les « régions transfrontalières » et les euro-métropoles destructrices des communes et des départements.

En ce qui concerne la France, et tout en défendant très clairement les langues et les cultures régionales en tant que patrimoine indivisible de la nation, le PRCF appelle les travailleurs, de Lille à Perpignan et de Brest à Sartène, à faire échec à Macron-MEDEF, à l’UE supranationale, au Pacte transatlantique en gestation, à l’OTAN, à tous ceux qui veulent à la fois araser les conquêtes sociales du CNR, l’autonomie des communes de France, la souveraineté de notre pays et le droit de ses travailleurs à construire tous ensemble, le socialisme dans la perspective du communisme.

Sans cautionner en quoi que ce soit la moindre violence du pouvoir de Madrid à l’encontre de la population vivant dans la Généralité catalane, le PRCF appuie la revendication des communistes et des progressistes d’Espagne qui proposent la mise en place d’une Espagne républicaine et socialiste, confédérale, indépendante de l’UE et de l’OTAN, pleinement respectueuse de ses nationalités et en marche vers le socialisme*. 


*nous signalons que nos camarades du Parti communiste des peuples d’Espagne appellent au vote blanc à ce référendum.



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Comunicato  solidarietà con il popolo catalano

Con l\'avvicinarsi del 1 ottobre, giorno scelto per la consultazione referendaria sull\'indipendenza della Catalogna, si vanno concretizzando violentemente le minacce del governo Rajoy nei confronti del composito movimento indipendentista.

In nome del \"diritto\" - evidentemente quello di neutralizzare la democrazia nel caso si manifesti in maniera contraria agli interessi del \"mondo di sopra\" -  sono scattate le manette per diversi membri e funzionari della Generalitat. E\' solo l\'ultimo episodio dopo il sequestro di materiale pro-referendum, l\'invio di un\'ordine di comparizione in tribunale per 712 sindaci accusati di favorire una consultazione illegale, l\'ordine di bloccare in ogni formato, cartaceo o digitale, la propaganda referendaria, il commissariamento dei conti del governo regionale catalano e l’invio a Barcellona di 10mila tra agenti di polizia e militari.

La “democrazia spagnola” di mostra per quello che è sempre stata: diretta erede dello stato franchista, dal quale non si è mai smarcata realmente, mantenendo il suo impianto nazionalista e autoritario e i suoi apparati repressivi e ideologici. Il passaggio dalla dittatura alla monarchia parlamentare fu gestito dal regime fascista per garantire il dominio dell\'oligarchia sotto altre forme dettate dalla necessità di integrare il paese nella Nato e nella Comunità Economica Europea.

Quella stessa Unione Europea che oggi volta le spalle alle richieste di libertà e di democrazia del popolo catalano, concedendo mano libera alla repressione di Madrid. Quel diritto all’autodeterminazione che l’Ue ha strumentalmente sponsorizzato quando si trattava di togliere di mezzo paesi non conformi da sfasciare e assorbire - il caso dell’ex Jugoslavia è eclatante - non sembra valere per Bruxelles all’interno dei propri confini. Al polo imperialista europeo non interessano né la democrazia né la libertà, soprattutto quando non sono in linea con i propri interessi strategici e se mettono a rischio la stabilità interna come nel caso della Catalogna. Una contraddizione non indifferente per quegli spezzoni liberali del movimento indipendentista catalano che si appellano proprio a Bruxelles ritenendo Ue una alternativa democratica all’autoritarismo spagnolo.

Nel momento in cui gli viene impedito di esprimersi democraticamente sul proprio futuro non possiamo che schierarci a fianco del popolo catalano. All\'interno del fronte indipendentista esistono componenti molto diverse per orientamento politico e ideologico; non potrebbe essere altrimenti visto che siamo di fronte a un vasto movimento popolare e non dell’espressione delle rivendicazioni di un solo partito o di una sola classe sociale. Ma è impossibile negare l\'importanza che la lotta per l\'emancipazione e la liberazione sociale, condotta da consistenti e radicati settori politici e sociali di sinistra e di classe, sta avendo nella concretizzazione del Referendum del 1 ottobre e in generale nel processo indipendentista.

Nell\'attuale contesto continentale, la rivendicazione d\'indipendenza del popolo catalano si pone in oggettiva rottura non solo con le classi dirigenti e l\'oligarchia spagnola ma anche con la stessa Unione Europea. Un processo di rottura politica e sociale in Catalogna rafforza oggi le ipotesi di opposizione e rottura dei popoli europei nei confronti dei propri governi e della gabbia dell\'Unione Europea, il che non può lasciarci indifferenti.

Nei prossimi giorni parteciperemo a diversi momenti di dibattito e di mobilitazione in solidarietà con la lotta del popolo catalano e il 1 ottobre saremo a Barcellona a fianco dei compagni e delle organizzazioni di classe che animano il movimento per l’emancipazione sociale e nazionale della Catalogna.


Rete dei Comunisti, 21/09/2017


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Sullo stesso tema si veda anche: Il giornalismo non è più un lavoro (di Alberto Negri, Il Sole24Ore, 8/8/2017)
... La professione giornalistica, ma ovviamente non solo quella, è diventata sempre più “volontariato”. Possono fare questo lavoro coloro che non campano di giornalismo, come professori, esperti vari, già pagati dalle istituzioni, da società pubbliche o private, dal mondo del business, oppure figli di papà mantenuti dalla famiglia. Ma non è gente che va sul terreno e afferra la vita vera. Parlano a vanvera di popoli che non conoscono e posti che non hanno mai visto...




L’informazione è povera, i giornalisti anche. I risultati si vedono


di Federico Rucco, 15 settembre 2017

“La situazione dell’editoria è devastante, ormai il 65% degli iscritti è precario o disoccupato. Otto su dieci hanno un reddito intorno ai 10 mila euro, quindi sotto la soglia di povertà”. A sottolinearlo è stato il presidente nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Nicola Marini, nel corso del suo intervento alla 10/a edizione di ‘Media Memoriae’. Disaggregando ulteriormente il dato, emerge che il 40% degli oltre 35mila giornalisti attivi in Italia, per lo più sotto i 35 anni, produce annualmente un reddito inferiore ai 5.000 euro.

Secondo i dati elaborati dal Rapporto dell’Agcom presentato lo scorso marzo, negli ultimi quindici anni sono andate crescendo soprattutto le fasce di reddito piu’ basse della professione, a testimonianza del fatto che sempre piu’ giornalisti esercitano la professione in modo parziale e precario.

sancire questo pessimo stato delle cose, è stato l’accordo siglato nel 2014 tra il sindacato dei giornalisti (Fnsi) con l’associazione degli editori (Fieg) e l’istituto previdenziale dei giornalisti (Inpgi). Con il meccanismo dell’equo compenso si è prodotta una situazione vergognosa. Ltariffe minime stabilite sono 20,80 euro a pezzo per i quotidiani con una media di 12 articoli al mese, 6,25 euro per le agenzie (con un minimo di 40 segnalazioni/informazioni al mese) e le testate web aumentati del 30% con foto e del 50% con un video. Se la produzione giornalistica è superiore, si procede per scaglioni e, paradossalmente, i pezzi successivi vengono retribuiti in misura ancora inferiore.

I dati ci dicono che in Italia quattro giornalisti freelance su dieci nel 2014 hanno praticamente lavorato gratis . In questa condizione si trovano 16.830 giornalisti «autonomi» sui 40.534 iscritti alla gestione separata dell’Inpgi, vale a dire il 41,5% degli iscritti.

Il rapporto del Lsdi presentato tre anni fa alla federazione della stampa, parlava di «zero redditi». In una situazione ancora più rognosa si trovano anche i 23.704 freelance che nel 2014 avevano dichiarato redditi inferiori o pari ai 10 mila euro lordi all’anno. Nel 2014 è stato inoltre registrato un ulteriore calo della retribuzione media: da 10.941 a 10.935 euro lordi annui. Chi lavora con la partita Iva o con la ritenuta d’acconto in Italia guadagna mediamente il 17,9% di chi invece ha un contratto di lavoro dipendente, 5,6 volte di meno.

Da tempo la logica della “liberalizzazione” ha prodotto devastazioni in ogni settore. Se sul lavoro salariato si è abbattuto lo tsunami della ristrutturazione, delle delocalizzazioni e del blocco dei salari, in settori come l’informazione ha agito il medesimo meccanismo espellendone i settori stabilizzati (sia tra i giornalisti che tra i poligrafici) e ricorrendo sistematicamente al precariato, al lavoro a prestazione e deresponsabilizzando le aziende editoriali da ogni dovere contributivo e fiscale. 

La Fnsi, il sindacato di categoria, da anni viene sollecitato a vedere come sia profondamente mutato anche socialmente il mondo dell’informazione, ma chi ha posto il problema si è trovato di fronte un muro (e neanche troppo di gomma) di chi continua a pensare che le figure da tutelare siano ancora e solo quelle che operano in Rai o nella grandi testate. Nel caso della crisi aziendale al Sole 24 Ore si è scelto di sacrificare i precari e salvaguardare gli stabilizzati.

E’ evidente come la povertà diffusa tra gli operatori della comunicazione riproduca un abbassamento della qualità nel mondo dei media. Ormai lo spettacolo quotidiano su lanci di agenzia, cronache, gestione di servizi televisivi è disperante. Altro che stimoli alla concorrenza, giornalismo di inchiesta, verifica delle fonti, deontologia professionale. E’ una lotta per la sopravvivenza che mette quotidianamente in contraddizione le aspettative sul “lavoro più bello del mondo” e la giungla di miserie messa a disposizione dai grandi e piccoli monopoli sull’informazione. Le cose migliori (ma anche le peggiori) ormai si trovano sulla rete. I monopoli se ne sono accorti e ne temono le conseguenze (vedi il crollo di vendite dei giornali o la diminuzione di telespettatori sui canali in chiaro). Ma la qualità si scontra sempre più spesso con la povertà delle risorse e delle retribuzioni ed anche progetti innovativi sul piano informativo decollano e atterrano bruscamente e pesantemente in pochissimo tempo. Insomma chi ha il pane non ha i denti. Chi ha i denti deve stringerli, per trovare il varco su cui convergere per rovesciare il tavolo.



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L\'Africa all\'epoca della ricolonizzazione

1) A. Soumahoro: La presunta superiorità dell\'uomo (francese?) europeo secondo Sua eccellenza Macron
2) D. Wedikorbaria: Risposta di un africano alla lettera di Padre Alex Zanotelli sull’Africa
3) M. Dinucci: Macron-Libia: la Rothschild Connection 
4) G. Masala: Due cose sul Franco CFA (e sull’euro e l’Africa)


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La presunta superiorità dell\'uomo (francese?) europeo secondo Sua eccellenza Macron

di Aboubakar Soumahoro
15 luglio 2017

Il presidente francese Emmanuel Macron sostenendo che \"l\'Africa ha avuto problemi di civilizzazione\" conferma ciò che fu la colonizzazione dal punto di vista del degrado culturale dei suoi protagonisti e promotori. 
Perché la presunta civilizzazione \"superiore\" portata dalla Francia sul continente africano, dal punto di vista storico, si legge attraverso la colonizzazione con i vari crimine che essa ha portato con se. Basta ricordare le rivolte finite nel sangue in Camerun con oltre 120 000 morti. Parliamo dei \"tiratori\" africani spinti in prima fila sotto le bombe dei nazisti mentre gli altri militari, di pelle bianca, risultavano in seconda e terza fila. 
Noi siamo quella civiltà che venne repressa, sempre dalla Francia a Setif in Algeria con oltre 45 000 morti nel 1945. Siamo quell\'Africa che l\'esercito francese colonialista massacrava con oltre 100 000 morti in Madagascar nel 1947. Vogliamo anche parlare dell\'uccisione di contadini, donne e giovani durante l\'opera detta civilizzatrice francese in giro per l\'Africa (Senegal, Costa D\'Avorio, Mali, Ghana, Guinea, ecc ecc)? 
Ecco oggi la stessa politica francese, da non confondere con il popolo francese nel suo insieme, ha venduto armi per 6,6 miliardi di euro nel solo 2016, e l\'Africa risulta una delle principali piazze di questa economica bellica.
Questa è anche la civiltà portata dalla Francia di sua maestà tra noi africani della presunta civiltà inferiore. Una presunta civiltà inferiore che per la sua dimensione di umanità e di rifiuto di ogni forma di subalternità, si è ribellata con dignità contro i vari saccheggi delle sue risorse umane e naturali. 
La decolonizzazione per noi, con la costruzione di mentalità nuova, continua ne sia sicuro Signor Presidente. La storia non può essere scritta e manipolata da chi ha costruito quella mostruosità che è la colonizzazione.


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Risposta di un africano alla lettera di Padre Alex Zanotelli sull’Africa

Padre Alex Zanotelli elenca una serie di “è inaccettabile” per descrivere la drammatica situazione in cui versano tanti Stati africani e lo fa, ovviamente, puntando il suo dito accusatorio sugli africani stessi. Praticamente è come se si accusassero i Sioux o gli Apache della drammatica situazione che si è creata nel Nord America.

By daniel wedikorbaria - 27 luglio 2017

Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.” Inizia così la lettera del profondo conoscitore dell’Africa padre Alex Zanotelli, nella quale, senza ritegno alcuno, chiede di “rompere questo silenzio- stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne.” Ma i mainstream media parlano fin troppo dell’Africa anche a sproposito. Come hanno sempre fatto continuano a diffamare ancor di più l’Africa e gli africani. Tutte le narrazioni che una grossa fetta del giornalismo ha prodotto negli ultimi decenni sull’Africa e sugli africani straripano di stereotipi al limite della xenofobia e del ridicolo.

L’attempato canuto elenca una serie di “è inaccettabile” per descrivere la drammatica situazione in cui versano tanti Stati africani e lo fa, ovviamente, puntando il suo dito accusatorio sugli africani stessi. Praticamente è come se si accusassero i Sioux o gli Apache della drammatica situazione che si è creata nel Nord America.

La sua elencazione inizia con: “È inaccettabile il silenzio sul Sudan retto da un regime dittatoriale…” dando l’idea di non essere ancora soddisfatto della sua suddivisione in due Stati. Forse vorrebbe farlo ancora a pezzi, oltre al Sud Sudan facciamo anche quello Est e quello Ovest? In fondo, Dividi et impera è sempre stata una strategia usata dai colonialisti che hanno stravolto i confini nazionali africani per innescare guerre interetniche.

Non risparmia nemmeno il paese che crede nell’autosostentamento o self reliance, il paese che rifiuta di offrire un solo ettaro della sua terra al fenomeno del Land grabbing praticato in Africa dalle multinazionali, il paese che ha rispedito a casa tutte le ONG e rifiuta gli aiuti umanitari considerati l’oppio della popolazione africana. “È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo…”  Questa dichiarazione è la menzogna più evidente di tutta la sua lettera, una frottola che poteva anche risparmiarsi. Ai giornalisti italiani si può dir di tutto tranne che siano mai rimasti in silenzio sull’Eritrea. Lui mente sapendo di mentire perché da tanti anni esiste una sistematica demonizzazione mediatica dell’occidente nei confronti del Paese descritto come “l’inferno sulla terra”, “la Corea del Nord africana”, “una prigione a cielo aperto”, ecc. L’unica cosa che gli rimane da dire ancora sarebbe che gli eritrei mangiano i bambini!

Padre Alex è convinto che i leader africani che osano negare l’accesso al loro paese ai neocolonialisti, evitando così di farsi derubare, siano da annoverare come i peggiori dittatori di questo mondo.

Quello eritreo è un regime oppressivo forse perché l’unico in Africa a non volere più gli aiuti umanitari occidentali? In effetti questa cosa rende automaticamente tutti quelli come Alex delle persone inutili. Lo so che è difficile digerirlo per quelli come lui che vanno in giro con l’aureola in testa ma, volenti o nolenti, l’Eritrea diventerà un esempio per l’Africa perché insegnerà agli altri Stati africani che si può vivere senza mendicare aiuti umanitari. Solo quando questa filosofia, germogliata in Eritrea, attecchirà e radicherà in tutto il continente africano tutta l’Africa si salverà e allora lui e tutti i suoi compari dovranno tornarsene a casa loro.

Trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad”. Guarda caso l’Eritrea è assente dalla sua lista. Si è chiesto il perché? Eppure è la stessa area geografica del Corno d’Africa colpita dal fenomeno climatico El Nino. Se si fosse documentato con più serietà saprebbe che l’Eritrea sta lottando da sola contro il cambiamento climatico piantumando alberi e costruendo dighe per fermare l’acqua piovana con l’idea di raggiungere l’obbiettivo del Millennio sulla sicurezza alimentare. Obiettivo quasi raggiunto, in Eritrea più nessun bambino muore di fame. Se anche gli altri paesi africani adottassero questo progetto politico smentirebbero quella stima ONU da lui citata che dice che a fine secolo l’Africa avrà tre quarti del suo territorio non abitabile e circa cinquanta milioni di profughi climatici entro il 2050. La mia speranza è che questa rivoluzione alla maniera eritrea si compia molto presto in tutto il continente africano alla faccia di tutti gli uccelli del malaugurio!

Ma forse il buon padre Alex intendeva dire che in Eritrea c’è un regime oppressivo perché si nega l’accesso all’AFRICOM, l’invasione militare statunitense in atto in tutta l’Africa? Allora, piuttosto che puntare il suo dito contro gli africani e colpevolizzare le vittime, perché non trova il coraggio di raccontare la presenza di AFRICOM in 52 paesi africani tranne che in Eritrea e nello Zimbabwe? Perché non spende due parole o anche un solo “è inaccettabile” sulla presenza massiccia di basi militari, armamenti ed aeroporti di droni motivati sempre dall’assurda idea di proteggere la sicurezza nazionale o gli interessi nazionali statunitensi? Perché Alex non accusa mai gli Stati Uniti della devastazione e della destabilizzazione africana? È forse per il suo passato a Cincinnati dove era stato mandato dai Padri Comboniani a completare gli studi di Teologia? Perché, colto da amnesia, si rifiuta di raccontare che dietro al caos e al disastro del continente africano c’è sempre la loro longa mano?

