Informazione
FOIBE E CONFINI ORIENTALI: LE AMNESIE DELLA REPUBBLICA
intervento di Alessandra Kersevan
organizza: Rete Antifascista Modenese
NOI RICORDIAMO TUTTO… Per una lettura storicamente corretta delle questioni nord-orientali
ne parliamo con Alessandra Kersevan, ricercatrice storica
organizzano ANPI e UDU
GIORNO DEL RICORDO, LA STORIA CAPOVOLTA
Intervengono:
Alessandra Kersevan, La criminalizzazione della ricerca storica;
Claudia Cernigoi, Chi nega cosa;
Sandi Volk, Chi ricorda la Repubblica nata dalla Resistenza
(ex scuola Baccelli a Montecucco dietro l’AMA)
l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia sezione Trullo-Magliana “Franco Bartolini” di Roma, in occasione della festa del tesseramento 2017, presenterà il libro:
"GUERRIGLIA PARTIGIANA A ROMA. Gap comunisti, Gap socialisti e Sac azioniste nella Capitale 1943-’44" di Davide Conti, Odradek 2017
Ne discutiamo con l’autore e storico Davide Conti, con il partigiano dei GAP di Roma Nando Cavaterra, e con lo scrittore ed editore della Red Star Press Cristiano Armati.
Le drammatiche vicende della «Città Aperta», iniziate con i seicento caduti a Porta San Paolo e chiuse dalla strage di La Storta, furono caratterizzate da una guerra partigiana che rifiutò l’ordine nazista su Roma e fece della Resistenza armata la leva storica «costituente» in grado di conferire ai cittadini un nuovo protagonismo all’interno della sfera pubblica, facendo della guerriglia urbana una delle radici fondamentali della Repubblica.
All’interno del perimetro urbano della capitale, il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito d’azione, si dotarono di reparti armati che diedero vita ad un conflitto asimmetrico in grado di infliggere all’esercito nazista gravi danni strategici e pesanti perdite materiali.
In ogni zona della città, centinaia di azioni di guerriglia e sabotaggio vennero realizzate dai partigiani lungo tutti i nove mesi di occupazione, confliggendo apertamente contro l’ordine pubblico criminale dei nazifascisti gestito attraverso la pratica militare della «guerra ai civili» fatta di rastrellamenti e deportazioni (carabinieri, ebrei, quartieri popolari), di stragi (Pietralata, Forte Bravetta, Fosse Ardeatine, La Storta) e di “camere di tortura” (via Tasso e le Pensioni Oltremare e Jaccarino).
Le otto zone in cui i tre partiti della sinistra del CLN divisero la capitale divennero campo di battaglia accidentato e pericoloso per nazisti e fascisti grazie alla solidarietà, al sostegno fattuale e all’appoggio ideale della popolazione che permise ai partigiani di ricevere protezione e collaborazione in tutti i quartieri della città e di combattere un nemico molto più forte per numero, armamento e risorse.
Davide Conti, storico. È consulente dell'Archivio Storico del Senato della Repubblica presso cui ha curato il riordino degli archivi personali dei membri dei GAP centrali Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini. Ha pubblicato: L’occupazione italiana dei Balcani (Odradek 2008); Alle radici del sindacato. La fondazione della Cgil e le carte del congresso costitutivo del 1906 (Ediesse 2010); Criminali di guerra italiani (Odradek 2011); L'anima nera della Repubblica. Storia del Msi, (Laterza 2013); La Resistenza di Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini dai GAP alle Missioni Alleate, (Senato della Repubblica 2016).
Nando Cavaterra, partigiano. Ex combattente della Resistenza romana nel quartiere di Centocelle, inquadrato nei Gap dell’ VIII zona. Attualmente è membro del Comitato Provinciale dell’ANPI di Roma.
Cristiano Armati, scrittore ed editore. Impegnato nell’industria editoriale dal 1999, lavora per Coniglio Editore, Newton Compton, Castelvecchi e Perrone prima di tentare di assaltare il cielo con la casa editrice Red Star Press, che contribuisce a fondare nel 2012 e che vanta nel suo catalogo diversi libri dedicati alla Resistenza. Ha scritto fra gli altri i romanzi Rospi acidi e baci con la lingua e L’amore che ho cercato, la narrativa non finzionale di Roma criminale, Italia criminale, Cuori rossi e La scintilla.
alle ore 17:30 alla Casa della Memoria e della Storia, Via San Francesco di Sales 5
Presentazione del libro
"DONBASS - i neri fili della memoria rimossa"
di Silvio Marconi
DONBASS - I NERI FILI DELLA MEMORIA RIMOSSA
http://www.edizionicroce.com/libro.asp?idlibro=733
Donbass, i neri fili della memoria rimossa
Sono sempre stato convinto, condividendo in questo le idee di autorevoli storici come Le Goff, Braudel, ecc., che la falsificazione e mistificazione della Storia sia stata e sia uno degli strumenti essenziali per la realizzazione delle fondamenta di qualsiasi progetto di oppressione, di aggressione, di guerra, di etnocidio, di genocidio e che, conseguentemente, lo studio ed il disvelamento non solo della realtà storica ma dei processi di sua mistificazione, dei loro autori e dei loro scopi, rappresenti un elemento imprescindibile di qualsiasi battaglia contro quei progetti disumani, se non ci si vuole affidare alla sloganistica generica, al richiamo a semplici emozioni o alla demagogia.
Quando quella mistificazione si presenta non solo e non tanto sotto la veste della aperta falsificazione (che pure è sempre componente di tale processo) ma come rimozione voluta di aspetti “scomodi” della Storia e soprattutto di quella Storia che si ama presentare come “propria”, come fondante la “propria” identità, a cui abbeverarsi per forgiare miti e realtà, comportamenti collettivi e decisioni politiche, linee educative e tendenze mediatiche, paradossalmente il danno è maggiore e più profondo perché tende a dilatarsi nei decenni e talora nei secoli, pronto a farsi alimento di qualsiasi infamia sciovinista, militarista, razzista, revisionista, di qualsiasi demagogia mobilitante, di qualsiasi banalizzazione tesa a creare confusione voluta.
Il 2 maggio 2014, i neonazisti ucraini bruciarono vive almeno 45 persone nella Casa dei Sindacati di Odessa, mentre a Kiev, nuovi leaders affermatisi grazie a quegli eventi di Maidan (in realtà un vero golpe etero diretto da ambienti NATO) in cui tali forze neonaziste erano state determinanti e che venivano presentati ciecamente dai media italiani come “rivoluzione democratica”, avevano iniziato un processo che li avrebbe portati rapidamente ad integrare quei neonazisti nelle forze armate ucraine, a rispondere alle manifestazioni di chi si opponeva alla svolta di Maidan con tanks e bombardamenti, innescando una guerra civile, a distruggere i monumenti ai caduti nella lotta contro l’invasore nazifascista del 1941-1943, ad assumere esplicitamente come riferimenti mitico-eroici i collaborazionisti ucraini dei nazisti della Seconda Guerra Mondiale. Era per me chiaro, proprio sulla base delle mie analisi sui processi di rimozione e falsificazione storica ( Banditi e banditori, Manni, Lecce, 2000; Reti mediterranee, Gamberetti, Roma, 2002; Il nemico che non c’è, Dell’Albero/COME, Milano, 2006), che quel laboratorio di neonazismo in cui si stava trasformando l’Ucraina, sotto gli auspici e con la complicità dell’intero Occidente, basava il suo agire ancora una volta su quei processi di rimozione e falsificazione storica e che al tempo stesso si doveva non solo all’azione di media embedded e di settori politici UE ma anche all’azione pluridecennale di processi appartenenti a quella categoria il fatto che tale laboratorio di neonazismo era largamente sottovalutato in Italia.
Sottovalutato volutamente dagli ambienti più direttamente succubi rispetto al volere di NATO, UE, governi occidentali, ma anche, forse non volutamente, da buona parte delle forze antifasciste e democratiche, dalle organizzazioni sindacali, dalle associazioni culturali antirazziste, da tanti che si proclamano “rivoluzionari” o anche “innovatori” nel modo di far politica. Dietro quella sottovalutazione grave, che oltre tutto lascia e lasciava spazio a confusioni “rosso-brune” (che mascherano il volto fascista dietro l’anti-americanismo) ed a simpatie esplicitamente dimostrate verso settori dei neonazisti di Kiev da parte di esponenti di partiti italiani che si dicono “democratici” (come il PD Pittella con “Pravy Sektor”) ci fosse anche stavolta una operazione di rimozione complessa, articolata e prolungata, iniziata non nel 2014, né al momento della dissoluzione dell’URSS, ma decenni fa. Una rimozione di molteplici aspetti storici delle vicende ucraine in generale e del loro rapporto, ancor più nascosto, con la Storia stessa del nostro Paese.
La ricerca che dal maggio 2014 al febbraio 2016 ha portato infine alla pubblicazione del mio nuovo libro Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016) si è quindi incentrata su alcuni di quegli elementi rimossi, censurati, negati, mistificati, per mettere a disposizione di chi non accetta i frutti orrendi del laboratorio neonazista ucraino e del suo ruolo nelle strategie dei circoli neoliberisti occidentali più radicali strumenti di approfondimento, e quindi di lotta, posto che smascherare quelle rimozioni, analizzare quegli elementi volutamente censurati rappresenta uno degli elementi imprescindibili per opporsi alle strategie ed alle tattiche di chi ne è l’autore e li usa per realizzare, fra l’altro, quel laboratorio neonazista ucraino e non solo (si pensi alla situazione nei Paesi Baltici, in Polonia, in Turchia, ecc.).
Se si vuole collocare la realtà attuale ucraina nel suo vero contesto, innanzi tutto storico prima ancora che geopolitico, ed in rapporto con una tendenza alla costruzione sistematica della “russofobia” (così ben analizzata da Guy Mettan nel suo recentissimo Russofobia. Mille anni di diffidenza; Sandro teti editore, Roma, 2016) va prima di tutto notato che gli elementi rimossi, censurati, negati, mistificati relativi all’Ucraina e specificamente alla realtà del Donbass sono molti e riguardano anche ambiti storici antichi, come il fatto che in realtà Kiev, lungi dall’essere “cuore della patria ucraina” è il luogo dove nasce nel IX secolo d.C. …il primo stato proto-russo, la Rus’ di Kiev, appunto, cristianizzata a cavallo fra X e XI secolo dal Principe Vladimir, che il simbolo scelto dai “nazionalisti” ucraini (detto “tridente”) è in realtà un girifalco, uccello che rappresentava lo stemma araldico della famiglia del suddetto Principe Vladimir della Rus’ di Kiev e che quella Galizia culla del “nazionalismo ucraino”, del collaborazionismo coi nazisti nella Seconda Guerra Mondiale e del neonazismo ucraino attuale non solo appartiene all’Ucraina solo grazie alle annessioni all’URSS realizzate dal tanto odiato Stalin, che la sottrasse alla Polonia (ricompensata con territori ad Ovest, ex-tedeschi, dopo la sconfitta del nazismo), non solo era abitata prevalentemente da Polacchi ed Ebrei prima delle stragi che nazisti e collaborazionisti ucraini vi compirono dal 1941, ma, nella sua fase di sudditanza all’Impero Austro-ungarico, prima, ed in quella di occupazione germanica durante la Prima Guerra Mondiale, poi, fu teatro della costruzione di quel “nazionalismo” ucraino (inizialmente chiamato “ruteno”, termine che in realtà nel Medioevo significava “della Rus”, ossia…”russo”!) che nacque come strumento della cultura e della politica germano-centrica contro lo zarismo russo e sulla base delle concezioni del nazionalismo-romanticismo germanico.
Sebbene, però, questi ed altri elementi relativi alle fasi storiche fra il Medioevo e la Prima Guerra Mondiale non vadano affatto trascurati ed anzi vadano ulteriormente portati alla luce per combattere la disinformazione ed il pressappochismo e siano citati nel libro, esso si concentra su altri aspetti, più recenti e significativamente proiettati sull’oggi. In primo luogo sul ruolo dell’Italia nelle politiche di conquista, rapina e massacro di impronta germanica in quella che da poco più di 150 anni si suole chiamare “Ucraina” come parte del progetto di espansione genocida tedesca ad Est. Ruolo che trova i suoi germi concettuali e concreti addirittura in politiche italiane largamente antecedenti alla presa stessa del potere in Germania da parte del nazismo, sia relative alle pratiche coloniali di annientamento e sfruttamento (in Eritrea, in Libia, poi in Etiopia e Somalia), sia a quelle di snazionalizzazione e deculturazione delle minoranze attuate nel SudTirolo e nelle aree slovene del Friuli-Venezia Giulia dal 1919, sia allo stabilirsi di strutture italiane finalizzate allo sfruttamento economico nei territori austroungarici dopo la vittoria italiana del 1918, inclusi appunto territori galiziani.
Ruolo che si intreccia con l’ideologia antisemita ed antirussa (prima ancora che antibolscevica), della Chiesa cattolica, che del resto dopo la frattura con quella ortodossa del 1054, è motore significativo di aggressioni alla Russia ed agli Ortodossi, fin da quando papa Gregorio VII (1073-1085) promuove l’azione del feudalesimo tedesco contro le genti russe in funzione di una loro auspicata conversione forzata al Cattolicesimo, fin da quando nel 1220, con questa scusa, i Cavalieri teutonici aggrediscono la terra russa (e vi vengono battuti nel 1242 dalle forze guidate da Aleksandr nevskji), fin da quando la Chiesa cattolica patrocina “crociate” dei cattolici polacco-lituani contro gli Ortodossi russi per tutto il XIII secolo o quando, nel 1596, il regno cattolico polacco-lituano impone alla Chiesa Ortodossa delle regioni galiziano-voliniane di sottomettersi all’autorità papale (nascita del fenomeno “uniate”) o nel 1612 si spinge ad attaccare la città di Mosca.
Una pratica ideologica che continua nei secoli seguenti, con l’appoggio di vescovi cattolici (fra cui quello di Tulle nel 1854 che dichiara relativamente agli Ortodossi russi: “vi sono uomini che rispondono al nome di cristiani più pericolosi per la Chiesa che i pagani stessi) e dell’arcivescovo di Parigi Sibourg (che la definisce “guerra contro l’eresia ortodossa”) alla Guerra di Crimea contro la Russia e si proietta fino alle “apparizioni di Fatima” in cui la madonna chiederebbe la “conversione della Russia” (mesi prima che avvenga la Rivoluzione bolscevica!!!) e prende vigore dal 1918 nella campagna contro il bolscevismo definito sì ateo ma spesso anche “giudeo” (identificazione che sarà cara ai nazisti….).
Ruolo che, però, trova la sua massima e piena realizzazione col e nel fascismo, ancora una volta sia sul piano teorico che pratico, fino a fare da base alla realtà della partecipazione italiana alla guerra hitleriana di aggressione all’URSS, con uno specifico ruolo proprio in Ucraina.
Su questo piano sono molti i miti da sfatare e lo si può fare, se solo lo si vuole, agevolmente, se si interconnettono a rete elementi contenuti in studi realizzati da Del Boca, Conti, Focardi, Oliva, Pisanty, Rochat e soprattutto Schlemmer e li si arricchiscono di analisi comparate (come si è cercato di fare nel mio testo) con frammenti di verità conservati in quel che resta nell’Archivio Storico dello Stato maggiore dell’Esercito italiano (al netto delle depredazioni angloamericane e soprattutto di un “provvidenziale” incendio di parte cospicua dei documenti avvenuto il 23 aprile 1945….), con contraddizioni palesi fra schegge di memoria contenute in testi diversi di reduci italiani della Campagna di Russia, a partire da quello del comandante del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), generale Messe, e con altro materiale reperibile da varie fonti.
Il primo mito da sfatare è quello che l’Italia fu trascinata nella Campagna di Russia da Hitler. In realtà Hitler preferiva vedere l’Italia concentrarsi sul fronte africano e fu Mussolini che ripetutamente ed insistentemente chiese di poter far partecipare truppe italiane all’aggressione all’URSS, con due scopi dichiarati: avere un ruolo nella “crociata antibolscevica” ed ottenere territori e risorse da sfruttare. Scopi che già esplicitano che la partecipazione italiana aveva caratteristiche di fondo non diverse da quelle naziste, perché l’intervento italiano si configura sia come “guerra ideologica” che come “guerra di rapina” e porta con sé in entrambi gli aspetti la necessità evidente di praticare una strategia di massacro ed affama mento.
Il secondo mito da sfatare è quello di una massa di soldati ed ufficiali italiani gettati nella carneficina del fronte orientale senza convinzione e senza concezioni radicali; lettere, testimonianze, memorie confermano invece che l’ideologia nazista del Mein Kampf (testo largamente diffuso negli ambienti colti e soprattutto giovanili italiani da cui proveniva la maggioranza degli ufficiali) era ampiamente nota ed accettata, che gerarchie ecclesiastiche e parroci di campagna “caricarono” i soldati di un senso sacrale della lotta contro il “bolscevismo ateo”, che l’antisemitismo diffuso dal 1938 attraverso una panoplia di strumenti mediatici aveva largamente attecchito e che erano condivise (anche dallo stesso Messe) concezioni care ai nazisti che ebbero traduzione pratica in ordini e pratiche di massacro, come quella che identificava “boslcevichi” ed “ebrei”, destinandoli alla eliminazione.
Il terzo mito da sfatare, collegato al secondo, è quello degli “Italiani brava gente”, ossia di una contrapposizione fra i “cattivi tedeschi” ed i “buoni italiani”, che in realtà è significativamente una estensione della menzogna tedesca che contrapponeva e per decenni ha contrapposto i “cattivi SS” ai “buoni soldati della Wehrmacht”. In realtà, certamente i gruppi speciali di sterminatori (einsatzgruppen) e le SS commisero sul fronte orientale e soprattutto in URSS crimini insuperabili per orrore e quantità, ma la Wehrmacht non fu affatto “innocente”, partecipando attivamente ai massacri di Ebrei, partigiani, comunisti, civili in genere, alle deportazioni e schiavizzazioni di massa, alle rapine e distruzioni sistematiche, all’annientamento per fame dei prigionieri di guerra. Le truppe italiane (e non solo i reparti di camicie nere come la Legione Tagliamento) non si resero responsabili di una quantità e qualità di crimini equiparabile a quelli tedeschi ma presentarli in massa come “brava gente” è una menzogna densa di conseguenze. I reparti italiani, che operarono in Russia sempre sotto il comando tedesco, erano reduci da crimini di guerra terribili in Etiopia (e in Libia prima ancora del fascismo!), in Grecia, in Albania e soprattutto in Yugoslavia; in URSS parteciparono ai rastrellamenti, crearono campi di concentramento per prigionieri di guerra (affamandoli), consegnarono ai tedeschi per destinarli a sicura morte partigiani, comunisti, Ebrei, civili rastrellati, praticarono distruzioni e rappresaglie e se non poterono rapinare su vasta scala (ed usare come programmato le risorse agricole ucraine per sfamare gli Italiani e migliaia di prigionieri russi per le miniere sarde) è solo perché i tedeschi non vollero spartire il bottino e la rapina con gli Italiani e questi ultimi furono costretti a servirsi solo….dei pacchi da inviare a casa (volutamente aumentati di peso….).
Truppe, ufficiali italiani, perfino la Polizia Politica fascista erano a conoscenza dei crimini enormi che i nazisti commettevano, con l’appoggio dei collaborazionisti locali, ma non vi fu una reazione istituzionale di alcun tipo e si proseguì tranquillamente a cooperare con gli autori e garantire condizioni perché molti di quei crimini avvenissero.
Da tante lettere di semplici soldati, sottufficiali ed ufficiali italiani impegnati sul fronte russo 8e specificamente, per tanti mesi, proprio in Ucraina) emerge entusismo nella partecipazione ad una “impresa” che viene vissuta come “crociata contro il bolscevismo ateo”, come “campagna per portare la superiore civiltà romana ai barbari delle steppe russe”, come “lotta alle sanguisughe giudee”.
Per non parlare della “cameratesca” complicità durante l’invasione nazifascista all’URSS fra reparti nazisti e reparti maggiormente ideologizzati delle truppe italiane, come quella X MAS che fu di stanza a Mariupol o della Legione Tagliamento, i cui superstiti dopo la ritirata dalla Russia formarono il nerbo dell’omonimo reparto repubblichino che si distinse dopo l’8 settembre 1943 nella repressione antipartigiana, nelle stragi in Italia.