Per esempio nella Repubblica Centrafricana, per poter fermare l’avanzata dei cinesi, gli Stati Uniti hanno scatenato un’improvvisa guerra di religione così drammatica da dividere la pacifica popolazione in due distinti gruppi, per non parlare della zona saheliana del Ciad e del Mali dove sono stati finanziati alcuni gruppi jihadisti creati ed armati assieme ai francesi. Perché Alex non ha il coraggio di puntare il dito contro chi sta creando i terroristi in Africa, a cominciare dai BokoHaram in Nigeria e Al Shabaab in Somalia? Crede davvero che in Somalia si divertano a fare una guerra civile da trent’anni? A chi giovano questi terroristi se non al neocolonialismo? La War on terrornon è forse la nuova evangelizzazione del continente africano? Se vogliamo rompere il silenzio sull’Africa diciamo di chi è veramente la colpa. Quale altra potenza conosciamo impegnata a destabilizzare l’Africa ed il mondo intero con il terrorismo? Padre abbia il coraggio di puntare quel suo santo dito sull’America! Pure se per questo dovesse sacrificare la sua vita non tema, mi batterò anch’io perché la facciano santo subito!

Ma torniamo all’Eritrea dove lei non è mai stato e che conosce solo per sentito dire. L’Eritrea è spesso stata la fonte di tante bufale per quegli stessi giornali che oggi lei rimprovera di non scrivere abbastanza menzogne. Trovo che non sia affatto onesto da parte sua, eppure il suo abito talare le imporrebbe di perseguire la verità cristiana, blaterare dei giovani eritrei in fuga verso l’Europa senza approfondirne il vero motivo, la sua vera causa, la sua radice. Non diventerà certo un santo per aver volutamente ignorato, o peggio omesso, che i ragazzi eritrei vengono in Europa perché gli viene promesso il paradiso con il welfare nord europeo, del resto il loro Paese sotto sanzioni USA non offre occupazione a volontà e la sua economia è ancora da post guerra quarantennale. Il loro è un paese che non gli offre sicurezza in quanto la minaccia di invasione etiopica è annuale come la stagione delle piogge, i raid militari etiopici sono frequenti, ancora ci sono territori eritrei sotto occupazione nonostante il verdetto dell’EEBC. Perché la fuga dei giovani eritrei è un progetto USA come ammesso anche dallo stesso presidente Obama per facilitare il suo alleato numero uno in Africa, l’Etiopia, che mira allo sbocco sul Mar Rosso. E per convincere i ragazzi eritrei a lasciare il loro paese li hanno attirati con le allettanti promesse di distribuzione di visti per l’America, promesse fatte nei campi rifugiati etiopici, campi dell’UNHCR gestiti da ARRA, un’agenzia di intelligence del regime etiopico. Come sappiamo l’UNHCR è finanziato dallo State Department americano per costruire in Etiopia vicino al confine con l’Eritrea altri campi rifugiati con l’intenzione di svuotare il Paese dei suoi giovani.

Perciò Santissimo Alex, se lei vuole davvero fermare questa “invasione degli eritrei” sulle sue coste provi a convincere l’Europa, paese garante degli accordi di Algeri, ad intimare all’Etiopia il rispetto del diritto internazionale ed abbandonare i territori sovrani eritrei. Questi problemi sono alla radice della sua imbarazzante e superficiale analisi: “con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa”. Stia pur certo che il fenomeno migratorio eritreo diminuirà drasticamente una volta risolte le sue cause e vedrà anche il ritorno a casa di una miriade di persone perché in tanti si sono già stufati dell’accoglienza italiana stile mafia capitale che ha arricchito persino le strutture religiose.

Ma è sintomatico il suo punto di vista sull’Africa perché esaminando il resto della sua lettera ho notato un uso eccessivo di termini negativi per descrivere il continente africano, sentenze definitive e previsioni quasi apocalittiche senza speranza alcuna: “la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati”, “ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga”, “un regime dittatoriale in guerra contro il popolo”, “il popolo martire dell’Africa”, “in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni”, “uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa”, “dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai, potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera”, “situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti”.

Eppure, io sono convinto che l’Africa sia diversa da come la racconta il bianco Alex. L’Africa è un continente di gente ospitale che si indebita per offrirti cibo, di persone umili che vivono alla giornata, di bambini che sorridono con sguardi innocenti, di popoli con valori autentici e bellissime tradizioni millenarie.  L’Africa è ricca, così ricca che potrebbe sfamare tutti gli africani anche se il numero dei suoi abitanti dovesse quintuplicare. L’Africa non è stupida e ha imparato che non può continuare a mendicare un chilo di farina in cambio di un chilo d’oro.

Ma forse lo scopo di questa sua lettera è quello di tornare protagonista della scena mediatica per sentirsi ancora il salvatore di un intero continente e per avere più visibilità agli occhi dei suoi ignari concittadini e raccogliere da loro l’ennesima beneficenza e, siccome viviamo in un’epoca in cui per mettersi la coscienza a posto basta donare 2 euro con un sms, il santissimo Alex si incaricherà lui stesso di distribuire i soldi degli italiani agli africani più bisognosi e quindi restare sul trono africano vita natural durante. In passato si è visto come venivano distribuiti quegli aiuti umanitari in terra africana, creavano un bacino clientelare, un piccolo gruppo di fedeli all’interno del quale si praticavano il ricatto ed il baratto, in cambio di un chilo di latte in polvere si pretendeva l’anima o la verginità. Quando nell’Eritrea liberata il governo laico eritreo ha deciso di controllare gli “aiuti umanitari” gestiti dai soliti missionari è stato subito chiaro che questi si sarebbero quantomeno irritati. A quanto sembra, anche padre Alex non ha mai digerito questa fastidiosa ingerenza governativa perciò quando egli scrive di Africa la bile gli si contrae e lo stomaco gli provoca degli spasmi che gli offuscano la mente e gli impediscono di esprimere giudizi sereni ed obiettivi.

Per me, la sua lettera non è altro che il delirio di onnipotenza di un missionario colonialista convinto di essere l’unico africanista con l’aureola in testa rimasto in vita su questo pianeta. Uno che ha vissuto l’intera sua vita nel continente africano con il pretesto di fare del bene. E mi chiedo, cosa ha prodotto la sua presenza cinquantennale in Africa? A cosa è servito il suo lavoro, cosa ha migliorato? Che cosa ha risolto? Nulla ha risolto, anzi ha creato dipendenza! Può forse uno spacciatore aiutare le sue vittime ad uscire dalla droga? No, credo proprio di no.

A quanto pare il destino dell’Africa continua con lo stesso trend anche ai nostri tempi, il colonialismo del passato si è trasformato in neo colonialismo. Nulla è cambiato, i predatori del passato sono ritornati indossando altre vesti e i missionari come Alex Zanotelli forniscono informazioni, dati, statistiche, numeri, coordinate geografiche e quant’altro alle potenze colonizzatrici. In breve sono finiti per diventare gli informatori del neo colonialismo. In passato erano proprio i missionari, con fucile a tracolla ed una bibbia in mano, a guidare le carovane dei predatori e mentre questi compivano le razzie loro evangelizzavano i “barbari” distraendoli con qualche nuova preghiera da recitare a memoria. In Eritrea, per esempio, fu il lazzarista Giuseppe Sapeto a favorire la penetrazione italiana nel Mar Rosso dando così il via alla sua colonizzazione.

Facciamo qualcosa per l’Africa” scrive padre Alex e come africano vorrei replicargli e suggerirgli che la scelta migliore per il continente africano sarebbe quella di essere lasciato in pace e da solo, ossia di essere completamente abbandonato al suo destino. Lo so che sembra un azzardo ma l’Africa deve farcela da sola. Deve poter iniziare a camminare con le proprie gambe. E se lui avesse veramente a cuore le sorti di quel continente che l’ha nutrito di fama e di gloria per un intero mezzo secolo, non fosse altro che per una sorta di gratitudine, se ne dovrebbe tornare nella sua terra natia a chiudersi in un convento a coltivare l’orto e al tramonto praticare l’autoflagellazione col cilicio come penitenza per i suoi peccati di tipo narcisistico.

Per citare la sua conclusione in “Rompiamo il silenzio sull’Africa” da africano le vorrei svelare caro Alex che domani saranno i nostri nipoti a dirvi quello che voi oggi dite dei nazisti! Personalmente, lei per me resterà sempre uno di quelli che Jomo Kenyatta ai suoi tempi aveva ben inquadrato:

QUANDO I MISSIONARI VENNERO IN AFRICA LORO AVEVANO LA BIBBIA E NOI AVEVAMO LA TERRA. DISSERO: PREGHIAMO E NOI CHIUDEMMO GLI OCCHI. QUANDO LI RIAPRIMMO, NOI AVEVAMO LA BIBBIA E LORO AVEVANO LA TERRA.


FONTE: L\'appello. Rompiamo il silenzio sull\'Africa (Alex Zanotelli giovedì 20 luglio 2017)


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L’arte della guerra 

Macron-Libia: la Rothschild Connection 

Manlio Dinucci
  

«Ciò che avviene oggi in Libia è il nodo di una destabilizzazione dai molteplici aspetti»: lo ha dichiarato il presidente Emmanuel Macron celebrando all’Eliseo l’accordo che «traccia la via per la pace e la riconciliazione nazionale». Macron attribuisce la caotica situazione del paese unicamente ai movimenti terroristi, i quali «approfittano della destabilizzazione politica e della ricchezza economica e finanziaria che può esistere in Libia per prosperare». Per questo – conclude – la Francia aiuta la Libia a bloccare i terroristi.

Macron capovolge, in tal modo, i fatti. Artefice della destabilizzazione della Libia è stata proprio la Francia, unitamente agli Stati uniti, alla Nato e alle monarchie del Golfo. 

Nel 2010, documentava la Banca mondiale, la Libia registrava in Africa i più alti indicatori di sviluppo umano, con un reddito pro capite medio-alto, l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e del 46% alla terziaria. Vi trovavano lavoro circa 2 milioni di immigrati africani. La Libia favoriva con i suoi investimenti la formazione di organismi economici indipendenti dell’Unione africana. 

Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – si accordarono per bloccare il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa (moneta che la Francia impone a 14 sue ex colonie africane). Fu la Clinton – documenta il New York Times – a far firmare al presidente  Obama «un documento che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino ad allora classificati come terroristi. 

Poco dopo, nel 2011, la Nato sotto comando Usa demolisce con la guerra (aperta dalla Francia) lo Stato libico, attaccandolo anche dall’interno con forze speciali. Da qui il disastro sociale, che farà più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti. 

Una storia che Macron ben conosce: dal 2008 al 2012 fa una folgorante (quanto sospetta) carriera alla Banca Rothschild, l’impero finanziario che controlla le banche centrali di quasi tutti i paesi del mondo. In Libia la Rothschild sbarca nel 2011, mentre la guerra è ancora in corso. Le grandi banche statunitensi ed europee effettuano allo stesso tempo la più grande rapina del secolo, confiscando 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici. 

Nei quattro anni di formazione alla Rothschild, Macron viene introdotto nel gotha della finanza mondiale, dove si decidono le grandi operazioni come quella della demolizione dello Stato libico. Passa quindi alla politica, facendo una folgorante (quanto sospetta) carriera, prima quale vice-segretario generale dell’Eliseo, poi quale ministro dell’economia. 

Nel 2016 crea in pochi mesi un suo partito, 
En Marche!, un «instant party» sostenuto e finanziato da potenti gruppi multinazionali, finanziari e mediatici, che gli spianano la strada alla presidenza. 

Dietro il protagonismo di Macron non ci sono quindi solo gli interessi nazionali francesi. Il bottino da spartire in Libia è enorme: le maggiori riserve petrolifere africane e grosse riserve di gas naturale; 
l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, l’oro bianco in prospettiva più prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medioriente. 

C’è «il rischio che la Francia eserciti una forte egemonia sulla nostra ex colonia», avverte Analisi Difesa, sottolineando l’importanza dell’imminente spedizione navale italiana in Libia. Un richiamo all’«orgoglio nazionale» di un’Italia che reclama la sua fetta nella spartizione neocoloniale della sua ex colonia.

(il manifesto, 1 agosto 2017) 



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Due cose sul Franco CFA (e sull’euro e l’Africa)


di Giuseppe Masala, 31 agosto 2017

L’arresto in Senegal del militante panafricano Kemi Seba (nella foto), di nazionalità francese, reo di aver bruciato, durante una manifestazione, alcune banconote di franchi CFA, ha riaperto il dibattito su questa moneta considerata da molti lo strumento principale con il quale la Francia (ma ora tutti i paesi della zona euro) esercitano il neo colonialismo nell’Africa francofona. 

Il Franco CFA nasce nel 1945 con gli accordi di Bretton Wood; infatti all’epoca si chiamava Franco delle Colonie Francesi Africane. Successivamente nel 1958 cambia nome e diventa Franco della Comunità Francese dell’Africa. 

Fino a qui tutto normale se non per due piccoli particolari. 1) il Franco CFA è una moneta ancorata ad un cambio fisso, prima con il Franco Francese e ora con l’Euro. 2) La piena convertibilitá del Franco CFA è garantita dal Ministero del Tesoro francese, che però chiede il deposito, preso un conto del ministero, del 65% delle riserve estere dei paesi aderenti all’unione monetaria. 

Dietro queste due tecnicalità si nasconde il diavolo del colonialismo. Infatti il cambio fisso azzera il rischio di cambio per gli investimenti delle multinazionali occidentali nel paesi dell’Unione monetaria. Non basta, il cambio fisso (per giunta garantito dal Ministero del Tesoro francese) favorisce l’accumulo nei forzieri delle banche occidentali di immensi tesori frutto della corruzione dei governanti locali (spesso dittatorelli amici dei nostri governi). 

Come se non bastasse, tutto questo avviene a scapito dell’economia reale locale, soffocata dalla rigidità del cambio con una moneta fortissima come l’Euro. 

Il secondo punto probabilmente è anche peggio del primo. Quale nazione sovrana depositerebbe, a garanzia della convertibilitá della propria moneta, ben il 65% delle proprie riserve estere presso il ministero del Tesoro di uno stato estero per giunta quello del paese ex coloniale? Nessun paese sovrano farebbe mai una cosa del genere, che consegna le chiavi dello sviluppo (o del sottosviluppo) ad una nazione straniera. 

Pensiamo basti questo per chiarire come il colonialismo sia ancora un fenomeno reale e pervasivo che tarpa le ali di una qualsiasi opportunità di sviluppo dei paesi africani. Con buona pace di tanti soloni che parlano senza sapere di cambi e monete, e che credono che agli africani sia data una grande opportunità nel venire in Europa (spesso a vendere asciugamani e accendini nelle nostre piazze) grazie alla possibilità di inviare nei loro paesi, a tasso di cambio fisso, rimesse che consentono alle loro famiglie in Africa di campare con pochi euro. 

Grazie a questo sistema le nostre multinazionali hanno invece l’opportunità, a rischio di cambio pari a zero, di depredare le immense riserve di materie prime dell’Africa Occidentale: uranio, metalli rari, oro, petrolio, gas ma anche legname pregiato e derrate alimentari. 

Bell’affare per noi, non certamente per gli africani che ci vendono il “coccobello” sulle nostre spiagge. 

Non basta di certo la carità di alcune ONG per sanare questa forma di neocolonialismo monetario, che azzera le possibilità di sviluppo dei paesi dell’Africa francofona.




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I materiali che seguono furono segnalati da Dragomir Kovačević e commentati da Jasna Tkalec una decina di anni fa. Sono rimasti nel nostro archivio da allora, in attesa di una occasione propizia per adattarli e farli circolare: ci riusciamo solo adesso, grazie alla cura di Andrea Degobbis. Diventano così, tra l\'altro, un omaggio alla stessa Jasna, recentemente scomparsa, grande conoscitrice e appassionata della storia dell\'antifascismo internazionale.

L\'articolo di Milo Petrović appariva sulla rivista Vreme nel 70° anniversario dell\'inizio della Guerra Civile spagnola, contestualmente alla inaugurazione a Belgrado della mostra \"Omaggio ai brigatisti jugoslavi\", il cui catalogo fu poi pubblicato:

Homenaje a los brigadistas yugoslavos
Museo de historia de Yugoslavia, Belgrado 2006 (ISBN 86-84811-07-0)
https://www.cnj.it/documentazione/bibliosfrj.htm#brigadistas

Sullo stesso tema si vedano anche:

Marijan Kubik: La guerra di Spagna e gli Jugoslavi
https://www.cnj.it/PARTIGIANI/yugo_french.htm#spagna

Iniziativa a Belgrado il 14/9/2006 di reduci e discendenti dei combattenti jugoslavi della guerra civile spagnola  

Segnaliamo infine:

El defensa yugoslavo que dio su vida por la República (MIGUEL ÁNGEL LARA, 31/03/2017)
... En el cielo de Madrid acabó la vida de un joven de poco más de 26 años que llegó a España para defender a la República y en cuyo pasado el fútbol había tenido tanto peso como su militancia en el Partido Comunista. El nombre de Bosko Petrovic forma parte de la historia de la selección yugoslava de fútbol...


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ORIG.: Španija u srcu (VREME 819, 14. septembar 2006.)
Sve te strašne senke imaju svoja imena u sećanju, imena sazdana od vatre i lojalnosti, imena čista, obična, stara i uzvišena, poput imena soli i vode... Da, kako izabrati samo jedno ime, među tolikim ućutkanim...
http://www.vreme.com/cms/view.php?id=464964


LA SPAGNA NEL CUORE


Milo Petrović

vicepresidente dell\'Associazione dei combattenti di Spagna 1936-39 e amici.

Vreme, 14 settembre 2006


Tutte queste ombre terrificanti hanno i propri nomi nella memoria

nomi costruiti con fuoco e lealtà, nomi puliti, semplici, vecchi e sublimi, come le parole sole e acqua...

Sì, come sceglierne uno soltanto tra così tanti silenziosi


Sono trascorsi settant\'anni dall\'inizio della guerra civile spagnola, evento che più che simbolicamente annunciò la Seconda guerra mondiale. Infatti solo sei mesi dopo il crollo della Repubblica spagnola, il secondo grande conflitto del XX secolo diventava una spaventosa realtà.

La Seconda repubblica, costituita il 14 aprile 1931, rappresentava un notevole tentativo modernizzatore. Allo stesso tempo faceva acuire il conflitto tra le forze modernizzatrici e quelle che vedevano la grandezza della Spagna nel passato. La nuova costituzione, chiave di base per cambiare le arcaiche strutture sociali, provocò la resistenza delle forze che si sentivano minacciate, sia che si trattasse dei grandi proprietari, che delle gerarchie ecclesiastiche e militari. Dall\'altra parte, il proletariato urbano e contadino impoverito voleva molto di più e più in fretta, cosa che lo portò, assieme alle sue organizzazioni politiche e sindacali, in confronto diretto sia con gli avversari di classe che le autorità. Nel paese cresceva la tensione, e sempre più era difficile controllare le parti in conflitto.