L’altro aspetto affrontato nel libro è il ruolo dei collaborazionisti ucraini in rapporto sia coi Tedeschi che con gli Italiani. Anche qui ci sono miti da sfatare, tanto più gravi in quanto sono oggi rilanciati ufficialmente dalla giunta oligarco-fascista di Kiev, primo fra i quali il considerare tali collaborazionisti come “nazionalisti ucraini”. Erano invece tanto poco veri “nazionalisti” che non evitarono né di essere arruolati a migliaia come guardiani dei lager nazisti, operando nei centri polacchi di Sobibor, Treblinka, Majdanek, ecc. ma perfino nella Risiera di San Sabba a Trieste, né di combattere al servizio dei nazisti in aree che nulla avevano a che vedere con l’Ucraina, come la Slovacchia o l’Italia settentrionale.
Erano soprattutto autori di crimini in questo caso assolutamente equiparabili a quelli nazisti, sia in termini di crudeltà degli aguzzini che di stragi di massa di Ebrei, Polacchi (oltre 200.000 trucidati solo in Galizia e Volinia dai collaborazionisti ucraini), prigionieri sovietici, partigiani, civili sospettati di aiutarli, sia di rapina ai danni delle vittime e dei propri concittadini. Anche in questo caso, un aspetto volutamente dimenticato è che vi fu organica cooperazione di simili bande di criminali anche con le truppe italiane, in particolare proprio nel Donbass, visto che esso fu il teatro di impiego del CSIR nel 1941 (mentre quando gli Italiani estesero la partecipazione e crearono un’armata, l’ARMIR, nel 1942 essa venne schierata sul Don) e che Stalino (l’attuale Donetsk) era la sede del Comando Italiano, oltre che uno dei luoghi di deportazione ancora nel 1942-43 in lager per prigionieri di guerra sovietici gestiti da Italiani e che di stragi efferate di migliaia di civili compiute dai nazisti.
Si arriva perfino al paradosso che gli attestati di “benemerenza” da parte di criminali collaborazionisti ucraini verso ufficiali italiani vengono usati nel dopoguerra per inventare un rapporto positivo di alcuni di costoro (accusati dai Sovietici di crimini di guerra e mai processati in Italia) con l’insieme della popolazione locale, mentre si nascondono i propositi di ufficiali italiani (come il col. Piccinini) che propongono lo sgombero totale della popolazione da località del Donbass come Rykovo perché “infestata da bolscevichi”!
Ancora, alla fine della guerra, se tante decine di migliaia di collaborazionisti ucraini dei nazisti, compresi i membri della famigerata XIV Divisione SS “Galizien”, riusciranno a sfuggire alla giusta punizione sovietica arrendendosi agli Angloamericani e verranno perfino fatti emigrare in Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada, ciò avviene con la complicità sia di esponenti anticomunisti come il generale polacco Anders (che certifica falsamente la cittadinanza polacca di tutti i membri di quella divisione), sia di ambienti vaticani e di conventi in territorio italiano. Saranno quei collaborazionisti che nella “diaspora”, per decenni, durante la Guerra Fredda, alleveranno figli e nipoti ai disvalori, ai simboli, ai riti del collaborazionismo, della russofobia, del nazismo, forniranno reclute alla rete di spie e sabotatori occidentali contro l’URSS che vedeva nella sua leadership l’ex-capo dei servizi segreti nazisti sul fronte orientale, Gehlen, daranno vita, dopo la dissoluzione elstiniana dell’URSS, ai nuclei dei movimenti di destra radicale nell’Ucraina diventata indipendente ed i cui confini, tanto “sacri” per chi si definisce “nazionalista” e pratica lo sport della russofobia, includono territori che proprio l’URSS dell’aborrito Stalin aggregò all’Ucraina sottraendoli a Polonia, Slovacchia e Ungheria!
Solo se si ricostruisce questa trama storica, di cui si è dato in questa sede qualche cenno, si può, allora, comprendere cosa sta avvenendo in Ucraina in questi ultimi anni. Non è un caso se la NATO ha scelto l’Ucraina, ed in diversa misura Paesi Baltici in cui si negano i diritti civili a chi è discendente di Russi, si distruggono i monumenti antinazisti, si esaltano come eroi anche in questo caso i collaborazionisti dei nazisti (co-autori anche in quelle terre di stragi di Ebrei, Russi e prigionieri sovietici…), come laboratorio principale per riattivare su larga scala quella russofobia criminale che fu una delle molle non solo del fascismo, dell’hitlerismo, dei suoi collaborazionisti orientali (baltici, ucraini, croati, ecc.) e di tanti regimi fascisteggianti europei (da quello stesso polacco a quello ungherese, ad esempio) ma per decenni delle cosiddette “democrazie occidentali” pre-Seconda Guerra Mondiale, da quella britannica a quella statunitense.
Una russofobia che, come si è detto, affonda nella Storia, anch’essa, ben al di là dello stesso antibolscevismo e dello stesso atteggiamento della Chiesa cattolica ed ha esempi lampanti quali il disprezzo di Voltaire e quello di Napoleone per quelli che definiva assieme “tartari” e “barbari del Nord” e che si intreccia ovviamente, dalla Rivoluzione di Ottobre in poi, con l’odio assoluto verso il Paese reo di aver portato a compimento la prima costruzione di un esperimento sociale non asservito alla logica del capitale occidentale.
A quella russofobia di sfondo, fa riscontro, dalla fase in cui fascismo e poi più ancora nazismo furono scelti dal capitale internazionale (inclusi settori di quello USA, come Ford) come strumenti di distruzione delle velleità di giustizia sociale redistributiva del proletariato europeo, appunto l’uso del nazifascismo come strumento estremo per imporre la volontà del capitale monopolistico, ieri, globalizzato, oggi, anche a costo di vedersi sfuggire di mano quegli strumenti esattamente come accade in altro modo e per altro verso con gli integralismi religiosi estremistici (alimentati in passato contro i nazionalismi laici e marxisteggianti o, ancora una volta, contro la vecchia URSS) e vederseli trasformare in soggetti autonomi capaci di mordere anche la mano di chi li ha allevati, come già avvenne negli anni ’30 proprio con fascismo e nazismo.
Se, quindi, in Ucraina come altrove (ma con le debite differenze da non sottovalutare) la rete dei fili neri della ragnatela dell’oppressione pseudo-nazionalista, sciovinista, fascista, intrisa di mistificazione storica, affonda le sue radici perfino in lontani passati proto-borghesi, come ci insegnava Gramsci parlando del Risorgimento italiano, dinanzi ad essa, ai ragni che la tessono, alle conseguenze nefaste che ne scaturiscono non ha senso domandarsi quale livello di affidabilità rivoluzionaria, quale dose di progettualità socialisteggiante, quale tasso di eredità classista abbiano le forze che ad essa si oppongono, fermo restando ogni rifiuto indispensabile di qualsiasi contaminazione “rosso-bruna”. Chi si opponeva ieri all’invasione ed alle rapine di Napoleone (anche quando era perfino più retrogrado dello stesso Napoleone, ma difendeva la sua terra), chi si è opposto all’orrore nazifascista (si trattasse di un liberale britannico convertitosi per necessità all’antifascismo o di un bolscevico russo convertitosi all’alleanza con i “capitalisti” inglesi per altrettanta necessità, di un ufficiale sovietico recuperato dal fondo di un gulag staliniano o di un ufficiale monarchico italiano pronto a non tradire i suoi compagni di lotta comunisti sotto le torture a Via Tasso, di un minatore del Donbass sabotatore della produzione asservita ai Tedeschi o di un resistente gaullista francese, ecc.), chi si oppone oggi ai nuovi laboratori in cui quell’orrore si vuole riprodurre (si tratti di un miliziano cosacco del Donbass o di un antifascista milanese, di un antinazista tedesco o di un comunista ucraino costretto alla illegalità, di un aderente all’ANPI di Roma o di un Polacco che scende in piazza contro il regime, di un Siriano che si batte contro l’ISIS foraggiata dal fascista Erdogan o di un pilota russo che lo appoggia, ecc.) e non si fa adescare da fascisti e razzisti, antisemiti e provocatori mascherati da “antiamericani” e perfino da “filoputiniani” fa storicamente parte della risposta necessaria a quella ragnatela: una rete del colore del sangue che affermava, afferma ed affermerà che la memoria non si deve rimuovere e la lotta prosegue, in forme sempre diverse, contro lo stesso orrore di sempre.
Silvio Marconi, 9 luglio 2016
Svečana akademija povodom 25 godina od obnove SKOJ-a – http://www.skoj.org.rs/
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=zTaXeiBJYjI
Veselinović: Srbiju treba vratiti u vreme kada su radnici bili gospoda
VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=KLb-cBt58yU
Svecana akademija SKOJA
VIDEO: https://www.facebook.com/joint.unionsserbianunity/videos/1221907344553401/
Веселиновић: Србију треба вратити у време када су радници били господа
REPORT: http://sloga.org.rs/veselinovic-srbiju-treba-vratiti-u-vreme-kada-su-radnici-bili-gospoda/
International Communist Press (ICP) | sol.org.tr
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Speciale intervista della International Communist Press con Aleksandar Banjanac, Segretario Generale del Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ)
13/02/2017
ICP: Di recente assistiamo alla riproduzione di forme di nazionalismo serbo. Il Partito Radicale Serbo del criminale di guerra Vojislav Seselj ha ottenuto 22 seggi alle ultime elezioni parlamentari. Dall'altra parte, il governo della Serbia ha cercato di ripristinare l'onorabilità di collaboratori nazisti quali Milan Nedic. Il Nuovo Partito Comunista della Jugoslavia (NKPJ) ha avviato una serie di proteste per resistere a questi tentativi e per contrastare l'esistenza di organizzazioni fasciste nelle università. In che modo il vostro Partito intende continuare l'azione anti-nazionalista?
Aleksandar Banjanac: Dalla creazione del nostro Partito in poi, ci siamo sempre opposti a ogni forma di sciovinismo, fascismo e discriminazione.
In Serbia, così come nelle repubbliche post-jugoslave, il nazionalismo è stata l'ideologia che ha legittimato le classi dirigenti e gli obiettivi imperialisti. Questa idea ha diviso la classe operaia su base etnica, portandola a un crollo sociale e materiale. Inoltre, ha aperto la strada alla restaurazione dell'onorabilità di collaborazionisti nazisti e del revisionismo.
Noi cerchiamo sempre di disvelare e mostrare il terreno su cui attecchisce il nazionalismo. Abbiamo sostenuto la nostra posizione nelle proteste contro la restaurazione dell'onorabilità di nemici pubblici vissuti ai tempi della seconda guerra mondiale. Presentiamo questa posizione nel nostro programma di Partito, nei nostri comunicati, nelle discussioni pubbliche e nelle riunioni di partito.
ICP: Durante quest'anno si svolgeranno probabilmente in Serbia le elezioni presidenziali e forse quelle parlamentari. Quale sarà la posizione di NKPJ?
Aleksandar Banjanac: Il Nuovo Partito Comunista di Jugoslavia mostrerà una posizione organizzata, presentando il presidente del sindacato "Sloga", compagno Željka Veselinović, come candidato. Sloga è l'unico sindacato affiliato alla Federazione sindacale mondiale, FSM-WFTU, in Serbia. Prima delle elezioni verrà presentato un programma elettorale articolato in dieci punti. Tra i nostri bersagli presi di mira nei dieci punti: le collaborazioni con il FMI, la Banca Mondiale, la UE e la NATO, così come le politiche di privatizzazione e le politiche nazionaliste. E' ancora prematuro parlare di elezioni parlamentari.
Il sistema elettorale della Serbia non consente parità di condizioni per i partecipanti. Senza una copertura finanziaria sufficiente, si incontrano problemi; grazie alla collaborazione con Sloga ci auguriamo di superare l'ostacolo.
Ci aspettiamo un salto di qualità in nome della classe operaia nelle elezioni e anche il creare delle forme organizzative più forti tra i nostri membri e alleati.
ICP: Pochi giorni fa, un treno che viaggiava sulla linea ferroviaria da poco ristabilita tra Belgrado e Mitrovica nel Kosovo, è stato fermato dai funzionari kosovari a causa dello slogan scritto sui convogli in 21 lingue: "Kosovo è Serbia", cosa che ha causato una nuova crisi politica. Quali sono le vostre previsioni sull'evoluzione del clima politico sul Kosovo?
AB: La "Repubblica del Kosovo" è una base NATO proprio nel centro dei Balcani. I discorsi sul "Kosovo indipendente" sono il risultato della guerra espansionista, di occupazione e di intervento contro la Repubblica Socialista della Jugoslavia da parte delle forze NATO nel 1999.
Allo stesso tempo, questo intervento significa l'occupazione del Kosovo e Metohija, che è una regione di importanza strategica. D'altra parte, i Balcani sono sotto il controllo delle forze Usa da così tanto tempo. Una delle più grandi basi americane in questa regione è "Bondstil", situata in Uroševca, Kosovo. Di recente sono emerse sulla stampa prove dell'esistenza di una prigione di guerra all'interno della base. In altre parole, possiamo parlare della Guantanamo europea. Inoltre, è previsto un nuovo aiuto militare da parte del governo di Trump in Kosovo.
Entrambi i governi di Kosovo e Belgrado sono asserviti alla NATO in egual misura. Il fatto del treno, orchestrato dal governo serbo, era pura propaganda pre-elettorale. Allo stesso tempo, vale come graduale riconoscimento del Kosovo da parte del governo, che è diretto dall'imperialismo occidentale. La situazione attuale può solo surriscaldare il nazionalismo serbo e quello albanese a discapito dei serbi in Kosovo. Queste attività non sono utili a nessuno, tranne che a loro. Si dimostrano le incapacità dei rispettivi governi.
L'occupazione imperialista deve volgere al termine. Sostenere la pace e la realizzazione della solidarietà tra i popoli albanesi e serbi non è utile alla NATO. Entrambe le parti sono vittime della NATO. I popoli dei Balcani saranno in grado di determinare il proprio futuro solo se i Balcani gli apparterranno.
ICP: La posizione della Russia in Ucraina ha portato la UE a levare delle sanzioni contro la Russia. Allo stesso tempo la Russia ha annunciato la realizzazione di un gasdotto turco, un progetto che include la Serbia nel suo percorso. Poco dopo, il presidente russo Vladimir Putin ha visitato Belgrado, con la rivista della parata militare congiunta degli eserciti russo e serbo. Il governo della Serbia è stato criticato di mostrare un eccesso di senso pratico nel processo di negoziazione in corso sul lato opposto, con l'UE. Qual è il vostro commento sulla posizione del governo serbo riguardo a queste relazioni?
AB: Sì, il governo della Serbia ha mostrato un atteggiamento "pragmatico", sostenendo le bande fasciste e l'illegittimo Presidente Poroshenko, mentre negoziava con la Russia. Anche l'Unione europea è stata criticata per non premere abbastanza sulla Serbia. Questa è chiaramente una prova del predominio della UE sul governo.
Subito dopo la visita di Putin a Belgrado e la parata militare, il governo è stato costretto a rendere una dichiarazione alla NATO, rendendo noti accordi coperti. Questi accordi forniscono una serie di priorità alla NATO in entrambi i campi militari e civili. In uno stato di guerra, dovremo dare il controllo delle nostre basi, ospedali e aeroporti alla NATO.
Non abbiamo bisogno di un tale pragmatismo. Uno dei nostri modi di dire, recita: "se non nutri il tuo esercito, nutri un altro esercito".
ICP: Qualche tempo fa, il NKPJ ha tenuto il suo congresso. Una delle decisioni più importanti prese nel congresso è stata l'obiettivo del ringiovanimento, scommettendo sulla vostra organizzazione giovanile, SKOJ. Qual è l'obiettivo atteso in NKPJ per questa transizione?
AB: L'obiettivo di svecchiamento era un progetto pianificato da molti anni. Si è concretizzato nel nostro V Congresso straordinario. Sono stato eletto come nuovo Segretario generale del nostro Partito nello stesso Congresso e la mia età non supera ancora i 34 anni. Abbiamo anche compagni più giovani nella Segreteria, nell'Ufficio politico e nel Comitato centrale. Siamo uno dei rari partiti nella regione con una così giovane dirigenza.
Nonostante tutte le difficoltà e le limitazioni, puntiamo a realizzare un potente partito dei lavoratori. Abbiamo bisogno di un NKPJ che sia in grado di rispondere alle esigenze dei lavoratori. Abbiamo bisogno di organizzare i giovani e indurli a staccarsi dal sistema di sfruttamento e a considerare il socialismo non come un periodo nostalgico ma come unica alternativa contro il capitalismo. Finché il NKPJ si basa sui giovani, i giovani si baseranno sul partito.
ICP: Perché considerate la Jugoslavia, oggi divisa in molti stati diversi, come scala politica, invece che la Serbia?
AB: Prima di tutto, anche se la Jugoslavia è divisa in più parti, anche se manipolata e le sue risorse sono sottratte, noi non pensiamo che abbia perso il suo significato storico.
Siamo l'unico partito che affronta la questione nazionale con l'identità jugoslava. Abbiamo la volontà di risolvere questo problema attraverso la ridefinizione di tutti i popoli nella regione nel suo complesso. Un altro problema passato, era l'esistenza di confini interni dentro la Jugoslavia. E' stato uno dei motivi principali della guerra che si è verificato subito dopo la dissoluzione.
Inoltre, è evidente che dal '90 la pace non è stata stabilita nella regione. Frizioni tra i popoli e i governi dei paesi della ex Jugoslavia, spesso si surriscaldano.
L'intervento dell'imperialismo occidentale divide il nostro Paese in termini economici, militari, nazionali, sociali ed educativi. Dopo lo scioglimento, hanno anche esportato le loro politiche per i nuovi governi.
Usando il termine di Jugoslavia, noi presentiamo la sua effettiva legittimità. Oltre ad utilizzare questo termine, denunciamo l'occupazione della NATO. Insistiamo sul fatto che tutte le forze progressiste devono mostrare una posizione congiunta contro questa occupazione.
Persone che ancora oggi si definiscono con l'identità jugoslava, esistono. Esse condannano il clima politico attuale e danno il loro sostegno al nostro Partito.
ICP: Il vostro Partito ha una posizione diversa dalla Lega dei comunisti della Jugoslavia rispetto l'URSS e l'ideale del socialismo. Qual è l'eredità per il NKPJ?
AB: Giusto, abbiamo una posizione molto diversa dalla Lega dei comunisti della Jugoslavia. Questa presa di posizione poggia principalmente su principi riguardanti la costruzione del socialismo.
Poiché abbiamo fatto nostra la posizione del Partito Comunista di Jugoslavia, diciamo che la Lega dei Comunisti, istituita dopo il 1948, cambiando il nome del Partito, è stata una mutazione opportunista e revisionista, che ha voltato le spalle al movimento comunista internazionale.
Dopo il XX Congresso, anche in URSS si è avviato un periodo revisionista. Tuttavia, allo stesso tempo, hanno mostrato un'opposizione realistica contro l'imperialismo durante la Guerra Fredda. La Jugoslavia ha scelto di rimanere neutrale in questa guerra di classe. Come dice Lenin, ogni terza via respinge la seconda. Così la terza via jugoslava ha rifiutato di opporsi alla principale questione: quindi, la Jugoslavia di Tito ha diretto il movimento dei Non Allineati. Da questa posizione, la Jugoslavia si è allineata all'imperialismo e ha istituito la "piccola NATO", collaborando con la Turchia e la Grecia negli anni '50.
Tito e i quadri di Partito avevano organizzato la guerra di sovranità nazionale, eroicamente e trionfando con una rivoluzione. Il ruolo di Tito in questo periodo storico non può essere svalutato. Ma, purtroppo, non sostennero la rivoluzione che avevano stabilito. Al contrario, hanno giocato il ruolo di "cavallo di Troia" all'interno del movimento comunista internazionale e si sono diretti verso la restaurazione del capitalismo.
La nostra tradizione si basa sul Partito socialdemocratico e successori: il Partito Comunista di Jugoslavia, che ha sostenuto le rivendicazioni dell'internazionalismo proletario, la III Internazionale, il Cominform e il socialismo scientifico fino al 1948.
Manlio Dinucci
Revisione, in senso «migliorativo», di quello attuato nelle guerre cui l’Italia ha partecipato dal 1991, violando la propria Costituzione. Dopo essere passato per 25 anni da un governo all’altro, con la complicità di un parlamento quasi del tutto acconsenziente o inerte che non lo mai discusso in quanto tale, ora sta per diventare legge dello Stato. Un golpe bianco, che sta passando sotto silenzio.