C\'era la speranza che le elezioni del 18 febbraio 1936, vinte dal Fronte Popolare – composto da partiti repubblicani, socialisti, regionalisti e comunisti e sostenuta da partiti anarchici – avrebbe stabilizzato la situazione politica nel paese. Invece fu l\'inizio di un nuovo acuirsi dei contrasti e di nuovi scontri. Una parte del comando militare voleva intervenire immediatamente, ma Francisco Franco credeva bisognasse aspettare un\'opportunità più favorevole. Il governo reagiva lentamente e non riusciva ad imporre l\'autorità necessaria nemmeno al proprio eterogeneo corpo elettorale. Partirono le aggressioni e provocazioni capeggiate dalle forze fasciste e dall\'ultra destra, ma militanti della sinistra radicale non rimasero a guardare. Gli scontri culminarono con gli assassini del tenente lealista Del Castillo il 12 luglio, e come risposta, il giorno dopo, del dirigente della destra monarchista Calvo Sotelo.

Il 18 luglio i generali Mola, Sanjurjo e Franco si sollevarono contro il governo legittimo. Malgrado i successi iniziali nelle province settentrionali, in Galizia, in zone della Navarra e Castiglia, e la conquista di centri importanti come Saragozza e Siviglia, i golpisti non riuscirono nel loro intento fondamentale: la conquista a sorpresa di Madrid e Barcellona. Nelle città più grandi si formarono milizie popolari che, con armi prelevate dai depositi militari, attaccarono e occuparono fortificazioni militari e caserme, schiacciando i focolai dei ribelli. I queli però ebbero dalla loro parte unità legionarie e marocchine leali a Franco, trasportate dal Marocco su aerei tedeschi e italiani. L\'Italia fascista e la Germania nazista mandarono ai golpisti armamento pesante, carri armati e aviazione. In questa maniera la guerra civile spagnola acquistò un carattere internazionale.


La Comunità delle Nazioni

Purtroppo, prima la Gran Bretagna, poi la Francia, imposero, attraverso la Comunità delle Nazioni, una politica di non ingerenza nel conflitto “interno” della Spagna, conflitto nel quale le autorità legittime vennero equiparate ai golpisti, e pertanto impossibilitate ad aquisire armamenti per la propria legittima difesa. Solo l\'Unione Sovietica e il Messico sarebbero stati dalla parte della Repubblica, e le armi sovietiche avrebbero contribuito al temporaneo equilibrio militare.

Dalla parte di Franco combatterono anche le forze di Hitler e quelle, molto numerose, di Mussolini, nel quadro del cosiddetto corpo volontario. Vi parteciparono anche i “volontari” portoghesi, reclutati dal regime di Salazar, e un numero trascurabile di volontari internazionali. Dalla parte della Repubblica combatterono 35-40 mila volontari da più di cinquanta paesi di tutti i continenti, dei quali 1700 della ex-Jugoslavia (1). I volontari jugoslavi erano composti da combattenti di varie convinzioni politiche e ideologiche, dal centro borghese alla sinistra radicale – lo stesso pluralismo del contesto repubblicano spagnolo – ma una cosa avevano in comune: la volontà di difendere con prontezza, convinzione, e con le proprie vite, la repubblica spagnola dal pericolo fascista che si sporgeva sull\'Europa.

Non ci fu altro avvenimento che abbia scosso e mobilizzato il pubblico mondiale come lo fece la guerra civile spagnola. A ciò ha contribuito il sostegno alla Repubblica da parte di grandi nomi della cultura spagnola e mondiale: Garcia Lorca, Neruda, Ernandes, Macado, Alberti, Picasso, Buñuel, Sernuda, Felipe, Vallejo, Malro, Hemingway, Eluard, Aragon, e molti altri che misero il loro talento al servizio della difesa dei valori repubblicani. Ciò non fu però abbastanza per sconfiggere la rivolta della quale Franco, dopo la morte di Sanjurjo e Mola, divenne il capo indiscusso. Non fu abbastanza perché i paesi occidentali, temendo il rafforzamento delle forze di sinistra – alcune delle quali sostenevano apertamente la rivoluzione sociale – si sforzavano di evitare lo scontro con le forze dell\'Asse, le quali, già nel novembre del 1936, riconobbero il governo di Franco con sede a Burgos, e continuarono a sostenere i ribelli in uomini ed armi. Con ciò la situazione sul campo iniziò a muoversi a loro favore.


Concessione invano

Dopo il fallimento dell\'ultimo tentativo della Repubblica di sfondare sull\'Ebro e capovolgere le sorti della guerra, il governo di Juan Negrino, il 21 settembre 1938, decise, in conformità con la richiesta della Comunità delle Nazioni, di ritirare le brigate internazionali dalla guerra. Fu ciò un disperato tentativo di eliminare l\'ultimo pretesto che la Germania e l\'Italia avevano per appoggiare i ribelli. Naturalmente le potenze fasciste non rispettarono questa richiesta, mentre l\'Unione Sovietica, messa di fronte alla questione della sicurezza propria, abbandonò la repubblica al proprio destino. La Repubblica fu sconfitta militarmente; mezzo milione di persone cercarono salvezza in esilio; la repressione franchista piombò imperterrita su tutti i sopravvissuti, nemici veri o immaginari, senza che i paesi occidentali e l\'URSS evitassero il confronto armato con il nazifascismo. Inoltre, dopo la vittoria su Hitler e Mussolini, gli Alleati “dimenticarono” la Spagna e i combattenti della Repubblica e il loro contributo ai movimenti di resistenza europei, permettendo così a Franco di governare la Spagna con pugno di ferro fino alla morte, ovvero per quasi 40 anni.

Il grande maestro della lingua spagnola, Pablo Neruda, spinto appunto da questo sentimento di solidarietà, pubblicò nel 1937 “La Spagna nel cuore”. Identificandosi con la sofferenza e dolore del popolo spagnolo, Neruda, ad un incontro di solidarietà a Parigi, menzionò il suo amico Garcia Lorca, una delle prime vittime dell\'imminente terrore:


Come osare evidenziare un solo nome in questa enorme giungla riempita dalle nostre vittime. Come i poveri contadini andalusi uccisi dai loro vecchi nemici, così i minatori delle Asturie, i falegnami, muratori, braccianti cittadini e contadini, come qualsiasi delle migliaia di donne uccise e bambini smembrati, ognuna di queste ombre ardenti ha diritto ad apparire dinanzi a voi come un testimone di questa grande terra dannata, e di loro c\'è posto, credo, nei vostri cuori, se sono puri da inguistizia e male. Tutte queste ombre terrificanti hanno i propri nomi nella memoria, nomi costruiti con fuoco e lealtà, nomi puliti, semplici, vecchi e sublimi, come le parole sole e acqua... Sì, come sceglierne uno soltanto tra così tanti silenziosi? Ma il nome che pronuncerò dinanzi a voi ha dietro ai suoi contorni oscuri una tale ricchezza mortale, tanto è pesante e fradicio di significato che, quando lo si pronuncia, si pronunciano i nomi di tutti i caduti, difendendo la stessa materia delle sue poesie, perché lui fu un sonoro difensore del cuore della Spagna. Federico Garcia Lorca! Fu prediletto come la chitarra, gioioso, melancolico, profondo e chiaro come un bambino, come il popolo


Solidarietà

La solidarietà che la Spagna ed il mondo conobbero, vista dalla prospettiva odierna, sembra quasi impensabile. Ciò che attirò verso la Spgna nel 1936 la risvegliata gioventù mondiale furono conoscenza, coscienza, sentimento, illusione che in Spagna si difendeva non solo la volontà democratica del popolo spagnolo, bensì che si testava la possibilità d\'instaurare un mondo nuovo, migliore e più giusto, fondato sui princìpi della libertà, uguaglianza e fratellanza. Arrivando in Spagna, nei loro cuori bruciava una potente speranza che la vittoria sul fascismo avrebbe consolidato e sviluppato quel mondo, in Spagna come nei propri paesi d\'origine.

Se non abbiamo questo in mente, non saremo in grado di pensare e spiegare l\'impiegabile determinazione e volontà di decine di migliaia di persone, dalle più diverse e più distanti aree del pianeta, della più diversa estrazione sociale, interessi, professione e livello di educazione, di arrivare in Spagna andando intorno a numerosi ostacoli nei propri paesi d\'origine e in tutti i paesi di transito.

L\'esempio jugoslavo in questo senso è molto eloquente. I lavoratori di vari settori, in particolare i minatori, e poi studenti (addirittura alunni) contadini, funzionari di vario rango, farmacisti, ingegneri, marinai, soldati (incluso aviatori), letteralmente da tutte le parti della ex-Jugoslavia – dalla Slovenia alla Macedonia – partivano per difendere la libertà aggredita. Ma gli jugoslavi non solo partivano dalla Jugoslavia stessa. Molti furono quelli che arrivavano in Spagna da paesi terzi, in cui lavoravano, studiavano, vivevano: dall\'Italia, Austria, Belgio, Francia, Svizzera, Polonia, Cecoslovacchia, Unione Sovietica, Canada, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Uruguay, Messico, Panama, Grecia, Bulgaria, Albania, Turchia, Algeria ed Iran. Le autorità dell\'allora Jugoslavia facevano di tutto per impedire la partenza dei volontari in Spagna.

Chi invitò, mobilizzò e organizzò questi volontari? Le forze politiche che fecero di più per spingere l\'arruolamento dei volontari e il loro trasporto in Spagna furono indubbiamente il Comintern, il quale già nell\'autunno del 1936 trasmise un invito ai volontari di partire per la Spagna; e i vari partiti comunisti, a quel tempo le forze più organizzate della sinistra mondiale. Il trasferimento ebbe luogo principalmente attraverso Parigi, dove esisteva un punto di accoglienza e trasferimento organizzato. I volontari transitavano ad ogni modo anche per altri canali, ed è indubbio che ci fu chi arrivò in Spagna in precedenza all\'appello del Comintern, e che si unì alle unità dell\'armata repubblicana e delle milizie popolari. Il governo della Repubblica decise di formare le brigate internazionali il 22 ottobre 1936.


Diversità

Sia tra gli jugoslavi, come tra i volontari di altri paesi, ci furono, accanto ai comunisti, persone di altro orientamento ideologico. Tra gli jugoslavi era caratteristica la presenza di sostenitori dell\'HSS di Stjepan Radić, nome portato da un\'unità jugoslava (2). Il punto di riferimento comune dei volontari era l\'antifascismo, non il comunismo. La metà vi rimase in Spagna. Perivano sui campi di battaglia attorno Madrid, difesa letteralmente con i propri corpi, sulla Jarama, a Guadalajara, a Brunete, Teruel, Belchite, Ebro. Con la morte divennero cittadini spagnoli e in Spagna trovarono la destinazione finale. I loro pochi compagni sopravvissuti avrebbero ricevuto questo diritto, promesso loro dalla Repubblica, solo 60 anni più tardi, con la decisione unanime del parlamento spagnolo di insignire della cittadinanza tutti i combattenti delle brigate internazionali.

A seguito della sconfitta della Repubblica e la ritirata oltre i Pirenei, gli jugoslavi superstiti, assieme ai compagni di altri paesi, passarono per i campi di concentramento e carceri francesi, parteciparono alla resistenza in Francia e altrove, mentre una parte riuscì a ritornare in Jugoslavia, le cui autorità facevano di tutto per impedirne il ritorno, rendendosi direttamente responsabili del prolugamento della prigionia nei campi. In tutto ne ritornarono 350, di cui 250 parteciparono alla Guerra di liberazione popolare. Arricchiti dell\'esperienza spagnola, diedero un grande contributo alla liberazione del proprio paese. Metà perse la vita sui campi di battaglia jugoslavi, molti ricevettero il titolo di eroi popolari, e tutti e quattro i comandanti delle quattro armate dell\'Esercito Popolare di Liberazione – durante le ultime fasi della liberazione della Jugoslavia – erano reduci di Spagna: Koča Popović, Peko Dapčević, Kosta Nađ e Petar Drapšin.

Quando si fa un bilancio del contributo dei volontari internazionali alla difesa della Spagna, bisogna considerare due aspetti: la prima è che essi non poterono essere il fattore decisivo, per il fatto che il loro numero non ammontò mai a più di circa quindicimila, anche se in alcuni momenti e in alcune battaglie, come la difesa di Madrid, giocarono un ruolo notevole; la seconda è che il loro contributo fu molto più importante sul piano morale e politico, perché con il loro esempio dimostrarono al popolo spagnolo e a tutto il mondo come e perché era necessario lottare contro il fascismo.

Delle genti di quell\'epoca scriveva anche Octavio Paz: “Mi ricordo che in Spagna, durante la guerra, scoprì un \'uomo diverso\' e un altro tipo di solitudine... Non c\'è dubbio che la vicinanza della morte e la fratellanza delle armi producono, in tutte le epoche e in tutti i popoli, un\'atmosfera nella quale l\'eccezionalità è propria, tutto ciò che supera il destino umano e interrompe il circolo della solitudine che circonda ogni essere umano. Ma su questi visi – visi ottusi e testardi, crudi e ruvidi, simili a quelli che, senza ritocchi e praticamente senza crudele realismo, ci ha lasciato la pittura spagnola – fu qualcosa come una disperata speranza, qualcosa di assai concreto e allo stesso tempo assai universale. Non ho mai più rivisto simili visi.


(APPENDICE I)
Note e commenti di Jasna Tkalec

(1) Dei circa 40 mila, la metà furono i caduti, dispersi o feriti. Gli italiani furono 4 mila. Altri 5 mila combatterono nell\'esercito repubblicano regolare, mentre 20 mila fecero parte dei servizi sanitari e ausiliari.
(2) Secondo Zorica Stipetić, nota professoressa universitaria della storia contemporanea, non ci fu un\'unità dal nome di Stjepan Radić, anche se non è da escludere del tutto. Fra i rimpatriati, affermò la dottoressa, solo tre furono di provenienza non comunista, del partito HSS appunto. Ma qui tre venivano sempre invitati dappertutto soprattutto in Croazia – dove si voleva essere magnanimi con quel partito, specie dopo l\'assassinio di Radić. L\'HSS fu successivamente guidato da Maček, una figura politica odiosa che firmò l\'altrettanto odioso patto di non-belligerenanza con i nazisti – il patto Cvetković-Maček, che provocò le dimostrazioni popolari dell\'8 marzo a Belgrado e il bombardamento del 6 aprile 1941.

Maček affermava sempre di non volere che il suo paese indossi \"la sanguinosa camicia spagnola\", facendo arrestare chi era coinvolto nel supporto logistico alla partenza dei volontari. Radić non apparteneva alla sinistra – nonostante la politica del Partito Comunista Jugoslavo durante la Guerra popolare di liberazione di attirare a sé l\'ala sinistra dell\'HSS – mentre una brigata dell\'Esercito Popolare di Liberazione prendeva, qui sì, il nome di Stjepan Radić.

Insomma, sostenere che in Spagna combatterono i nazionalisti croati è errato e offensivo. In Spagna erano andati i comunisti, organizzati dai comunisti. Molti finirono in carcere per aver organizzato queste spedizioni clandestine. I comunisti jugoslavi e croati non avevano come ideale alcun nazionalismo, né croato, né spagnolo, né russo – ma una lotta nobile quanto giusta, per la giustizia e la libertà. Il libro jugoslavo più bello e struggente dell\'esperienza spagnola è \"Memorie\" di Gojko Nikoliš, medico nonché ambasciatore jugoslavo in India e uomo di lettere.

Un mio zio, Rocco, è stato combattente in Spagna, e mia madre faceva parte delle operazioni di trasporto. Ho ereditato le lettere e gli oggetti fatti nel campo di concentramento di Gyrs, dove lo zio fu rinchiuso dal governo di Blum e Daladier. I reduci di Spagna furono rinchiusi nei campi per mesi, trattati in modo disumano e incivile. Dovevano scontare la colpa di aver combattuto per la libertà.

Sia la Repubblica spagnola che le Brigate internazionali non erano composte soltanto da comunisti, ma appunto da internazionalisti, e con i nazionalisti croati, serbi o montenegrini non avevano niente in comune. Inoltre, il fulcro e il cuore dell\'azione nonché della lotta armata era sostenuta in primo luogo dai comunisti e dagli antifascisti. I nazionalisti croati né di allora né di oggi con la guerra di Spagna, insomma, non avevano nulla a che vedere; semmai avevano legami stretti con Franco – dove si erano rifugiati gli scannatori ustascia al termine della Seconda guerra mondiale.

(A cura di Andrea Degobbis)


(APPENDICE II)

Dall\'ENCIKLOPEDIJA JUGOSLAVIJE 

(Jugoslavenska enciklopedija Leksikografskog Zavoda) del 1971, volume 8, p. 261


Da volontari jugoslavi e di altri paesi balcanici si era formata già nell\'ottobre del 1936 una “Unità balcanica\". Questa prese parte alla difesa di Madrid. I volontari provenienti da Trieste, dal Litorale sloveno e dall\'Istria entravano nella composizione della XII brigata italiana Garibaldi. \"Unità balcanica\" divenne Battaglione Đuro Đaković (dal nome del segretario del Partito Comunista Jugoslavo ucciso dai gendarmi dalla polizia jugo-monarchica qualche anno prima).

Questa unità entrò a far parte del Battaglione Capajev nella XIII brigata polacca Dombrovski.

Molti jugoslavi si trovarono a combattere nella brigata anglo-americana Lincoln, dove con volontari cecoslovacchi, bulgari e altri componevano il battaglione Dimitrov. Di quest\'ultimo fece parte anche l\'Unità Matija Gubec dello Zagorje.

La XV brigata fu comandata da uno dei dirigenti del Comitato centrale del Partito Comunista Jugoslavo, Vladimir Ćopić. Questa brigata prese parte alla grande battaglia sulla Jarma nel febbraio del 1937, a sud di Madrid. Prese parte nell\'autunno del 1937 alle operazioni presso Quinto e Belchite.