Alle Forze armate vengono assegnate quattro missioni, che stravolgono completamente la Costituzione. La difesa della Patria stabilita dall’Art. 52 viene riformulata, nella prima missione, quale difesa degli «interessi vitali del Paese». Da qui la seconda missione: «contributo alla difesa collettiva dell’Alleanza Atlantica e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo, al fine della tutela degli interessi vitali o strategici del Paese».
Il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, stabilito dall’Art. 11, viene sostituito nella terza missione dalla «gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento, al fine di garantire la pace e la legalità internazionale».
Il Libro Bianco demolisce in tal modo i pilastri costituzionali della Repubblica italiana, che viene riconfigurata quale potenza che si arroga il diritto di intervenire militarmente nelle aree prospicienti il Mediterraneo – Nordafrica, Medioriente, Balcani – a sostegno dei propri interessi economici e strategici, e , al di fuori di tali aree, ovunque nel mondo siano in gioco gli interessi dell’Occidente rappresentati dalla Nato sotto comando degli Stati uniti.
Funzionale a tutto questo è la Legge quadro entrata in vigore nel 2016, che istituzionalizza le missioni militari all’estero, costituendo per il loro finanziamento un fondo specifico presso il Ministero dell’economia e delle finanze.
Infine, come quarta missione, si affida alle Forze armate sul piano interno la «salvaguardia delle libere istituzioni», con «compiti specifici in casi di straordinaria necessità ed urgenza», formula vaga che si presta a misure autoritarie e a strategie eversive.
Il nuovo modello accresce fortemente i poteri del Capo di stato maggiore della difesa anche sotto il profilo tecnico-amministrativo e, allo stesso tempo, apre le porte delle Forze armate a «dirigenti provenienti dal settore privato» che potranno ricoprire gli incarichi di Segretario generale, responsabile dell’area tecnico-amministrativa della Difesa, e di Direttore nazionale degli armamenti. Incarichi chiave che permetteranno ai potenti gruppi dell’industria militare di entrare con funzioni dirigenti nelle Forze armate e di pilotarle secondo i loro interessi legati alla guerra.
L’industria militare viene definita nel Libro Bianco «pilastro del Sistema Paese» poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di lavoro qualificati».
Non resta che riscrivere l’Art. 1 della Costituzione, precisando che la nostra è una repubblica, un tempo democratica, fondata sul lavoro dell’industria bellica.
(il manifesto, 14 febbraio 2017)
Il giorno 02 feb 2017, alle ore 18:50, 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' ha scritto:Il velo “umanitario” sulle missioni militari all’estero va strappato
Il vice presidente della Commissione Difesa, on. Massimo Artini (ex M5S), ha replicato con un lungo e articolato commento al nostro articolo di venerdi – ovviamente e fortemente critico – verso la legge approvata a luglio 2016 ed entrata in vigore il 31 dicembre 2016. Ci contesta una lettura negativa di un impianto legislativo a suo dire positivo. A noi così non sembra affatto, e non sembra esserlo stato neanche per 41 senatori che si sono astenuti o votato direttamente contro (al Senato l'astensione vale come voto contrario, ndr).
La legge quadro sulle missioni militari all'estero, infatti è stata approvata al Senato con 194 sì, un no e 40 astenuti, tra questi ultimi i senatori del M5S e alcuni del gruppo misto. Il voto contrario alla legge e' stato della senatrice Paola De Pin (anche lei ex M5S).
La legge disciplina (art. 1) «la partecipazione delle forze armate, delle forze di polizia … e dei corpi civili di pace a missioni internazionali istituite nell'ambito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) o di altre organizzazioni internazionali cui l'Italia appartiene» (in particolare, come ben si comprende, la NATO e la Ue), toglie (art. 2) al Parlamento, che può intervenire solo con generici “atti d'indirizzo”, la facoltà di approvare o respingere, in modo vincolante, le missioni militari, e dà, viceversa, al Governo (art. 2 e art. 3), pieni poteri nella realizzazione e nella conduzione delle missioni di guerra del nostro Paese.
All'apparenza la Legge prevede che la decisione di spedire militari in teatri di guerra adottata dal governo, vada inviata al Parlamento, il quale con appropriati atti di indirizzo, può dare luce verde o meno alla missione. Tale autorizzazione può essere sottoposta a condizioni. Dal momento che si è in presenza del totale coinvolgimento dei due rami del Parlamento, se non venisse dato l’assenso dai deputati e senatori, la missione internazionale non si potrebbe realizzare. Probabilmente, su questo impianto, a luglio 2016, quando la legge è stata approvata, il governo già riteneva che il Senato non ci sarebbe più stato in base alla controriforma costituzionale che il paese ha respinto a maggioranza il 4 dicembre con il referendum. Avevano insomma fatto i conti senza l'oste e venduto la pelle dell'orso prima di averlo ucciso.
Un risultato è stato comunque raggiunto dal governo. Le missioni militari all'estero non dovranno essere rinnovate (anche economicamente) ogni sei mesi ma saranno una decisione strategica che può essere revocata solo con un atto politico del governo. Nè ci sembra che la gravità della Legge sulle missioni militari possa essere attenuata da una delle operazioni più insidiose che abbiamo denunciato negli anni scorsi: i cosiddetti Corpi civili di pace che potranno affiancare le missioni militari vere e proprie. Su questo vedi un articolo pubblicato tempo addietro.
E' una lettura catastrofista e pregiudiziale della legge? Per dimostrare che su questo pesano e fanno la differenza i presupposti di partenza, è interessante vedere come invece i “laboratori” legati agli apparati di potere hanno dato la loro lettura delle legge stessa.
Ad esempio secondo la fondazione Astrid:“La legge quadro in questo senso costituisce un vero e proprio salto di qualità nella governance della nostra politica estera e di difesa”. Prendiamo ancora a prestito le valutazioni positive espresse dall'Astrid che, come noi coglie il dato secondo cui questa legge cerca di sanare le molteplici contraddizioni manifestatesi nella politica militare italiana dalla prima guerra del Golfo nel 1991. “L’importanza della cooperazione internazionale nelle missioni di peace-keeping, peace-making e peace-enforcement si è andata affermando soprattutto negli ultimi venti anni. Lo spartiacque può essere considerato la prima guerra del Golfo chevide operare, sotto l’egida di una risoluzione Onu, una coalizione di 34 nazioni, tra cui l’Italia, guidata dagli Stati Uniti”. Non solo. Lo stesso think thank ammette che quelle contraddizioni andavano sanate con un apparato legislativo che adeguasse la proiezione militare dell'Italia al nuovo scenario nelle relazioni internazionali: “Da allora, a causa di contesti internazionali sempre più complessi e di vincoli costituzionali molto stringenti, tale paradigma cooperativo si è rapidamente imposto come la principale modalità di intervento delle nostre Forze armate all’estero. Di fronte al moltiplicarsi degli eventi che hanno richiesto una partecipazione dell’Italia a missioni internazionali si è dunque reso necessario il rinnovamento di un quadro normativo che rimaneva troppo legato alle logiche rigide e bipolari della guerra fredda”.
L'on. Artini, di cui apprezziamo l'attenzione per il nostro articolo, ragiona su un presupposto diverso e distante dal nostro. In questa legge vede una razionalizzazione dell'impianto legislativo sulle missioni militari all'estero, noi ci siamo battuti sistematicamente contro l'idea e le decisioni di partecipare alle missioni militari italiane nei teatri di guerra. Perchè di questo si è trattato. Adesso ci sono 300 militari in Libia “per proteggere la costruzione di un ospedale a Misurata” e 1300 militari in Iraq “per proteggere la ristrutturazione della diga a Mosul”. Tremiamo all'idea che una azienda italiana vinca l'appalto per la costruzione di una autostrada in Siria o in qualche altro paese in guerra.
Negli anni scorsi, la cortina fumogena “umanitaria” in Jugoslavia, Libia, ha nascosto orrori e decisioni politicamente vergognose dei nostri governi. Quella poi dell'intervento militare in Afghanistan e Iraq è quanto ha somigliato di più ad una partecipazione vera e propria ad una guerra di aggressione ad altri Stati. E su questo non c'è alcuna mediazione possibile, né in parlamento né fuori. Su questo presupposto, e proprio per questo, abbiamo fatto a sportellate e poi rotto con i senatori e i deputati della sinistra al tempo del secondo governo Prodi. Purtroppo e per fortuna abbiamo buona memoria e senso della coerenza.
18 gennaio 2017
Il giorno 13 gen 2017, alle ore 18:00, 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' ha scritto:http://contropiano.org/news/politica-news/2017/01/13/litalia-si-dota-della-legge-la-guerra-087877
L’Italia si dota della Legge per la guerra
Piuttosto in sordina, il 31 dicembre scorso è entrata in vigore la Legge quadro sulle missioni militari all'estero. La legge era già stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale fin dal 1̊ agosto; ma ne era stata rimandata l'attuazione a fine anno, tranne che per la disposizione all'integrazione del Copasir, cioè dell'organismo di controllo sulle attività dei servizi segreti (venuto fuori come problema in occasione delle “missioni coperte” in Libia), anche se valido solo per la legislatura in corso.
L'Italia si è così dotata di una legge organica dello Stato per l'invio di contingenti militari all'estero che dovrebbe azzerare le contraddizioni di incostituzionalità sul ricorso alle azioni militari contro, verso o in altri paesi vincolate al rispetto dell'art.11. Infatti il nostro ordinamento fino ad oggi prevedeva solo la disciplina della "guerra". Ma lo stato di guerra deve essere deliberato dalle Camere, che conferiscono al Governo i poteri necessari (art. 78 Cost.), mentre la dichiarazione di guerra è prerogativa del Presidente della Repubblica (art. 87, 9° comma). ll tutto nei limiti sanciti dall'art. 11 Cost., che vieta la guerra di aggressione e consente l'uso della violenza bellica solo in ipotesi ben determinate (la difesa).
La storia di questi ultimi venticinque anni, con numerose operazioni militari all'estero e il coinvolgimento dell'Italia in teatri di guerra (Iraq, Afghanistan, Jugoslavia ma anche Somalia, Libano etc.), ha reso inevitabile una legge organica che legittimasse sul piano legale la partecipazione dei militari italiani a guerre e operazioni militari in altri paesi.
La Legge individua la tipologia di missioni, i principi generali da osservare e detta disposizioni circa il procedimento da seguire. La newsletter Affari Internazionali ne offre una sintesi molto utile:
a) Le missioni militari all'estero, sia di peace-keeping che di peace-emforcement, sono in primo luogo quelle con il mandato delle Nazioni Unite, ma aadesso lo sono anche quelle istituite nell'ambito delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia è membro, comprese quelle dell'Unione Europea;
2) La Nato non è menzionata espressamente, ma è automaticamente inclusa. La Legge poi si riferisce anche alle missioni istituite nelle coalition of willing, cioè coalizione create su una crisi specifica sulla base di decisioni unilaterali dei paesi che vi aderiscono, infine si riferisce alle missioni "finalizzate ad eccezionali interventi umanitari".
3) La Legge specifica che l'invio di militari fuori dal territorio nazionale può avvenire in ottemperanza di obblighi di alleanze, o in base ad accordi internazionali o intergovernativi, o per eccezionali interventi umanitari, purché l'impiego avvenga nel rispetto della legalità internazionale e delle disposizioni e finalità costituzionali (che a questo punto vengono aggirate dalla legge stessa)
“Resterebbe da chiarire il significato di accordi intergovernativi e come questi si differenzino dagli accordi internazionali. Si tratta di accordi sottoscritti dall'esecutivo o addirittura di accordi segreti?” si interroga Affari Internazionali. “In parte tali dubbi dovrebbero essere fugati dai paletti volti a scongiurare una deriva interventista. Le missioni devono avvenire nel quadro del rispetto: a) dei principi stabiliti dall'art. 11 Cost., b) del diritto internazionale generale, c) del diritto internazionale umanitario, d) del diritto penale internazionale”.
Quanto al procedimento per la partecipazione alle missioni internazionali, viene reso centrale il ruolo del Parlamento, razionalizzando una prassi, qualche volta in verità disattesa, che faceva precedere l'invio del contingente militare all'estero da una discussione parlamentare. Ma spesso la ratifica parlamentare avveniva a posteriori, in occasione della conversione in legge del decreto-legge (DL) di finanziamento della missione.
L'iter disegnato dalla L. 145/2016 è il seguente: la partecipazione alle missioni militari è deliberata dal Consiglio dei ministri, Cdm, previa comunicazione al Presidente della Repubblica ed eventuale convocazione del Consiglio supremo di difesa.
La Legge quadro mette mano anche ad un'altra spinosa questione, ossia se ai militari impegnati nelle missioni debba essere applicato il codice penale militare di pace o il codice penale militare di guerra. Anche la soluzione indicata lascia aperta tutte le strade. La nuova legge dispone che sia applicabile il codice penale militare di pace, ma il governo potrebbe deliberare l'applicabilità di quello di guerra per una specifica missione. In tal caso è però necessario un provvedimento legislativo e il governo deve presentare al Parlamento un apposito disegno di legge.E' dalla partecipazione alla prima Guerra del Golfo (1991) che si pone il problema di conformare la legislazione italiana al ripetuto ricorso alla guerra "nella risoluzione delle controversie internazionali" che di volta in volta è stata mascherata con acronimi sempre più improbabili: operazione di polizia internazionale, guerra umanitaria, protezione di civili, difesa preventiva etc. etc. Operazioni militari che hanno visto negli anni migliaia e migliaia di soldati italiani prendere parte a guerre in altri paesi e miliardi di euro spesi per parteciparvi. Quando le furberie sulla guerra diventano una Legge organica dello Stato, vuole dire che il punto di non ritorno si è avvicinato ancora di un altra spanna.
13 gennaio 2017
7) ALTRI LINK
Arcore (MB), domenica 12 febbraio 2017
NUOVA LOGISTICA: alle ore 10.30 c/o ARCI BLOB, Via Casati 31, 20862 Arcore (MB)
(a pochissimi passi dalla stazione ferroviaria di Arcore)
OPERAZIONE FOIBE TRA STORIA E MITO
intervento di Claudia Cernigoi
Dopo le pressioni della destra più o meno estrema, il Comune di Arcore ha deciso di levare il patrocinio all’iniziativa che l’Anpi di Arcore aveva inizialmente organizzato con Claudia Cernigoi. Questo ha comportato la rinuncia di Anpi ad organizzare l’iniziativa…
nuovo evento FB // vecchio evento FB
Modena, domenica 19 febbraio 2017
alle ore 15.30 nella Sala Ulivi dell’Archivio Storico della Resistenza
FOIBE E CONFINI ORIENTALI: LE AMNESIE DELLA REPUBBLICA
intervento di Alessandra Kersevan
organizza: Rete Antifascista Modenese
10 Febbraio 2017
COMUNICATO STAMPA
Chi è Filippo Polito?
Ai famigliari di Filippo Polito è stata conferita una medaglia d'onore alla memoria dal Presidente della Repubblica il giorno 10 febbraio nella sala del Consiglio Comunale di Torino.
Il suo nome compare in parecchi elenchi:
1) Caduti e dispersi della Repubblica Sociale Italiana, a cura di L'Altra Verità
2) Albo caduti e dispersi della Repubblica Sociale Italiana, della Fondazione RSI, Istituto Storico
3) Elenco “Livio Valentini” caduti Repubblica Sociale Italiana
4) Concittadini Caduti infoibati o diversamente massacrati in tempo di guerra e da guerra terminata, comunicato di “Destra Per Reggio”, 10-2-2016
Negli elenchi compare la data di nascita, 18-8-1923 ad Ardore (RC), il ruolo di Guardia di Polizia Repubblicana, residente a Trieste, la data di morte in Trieste (2-5-1945), la qualità di disperso o deportato; in un solo caso risulta deceduto il 31-12-1945 come prigioniero Borovnica, Lubiana (Albo della Fondazione RSI).
L'articolo 3 comma 3 della Legge 30 marzo 2004 n. 92 recita: “Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell'Italia”.
Poiché il territorio dell'attuale Friuli-Venezia Giulia, l'Istria e la cosiddetta Provincia di Lubiana facevano parte all'epoca della Zona d'Operazioni Litorale Adriatico (ZOLA), costituita dai nazisti dopo l'8 settembre ‘43 e amministrata direttamente da un Supremo Commissario nazista nominato da Hitler, in cui la stessa RSI non aveva alcun potere e in cui le sue formazioni armate potevano entrare e operare solo ed esclusivamente con il permesso e sotto la direzione dei tedeschi, l'adesione alla RSI, in quanto agli ordini dei nazisti non può considerarsi “a servizio dell'Italia”.
La partecipazione volontaria alla RSI risulta dal fatto che il 12 novembre del '43 il Supremo Commissario nazista dispose che l'arruolamento nelle formazioni della RSI poteva avvenire solo “sulla base di presentazione volontaria” (“Il Piccolo”, 12 novembre '43, pagina 1).
Risultano pertanto due condizioni (il carattere volontarie e l'attività collaborazionista) che sulla base della legge ostano alla concessione della “insegna metallica con relativo diploma”.
Poiché la legge richiama una vicenda tragica, che comprende le foibe, e riguarda l'insieme dell'esodo e della complessa vicenda dei confini orientali, riteniamo che l'attribuzione della medaglia a Filippo Polito combattente volontario, a fianco dei nazisti, in terre da loro occupate, vada rivista.
La giornata del ricordo non può prestarsi ad utilizzi politici, in particolare da parte di risorgenti nostalgie fasciste, né può costituire riconoscimento di quanti hanno operato contro le libertà e a fianco delle barbarie naziste.
La Costituzione Italiana, nata dalla Resistenza, esclude dal panorama della democrazia ogni fascismo e il Giorno del Ricordo è una solennità civile della nostra democrazia.
Torino 10 febbraio 2017
La Presidenza dell'A.N.P.I. Provinciale
Maria Grazia Sestero
Palmiro Gonzato (Partigiano)
Cesare Alvazzi Dal Frate (Partigiano)
Renato Appiano
In Sala rossa il riconoscimento agli eredi, ma gli ex partigiani attaccano: "Ha combattuto con i nazisti". E l'erede si presenta in camicia nera
http://torino.repubblica.it/cronaca/2017/02/10/news/foibe_polemiche_sulla_medaglia_a_filippo_polito-158012734/
<< L'aggressione fascista alla Jugoslavia non poté giustificare né la perdita dei territori né l'esodo degli istriani. >>
(Fassino in conferenza stampa a Trieste, 5 febbraio 2004)
<< L'espansionismo slavo ... nel vivo della lotta antifascista si era manifestato in comportamenti e linguaggi propri delle contese territoriali e nazionalistiche, presenti da decenni in quelle aree. Lo schema della lotta fra fascismo e antifascismo si mostrò inadeguato... >>
(Fassino: «Il Pci con gli esuli istriani sbagliò», su L'Unita', 06.02.2004 – https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/3167 )
<< Il segretario dei Ds Piero Fassino si è detto d'accordo sull'istituzione della giornata della memoria per gli esuli istriani, fiumani e dalmati, per superare "ogni forma di reticenza e rimozione... >>
(La Repubblica, 9 febbraio 2004 – https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/3170 )
<< Quello che avrei voluto dire il 6 febbraio di due anni fa a Fassino e Violante quando vennero a Trieste per aderire alla proposta di Roberto Menia (An) di istituire il 10 febbraio la giornata del ricordo dell'esodo e per attribuire al Pci di allora colpe ed errori di valutazione... >>
(Galliano Fogar su Il Manifesto del 10 febbraio 2006 – https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/4765 )
<< Ci stupisce che politici della statura di Fassino e di Violante abbiano aderito all'iniziativa di Alleanza Nazionale quando essi sanno benissimo che il presidente del consiglio Berlusconi considera questa ricorrenza come il giorno della «pulizia etnica comunista», dimenticando che le foibe e l'esodo dei giuliano-dalmati costituiscono una diretta eredità del ventennio fascista e dell'occupazione italiana dei Balcani durante la Seconda guerra mondiale. >>
(Angelo Del Boca su Il Manifesto del 14 febbraio 2006 – https://it.groups.yahoo.com/neo/groups/crj-mailinglist/conversations/messages/4765 )
<< Riguardo alla data, Fassino ha spiegato che loro avevano pensato al 20 marzo (data dell’ultimo viaggio del Tuscania, la nave che trasportò gli esuli dall’Istria in Italia), mentre le federazioni degli esuli avevano proposto il 10 febbraio (data della firma del trattato di pace del 1947); loro accolgono questa proposta di “giorno della memoria dell’esodo” perché l’enormità delle sofferenza patite dagli italiani non permette una disputa tra le date, la storia del paese deve essere patrimonio comune, in quanto “siamo tutti figli della storia”. >>
(Claudia Cernigoi: "Ricordiamo la genesi del Giorno del Ricordo", febbraio 2009 – http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-ricordando_la_genesi_del_%93giorno_del_ricordo%94..php )
<< Nel lontano 1997, quando ancora erano pochi coloro che si occupavano di foibe, ebbi modo di consegnare personalmente all'allora non so che ruolo ricopriva Piero Fassino, una mia analisi sulle falsità a proposito di foibe diffuse all'epoca dal mancato golpista (con Borghese) Marco Pirina, che in collaborazione con l'avvocato piduista Augusto Sinagra ed al magistrato che si faceva intervistare dal Secolo d'Italia Giuseppe Pititto, stava organizzando il processo contro gli "infoibatori" (poi conclusosi in una bolla di sapone, com'era prevedibile, ma che ci fece tribolare per diversi anni). Quindi Fassino non può dire di non sapere, ciò che fa lo fa perché ha consapevolmente scelto di farlo. >>
Claudia Cernigoi, 12.2.2016
<< Non ha lasciato spazio il sindaco Fassino agli attacchi che puntuali, anche quest’anno hanno cercato di inquinare il «Giorno del ricordo». Fassino si è accodato con queste parole all’allarme lanciato da Antonio Vatta, presidente della Consulta regionale dell’Anvgd... Fassino ha sottolineato che «siamo qui per riaffermare l’inaccettabilità di ogni forma di negazionismo e di riscrittura della storia. E per riaffermare che al ricordo si deve accompagnare l’impegno di evitare che tragedie simili si ripetano, cosa non scontata come dimostra la storia recente». Il sindaco di Torino ha ribadito che dopo anni di silenzio «si è presa coscienza che una nazione ha il dovere di assumere sulle proprie spalle ogni pagina della sua storia e non c’è pagina che possa esser cancellata e negata. Chi fu ucciso nelle foibe e chi fu cacciato dalla sua terra lo fu solo perché italiano in quella che fu un’operazione di pulizia etnica» >>
(La Stampa, 10/02/2016 – http://www.lastampa.it/2016/02/10/cronaca/fassino-vergognoso-lattacco-dellanpi-alla-giornata-del-ricordo-EWPD3Zkk3RCvTFpI7pF76O/pagina.html )
Ino, martire delle foibe. Una via avrà il suo nome
La vicenda del martire è stata tolta dal dimenticatoio grazie a una ricerca appena conclusa da Maria Rosa Bonamini, insegnante alla scuola media Altichiero, ora in pensione. La professoressa ha attinto il più possibile da fonti dirette. Da Giuseppe Bazzoni, da Filippo Avesani, nel frattempo scomparso, e dai discendenti di Mercanti.