Le brigate XIII e XV presero parte all\'operazione del luglio 1937 a Brunete (a ovest di Madrid). In questa operazione cadde il commissario politico della brigata, Blagoje Paravić, uno dei membri del politburo del CC del PC jugoslavo

Nel corso delle battaglie sul fiume Ebro, all\'inizio del 1938, i superstiti dei battaglioni Dimitrov e Đuro Đaković formarono la CXXIX Brigata Internazionale, il cui comandante fu lo jugoslavo Aleksej Demetrijevski-Bauman. Questa brigata prese parte anche alle battaglie difensive nel settore Levante (sud-est dell\'Ebro).

Come la guerra volgeva verso la fine, venne costituito, da combattenti già smobilitati, il Battaglione Balcanico, sotto il comando di Kosta Nađ. Quel battaglione aveva sostenuto gli ultimi scontri armati coprendo la ritirata dell\'esercito repubblicano oltre i Pirenei.

(traduzione Jasna Tkalec)


(APPENDICE III)

L\'ADDIO di Dolores Ibarruri (La Pasionaria) a Barcellona il 28 ottobre 1938


[L\'originale a latere di: Španija u srcu, VREME 819, 14. septembar 2006.,
http://www.vreme.com/cms/view.php?id=464964 ]


“La sensazione di tristezza e dolore
infinito ci stringono la gola...

Tristezza per quelli che se ne vanno, per i soldati del maggiore ideale della salvezza umana, per gli espulsi dalla propria patria, per i perseguitati dai tiranni.

Il dolore è enorme per quelli che rimangono per sempre nella nostra terra...

I Jarama, i Guadalajara, i Brunete, i Belchite, i Levante, gli Ebro cantano con versi immortali il coraggio, l\'abnegazione, l\'eroismo e la disciplina di tutti i combattenti delle brigate internazionali.

Per la prima volta nella storia dei popoli si registra l\'opera grandiosa di creare le brigate internazionali per salvare la libertà e l\'indipendenza di un paese minacciato, la nostra Spagna.

Comunisti, socialisti, anarchici, repubblicani, uomini di colore e ideologie diverse, di religioni diverse, persone che sinceramente amano la libertà e giustizia, sono venuti con disinteresse ad aiutarci.

Ci hanno dato tutto: la propria giovinezza e la propria maturità, il proprio sapere e la propria esperienza, il proprio sangue e la propria vita, le proprie speranze e i propri desideri... E non ci hanno chiesto niente. O meglio, hanno chiesto, hanno chiesto un posto nella lotta, volevano avere l\'onore di morire per la nostra causa...

E quando i rametti sbocciati della pace s\'intrecceranno nella corona di vittoria della Repubblica spagnola, ritornate a noi! Ritornate tra noi. Qui troverete la patria tutti voi che non ce l\'avete, troverete amici tutti voi privati dell\'amicizia, tutti voi troverete l\'amore e la gratitudine dell\'intero popolo spagnolo che oggi e domani entusiasticamente esulterà: Evviva gli eroi delle brigate internazionali!

(Traduzione Jasna Tkalec)




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(hrvatskosrpski / italiano)

Jasna Tkalec

1) Con Jasna parliamo di politica (A. Martocchia)
2) U spomen na drugaricu Jasnu Tkalec / In memoriam di Jasna Tkalec, 1941-2017 (M. Jakopović)


=== 1 ===

Con Jasna parliamo di politica

Con la morte di Jasna Tkalec, esattamente un mese fa, se ne è andato un pezzo di noi. La nostra storia comune e il nostro sentimento sono tali che eventuali condoglianze sarebbero forse dovute a noi tanto quanto al figlio Luka e al marito Braco.
Avevamo incontrato Jasna la prima volta a Verona attorno al 1992, in occasione di una iniziativa pubblica organizzata dall\'associazionismo pacifista (forse era AssoPace, oppure l\'ICS, o tutt\'e due insieme) sulla guerra in Jugoslavia appena scoppiata. Il nostro attuale presidente Ivan si recò lì in giornata, da Roma, interessato a sentire come avrebbero trattato una questione sulla quale erano già evidenti stonature se non pesanti cedimenti da parte della intellettualità di sinistra, stonature e cedimenti che hanno di fatto portato negli anni alla dissoluzione di quel pacifismo e sono stati premessa della partecipazione attiva dell\'Italia alla guerra per la distruzione di quel paese. 
Jasna parlò assai bene, da croata fieramente antifascista e perciò perseguitata nella sua repubblica secessionista, da jugoslava coerente e non pentita, da comunista. Il nostro Ivan intervenne: \"Questo è il giusto approccio se si vuole parlare della Jugoslavia!\". Così iniziò una frequentazione, ed i rapporti si strinsero e si consolidarono nei mesi e negli anni drammatici a venire. Tra i momenti topici fu la partecipazione di Jasna, nel 1993 a Roma, al Meeting Internazionale per la Pace e la Solidarietà tra i popoli, organizzato all\'ex Mattatoio di Testaccio, per un dibattito cui furono invitati anche altri esponenti della vera sinistra jugoslava – Mirjana Jakelić e Stevan Mirković, che presenziarono, nonché Mira Marković, leader della JUL, la quale non poté esserci ma inviò un messaggio di saluto. 
Jasna era all\'epoca in Italia già da un paio d\'anni, esule a seguito di una condanna comminata dal regime tudjmaniano: tre mesi di carcere per reati di opinione connessi alla sua attività giornalistica. Su quel periodo di esilio lei avrebbe avuto occasione di riflettere e di raccontarci meglio negli anni successivi, testimoniando della disgregazione della sinistra marxista italiana. Si chiedeva in particolare quali chances potesse avere un movimento comunista un tempo forte e glorioso, come quello italiano, ridotto al velleitarismo, che andava cioè perdendo i mezzi materiali e le strutture concrete indispensabili per incidere nella società. \"Come è possibile che giornali e riviste mi richiedano articoli e li pubblichino, ma nessuno dei compagni sia in grado di propormi soluzioni reddituali e abitative per la mia vita concreta, di esule politica?\".
Solo la collaborazione con la rivista Balcanica diretta da Antonio Jerkov, diffusa in ambienti diplomatici e tra gli interessati alla politica estera, garantì a Jasna un introito certo per il periodo del suo esilio e successivamente, per alcuni anni dopo il suo rientro in Croazia. Dopo la fine delle pubblicazioni (2000) e poi con la morte di Jerkov (2003: https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/2864 ) ebbe inizio per Jasna Tkalec un diverso e non meno difficile \"esilio\", un esilio al contrario: estranea ai circoli intellettuali, giornalistici e politici egemoni, con le difficoltà economiche tipiche dei milioni di jugoslavi che con la fine del loro paese avevano perso proprio tutto, nella sua pur sempre affascinante casa zagabrese, immersa nei libri, Jasna visse un declino anche fisico, che poteva parere quasi psicosomatico.
A mantenerla attiva – anche come giornalista, nonostante la progressiva perdita dell\'uso di una mano – e coinvolta negli avvenimenti del mondo fu in particolare la conoscenza e la collaborazione con giovani attivisti delle diverse repubbliche jugoslave ex-federate e italiani, curiosi di (ri)scoprire con lei e attraverso di lei la storia del movimento operaio e anticapitalista internazionale. Tra quei giovani cresceva lo stesso figlio Luka, vera figura di intellettuale transfrontaliero, che diventava nel frattempo un apprezzato docente di filofosia marxista. Jasna ebbe così occasione di raccontare ma anche ulteriormente approfondire ciò che da sempre le interessava, scrivendo saggi appassionati che comparivano non solo in internet – particolarmente con la nostra newsletter JUGOINFO, anche in lingua italiana – ma pure su carta, sulle pagine della giovane rivista Novi Plamen. Jasna era una grandissima lettrice (non si perdeva mai un best seller di valore), era una specialista della letteratura russa e sovietica, una conoscitrice raffinata delle vicende storiche dei movimenti rivoluzionari – dalla Rivoluzione d\'Ottobre alla Guerra di Spagna –, una internazionalista convinta e una donna con una solida preparazione teorica. Era per di più una persona cordiale e sempre disponibile – un vero tesoro, insomma, per dei giovani disorientati, \"orfani\" politici ma idealisti e assetati di sapere.

La nostalgia struggente che tormentava Jasna, sorprendentemente, non era tanto quella per il suo paese devastato e deriso dall\'imperialismo; era piuttosto la nostalgia di certe appassionanti frequentazioni di gioventù: soprattutto la sinistra italiana degli anni Sessanta-Ottanta, e poi i movimenti di liberazione di tutto il mondo, i circoli neo-marxisti in cui si erano tentate nuove elaborazioni teoriche... Purtroppo, tanto quella romantica \"nuova sinistra\" quanto la sinistra storica avevano smesso di esistere ed anzi con i loro rimasugli eravamo profondamente arrabbiati. Ciò che sopravviveva di quei fermenti era il vezzo della dissidenza cronica, il volersi tenere fuori dalla militanza politica organizzata quasi per principio; e questo snobismo continua ad affliggerci tutti, da entrambi i lati dell\'Adriatico.

Jasna capirebbe e, dolce com\'era, sarebbe indulgente per il fatto che, dopo la sua morte, restiamo quelli che eravamo, continuiamo con le attività intraprese, abusiamo persino della sua stessa memoria per sviluppare le nostre riflessioni. Così la onoriamo: occasioni di rito, ricorrenze, per ricordare Jasna Tkalec ce ne saranno e ne troveremo ancora, ma per adesso Jasna è tra di noi e con lei parliamo di politica, come abbiamo fatto sempre.

Andrea Martocchia (segretario, Jugocoord Onlus)
14 settembre 2017


Il ricordo apparso su \"Il Manifesto\" del 17 agosto 2017: 

Il necrologio congiunto, nostro e del SRP, sul Večernji List del 22 agosto 2017: 

I testi di Jasna Tkalec su JUGOINFO: 


=== 2 ===


In memoriam: Jasna Tkalec, 1941-2017

17/08/2017

Duboko ožalošćeni javljamo svim našim prijateljima/prijateljicama i drugovima/drugaricama da nas je u 77-oj godini života zauvijek napustila drugarica Jasna Tkalec, koja je bila među najaktivnijim suradnicima i autorima Novog Plamena. Veoma će nam nedostajati njezine produbljene analize bitnih pitanja našega vremena, njezin vispreni stil pisanja, njezin žar u borbi za naprednije sutra. Bili smo počašćeni što smo je poznavali i što je svojim iskustvom, znanjem i dobrotom učinila naš svijet boljim. Hvala ti, draga Jasna!

Filip Erceg

Mladen Jakopović

Goran Marković

Ivica Mladenović


U spomen na drugaricu Jasnu Tkalec

Jasna Tkalec, draga drugarica i hrabra i neponovljiva revolucionarno-demokratska socijalistička spisateljica i intelektualka, preminula je jučer u 77-oj godini.

Rođena je 1941. u Zagrebu. Njen otac bio je Zvonko Tkalec, koji je pripadao staroj predratnoj generaciji jugoslavenskih revolucionara i partizanskom pokretu. On je bio jedan od najznačajnijih prevoditelja radova Marxa i Engelsa na hrvatski/srpski jezik. Bio je zatvoren i mučen u Staroj Gradiški, koncentracionom logoru koji su vodili ustaše za vrijeme marionetske nacističke NDH.

Jasna Tkalec završila je studij romanistike i klasične filologije na Filozofskom fakultetu u Zagrebu, te je daljnje studije pohađala na Univerzitetu u Firenci. Radila je kao profesor na XVI. gimnaziji u Zagrebu (1966-74.) i kao lektor na Univerzitetu u Trstu. Bila je Sekretar Odbora za kulturu Socijalističkog Saveza RH od 1976. 1984. je kao stipendistica Instituta Gramsci boravila u Rimu, a 1986-1987. je radila u Parizu, prevodeći knjige s područja političke teorije i umjetnosti. Objavljivala je članke o raznim područjima društvene teorije (pogotovo o Gramsciju i feminizmu) u nekim od vodećih jugoslavenskih časopisa uključujući Naše temeŽenaDometiDeloKulturni radnikPitanja i Oko.

Nakon raspada Jugoslavije radila je kao slobodna novinarka za Novi forumNokatHrvatsku ljevicuNovosti, te za talijanske socijalističke listove il Manifesto, Liberazione i Avvenimenti. Ranih devedesetih je bila osuđena na tri mjeseca zatvora zbog svoje radikalne kritike novog ultradesničarskog nacionalističkog režima u Hrvatskoj. Od 1991. do 1993. je živjela u Bologni i Rimu, gdje je bila stalni suradnik časopisa Balcanica.

Godine 2015. objavila je, u izdanju novosadske izdavačke kuće Mediterran, zbirku eseja “Fantom slobode” u kojoj je razotkrila brutalnost i autoritarnost kapitalističkog i imperijalističkog poretka koji se maskira kao demokratski. Ovoj crnoj stvarnosti suprotstavila je dosljedno antiratnu, demokratsku socijalističku politiku i široku humanističku kulturu.

Prvi puta sam sreo Jasnu kao sedamnaestogodišnjak, kada sam počeo surađivati s časopisom Hrvatska ljevica, čiji je bila član redakcije. Osnivač i glavni urednik tog časopisa bio je Stipe Šuvar, koji je pokušao utabati puteve za novu, autentično-demokratsku socijalističku politiku. Njeni tekstovi i naši brojni razgovori tijekom ovog i narednog perioda iznimno su me obogatili. Jasna je također, od početka, bila jedan od najznačajnijih autora i član redakcije (a kasnije i užeg uredništva) Novog Plamena, lijevog časopisa za politiku i kulturu čiji sam bio pokretač i suurednik od 2007. do kraja njegovog izlaženja (kao štampanog izdanja) 2015. Plamen je od početka bio koncipiran kao okupljalište demokratskih i humanističkih lijevih snaga iz svih zemalja bivše Jugoslavije. Jasnini tekstovi znatno su doprinijeli ostvarenju takve koncepcije časopisa. I nakon prestanka izlaženja Plamena u štampanom obliku, marljivo je nastavila surađivati sa online časopisom Novi Plamen.

Jasna je bila izuzetni polihistor i veoma nadarena spisateljica. Nadam se da će njeni briljantni eseji, koji su prosvjetljujući i visoke književne vrijednosti, biti duboko cijenjeni od strane budućih generacija lijevih intelektualaca i ostalih naprednih ljudi na području bivše Jugoslavije i šire. Njena humanistička vizija socijalizma reflektirala je njenu humanu, dobrodušnu, velikodušnu i kooperativnu narav. Izgubili smo blistavu i neponovljivu osobu. Njen prometejski duh će, međutim, preživjeti u njenim svijetlim esejima i u ljudima čiju je svijest obogatila i revolucionirala.

Mladen Jakopović


--- TRAD.:


In memoriam di Jasna Tkalec (1941-2017) 

È morta la compagna Jasna Tkalec, militante socialista, scrittrice e intellettuale jugoslava.

 di Daniel Jakopovich
 
 26/08/2017

Jasna Tkalec, una celebre compagna e una coraggiosa scrittrice e intellettuale socialista democratica e rivoluzionaria è morta il 16 agosto.

Nata nel 1941 a Zagabria, in Croazia, suo padre era Zvonko Tkalec, appartenente alla vecchia generazione di rivoluzionari jugoslavi antecedente alla seconda guerra mondiale e protagonisti del movimento partigiano durante il conflitto. Il padre fu uno dei traduttori più importanti di Marx e Engels dal tedesco nella lingua serbo-croata, e fu imprigionato e torturato nel campo di concentramento di Nova Gradiška, gestito dagli ustasci [fascisti, ndt] dello stato fantoccio nazista croato.

Jasna ha studiato letteratura e filologia classica presso l\'Università di Zagabria e ha intrapreso ulteriori studi presso l\'Università di Firenze. Ha insegnato al XVI Ginnasio a Zagabria alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta e dal 1976 fu segretario generale del Comitato Culturale dell’Unione Socialista dei Lavoratori della Croazia (una delle principali istituzioni politiche ufficiali dell\'ex Jugoslavia, accanto alla Lega dei Comunisti). Nel 1984 ha risieduto a Roma con uno stipendio dell\'Istituto Gramsci. A metà degli anni ottanta ha vissuto a Parigi dove ha tradotto libri sulla teoria politica e l\'arte. Ha pubblicato articoli sulla teoria sociale (in particolare su Gramsci e sul femminismo) in molte delle principali riviste marxiste jugoslave, tra cui Naše temeŽenaDometiDeloKulturni radnikPitanja e Oko.

Dopo il crollo della Jugoslavia, ha lavorato come giornalista freelance per Novi forumNokatHrvatska ljevicaNovosti, e per le riviste e i giornali italiani quali il ManifestoLiberazione e Avvenimenti. Nei primi anni novanta fu condannata a tre mesi di carcere per la sua critica radicale al nuovo regime nazionalista di destra in Croazia. Dal 1991 al 1993 vive a Bologna e Roma, dove ha collaborato anche con la rivista Balcanica. Nel 2015 pubblica una raccolta di saggi Il fantasma della libertà, in cui ha svelato la brutalità e l\'autoritarismo dell\'ordine capitalista e imperialista che si maschera sotto forma di democrazia. A questa vergognosa realtà ha sempre contrapposto una costante politica pacifista di stampo socialista e democratico e un\'ampia cultura umanistica.

Ho incontrato Jasna quando avevo 17 anni, quando ho iniziato a collaborare con il mensile socialista Hrvatska ljevica, di cui Jasna era redattrice (e nel cui consiglio di redazione sarei entrato anch’io l’anno successivo). Il fondatore ed editore del giornale era il professor Stipe Šuvar, ex vicepresidente della Jugoslavia che, a differenza dei suoi colleghi, si rifiutò sempre di ritirarsi a vita privata o di unirsi alle forze politiche centriste dopo la rottura della Jugoslavia, cercando invece di lanciare un percorso per nuove politiche socialiste, rivoluzionarie e democratiche. Gli scritti di Jasna e le nostre molte conversazioni durante questo e il periodo successivo furono immensamente arricchenti. Jasna è stata anche, sin dall\'inizio, nel consiglio di redazione di Novi Plamen, una rivista di sinistra dedicata alla politica e alla cultura che ho fondato e co-pubblicato dal 2007 al 2015 (quando cessò come giornale stampato ma continua come rivista online). Plamen era sin dall\'inizio concepito come un luogo di riunione per le forze democratiche e umanistiche di sinistra da tutti i paesi dell’ex Jugoslavia e Jasna ha continuato a contribuirvi con diligenza anche nell\'edizione online.