Da Boscochiesanuova dove vivevano, papà Michele e mamma Eleonora Campedelli, con i loro quattro figli - Ines, Amerigo, Zeffira e, appunto, Ino - si trasferirono a Zevio nel 1911. Dopo un po’ Ino andò a vivere con la sorella Ines, sposatasi con Giuseppe Malgarise, titolare fino alla fine degli anni ’50 di un’osteria in piazza Santa Toscana, che all’epoca si chiamava piazza Vittorio Emanuele.
Grazie al suo carattere vivace, gioviale e un po’ mattacchione, Ino andò a gestire l’osteria all’Omo, dal nome della pianta ritenuta emblema della libertà, che i soldati di Napoleone piantavano nei crocicchi stradali, compreso il trivio per Volon tra le vie Stefano da Zevio e corso Cavour. Nel suo locale, Ino organizzava lunghi tornei di bocce e programmava feste in onore della patrona del paese, Santa Toscana. La professoressa Bonamini spiega che nel 1936, con Raffaello Conti, Angelo Dall’Oca Bianca, Giuseppe Sinibaldi, Zelio Grella e altri, Ino partì per la guerra civile in Spagna, in aiuto al «generalissimo» Francisco Franco, che si rifaceva all’ideologia fascista. Ritornò a Zevio nel 1940, e ripartì poi per lavoro per la Slovenia, a Villa del Nevoso (ora Iliska Bistrica), località all'epoca compresa nei confini italiani.
«Su come sia andata successivamente, i parenti hanno scarsissime notizia, essendo fra l’altro passati 70 anni e tre generazioni», annota la professoressa. Che aggiunge: «Comunque dagli elementi emersi, sembra certo che Ino fu barbaramente ucciso dai soldati titini», dal nome di Tito, il capo dei partigiani comunisti jugoslavi che successivamente diventerà governatore dello Stato. Bonamini rivela particolari terribili sulla fine di Mercanti: «Probabilmente morì dopo un'agonia di due giorni, per essere stato crocefisso a testa in giù ed evirato in un bosco a una decina di chilometri a nord di Pola. Il suo cadavere fu infine fatto sparire nelle foibe». A guerra ultimata i famigliari fecero l'impossibile per ottenere dettagli sulla spaventosa fine del congiunto. E produssero tutte le pratiche necessarie alla restituzione dei resti.
La sorella Zaira approfondì le ricerche recandosi in Jugoslavia. Qualcuno le indicò il luogo in cui trovare il cadavere del fratello, con l'avvertenza di non fermarsi e farsi riconoscere, visto che era ancora presente il regime comunista. Tanta ostinata ricerca della verità sfociò, nel 1962, nel recupero delle spoglie del martire, ora sepolte nel cimitero del capoluogo.
Enzo Sonato, apprezzato poeta, scrittore e politico zeviano scomparso qualche decennio fa, ha lasciato un amaro componimento che riassume l'oblio che ha avvolto tante vite spezzate dalla volontà di predominio dell'uomo sull'uomo: «Chi legge il tuo nome/ Chi legge il tuo nome/ il trentunesimo di ottanta/ nella lunga fila/ dei nomi neri/ sulla lapide bianca/ del monumento ai morti in guerra?/ C'è forse chi arriva al quinto/ un giorno che non abbia fretta».
Piero Taddei
Da: Fabio Muzzolon <fabio.muzzolon @ alice.it>
Oggetto: a Zevio una via a un fascista infoibato
Data: 9 febbraio 2017 16:17:57 CET
A: corriere <lettere@corriere>, corrierediverona@..., jugocoord
Con richiesta di pubblicazione. Per il Corriere, all'attenzione di Alessandro Fulloni
A Zevio, centro di 15.000 abitanti a Sud-Est di Verona, si vuole dedicare una via a un fascista che aveva anche combattuto in Spagna a fianco del Generalissimo Franco e finì poi dentro una foiba a Dignano d'Istria. Una via dunque tutta per il "martire", oltre alla già esistente via Martiri delle Foibe...
Ringrazio il giornalista di Zevio de “L’Arena” e la professoressa ricercatrice per aver messo in luce l’episodio di un infoibato zeviano, che non conoscevo. Se mi è permesso provo a sottolineare alcuni punti.
1. “Il cadavere finì in una voragine di Dignano”. Dignano, in croato Vodnjan, è in effetti uno dei centri dell’Istria dove la comunità italiana (o istro-veneta) è tuttora più presente e culturalmente vivace, come del resto lo fu durante il comunismo.
2. “Era il 13 settembre 1943 quando il cadavere finì” in una foiba. Si era cioè al vertice di una guerra atroce, mossa nel ‘41 dall’esercito italiano contro la Jugoslavia, al termine della quale lo Stato vicino contò oltre un milione di morti.
3. “Fra il ‘43 e il ’47 furono gettati circa 10.000 italiani”. Il maggior studioso italiano Raoul Pupo, moderato, prof.all’Università di Trieste parla di 4 o 5.000. La loro identificazione è avvenuta finora per alcune centinaia. Mi rendo conto che non è facile capire la verità, ed è anche difficile stabilire se fossero italiani o slavi: in Istria c’è una varietà estrema di mistilingue; inoltre nel precedente periodo di annessione italiana dopo la prima guerra, tutti i nomi slavi, tedeschi e perfino veneti e friulani vennero italianizzati con la forza.
4. “Scattò l’esodo verso l’Italia di 350.000 persone”, anche se sembra cifra eccessiva, giustamente Taddei non dice “italiani”, perché tra loro ci furono anche genti di lingue e cognomi slavi, uniti dal desiderio di cercare fortuna all’estero, come anche dalle Venezie partirono in massa. A differenza di altri Stati socialisti la Jugoslavia permetteva l’emigrazione.
5. “Nel ’36... Ino partì per la guerra civile in Spagna, in aiuto al generalissimo Franco, che si rifaceva all’ideologia fascista”. Quindi come riconosce onestamente il cronista, il nostro martire non era propriamente un italiano estraneo all’agone politico del tempo, ma un fascista combattente.
6. “La pulizia etnica di Tito punta a eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti”.
Si deduce che essendo volta a epurazioni di carattere politico non si può chiamare pulizia etnica.
Fabio Muzzolon, S.G. Lupatoto
sul Piccolo di ieri, l'articolo in pagina cultura sul Giorno del ricordo è stato scritto da Gianni Oliva, che è considerato uno storico "serio" e non un "negazionista" cui deve essere impedito di parlare.
La serietà di Oliva si manifesta, ad esempio, nel suo "Foibe" del 2002, quando parla di Giuseppe Cernecca, segretario generale del comune di Gimino, che nel settembre del 1943 fu arrestato dai partigiani e di lui non si seppe più nulla. Scrive che Cernecca sarebbe stato lapidato e poi decapitato e che le prove della “lapidazione di Cernecca” risulterebbero “dall’autopsia effettuata”. Ora, stando che la stessa figlia ha più volte ribadito che il corpo del padre non fu mai ritrovato, sarebbe davvero interessante sapere di quale autopsia parli lo storico Oliva.
Quando poi parla della foiba di Basovizza riporta un passo del romanzo “La foiba grande” di Carlo Sgorlon, che essendo romanzo è appunto opera di fantasia, fatto che Oliva non specifica quando cita: “Nella foiba di Basovizza, vicina a Trieste, era stato buttato un feudatario odioso, un uomo carico di delitti, al tempo del patriarca di Aquileia, Marquardo, cui allora l’Istria apparteneva”.