Jasna era una scrittrice immensamente erudita e polivalente. I suoi saggi brillanti, illuminanti e di grande valore letterario, saranno profondamente apprezzati dalle prossime generazioni di intellettuali di sinistra e dai progressisti sul territorio dell’ex Jugoslavia e oltre. La sua visione umanistica del socialismo rifletteva il suo carattere umano, grazioso, generoso e cooperativo. Abbiamo perso una persona splendida e singolare. Il suo spirito prometeico, tuttavia, sopravviverà nei suoi saggi luminosi e nelle persone la cui coscienza ha arricchito e rivoluzionato.

26/08/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte. 




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Le ONG umanitarie (1). Il complesso industriale dei diritti umani

MARIA GRAZIA BRUZZONE   @MAR__BRU
07/05/2017

Non sappiamo se vi sia stata o meno collusione con scafisti o trafficanti di profughi da parte di qualche Ong. Scoprilo e sanzionarlp spetterà alla magistratura e soprattutto alla politica, magari con l’aiuto dell’intelligence e di Frontex – dai quali sembrano provenire le intercettazioni di cui si parla. 
 

 
Frontex già a fine 2016 aveva segnalato preoccupazioni su alcune Ong ( quidal FT e qui), dopo che il sito GEFIRA aveva monitorato ivimenti di navi di Ong umanitarie che si avvicinavano molto alle coste libiche e sgnalato contatti sospetti cona terraferma (qui il post e video).  
Se l\'operazione Mare Nostrum fosse continuata, estesa ad altri Stati europei, invece di delegare compiti forse eccessivi a Ong, senza regole certe né finanziamenti trasparenti, tanti problemi si sarebbero potuti evitare. Ma si sa, su immigrazione e rifugiati l\'UE è assente. 
 

  

Qui tuttavia vogliamo solo tentare di far luce in generale sulle Ong umanitarie, quanto meno le più importanti, che negli anni hanno acquisito un nuovo ruolo di prolungamento delle politiche delle democrazie occidentali: sorta di PR, casse di risonanza, con l’aiuto dei media,  delle narrazioni che ne supportano la geopolitica e  sempre più legate ad istituzioni e governi - in testa quello americano - da loro finanziate insieme a privati e filantropi apparentemente disinteressati.  
Parte integrante del cosiddetto Soft power Smart power.  

  

Un intreccio dove un posto non di poco rilievo gioca il controverso finanziere George Soros con la sua Open Society Foundations , campione della Società Aperta globalizzata, che di Ong ne finanzia a centinaia e il cui interesse anche nella politica globale di migranti e rifugiati è lui stesso a spiegare come vedremo in un post successivo.  
L’incontro recente fra Soros e il presidente del Consiglio Gentiloni a palazzo Chigi, non sappiamo chiesto da l’uno o dall’altro, potrebbe costituire una ulteriore conferma.  

  

Di tutto questo si parla assai poco nel circuito mediatico mainstream.  
“La narrazione culturale classica appare del tutto innocente: miliardari caritatevoli, politici illuminati, società transnazionali, istituzioni pubbliche insieme a legioni di volontari lavorano insieme in nome della giustizia sociale per forgiare un mondo migliore,  aiutando i diseredati, difendendo i diritti umani contro genocidi e crimini contro l’umanità”.  
Una retorica cara specialmente alla sinistra democratica che ad un esame più approfondito presenta varie falle .  

  

Lo scriveva qualche mese fa un post intitolato Smart power & The Human Rights Industrial Complex,   allusione al cosiddetto complesso militar-industriale a cui finiscono per far gioco - consapevolmente o meno – tante Ong, a partire da alcune delle più note come Amnesty International e Human Wight Watch (HRW), dove i conflitti di interesse e intrecci finanziari e politici appaiono palesi.  
 E lo  testimoniava anche un post francese che già nel 2010 prendeva di mira tre Ong (di nuovo AmnestyHRW più FIDH- International Federation for Human Rights) in relazione agli interventi di Parigi in Mali, in un post intitolato Guerre de l’information. Au dessous del ONG, une vérité cachée.  

  

L’autore del primo post è Patrick Henningsen, scrittore e giornalista investigativo, fondatore  di 21st Century Wire -  sito associato all’alternativo Inforwars , scrive il Guardian,  e collaboratore di Russia Today   (il post è stato comunque rilanciato da un sito britannico e da Global Research).  

  

LA MUTAZIONE NEL XXI SECOLO  
“Sebbene tutte le Ong umanitarie si presentino come neutrali e non partigiane, la realtà è spesso diversa …. 
“Un aspetto difficile nell’analizzarle è che nella maggior parte di esse lavorano individui ottimi, ben educati, grandi lavoratori, molti dei quali sono spinti da vero altruismo e dalle migliori intenzioni. Per lo più sono inconsapevoli o disinteressati a chi finanzia le loro organizzazioni e cosa significhino tali legami finanziari per quanto concerne aspetti geopolitici o conflitti militari.” 

  

“E’ certo vero che negli anni campagne sincere e dedicate hanno aiutato a liberare individui ingiustamente imprigionati e ottenuto processi e giustizia. Come è vero che molte organizzazioni hanno contribuito a prendere coscienza su molti importanti temi sociali e ambientali”. 

  

Ma “a causa dell’accresciuto finanziamento da parte di interessi corporatee a legami diretti con governi e think tanks politici negli anni recenti queste organizzazioni sono diventate sempre più politicizzate e più strettamente connesse agli ‘agenti di influenza’ occidentali.   Col risultato che queste organizzazioni per i ‘diritti umani’ rischiano di contribuire ai problemi che credono di voler eliminare, attraverso la loro spesso involontaria ‘complicità’ nel sostenere obiettivi di politica estera di Washington, Londra, Parigi e Bruxelles” .“Il problema è sistemico e istituzionale”.  

  

“Quello che nel XX secolo era una sorta di appendice di un emergente movimento progressista internazionale si è rapidamente espanso nel XXI secolo come un ‘terzo settore’ internazionalizzato multi-miliardario supportato da alcune delle corporations transnazionali leader nel mondo. Un impressionante labirinto, guidato da organizzazioni come Amnesty,   e HRW.  Ciascuna di queste organizzazioni ha legami diretti con governi centrali e, forse più sorprendentemente, collegamenti che conducono al cuore del [cosiddetto]complesso militar-industriale. Di qui l\'espressione \"Complesso industriale dei diritti umani\".  
Fa eco il post francese citato: “Infiltrate da rappresentanti governativi, prendendo parte a certi conflitti e ignorandone altri: in filigrana si disegnano i c ontorni di una strategia che è il riflesso della politica dei dipartimenti di affari esteri. Certi governi, come quello degli Stati Uniti del resto non si nascondono questa strumentalizzazione delle Ong ‘non governative’. L’ex segretario di Stato Colin Powell in un discorso indirizzato alle Ong all’inizio dell’Operazione Enduring Freedom  (l’invasione dell’Afghanistan) nell’ottobre 2001, anno cruciale,  dichiarava: ‘Le Ong sono un moltiplicatore di forza per noi, una parte estremamente importante della nostra squadra combattente’ ” .  

  

Una dichiarazione, quella di Powell,   che si può accostare a quella, molto citata dai siti alternativi, dell’ex comandate Nato Gen. Wesley Clark che sei anni dopo, in un discorso pubblico, citava una conversazione al Pentagono proprio del 2001 e un memo del Segretario alla Difesa secondo il quale nei successivi 5 anni gli Usa avrebbero attaccato e distrutto i governi di 7 paesi : Iraq, poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan, Iran. En passant sia il Generale Clark che Soros figurano nel board of trustees dell’ International Crisis Group
 

  

ESEMPI di allineamento .  
Il post francese punta il dito su report di Amnesty e HRW che hanno denunciato uccisioni e nefandezze da parte di truppe del Mali, di fatto accusando anche gli alleati  Francesi di quelle milizie, con lo scopo di allontanarli da quel territori, si affermava, per lasciare campo libero a interventi di altri (leggi US/Nato). 

 
Nel 2012  il \'caso Kony\'.  Da un video presto virale negli Usa che accusava Joseph Kony, leader della Lords Resistance Army prende il via una campagna mediatica sulla necessità di un intervento occidentale per salvare bambini africani in pericolo. A promuovere la campagna è la Ong Invisible Children,che raccoglie finanziamenti anche nelle scuole. Kony in realtà non lo si vedeva in giro da anni. Ma Obama ha la scusa per dispiegare militari in Uganda ed espandere l’Africom.  
Sempre nel 2012 è Amnesty a lanciare la campagna Diritti umani per le donne in Afghanistan dove è in corso l’intervento  Usa /Nato. “ Keep the progress going”,   è lo slogan che accompagna immagini di donne in burqa azzurro. E’ la prima ‘guerra femminista’, ma nessuno scandalo fanno le 9000 vittime, molte civili (poi cresciute di numero).  
Nel 2011 un report su soldati Libici ‘drogati dal Viagra’ che violentavano le donne – rivelatosi fake – sembra validare la propaganda sulle ‘atrocità delle milizie di Gheddafi contribuendo a sollecitare l’intervento ‘umanitario’ Nato in Libia . La richiesta della no fly zone permette di bombardare l’esercito libico e far fuori il raiss.  


 
Report dimostratisi fake ce ne erano già stati in Iraq - militari di Saddam avrebbero rubato incubatrici dal Kuwait lasciando morire neonati, testimonianza di un dottore della Mezzaluna Rossa ‘verificata’ da  Amnesty; l’uranio yellow cake arrivato in Iraq per sviluppare le armi di distruzione di massa. E in Siria: il rapimento di un giornalista NBC da parte dei miliziani pro-Assad, liberato dai ‘moderati’ del Free Syrian Army;  le ‘barrel bombs’ sganciate a Kobane, col direttore di HRW Ken Roth che ha twittat immagini in realtà riferite a Gaza.  Tutti falsi.  
 L’attacco al sarin di Damasco nel 2013 venne attribuito anche quello ad Assad, come riferito da HRW alla CBS. Accuse in seguito contestato da molte fonti autorevoli che hanno  invece accsato i ‘ribelli’.  Il sarin - l’avrebbe loro fornito la stessa Hillary Clinton allora titolare degli Esteri per incastrare Assad, ha scritto il giornalista premio Pulitzer Seymour Hersch in un post tradotto da vocidall\'estero. Probabili fake anche i video impressionanti e le foto prese altrove.  

  

La Siria dove la guerra perdura  è una miniera di report,  e di fake. 
Il ‘caso Caesar’, esploso due giorni prima dell’inizio di colloqui di pace in Svizzera, dal nome in codice di un presunto fotografo siriano che avrebbe documentato con 55.000 foto torture ed esecuzioni su scala industriale di detenuti da parte di Assad. ‘Verificate’ da HRW, metà si rivelano foto di soldati morti sul campo. Dubbi sulle altre, c’era di mezzo la CIA.  
Il report di Amnesty sulle atrocità compiute dalle milizie governative, con accuse di violazione della legge internazionale sui diritti umani e crimini contro l’umanità . Un post documentatissimo di Tim Hayward, docente all’università di Edimburgo e direttore di Ethic Forum e Just  World Institute fa le bucce ai metodi adottati da Amnesty , che non soddisfano i loro stessi criteri. 
 

 
Il medesimo autore in un altro post punta il dito su Médicins Sans Frontièresche in un report   ha accusato il solito Assad di aver bombardato ospedali e civili. In realtà MSF non era sul campo – si trovava fra i ribelli da loro protetta – e si è basata sulla testimonianza dei White Helmets.  
 Gli stessi Caschi Bianchi sono la fonte della notizia del recente attacco chimico (al sarin? al cloro?) ad Idlib. News divulgata per primo dal Syrian Observatory on Human Rights  e poi da tutti i media, compresi i nostri, a base di foto e video fake  ad opera dei White Helmets, come  confermano medici di una Ong svedese.  

  

Del resto le principali Ong umanitarie, che già nei \'90 avevano appogiato la partizione dell\'ex Jugoslavia, sostengono apertamente il regime change in Siria come in Libia, Ucraina e Yemen. In Siria presentando subito il conflitto come ‘guerra civile’, Ong umanitarie e media hanno fatto la loro parte nel divulgare un’importante narrazione della politica estera occidentale che ha impedito di conoscere la realtà, molto più complessa, e le complicità di Usa, Turchia e alleati.  

  

FINANZIAMENTI  
Follow the money, scrive Henningsen, secondo il quale molte di queste entità ricevono grandi quantità di finanziamenti dalle stesse fonti, corporations transnazionali.  Quali? Un elenco dettagliato dei donatori in realtà non esiste,  e il finanziamento delle varie ONG è da sempre opaco, come denuncia anche il post francese.  Vale anche per le maggiori, Amnesty Intl , HRW e la stessa FIDH, la più antica. Malgrado la loro fama e i riconoscimenti da parte di ONU, Unesco, Europa. E vale anche per Médécins Sans Frontières,  Save the Children ecc. 
 

  

Fra i privati ai nostri post non  resta che segnalare il ruolo di finanziatore di George Soros. Sia Amnesty Intl sia HRW hanno ricevuto ciascuna  $100 milioni, riferiscono i due post pur . L\'impegno di Soros a versarli a HRW  è del 2010 ( vedi anche qui)
 

  

Il molto discusso finanziere di origine ungherese, che nel 1992 atterò sterlina e lira con le sue speculazioni causando perdite ingenti ai due governi, e in Francia è stato addirittura processato per insider trading ai danni di SociétéGénerale, è molto più di un semplice donatore. Attraverso la sua Open Society Foundations sostiene una rete di centinaia di ONG che operano negli Usa e in tutto il mondo coprendo un enorme spettro di attività e obiettivi spesso apertamente politici.   Lo vedremo più avanti.  

  

Più trasparenti, abbiamo verificato, sono i finanziamenti pubblici alle organizzazioni umanitarie, monitorati da Globan Humanitarian Assistance – GHA che pubblica ogni anno un rapporto. Ma complessivo, senza citare alcuna Ong in particolare.  

  

Dal rapporto del 2015 si apprende che l’assistenza umanitaria nel mondo nel 2014  ha potuto usufruire di ben $24.5 miliardi, in crescita sull’anno precedente. Il 2013 è stato un anno di grandi trasferimenti di persone da Medio Oriente e Africa (12.3 milioni di profughi dal M.O., più degli 11.8 mil dal Sud Sahara), a ciò viene attribuita la crescita altissima di donazioni da parte di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti -UAE, diventati il 6° e il 15° donatore (+219% e + 317% rispettivamente. Che è una notizia.  

  

Chissà se il recente protagonismo dell’Arabia Saudita è da mettere in relazione con la sua elezione nel prestigioso Human Rights Council  dell’ONU (UNHRC), attraverso una negoziazione col Regno Unito, entrato nell’organismo internazionale insieme all’Arabia che poi ne ha addirittura conquistato la presidenza. Con un passaggio di soldi e favori fra i due Stati, ha raccontato il Guardian che parlava anche di una donazione araba di $1 milione all’UNHRC.  Molto recentemente l’Arabia Saudita, dove alle donne velatissime è persino vietato guidare l’auto, è diventata membro anche della Commissione ONU per i Diritti delle Donne, suscitando ovunque ilarità e sdegno.  

  

Nella mappa interattiva  del GHA con i contributi di tutti gli stati e dell’UE,svettano gli Usa, con $6 miliardi. Molto staccati gli europei, a parte GB ($2,3mld) che versa quanto le istituzioni UE e Germania ($1.2mld). Seguono i paesi nordici. L’Italia con i suoi miseri $378 milioni, è quasi alla pari dell’UAE , ma la Francia è a quota $472 mil, la Spagna si ferma a $220 mil. 
 
Si precisa inoltre che di tali finanziamenti, soltanto lo 0,2% va a finire a Ong locali e il 3.1% a governi di stati ‘bisognosi’.  
Il rapporto poi, pur molto ampio, si riferisce soltanto a finanziamenti pubblici in generale, non alle istituzioni di ciascun paese.   

  

La FIDH per esempio, la più antica Ong internazionale che difende tutti i diritti, umani, civili, politici, economici, sociali, culturali e tiene insieme qualcosa come 178 organizzazioni di 120 paesi, riceve fondi dal Dipartimento di Stato Usa attraverso il NED – National Endowment for Democracy, organizzazione bipartisan nata nel 1983 per ‘promuovere la democrazia nel mondo’ finanziata dal Congresso.   

 
Quanto a Médécins Sans Frontières, secondo un rapporto del GHA citato nel 2010 da Libération intitolato “Finanziamenti privati: una tendenza emergente negli aiuti umanitari, quell\'anno figurava al secondo posto delle più importanti Ong umanitarie in termini finanziari, con $1 miliardo di donazioni   ricevute. Fondi che superavano quelli degli aiuti del Regno Unito. In generale i finanziamenti privati erano saliti dal 17% nel 2006 al 32% nel 2010 ma per MSF rappresentavano il 90%. Chi fossero i donatori non viene detto. 
 

 
Recentemente, riferisce nel 2016 Le Monde MSF ha rifiutato €62 milioni da parte di istituzioni e paesi UE perché non condivideva la linea che si oppone all’accoglienza dei profughi. Cruciale è stato l’accordo con la Turchia, fortemente criticato dalla Ong francese. Nel 2015 aveva ricevuto 19 milioni  dalle istituzioni UE e 37 milioni da undici stati dell’Unione, più 6.8 milioni dal governo Norvegese.  MSF rifiuta anche quelli per il suo lavoro con Frontex . 
 
MSF figura nella lista ufficiale dell\'OSF delle Ong \'partners\' della Open Society Institute  di George Soros.  Non è specificato quali partners ricevano anche finanziamenti. 
 

E PORTE GIREVOLI.  
“Non è un segreto che ve ne siano fra il Dipartimento di Stato e molte delle le principali Ong occidentali per i diritti umani” scrive Henningsen.  

  

Il caso più clamoroso è quello di Suzanne Nossel, una delle sostenitrici delle cause umanitarie di più alto profilo a Washington, transitata direttamente nel 2012 dal posto di vice Segretario per le Organizzazioni internazionali al Dipartimento di Stato, assistente personale di Hillary Clinton ministra degli Esteri,  alla poltrona di direttore esecutivo di Amnesty Intl -Usa. Già capo operativo di HRW, vice presidente per la strategia e le operazioni al Wall Street Journal e consulente per la comunicazione e i media per McKinsey & Co, membro e finanziatore del Council of Foreign Relations, di cui Nossel è senior fellow. Con la Clinton Nossel era responsabile per i diritti umani multilaterali (qui la sua bio), vicina ai ‘falchi’ Samantha Power e Susan Rice e al meno noto Atrocity Prevention Board, comitato inter-agenzie che comprende anche funzionari dell’intelligence.  

  

“Nossel  è stata un elemento chiave, rappresentando un ponte per aiutare a progettare  a livello internazionale la comunicazione politica americana attraverso la Ong Amnesty” .  A lei si deve l’invenzione dell’espressione “ Soft Power”-  il modo ‘dolce’ di imporre il potere contrapposto alla modalità ‘hard’, militare –   cavallo di battaglia  della presidenza Obama.   ‘Washington deve offrire una leadership assertiva – diplomatica, economica e non ultima, militare – per portare avanti uno spettro di obiettivi: autodeterminazione, diritti umani, libero mercato, legalità, sviluppo economico e l’eliminazione di dittatori e armi di distruzione di massa’, ha scritto Nossel  a proposito dei compiti dei politici progressisti nel XXI secolo.  

  

Dopo Amnesty Nossel è diventata ed è tuttora direttore esecutivo del PENAmerica Center, la storica, influente associazione di scrittori e editori con diramazioni internazionali in 101 paesi. Scrittrice e blogger lei stessa, continua il suo attivismo per i diritti umani, sostenendo boicottaggi ad es dell’Iran o contro la partecipazione ai Giochi Europei, ‘consigliando’ agli Stati di fare altrettanto ( qui una bio di Nosselqui un post sul doppio standardadottato) 
 

  

Alle porte girevoli fra governo Usa e Human Wright Watch è dedicato un intero post di Countepunch (2014) in forma di lettera aperta al direttore Ken Roth (quello delle foto fake in Siria prese da Gaza, vedi sopra).  Per esempio Miguel Diaz, ex analista CIA cooptato nel board dei consulenti, poi tornato al Dipartimento di Stato come interlocutore fra intelligence ed esperti non governativi. Simile il percorso di Tom Malinowski, già direttore di HRW- Washington. E che dire di Mr Steinberg, passato da HRW alla poltrona di assistente di Samatha Power, ambasciatrice Usa all’ONU e noto falco .  Sono solo alcuni casi, scrive Counterpunch, che racconta varie prese di posizione contraddittorie della ong, per es. sulle renditions – detenzioni lunghe senza processo sotto Obama sulle quali HRW ha taciuto dopo aver denunciato quelle di Bush.  O le denunce contro Cuba e il Venezuela, ma non delle atrocità ad Haiti dopo il colpo di stato promosso dagli Usa.  

  

Notevoli anche   gli intrecci politici di AVAAZ, Ong internazionale fondata nel 2007 da ResPublica Move.on (l’Ong di azione politica online degli attivisti Dem che riceverebbe fondi direttamente da Soros) sotto l’ombrello dell’ OSF del magnate, i cui fondatori hanno avuto tutti relazioni con ONU e Banca Mondiale, scrive Henningsen.   AVAAZ, che vanta 7 milioni di membri nel mondo e nel 2009 ha dichiarato di ricevere solo microdonazioni da simpatizzanti, opera con la società di PR Purpose , orientata al business; insieme usano i social media per campagne politiche ‘dal basso’ che preparano il terreno per programmi del FMI o della Nato, come sanzioni o interventi militari (vedi anche qui un post italiano). 
 
AVAAZ - secondo GEFIRA - avrebbe donato $500.000 al MOAS - Migrants Offshore Aid Station, l\'Ong maltese fondata nel 2014 dalla coppia italo-americana Catrambone ale centro delle polemiche di oggi sui salvataggi di migranti dalla Libia. 
 

  

A ricevere sostegno sostanziale dal Foreign Office britannico, oltre che fondi dalla UE , è il discusso SOHR – Syrian Observatory for Human Rights, distintosi nel fornire spesso informazioni ai media sulle presunte atrocità commesse dall’esercito regolare siriano (vedi sopra : era anche la fonte delle notizie sull’ultimo attacco chimico a Idlib.) Nata nel 2006, SOHR in realtà fa capo a un unico individuo, un siriano dissidente  di nome Osama Ali Suleiman ma noto come Rahmi Abdul Rahman che vive a Londra in un mini-appartamento di Covent Garden. 


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Le ONG umanitarie (2). La rete di George Soros

MARIA GRAZIA BRUZZONE      @MAR__BRU
07/05/2017

Il molto discusso magnate, filantropo investitore di origine ungherese, che nel 1992 atterò sterlina e lira con le sue speculazioni, poco amato in Francia dove è stato processato per insider trading ai danni di Société Génerale, è molto più di un semplice donatore di ONG e promotore dei diritti umani ( qui il Soros benefattore raccontato da lui stesso). 
 
Attraverso la sua Open Society Foundation sostiene una rete di centinaia di Ong che operano coprendo un enorme spettro di attività e con obiettivi spesso apertamente politici negli Usa e nel mondo. E collegamenti con i media .  
Proprio per questi motivi di lui e delle sue Ong si finisce per sapere di più, per via dei molti leaks, ultimi i DCLeaks, oltre che attraverso la stessa OSF e il suo braccio europeo, l\' Open Society Policy Institute.   
 
E’ un labirinto dove non è facile districarsi.  

  

LA RETE USA. Un post di Discover The Networksapparentemente del 2011, pubblica un nutritissimo elenco delle Ong finanziate direttamente dalla OSF di Soros e in coda un gruppo più limitato che ricevono soldi da alcune delle prime.  Leggendo le brevi spiegazioni accluse a ogni titolo, par di capire che si tratta di Ong che operano fondamentalmente negli Usa.  
Da un post 2011 (linkato), di sorosfiles.com (sito di due documentatissimi attivisti diventati anti-Soros) si arriva a un elenco più limitato delle prime 150 Ong, con  indicate anche le somme versate a ciascuna, ma solo dal 2005 al 2009.    

  

Scorrendo le liste salta agli occhi come tali Ong portino avanti tutti i temi di punta dei Democratici e/o sottendono fette di elettorato tradizionalmente Dem: anti-militarismo, contro la tortura, il razzismo e in generale contro l’agenda conservatrice; a favore di Palestinesi e Castro, pro-latinos, pro-musulmani,  e pro  immigrati e loro diritti; più, ovviamente, clima, ambiente, lavoro, diritti delle donne e LGBT, sanità, educazione, riforma della legge sulla droga - questa al secondo posto nei finanziamenti. Al primo posto una Ong sui media, con  $15 mil ricevuti 2005-09.   Tutti temi in sé cari ai sinceri democratici e progressisti, americani e non solo, per lo più fatti propri  dai media mainstream. Schierati – come Soros- contro gli argomenti nazionalisti, anti immigrati e anti musulmani della destra di Trump.  

  

Soros filantropo ‘di sinistra’ disinteressato?   Vediamo.  
Un altro post di sorosfiles non solo conferma quel che appare intuitivo: che il miliardario con la sua fondazione – oltre a finanziare direttamente il partito dell’Asinello, che figura nella lista - è diventato una potente macchina di creazione del consenso a favore dei Democratici . 
 

  

Ma il post va oltre e spiega gli strettissimi legami, politici ed economici fra il finanziere e Obama (non personali, riteniamo). Racconta come da documenti erariali del 2010 Soros avrebbe (noi usiamo il condizionale) espanso il suo impero negli Usa usufruendo di fondi della legge che varava aiuti all’economia nota come ‘Obama stimulus’.    

  

La OSF insomma – sintetizziamo - usava i beneficiari delle sue Ong per fare lobbying e acquisire contratti pubblici legati alla formazione, la green economy ecc. . Portando avanti i temi Dem e conquistando elettori al partito mentre allargava la propria influenza, guadagnandoci pure sopra.  

  

Che Soros abbia sostenuto fortemente Hillary Clinton alle ultime elezioni è del resto noto. D’altra parte sul fronte opposto, quello della destra repubblicana di Donald Trump, con il sostegno di altri miliardari come i fratelli Koch e i Mercer e di think tanks conservatori, si è dato vita a una rete non così fitta ma aggressiva e alla fine vincente, come si è visto ( qui e qui Underblog).  

  

La RETE ESTERA. Già nella lista citata spuntavano alcune Ong attive fuori dagli Usa: il ministero dell’Educazione della Liberia, l’Università Europea di San Pietroburgo, la Baltic American Partnershipche gode anche di finanziamenti dell’USAID, braccio semipubblico della CIA nel mondo . E l’International Crisis Group, citato sopra, che ha come scopo \"la ricerca e il sostegno nelle crisi e nei conflitti armati\", si legge enigmaticamente in un\'altra lista, questa ufficiale dell\'Open Society Institute a proposito delle partnership dell\'organizzazione. 
 

 
Numerosissimi i partners citati, dalla Banca Mondiale a WHO, UNICEF, UNESCO, OSCE, UE, Consiglio d\'Europa; e organizzazioni governative, governi, fondazioni private americane ed europee, istituzioni educative e università (fra queste Columbia, Oxford, Cambridge, Ottawa, Maastricht University). 
 
Tra le Ong partner figurano anche HRW, Médécins sans Frontières, il sito di analisi politica Project SyndicateRefugee International, per \"l\'assistenza e la protezione dei rifugiati\"; le branches locali di Transparency International contro la corruzione, e Policy Association on Open Society per \"promuovere la democraziona nell\'Est Europa e ex Urss\".  Esempi dall\'elenco di per sè parziale, ammette  la fonte. 
 

  

Nutrito l’elenco delle Ong finanziate dall’OSF fino al 2014 emerso dai DCLeaks nel 2016, a cui rimandiamo.  The Saker (sito vicino alla Russia) che ne pubblica una parte ne sintetizza gli obiettivi attraverso le parole chiave: diritti umani, delle donne e LGTB, notizie alternative (pur avendo ottimi rapporti con i media mainstream, osserva il post), uguaglianza di genere, minoranze, democrazia. E immigrazione. \"In pratica cercano di influenzare gruppi di sinistra, governi femministe, migranti, gypsies, giornalisti nonché partiti nuovi (citati il M5S, Podemos e Syriza - ?!?). Deprecano la destra, il fascismo, la Russia, l’Ungheria di Orban, qualsiasi cosa resista all’UE\".  The Saker elenca anche varie tecniche di influenza.   

  

Nell’elenco molte Ong che operano in Europa, specie nell’Europa dell’Est, prima la Polonia,  e una dozzina  specificamente ‘Europee’, più Transparency Intl- Liaison Office to UEYoung European Federalists, e Alter EU, presente nei 28 paesi UE,  per conquistare alle idee a ai valori di OSF i candidati all’Europarlamento.  

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http://contropiano.org/news/internazionale-news/2017/09/04/polonia-pretese-storiche-questioni-attuali-095283

Polonia: pretese “storiche” su questioni attuali


di Fabrizio Poggi, 4 settembre 2017

Il governo polacco stanzierà 30 milioni di euro per la costruzione di una barriera di 730 km, al confine con l’Ucraina, che impedisca l’accesso a cinghiali e maiali selvatici portatori della peste suina, il cui virus è stato riscontrato in una decina di aree ucraine. 

Forse anche per far fronte alla spesa, Varsavia sta sempre più insistentemente sollevando la questione delle “riparazioni di guerra” con Germania e Russia. Quest’ultima, dicono a Varsavia, quale “erede legale della Russia sovietica”, è addirittura chiamata a pagare i 30 milioni di rubli in oro che la Russia di Lenin avrebbe dovuto versare alla Polonia in base all’accordo di pace di Riga, sottoscritto nel 1921 alla fine della guerra russo-polacca. A Mosca si dice che le chances polacche di vedere quella somma sono pari a zero.

Per quanto riguarda la Germania, il Bundestag ha ribadito che non esistono basi giuridiche perché la Polonia possa pretendere le riparazioni per la Seconda guerra mondiale. Deutsche Welle scrive che in fase di messa a punto dell’accordo del 1990, la Polonia, “con tacita rinuncia, non aveva presentato richieste di riparazioni”: pertanto, le rivendicazioni polacche avevano perso forza giuridica, al più tardi, al momento della firma di quell’accordo. Oltre alla scadenza dei termini per la presentazione di richieste, nota DW, il Bundestag ribadisce la posizione del governo tedesco del 1999, in cui si parla di “perdita di territori e proprietà”, “termine superiore ai 50 anni dalla fine della guerra” e “Accordo 2+4”, in riferimento all’accordo sulla “Risoluzione definitiva della questione tedesca”, firmato tra RFT e RDT da un lato e Francia, Gran Bretagna, URSS e USA dall’altro e in cui si parlava anche delle questioni territoriali tedesco-polacche. Berlino respinge anche eventuali pretese avanzate da privati cittadini polacchi. 

Da diverse parti si nota come, se Varsavia non riconosce oggi gli accordi sottoscritti nel 1953 tra RDT e Repubblica Popolare di Polonia e non si riconosce dunque erede di quest’ultima, ciò equivale a mettere in dubbio anche le proprie attuali frontiere, con i territori ex tedeschi acquisiti alla fine della guerra, in particolare, gran parte dell’ex Prussia orientale. In effetti, Varsavia non è disposta a rinunciare a quanto acquisito a ovest e a nord, a spese della Germania, grazie agli accordi di Jalta e di Potsdam, ma non nasconde affatto le proprie pretese su quanto “perduto” a sudest, coi territori occupati nel 1921 proprio grazie all’accordo capestro di Riga e tornati all’Ucraina nel 1939. Sembra addirsi alla Polonia odierna, osserva Balalaika24.ru, la definizione datale a suo tempo da Winston Churchill, quale “iena d’Europa”, in riferimento ai suoi tentativi di strappare pezzi di territori vicini.

Per quanto riguarda le “riparazioni” russe, a Varsavia si sostiene che “anche i russi portano la responsabilità di quanto hanno fatto in Polonia” e, vaneggiando sulla grandezza polacca, si blatera sui trilioni di zloty spesi per la ricostruzione al termine della Seconda guerra mondiale: “immaginate che avremmo potuto spendere quei soldi per lo sviluppo del paese e non per la sua ricostruzione. La Polonia sarebbe oggi due volte più potente, noi guadagneremmo due volte tanto, come in Occidente”. Poveri polacchi!

Da Mosca, il responsabile per le questioni giuridiche con la UE, Aleksandr Treščëv, ha dichiarato che, in base a “varie risoluzioni ONU e al diritto internazionale, è semmai la Russia che potrebbe pretendere riparazioni dalla Polonia per quanto fatto a vantaggio di questa nell’ultima guerra: per far questo, non sono ancora scaduti i termini, mentre dalla pace di Riga sono trascorsi quasi cento anni”. Il vicepresidente della Commissione esteri del Senato, Vladimir Džabarov, ironizza che, seguendo la logica polacca, Mosca potrebbe pretendere riparazioni dalla Polonia per l’invasione del 1612 e dalla Francia per il 1812. “Queste dichiarazioni sono solo sciocchezze” ha detto Džabarov; “Sembra che l’attuale governo polacco non abbia prospettive, sia troppo nazionalista e non capace di compromessi. Lo hanno già capito in Europa e cominciano a preoccuparsi di Varsavia”.

A questo proposito, tutti i media internazionali sottolineano il recente battibecco tra Emmanuel Macron, che ha parlato degli “errori commessi dal governo polacco” – sulla questione del rifiuto di accettare le “quote” migratorie – e la premier polacca Beata Szydło, che ha consigliato a Macron “di pensare agli affari del suo paese” e lo ha accusato di “arroganza” e di cercare di “eliminare uno dei pilastri della UE”, dopo che il presidente francese aveva dichiarato che “la Polonia non decide oggi il futuro dell’Europa e non lo deciderà nemmeno in seguito”. Ovviamente, nota Politkus.ru, Bruxelles non ha intenzione di entrare in aperto conflitto con Varsavia, quando sullo sfondo c’è un confronto geopolitico ben più importante con la Russia.

E, comunque, in qualunque direzione si manifestino, ovest, sudest o est, è chiaro che Varsavia, avanzando pretese di riparazioni o restituzioni, si sente ben spalleggiata da oltreoceano: per questo, la cosa riveste solo esteriormente un aspetto “storico” e maschera solo parzialmente l’attualità dei rapporti Washington-Berlino-Mosca, di cui Varsavia e Kiev non sono che un ingranaggio. 

La disputa “storica” va vanti infatti anche tra Varsavia e Kiev e i rapporti polacco-ucraini, nota Irina Simonenko su Balalaika24.ru, non stanno attraversando il momento migliore: sono tuttora aperte le questioni delle pretese di Varsavia sui territori dell’Ucraina occidentale, dell’idea polacca di raffigurare la cappella “Orlęta Lwowskieche” a L’vov sui nuovi passaporti, delle recriminazioni storiche intorno a UPA e Bandera. Va avanti da qualche anno la faccenda della “Reštitúcia Kresov”, con la preparazione delle cause giudiziarie di cittadini polacchi che pretendono di rientrare in possesso di proprietà in Galizia, Volinia e “Zakerzonie”.

Verso ovest, sia la questione migratoria (con le possibili sanzioni UE per il rifiuto polacco a rispettare le “quote”), sia quella del “North stream-2” e della bretella “Oral” (che collega il “North stream-1” ai sistemi di transito dell’Europa centrale e occidentale attraverso la Germania e alla cui realizzazione Varsavia si oppone, temendo la perdita dei diritti di transito sui gasdotti che attraversano l’Europa centrale) costituiscono gli elementi “nazionali” della disputa polacco-tedesca, all’interno, però, di un più ampio gioco internazionale, in cui la Polonia, spalleggiata dagli USA, mira a divenire il polo esteuropeo della NATO, contrapposto a quello occidentale franco-tedesco, non così ligio ai disegni yankee. Varsavia, nota il presidente della Commissione esteri del Senato russo, Konstantin Kosačev, si erge a leader del “nuovo Patto antikomintern”, cioè della dichiarazione congiunta uscita dalla recente riunione a Tallin tra i ministri di Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia, Croazia, Slovacchia, Ungheria e Rep. Ceca, sulla “Eredità criminale di comunismo e nazismo”. Ma lo fa, sostanzialmente, per mascherare con un sipario “ideologico” il fronte dei paesi che si oppongono alle “quote” migratorie della UE, su cui insistono i capofila Merkel e Macron.

La forma è dunque storica e si manifesta a uso interno in bordate a tribordo e a babordo. Così, se in Occidente si continua a tacere sul patto stretto nel 1934 tra Józef Piłsudski e Adolf Hitler, ecco che, ancora Balalaika24.ru, nota che, ai moderni polacchi, Varsavia evita di ricordare di come, durante l’occupazione, i nazisti premiassero i polacchi con 5 kg di zucchero per ogni ebreo denunciato e come i tedeschi rimanessero sempre a corto di zucchero; cerca di non ricordare come la cattolica Armia Krajowa e altre bande simili, in risposta, è vero, ai massacri OUN-UPA in Volinia, perpetrassero massacri di ebrei, ortodossi e uniati di Polonia e, se da una parte organizzavano qualche incursione antitedesca, dall’altra compivano stragi di militari sovietici, civili polacchi e lituani, milizia popolare polacca, anche a guerra finita. E Varsavia tace su come la popolazione tedesca di quei territori della Germania annessi alla Polonia dopo il 1945, sia stata in parte massacrata (quasi 2 milioni di persone) e in parte derubata e cacciata dalle proprie case.

Se questa è la “forma”, la sostanza è però molto attuale e va al di là del solo pubblico interno della Trzecia Rzeczpospolita Polska, passando per manie di grandezza, sponsorizzate da interessi geopolitici globali, a ovest della Granica na Odrze i Nysie Łużyckiej (la linea Oder-Neiße) e a est dei Księstwo di Włodzimierskie e Halickie (i principati di Volinia e di Galizia).

Manie, interne ed esterne, “vaneggianti delirio e oblio di mente ottenebrata e malvagità e lacrime e rabbia e sete di strage”, direbbe Ovidio.




(hrvatskosrpski / italiano)

80 anni dalla fondazione del PC di Croazia

1) Neće nas navući na fašizam – 80. obljetnica osnivanja KPH na Anindolu (Radio Samobor)
2) Govor Vladimir Kapuralina povodom obilježavanja 80-e godišnjice osnivanja KPH
3) Forum radnika SRP-a: Anindol 2017.
4) Se ne parla anche su VOCE JUGOSLAVA, la nostra trasmissione autogestita su Radio Città Aperta


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Neće nas navući na fašizam – 80. obljetnica osnivanja KPH na Anindolu


Anja Franić - Modrić, 9. Rujna 2017.

Udruga antifašističkih boraca i antifašista grada Samobora Svete Nedelje i Društvo “Tito” Samobora i Svete Nedelje danas su na Anindolu, ispred Spomen stećka, organizrali obilježavanje 80. godišnjice održavanja 1. Kongresa Komunističke partije Hrvatske. Naime, 1. kolovoza u Samoboru su se satali Josip Broz Tito i 16 njegovih drugova kako bi u tajnosti osnovali KPH.
Obilježavanje povijesnog događaja za većinu govornika bila je prilika osvrnuti se na aktualnu atmosferu u društvu i, kako je rečeno, pokušaje revizije povijesti u kojoj antifašistički pokret dobiva negativne konotacije.

Tako je predsjednik Saveza društava Josip Broz Tito – Hrvatska Jovan Vejnović prvo istaknuo da je socijalistički pokret na ovim prostorima nastao nakon 1. svjetskog rata kao odjek Oktobarske revolucije i velikih revolucionarnih gibanja na tlu Europe te da je na izborima u Kraljevini Jugoslaviji Komunistička partija bila treća politička snaga pa je potom zabranjena. Nakon pojave opasnosti od širenja fašizma i nacizma komunistički pokret dobiva novi zamah, a Josip Broz Tito po povratku iz Rusije 1930-tih godina odlučuje poraditi na stvaranju i oživljavanju partijskih organizacija širom Jugoslavije. Naime, kaže Vejnović, Tito je shvatio da s obzirom na odnose i činjenicu da je Jugoslavija višenacionalna država te da je za njenu uspješnost potrebno ostvariti ravnopravnost svih naroda, nužno i neophodno osnovati nacionalne komunističke partije. Rezultat toga je da je KP imala velik politički i društveni utjecaj i bez toga bi teško bilo stvoriti front protiv fašizma, kaže Vejnović.

– U današnjem kontekstu sve to se smatra komunističkim nametanjem, diktaturom, totalitarizmom. Zar bi nešto što je u osnovi totalitarno moglo imati tako široko rasprostranjen utjecaj, kao što se vidjelo 1941., među radnicima i masama ljudi u Jugoslaviji. Zar bi nešto što je sektaško moglo imati takvog uspjeha i polučiti takve rezultate. U današnjem politčkom kontestu sve ono što se događalo od ’41. do ’45. proglašava se borbom za vlast i komunističkim zločinima. A što je ta Partija i što su ti ljudi koji su na poziv Partije došli i pokrenuli slavnu narodnooslobodilačku borbu, poslije rata ostvarili? Zar je moguće da se na bazi totalitarizma i diktature razvije takav polet kao što je bio u obnovi razrušene zemlje, da se u zemlji koja je imala 80 posto nepismenih ona potpuno iskorijeni. Zar je moguće da se totalitarnim naziva razdoblje u kojem se ostvaruju najviše stope ekonomskog rasta, u kome je stvorena humanistička i tehnička inteligencija koja je bila u stanju da se ekonomski probije po čitavom svijetu, da se razvije država koja je prvi put u povijesti ovih prostora stavljena kao značajan faktor na političku mapu Europe. Oni koji govore o tome kao o totalitarizmu su fanatici čiji je fanatizam zasnovan ne na želji za revizijom povijesti, nego za potpunim krivotvorenjem povijesti i izbacivanjem svega što u toj povijesti vrijedi. Nije problem u tome što oni tako govore o prošlosti, problem je što oni nama za budućnost nude nešto što je civilizacijski bio najniži rang u ljudskom društvu, a to je fašizam. Što da im kažemo – nikad više! Neće nas na to navući – poručio je predsjednik Saveza društava Josip Broz Tito – Hrvatska Jovan Vejnović dodavši da je ipak siguran kako u ovoj državi postoje ljudi i snage koje su sposobne oduprijeti se tome.

Slično je rezonirao i Ivan Fumić u ime Saveza antifašističkih boraca i antifašista Republike Hrvatske:
– Skidanjem ploče maršala Tita svi su problemi u Hrvatskoj riješeni – sada će teći med i mlijeko, tvornice će se dizati, mladi će pohrliti izvana natrag, polja će sama rađati. Sada Hasanbegović spašava Hrvatsku, a njegov pokrovitelj biskup Košić nam toliko dobročinstva nudi da još samo nedostaje, kao neki prijašnji svećenici, da krsti i blagoslivlja noževe pa se možemo nanovno klati. Molim vas, nemojmo nikada biti malodušni! Nikada se nismo predavali, borba je neprestana, to je život. Jedina poruka svim ljevičarima je – nemojmo se dijeliti, ujedinimo snage jer da nije bilo ujedinjenih snaga ne bismo pobijedili u NOB-u – poručio je Fumić dodavši da ustaškom znamenju u Hrvatskoj nema mjesta.

U ime Radničke fronte okupljenima se obratio i Matija Đolo koji je objasnio da ne želi toliko govoriti o prošlosti KPH, koliko o očuvanju njihove baštine:
– Dva su ključna momenta zbog kojih današnje obilježavanje ne može ostati samo prigodničarsko: jedan je revizija prošlosti koja oslobodilačku, narodnu borbu nastoji prikazati kao protunarodnu, nametanje vlasti narodu. U to smo se mogli nedavno uvjeriti u Jastrebaskom gdje smo svjedočili izokretanju povijesti u kojoj je ustaški logor za djecu postao bolnica, a partizansko oslobođenje te djece prikazano je kao napad i otmica. Tom prilikom digli smo svoj glas protiv takvih laži, protiv prikazivanja ustaških izdajica i zločinaca kao nacionalnih heroja. Partizanski borci prikazani su kao borci za nepravdu, a borili su se jedino za pravdu. Ono čega se bojim je da ćemo i ubuduće morati dizati glas protiv takvih revizija.
Drugi momenat zbog kojeg su ovakva obilježavanja danas bitna i aktualna je društveni i ekonomski sistem u kojem danas živimo, odnosno preživljavamo. Nekadašnju solidarnost, sigurnost zaposlenja, besplatno i svima dostupno obrazovanje, besplatnu i jednako dostupnu zdravstvenu skrb, dostojne i sigurne mirovine, sve nekadašnje stečevine socijalističkog sustava, danas nažalost zamjenjuje nesputano tržište. Svakodnevno oko sebe vidimo primjere nečovječnosti koja nastaje kada se žrtvujemo kapitalu, tržišnoj učinkovitosti i profitu. Danas, da bi takav sustav usmjeren protiv većine naroda, a za korist jednoj manjini objesnijoj nego vlastela i plemići iz feudalizma, imao kakve nade održati se malo dulje, brišu se tragovi koji nas podsjećaju na drugačiji svijet. Zato je ove godine moralo biti uklonjeno ime maršala Tita sa zagrebačkog trga. Zato su 90-tih morali biti uništeni toliki spomenici NOB-u. Jer ne smijemo zaboraviti da borba koju je povela KP nije samo borba za oslobođenje od okupatora, bila je istovremeno i borba za oslobođenje radnika – rekao je Đolo te dodao da je potrebno baklju borbe prethodnika preuzeti i prenijeti dalje, a da je jedina budućnost demokratski socijalizam!

U ime Grada Samobora kao pokrovitelja svečanosti Vinko Kovačić je svima poželio dobrodošlicu:
– Mi u Gradu Samoboru s ponosom se prisjećamo današnjeg dana prije 80 godina gdje je grupa hrabrih ljudi na čelu s drugom Titom osnovala Komnunističku partiju Hrvatske. Sa ciljem borbe za bolje društvo, za ravnopravnost žena i da isprave sve nepravde – poručio je Kovačić te poželio da se dogodine svi nađu u još većem broju “kod Stećka” – rekao je Kovačić.
Prilikom govora predsjednik Foruma seniora SDP-a Dušana Plečaša moglo se čuti nezadovoljstvo činjenicom da na obilježavanje 80. obljetnice osnivanja KPH nije došao i predsjednik SDP-a Davor Bernardić, a Plečaš je okupljene podsjetio da je KPH u svom tadašnjem proglasu naglašavala kako se treba braniti interese radničke klase, ali i nacionalne slobode, ravnopravnosti i bratstva među narodima.

U ime SRP-a i Koordinacije radničkih komunističkih partija s područja bivše Jugoslavije Vladimir Kapuralin je naglasio da je Partija bila relativno mala politička organizacija u svojim početcima, ali da se kvalitetno organizirati i suočila s događajima koji su uslijedili pa ostvarila “pobjedu protiv okupatora, povrat okupiranih i oduzetih teritorija, reindustrijalizaciju i rekulturizaciju zemlje, uvođenje samoupravljanja kao izraza emancipatorskih težnji radnika i seljaka, osnivanje Pokreta nesvrstanih”. Ustvrdio je da su nekao tih postignuća epohalna, a da je jedan od najbitnijih fakrota za te uspjehe bilo jedinstvo Partije, kakvog danas na ljevici nedostaje.

Zvjezdana Lazar, koja je govorila u ime stranke Komunističke partije Hrvatske također je naglasila razjedinjenost ljevice kao jedan od problema, ali i istaknula važnost komunističkog pokreta.
– U teškoj borbi riskirali su vlastiti život za sve ono što nam je danas desnica oduzela, nemamo više slobodu, pravedno i pošteno društvo te zemlju socijalne sigurnosti, zemlju radnika i seljaka. Ma koliko god desnica bila glasna i negirala povijest, spremni smo se s njima uhvatiti u koštac i dokazati ono što cijeli svijet zna i potvrđuje: da nije bilo druga Tita, bratstva i jedinstva i njegovih komunista, hrabrosti i odlučnosti, već tada bi tuđe čizme po nama gazile, a neki drugi ljudi nama gospodarili, kao što to danas čine – rekla je Lazar.

Na obilježavanju 80. obljetnice osnivanja KPH na Anindolu se okupilo stotinjak ljudi, a među njima i izaslanik Grada Vinko Kovačić, izaslanik SDP-a Dušan Plečaš, izaslanik Saveza antifašističkih boraca Ivan Fumić, izaslanstva Saveza komunista Hrvatske, SRP-a, Radničke fronte, predsjednik Zajednice udruga antifaštističkih boraca i atifašista Zagreba i Zagrebačke županije Pero Rajić, Zveze boraca Slovenije, društvo J.B.Tito iz BiH, izaslastva udruženja antifaštista Zagreba, Zagrebačke, Karlovačke i Međimurske županije te izaslanstva društava Josip Broz Tito i Udruge antifašista Istarske i Primorsko-goranske županije. Izaslanstva su bila i položila vijence kod Spomen stećka. Program, čiji je pokrovitelj bio Grad Samobor, vodio je Dubravko Sidor, a za glazbene predahe bio je zadužen Zagrebački partizanski zbor pod ravnanjem maestra Salamona Jazbeca koji je tijekom svečanosti zdušno otpjevao državnu himnu, Internacionalu, Budi se istok i zapad, Padaj silo i nepravdo te Crvene makove. Po završetku svečanosti je na Tanc placu održan i mali domjenak.

 
Kruno Solenički



=== 2 ===



Govor Vladimir Kapuralina u ime SRP-a i Koordinacije radničkih komunističkih partija s područja bivše Jugoslavije povodom

OBILJEŽAVANJA  80-e  GODIŠNJICE  OSNIVANJA  KPH

 

Drugarice i drugovi, dragi gosti i prijatelji

 

Čast mi je i zadovoljstvo pozdraviti vas na ovom svečanom skupu posvećenom obilježavanju ovog značajnog događaja osnivačkog kongresa KPH, održanog na ovom mjestu, kraj Anindola 1. i 2. augusta 1937. godine.

Posebno sam ponosan činjenicom što vas mogu pozdraviti u ime Socijalističke radničke partije, idejnog i političkog slijednika nekadašnje KP, a kasnije SK, koordinacije KP i RP s jugoslavenskog prostora i u svoje lično ime.

Među ukupnim aktivnostima kongresa poseban značaj pripada proglasu, kojeg njegova klasno-socijalna originalnost i univerzalna vrijednost i danas čini aktuelnim, citiram:

„Između radničkih interesa i stvarnih interesa hrvatskog naroda nema i ne može biti nesuglasica, jer su radnici, kao dio svog naroda, krvno zainteresirani da narod bude slobodan, da mu bude osiguran razvitak, da se poštuje sve što je lijepo i napredno u njegovoj tradiciji i kulturi. Boreći se za te ideale, mi se borimo protiv nacionalne zagriženosti, jer znamo da su pravi napredak i sloboda Hrvatskog naroda osigurani samo u hrvatskoj slozi i suradnji s ostalim narodima Jugoslavije.“

Ova misao aktualna je i danas i ona eksplicitno govori kako komunisti vjerodostojnije brinu i o nacionalnim interesima od ostalih građanskih stranka, naročito onih klerofašističkih, jer interesi radnih ljudi ne mogu biti u suprotnosti s nacionalnim, dočim interesi kapitala mogu biti u koliziji s nacionalnima, jer je kapital transgraničan i transnacionalan.

Događaji koji su uslijedili pokazali su kako je partija, koja je tada konsolidirana kao integralni dio KPJ na čije čelo je te godine došao drug Tito, bila u stanju procijeniti političke prilike koje su vodile prema svjetskom ratu. I bila je jedina politička snaga u zemlji idejno osposobljena, pripremiti i organizirati aktivan otpor neprijatelju i njegovim pomagačima, povesti narod u oslobodilačku borbu i socijalističku revoluciju i izvojevati pobjedu. Iako malobrojna, sa svega 12-estak hiljada članova, uspjela je samoorganizirano i uspješno voditi jedan od najvećih, zapravo jedini ozbiljni unutrašnji otpor Hitleru i njegovim domaćim i stranim pomagačima i čije su oružane snage do kraja rata dosegle brojku od 800.000 boraca, što zbog svojeg klasno-socijalnog, ali i moralnog određenja, nije uspjelo mnogim brojnijim partijama građanske provenijencije. Te partije ne samo da se nisu suprotstavile nadolazećoj opasnosti, već su odbile i suradnju s KPJ.

Komunističkoj partiji je to uspjelo, zahvaljujući ne samo svojoj klasno-socijalnoj poziciji u društvu, već i zahvaljujući i visokom stupnju discipline i požrtvovanosti, kako u političkom radu tako i u oružanoj borbi, u kojoj su mnogi dali svoje živote.

Dragi prijatelji, danas kad se prisjećamo ovih časnih događaja koji su obilježili epohu koja je iza nas, kad smo došli da se poklonimo i njihovoj žrtvi, red je da rezimiramo rezultate njihovog rada i da povučemo neke usporedbe s vremenom sadašnjim.

Rezultati koje su ljudi na ovim prostorima postigli u burnim vremenima koja su slijedila, a koja su posljedica političkog djelovanja partije i njena vodeća uloga u NOB-i i revoluciji i poslijeratnoj izgradnji su:

- Pobjeda nad okupatorom i domaćim klerofašističkim snagama u ratu.

- Pripojenje oduzetih ili ustupljenih dijelova zemlje.

- Uvođenje samoupravnog socijalizma kao jedinstveni primjer prirodne pozicije rada u

društvu i emancipatorskih težnji radnika i seljaka, koji bi bili u stanju upravljati vlastitim

sudbinama.

- Najintenzivniji period privrednog i kulturnog razvoja, dotad nezabilježen na ovim

prostorima.

- Najduži period mira među pripadnicima različitih nacionalnih i konfesionalnih pripadnosti

na ovim prostorima koji je trajao gotovo pola stoljeća, od završetka II. svjetskog rata do

kontrarevolucije i secesije 90-ih.

- Najveći ugled koji su narodi ovih krajeva postigli u međunarodnim relacijama.

- Doprinos osnivanju Pokreta nesvrstanih, svojevremeno najbrojnije grupe zemalja

orijentiranih ka miroljubivoj koegzistenciji.

Neki od ovih rezultata, poput uvođenja samoupravljanja i osnivanje Pokreta nesvrstanih, spadaju u epohalne okvire.

Sve je to postignuto uz puni državnički suverenitet, bez gubitka ijednog privrednog ili financijskog objekta, infrastrukture i ni jednog pedlja nacionalnog tla, a u međunarodnim razmjerima pitalo nas se za mišljenje i uvažavalo naš stav.

Imajući sve to u vidu, nameće se pitanje: kako je to sve partiji uspijelo, u čemu je tajna, u čemu je razlika u postignutim rezultatima u odnosu na ostale pokrete otpora u tada okupiranoj Evropi?

Mada ova pitanja traže posvemašnju analizu, ovo danas nije mjesto, a ni raspoloživo vrijeme nam ne omogućuje dublju analizu, ali ako apstrahiramo politički i vojni talent predvodnika i komandanta Josipa Broza Tita, a koji se može svesti pod osnovnu prirodnu mudrost, onda nam ostaje kao bitan činioc jedinstvenost vodstva i pokreta ,iako su se u otpor neprijatelju uključili i pripadnici građanskog svijetonazora, ali pokret je vodila jedna partija, a ne pet.

U prilog ovakvog promišljanja svjedoče i događaji prilikom disolucije partije i države tokom kontrarevolucije i secesije.

Iako globalni geopolitički tektonski poremećaji 90-ih nisu zaobišli ni nas, dapače primjer jugoslavenskog samoupravljanja, s do tada jedinstvenom primjenom u svijetu, bio je nepoželjan svjetskim moćnicima te ga je trebalo ukinuti kroz proces koji je osmišljen izvana, a sproveden iznutra. Posao im je između ostalog olakšao i otklon SK od svoje povijesne klasne misije. Tome je prethodila birokratizacija partije, prodor nacionalizma, nesnalaženje vodstva, sukob interesa, dvojni moral, lične ambicije i slično. Tada je došlo do većeg stupnja razumijevanja i suradnje između pripadnika partije i nacionalista, odnosno protivnika revolucije unutar vlastitih nacionalnih korpusa, nego između pripadnika partije različitih nacionalnih korpusa.

Rezultat je svima poznat, jednostrana secesija Slovenije i Hrvatske koju su prema domino efektu slijedile i ostale republike, što je za posljedicu imalo rasplamsavanje međuetničkog i konfesionalnog oružanog sukoba s elementima građanskog rata, a putem kojeg je provedena kontrarevolucija, čime su privredni, financijski i ljudski resursi prepušteni na milost i nemilost stranim i novoinstaliranim domaćim kapitalistima.

Vrši se revizija povijesti te se po principu zamjene teza napadaju i omalovažavaju najznačajniji događaji i njihovi nosioci pa i sam Tito.

Tako smo se mi, slijednici naših prethodnika kojih smo se danas došli ovamo prisjetiti, ovih događaja, našli u poziciji veoma sličnoj onoj u kojoj su se nalazili oni u svoje vrijeme. Hrvatska, ali i ostale državice nastale na jugoslavenskom prostoru nalaze se pred potpunim ekonomskim slomom, a izgubljen je suverenitet na dulji period. U to nas je dovela politika restauracije sprovođena od stranaka građanskog tipa pa je naivno i iluzorno očekivati da nas one mogu i izvući iz te situacije, ali isto to ne može niti fragmentirana tzv. ljevica.

Dakle, da zaključim: 90-ih se nije dogodilo čudo, dogodila se povijest koju nismo očekivali i koju u datom trenutku nismo mogli iščitati i koja nas je vratila na početak. Mi se sad nalazimo na početku i ovdje danas na ovom mjestu obilježavamo događaj iz kojega možemo izvući pouku – svatko onaj tko je sposoban i koga je volja učiti.

  

Anindol 9. IX. 2017.

Vladimir Kapuralin



=== 3 ===


Forum radnika: Anindol 2017.


U Anindolu smo 1. 8. 2017. polaganjem vijenaca i kratkim govorima obilježili 80. godišnjicu osnutka Komunističke partije Hrvatske, a na istom smo se mjestu i istim povodom okupili i 9. rujna 2017.

Nakon što je Partizanski zbor otpjevao hrvatsku himnu i Internacionalu, položeni su vijenci, a govore su održali predstavnici Saveza antifašističkih boraca i antifašista RH (SABA), Saveza društava “Josip Broz Tito”, SDP-a, Socijalističke radničke partije (SRP), Radničke fronte  i Saveza komunista Hrvatske (SKH).

Svi su se govornici prisjetili slavne prošlosti, osvrnuli na mučnu sadašnjost i otvorili pitanje budućnosti. Kako se nositi s novim izazovima, kako na njih odgovoriti, kako djelovati?

Pravi se odgovori mogu naći samo ako se dobro prepoznaju i analiziraju uzroci i ako se u prošlosti pronađe nadahnuće za budućnost.

 

Antifašizam je klasna borba. Bio i mora biti. Jučer, danas, uvijek!

Anindol, 2017.


Okupili smo se na mjestu na kojem je prije nešto više od 80 godina osnovana Komunistička partija Hrvatske. Referat je na tom osnivačkom kongresu, u noći između 1. i 2. kolovoza 1937., podnio Josip Broz Tito. Prisjećajući se narodnooslobodilačkog rata i pobjede nad fašizmom i nacizmom, o Komunističkoj partiji i Titu govorimo kao o simbolima antifašizma.

Govorimo i o sadašnjem vremenu u kojem vidimo novi uzlet fašistoidnih ideja, svugdje u svijetu. Radikalne nacionalističke stranke vode hajku protiv imigranata optužujući ih da će domaćim radnicima uzeti posao i srušiti cijenu radne snage. Za loše plaće, nezaposlenost, pad standarda… nisu krive pogubne ekonomske politike, nije krivo deregulirano tržište, nije kriv razulareni kapitalizam, krivce se traži u onima koji nisu naša nacija.

Kad se u Hrvatskoj nabrajaju krivci za sve veću bijedu u kojoj živimo i beznađe zbog kojih mladost iseljava, pored onih koji su druge nacije ili vjere, ima tu i udbaša, orjunaša, privatizacijskih pljačkaša…, ali i, gle čuda, “naslijeđenog socijalističkog mentaliteta”. Kakav misaoni salto mortale treba napraviti da bi se za bijedan život u kapitalizmu okrivio daleko pravedniji i humaniji socijalizam? Socijalizam u kojem se Hrvatska razvijala brže nego ikad u svojoj povijesti, kad je vanjski dug bio manji nego danas, kad je hrvatsko stanovništvo raslo, kad su industrijski giganti bili u hrvatskom vlasništvu, kad je nezaposlenost bila mala, kad je zaposlenje bilo sigurno, kad su socijalne razlike bile manje, kad su plaće bile realno veće nego danas, kad su zdravstvo i školovanje bili besplatni, kad su se radnicima dijelili društveni stanovi, kad se moglo jeftino ljetovati u radničkim odmaralištima, kad su žene išle u mirovinu s 55, a muškarci sa 60 godina… Sve su te činjenice nevažne, sve to treba iščupati iz svijesti naroda – jer nije bilo ostvareno u neovisnoj hrvatskoj državi.

Izvorni fašistički simbol je fascio, snop pruća. Jedan prut je lako lomljiv, više njih zajedno je teško polomiti. Jedan čovjek je slab, zajednica je jaka i izdržljiva. Pod tim je simbolom Mussolini pozvao Talijane na jedinstvo. Nema razlika ni klasa, najvažnije je pripadati istoj naciji, organiziranoj u snažnoj državi. Sve je podređeno nacionalnom jedinstvu. Tako se to radi i danas, kod nas. Na sve se gleda kroz prizmu nacionalnog jedinstva i nacionalnih interesa. Ponovo gledamo kako se nacija nasilu harmonizira. A svima koji ne vide tu harmoničnu idilu i postavljaju logična pitanja (zašto među pripadnicima iste nacije ima onih koji žive u dvorcima i onih koji kopaju po kantama za smeće?), njima se lijepe etikete “jugonostalgičara” i “mrzitelja svega što je hrvatsko”. U vremenu krize i rastućeg siromaštva, umjesto lijeka propisuje se opijenost nacionalnim. A nacionalno u isti koš stavi i Todorića i njegovog skladištara, iako jedan ima besramno mnogo, a drugi ponižavajuće malo, ne samo kad je riječ o bogatstvu, nego i s obzirom na moć i društveni utjecaj. Radnik će zbog najmanjeg duga biti pod ovrhom, a za vlasnika će se napisati Lex Agrokor…

Lako je uočiti da fašističke ideje bujaju u vremenu krize, ali je lako uočiti i da su krize sistemska karakteristika kapitalizma. Osnovna napetost u kapitalističkom društvu je napetost između rada i kapitala. Da bi prikrila tu temeljnu opreku i da bi razbila jedinstven nastup radničke klase, kapitalistička društva pribjegavaju pričama o nacionalnom jedinstvu, potiču uvjerenje da je nacionalna pripadnost od presudne važnosti, inzistiraju na različitosti od drugih naroda. Fašizam se u kapitalizmu ne događa slučajno, on je posljedica načina funkcioniranja kapitalizma, njegove želje da razbije jedinstvo radništva, da klasnu solidarnost razbije mitom o nacionalnom jedinstvu. Što su razlike unutar nekog društva veće, to su veće i napetosti. Kako napetosti rastu tako se sve žešće govori o nacionalnom jedinstvu. U konačnici, do eskalacije ne dolazi tamo gdje bi trebalo – u području suprotstavljenih interesa rada i kapitala – nego tamo gdje je napetost premještena, u području nacionalizma. O nacionalnim se interesima govori sve agresivnije i sve isključivije i vrlo se lako sklizne – u fašizam.

Kod nas je antifašizam došao u paketu sa socijalizmom. Svaki antifašizam, ako je dosljedno promišljen, mora biti antikapitalistički, jer fašizam je dijete kapitalizma. I zato, tko ne želi o kapitalizmu, neka šuti o fašizmu!

Svaka bi politička stranka morala precizno odrediti svoj identitet, jasno iskazati koga zastupa. Ne može se zastupati sve građanke i građane Republike Hrvatske, jer građanin je i Todorić i njegov skladištar, a interesi su im oprečni i svaki zakon kojim se nešto regulira, svaka mjera koja se izglasa, svaka odluka koja se donese – pogoduje ili jednom ili drugom. Ono što je jednom poželjno (poput fleksibilizacije i deregulacije tržišta rada), za drugog je pogubno.

Komunistička partija Hrvatske, kao dio KPJ, svojevremeno se jasno definirala kao zastupnica interesa radničke klase. Ona nije organizirala pokret otpora (koji želi pobijediti fašizam da bi se društvo vratilo na prethodno stanje), nego je povela narodnooslobodilački rat. Istodobno s otporom okupatoru, organizirala se i razvila nova vlast i stvorio novi društveni sustav – socijalizam.

Suočeni s današnjim fašistoidnim idejama i u naporima da im se odupremo moramo dati odgovore na ključna pitanja: zašto se te pogubne ideje ponovo javljaju, sada i ovdje, koje teške probleme prikrivaju, zamagljuju, lažno prikazuju kao ugroženost nacije. Ljevica mora dati jasan odgovor: nije ugrožena nacija, ugroženi su ljudi koji žive od svog rada, ugrožena je radnička klasa. Obilježavajući 80. godišnjicu osnutka Komunističke partije Hrvatske, prisjetimo se da su se naši antifašisti, pored za oslobođenje zemlje, borili i za klasne promjene. Antifašizam je klasna borba. Bio i mora biti. Jučer, danas, uvijek!

 

Forum radnika SRP-a

Vesna Konigsknecht



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Dell'80.mo Anniversario dalla fondazione del Partito Comunista di Croazia si parla nella nostra trasmissione autogestita su Radio Città Aperta, appena ripresa dopo la pausa estiva. La nuova puntata è online alla pagina: http://www.radiocittaperta.it/djmix/voce-jugoslava-12-settembre-2017/


VOCE JUGOSLAVA  JUGOSLAVENSKI GLAS

"Od Vardara do Triglava - Dal fiume Vardar al monte Triglav"


Od utorka svake sedmice, na sajtu http://www.radiocittaperta.it , slušajte emisiju  "Jugoslavenski glas". Emisija je dvojezična, po potrebi i vremenu na raspolaganju. Podržite taj slobodni i nezavisni glas! Pišite nam na 
jugocoord@... i potražite na www.cnj.it . Odazovite se!


Ogni settimana, a partire dal martedì, sul sito http://radiocittaperta.it/ potete ascoltare la trasmissione "Voce jugoslava". La trasmissione è bilingue, a seconda del tempo disponibile e della necessità. Sostenete questa voce libera ed indipendente! Scriveteci all'email jugocoord@... e leggeteci su www.cnj.it . Sosteneteci con il 5 x mille!


Program   12.IX.2017  Programma

- 80. obljetnica osnivanja KPH na Anindolu. Neće nas navesti na fašizam!

- Još jedna ponižavajuća odluka Plenkovićeve vlade. Vila Idola u Puli biskupiji.

- Ramuš Haradinaj: Nastavak razgovora sa Beogradom nema alternative. U medjuvremenu primljen kod Ambasador SAD u Prištini...

- Datumi, da se ne zaborave:

   10.9.1918., potpisivanje kapitulacije Austrougarske monarhije i formiranje Kraljevine SHS.

   10.9.1919., u Zagrebu održana osnivačka konferencija SKOJ-a, na kojoj je bilo oko 50 mladih komunista – predstavnika komunističkih klubova i udruženja.

   13.9.1942., počela historijska bitka za Staljingrad  

   9.9.1845., u Zaječaru je rodjen Svetozar Marković, političar i književnik. Smatra se osnivačem socijalističkog pokreta u Srbiji i prvim teoreticarem realizma u srpskoj književnosti.

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- Nell' 80-esimo Anniversario della fondazione del PC di Croazia, a Anindol vicino Zagabria. Il fascismo non passerà!

- Un'altra dimostrazione di deferenza del governo di Plenković verso la Chiesa cattolica croata: a Pola, Villa Idola regalata alla diocesi.

 - Il neo-premier kosovaro Ramuž Haradinaj: "La prosecuzione del dialogo con Belgrado non ha alternative". Nel frattempo si reca dall'Ambasciatore USA a Pristina...

- Date da ricordare:

  10.9.1845, nasce a Zaječar in Serbia Svetozar Marković, politico e letterato. Fondatore del Movimento socialista. 

  10.9.1918, l'Austria-Ungheria firma la sua capitolazione. Si forma lo Stato dei Serbi, Croati e Sloveni.

  10.9.1919, a Zagabria si svolge l'Assemblea costitutiva della SKOJ (Lega dei giovani comunisti), alla quale partecipano una cinquantina di giovani comunisti, rappresentanti di varie associazioni e club.

  13.9.1942, inizia la battaglia per Stalingrado.






Libero spaccia fake news razziste e pericolose sulle “malattie”


di Redazione Contropiano, 6 settembre 2017

Occorre dirlo senza giri di parole: l’informazione spazzatura va sanzionata, soprattutto se procura allarmi e semina sostanze tossiche nel senso comune.

La prima pagina del quotidiano “Libero” ci ha abituato a titoli gridati e notizie spazzatura. Materiale odioso molto spesso, ma corrispondente all’ambiente che lo produce e lo recepisce. Ma è cosa totalmente diversa fare titoli come quello oggi in copertina [ http://contropiano.org/img/2017/09/Schermata-del-2017-09-06-11-42-40.png ], non solo perché palesemente falso (come stanno cercando di far capire decine di infettivologi intervistati dai media più diversi), ma perché semina volutamente allarmi infondati e istigazione all’odio; benzina sul fuoco sulla già rovente situazione in Italia.

Diffondere l’idea di un nesso tra immigrati e ricomparsa di malattie estinte nel nostro paese non solo è scientificamente sbagliato, ma è socialmente pericoloso.

L’unico “mediatore” esistente per tramettere il virus della malaria tra umani (a parte la trasfusione diretta, che nel caso di Trento non c’è stata) è la zanzara anofele. Nessun altro tipo di zanzara può riuscirci. Il ritorno o meno di questo tipo di zanzara sul territorio italiano dipende eventualmente dai mutamenti climatici, non dalle migrazioni. Se anche un “africano” volesse portarsi qualche zanzara al seguito (al guinzaglio, in valigia, ecc), questa non potrebbe sopravvivere in un clima inadatto.

Questo è quanto ci dice la scienza.

Naturalmente sappiamo bene che malattie un tempo debellate (al pari della malaria) oggi tornano ad affacciarsi. Basta pensare che sono stati chiusi ospedali dedicati e sanatori per alcuni casi di Tbc, la cosiddetta “malattia dei poveri”, che insorge a causa delle condizioni di vita (abitazione insalubri, scarsa o cattiva alimentazione, ecc) che rendono vulnerabili all’eventuale contagio.

Ci sembra decisamente improbabile che i direttori di Libero (gli inquietanti Vittorio Feltri e Pietro Senaldi) non abbia sentito nessun medico per informarsi meglio prima di fare un titolo così. Dunque è stata una decisione a mente fredda, volontaria e con l’intenzione scoperta di speculare sulla morte di una bambina di quattro anni.

Per questo riteniamo indispensabile, in casi come questo, sanzionare un organo di dis-informazione. A tutti – anche a noi – capita di sbagliare o di prendere fischi per fiaschi. Qui non c’è nessun errore, ma una volontà perversa, razzista, senza scrupoli.

Capiamo benissimo che invocare sanzioni contro l’informazione spazzatura e allarmista è un terreno scivoloso, così come sono evidenti i tentativi di enfatizzare le fake news per ridurre le possibilità che in Rete si sviluppi un serio sistema mediatico alternativo ed efficace, fuori e contro il monopolio mainstream di giornali e telegiornali.

Ma è anche necessario che chi fa informazione – così come medici o ingnegneri – abbia e rispetti scrupolosamente un codice deontologico e, qualora non lo faccia, che gli organi preposti al rispetto di questo codice intervergano. In questo caso è l’Ordine dei Giornalisti.

Se l’informazione spazzatura diffonde invece allarmi sociali infondati, che possono innescare azioni e reazioni pericolose nelle relazioni sociali del paese, si configura un reato vero e proprio e qui non è più un problema deontologico, ma penale.

Il problema sorge quando l’”informazione spazzatura” coincide con la strategia non dichiarata di “autorità costituite”, che hanno contribuito al diffondersi di un clima razzista e xenofobo nel paese per legittimare agli occhi dell’opinione pubblica la nuova escalation colonialista verso l’Africa, fino a renderla la soluzione migliore e ineluttabile.

E’ un corto circuito pericoloso, in cui la prima pagina di Libero appare solo come un test: se passa anche questa senza incidenti si può procedere a tutto campo e senza più alcun freno inibitorio.

 


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