Peccato che il patriarca Marquardo rimase in carica dal 1365 al 1381 (anno in cui morì) e che la “foiba” di Basovizza non è una cavità naturale ma un pozzo di ispezione di miniera, scavato dalla ditta Skoda tra il 1901 ed il 1908. Se non si può pretendere da Sgorlon, che ha scritto un romanzo, coerenza dal punto di vista storico, invece uno storico dovrebbe, prima di dare alle stampe un’opera (sia pure di divulgazione) scientifica, verificare che ciò che scrive abbia attinenza col vero e non limitarsi a citare brani tratti di qua e di là senza un minimo di controllo.
Peccato che tutta la descrizione che fa è falsa dalla prima all'ultima parola.
Non solo per il fatto che in quel luogo non sono state gettate "centinaia di persone" nel maggio 1945, ma perché il suo illazionare che i prigionieri sarebbero stati legati uno ad uno col filo di ferro e poi, sparando al primo della fila, sarebbero precipitati a decine nel pozzo, è una cosa fisicamente impossibile considerando le dimensioni dell'apertura del pozzo, come vedete nella foto (tratta dagli archivi comunali).
Così come è una mera menzogna il fatto che fosse stato gettato sopra i cadaveri un cane nero, mitologia che è nata perché UNA volta in UNA foiba fu trovato anche un cane nero (che probabilmente vi era caduto per sbaglio) e da questo i propagandisti hanno creato la leggenda che si tratta di un'usanza balcanica di spregio per i morti (ovviamente anche questo non ha alcun fondamento di verità).
Ma Polidori non è contento di inventare cose di sana pianta (o, forse, scopiazzando nel web di qua e di là scegliendo le bufale più accattivanti per lui ed il suo pubblico), alla fine di questa serie di bugie ha il coraggio di attaccare, con parole che dovrebbero far vergognare chiunque abbia il senso della decenza, una studiosa come Alessandra Kersevan che ha passato anni ad analizzare documenti e fare ricerca storica, e che se parla lo fa con cogn
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Preambolo
L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, gli Stati Uniti d’America, la Cina, la Francia, l’Australia, il Belgio, la Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia, il Brasile, il Canada, la Cecoslovacchia, l’Etiopia, la Grecia, l’India, i Paesi Bassi, la Nuova Zelanda, la Polonia, la Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina, l’Unione del Sud Africa, la Repubblica Federale Popolare di Jugoslavia, in appresso designate “Le Potenze Alleate ed Associate” da una parte e l’Italia dall’altra parte:
PREMESSO CHE l’Italia sotto il regime fascista ha partecipato al Patto Tripartito con la Germania ed il Giappone, ha intrapreso una guerra di aggressione ed ha in tal modo provocato uno stato di guerra con tutte le Potenze Alleate ed Associate e con altre fra le Nazioni Unite e che ad essa spetta la sua parte di responsabilità della guerra; e
PREMESSO CHE a seguito delle vittorie delle Forze alleate e con l’aiuto degli elementi democratici del popolo italiano, il regime fascista venne rovesciato il 25 luglio 1943 e l’Italia, essendosi arresa senza condizioni, firmò i patti d’armistizio del 3 e del 29 settembre del medesimo anno; e
PREMESSO CHE dopo l’armistizio suddetto Forze Armate italiane, sia quelle governative che quelle appartenenti al Movimento della Resistenza, presero parte attiva alla guerra contro la Germania, l’Italia dichiarò guerra alla Germania alla data del 13 ottobre 1943 e così divenne cobelligerante nella guerra contro la Germania stessa; e
PREMESSO CHE le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia desiderano concludere un trattato di pace che, conformandosi ai principi di giustizia, regoli le questioni che ancora sono pendenti a seguito degli avvenimenti di cui nelle premesse che precedono, e che costituisca la base di amichevoli relazioni fra di esse, permettendo così alle Potenze Alleate ed Associate di appoggiare le domande che l’Italia presenterà per entrare a far parte delle Nazioni Unite ed anche per aderire a qualsiasi convenzione stipulata sotto gli auspici delle predette Nazioni Unite;
HANNO PERTANTO CONVENUTO di dichiarare la cessazione dello stato di guerra e di concludere a tal fine il presente Trattato di Pace ed hanno di conseguenza nominato i plenipotenziari sottoscritti, i quali dopo aver presentato i loro pieni poteri, che vennero trovati in buona e debita forma, hanno concordato le condizioni seguenti:
PARTE I
CLAUSOLE TERRITORIALI
SEZIONE I -FRONTIERE
Art. 3.
Le frontiere fra l’Italia e la Jugoslavia saranno determinate nel modo seguente:
- Il nuovo confine seguirà una linea che parte dal punto di congiunzione delle frontiere dell’Austria, Italia e Jugoslavia, quali esistevano al 1º gennaio 1938 e procederà verso sud, seguendo il confine del 1938 fra la Jugoslavia e l’Italia fino alla congiunzione di detto confine con la linea di demarcazione amministrativa fra le province italiane del Friuli (Udine) e di Gorizia;
- da questo punto la linea di confine coincide con la predetta linea di demarcazione fino ad un punto che trovasi approssimativamente a mezzo chilometro a nord del villaggio di Memico nella Valle dell’Iudrio;nikolic.mica1
- abbandonando a questo punto la linea di demarcazione, fra le province italiane del Friuli e di Gorizia, la frontiera si prolunga verso oriente fino ad un punto situato approssimativamente a mezzo chilometro ad ovest del villaggio in Vercoglia di Cosbana e quindi verso sud fra le valli del Quarnizzo e della Cosbana fino ad un punto a circa 1 chilometro a sud-ovest del villaggio di Fleana, piegandosi in modo da intersecare il fiume Recca ad un punto a circa un chilometro e mezzo ad est del Iudrio, lasciando ad est la strada che allaccia Cosbana a Castel Dobra, per via di Nebola;
- la linea quindi continua verso sud-est, passando immediatamente a sud della strada fra le quote 111 e 172, poi a sud della strada da Vipulzano ad Uclanzi, passando per le quote 57 e 122, quindi intersecando quest’ultima strada a circa 100 metri ad est della quota 122, e piegando verso nord in direzione di un punto situato a 350 metri a sud-est della quota 266;
- passando a circa mezzo chilometro a nord del villaggio di San Floriano, la linea si estende verso oriente al Monte Sabotino (quota 610) lasciando a nord il villaggio di Poggio San Valentino;
- dal Monte Sabotino la linea si prolunga verso sud, taglia il fiume Isonzo (Soca) all’altezza della città di Salcano, che rimane in Jugoslavia e corre immediatamente ad ovest della linea ferroviaria da Canale d’Isonzo a Montespino fino ad un punto a circa 750 metri a sud della strada Gorizia-Aisovizza;
- allontanandosi dalla ferrovia, la linea quindi piega a sud-ovest, lasciando alla Jugoslavia la citttà di San Pietro ed all’Italia l’ospizio e la strada che lo costeggia ed a circa 700 metri dalla stazione di Gorizia-S. Marco, taglia il raccordo ferroviario fra la ferrovia predetta e la ferrovia Sagrado-Cormons, costeggia il Cimitero di Gorizia, che rimane all’Italia, passa fra la Strada Nazionale n. 55 fra Gorizia e Trieste, che resta in Italia, ed il crocevia alla quota 54, lasciando alla Jugoslavia le città di Vertoiba e Merna, e raggiunge un punto situato approssimativamente alla quota 49;
- di là, la linea continua in direzione di mezzogiorno attraverso l’altipiano del Carso, a circa un chilometro ad est della Strada Nazionale n. 55, lasciando ad est il villaggio di Opacchiasella ed a ovest il villaggio di Iamiano;
- partendo da un punto a circa 1 chilometro ad est di Iamiano, il confine segue la linea di demarcazione amministrativa fra le province di Gorizia e di Trieste fino ad un punto a circa 2 chilometri a nord-est del villaggio di San Giovanni ed a circa mezzo chilometro a nord-ovest di quota 208, che segna il punto di incontro fra le frontiere della Jugoslavia, dell’Italia e del Territorio Libero di Trieste.
La carta, alla quale la presente descrizione si riferisce, fa parte dell’Allegato I.
Art. 4.
I confini fra l’Italia ed il Territorio Libero di Trieste saranno fissati come segue:
- la linea di confine parte da un punto situato sulla linea di demarcazione amministrativa fra le province di Gorizia e di Trieste, a circa 2 chilometri a nord-est del villaggio San Giovanni ed a circa mezzo chilometro a nord-ovest della quota 208, che segna il punto d’incontro, delle frontiere della Jugoslavia, dell’Italia e del Territorio Libero di Trieste e corre in direzione di sud-ovest fino ad un punto adiacente alla Strada Nazionale n. 14 ed a circa un chilometro a nord-ovest della congiunzione fra le strade Nazionali n. 55 e 14, che conducono rispettivamente da Gorizia e da Monfalcone a Trieste;
- la linea si prolunga quindi in direzione di mezzogiorno fino ad un punto nel golfo di Panzano, che è equidistante dalla Punta Sdobba alla foce del fiume Isonzo (Soca) e da Castel Vecchio a Duino, a circa chilometri 3,3 a sud dal punto dove si allontana dalla linea costiera, che è ad approssimativamente 2 chilometri a nord ovest dalla città di Duino;
- il tracciato quindi raggiunge il mare aperto, seguendo una linea situata ad eguale distanza dalla costa d’Italia e da quella del Territorio Libero di Trieste.
La carta alla quale la descrizione presente si riferisce, fa parte dell’allegato I.
Art. 5.
- Il preciso tracciato di confine delle nuove frontiere fissate negli articoli 2, 3, 4 e 22 del presente Trattato sarà stabilito sul posto dalle Commissioni confinarie composte dei rappresentanti dei due Governi interessati.
- Le Commissioni inizieranno i loro lavori immediatamente dopo l’entrata in vigore del presente Trattato e li porteranno a termine al più presto possibile e comunque entro un termine di sei mesi.
- Qualsiasi questione sulla quale le Commisioni siano incapaci di raggiungere un accordo sarà sottoposta ai quattro Ambasciatori a Roma della Unione Sovietica, del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e della Francia, i quali, procedendo nel modo previsto all’articolo 86, la risolveranno in modo definitivo, seguendo i metodi che piacerà loro di determinare, ivi compreso, occorrendo, quello della nomina di un terzo Commissario imparziale.
- Le spese della Commissione confinaria saranno sopportate in parti eguali dai due Governi interessati.
- Al fine di determinare sul posto le esatte frontiere fissate dagli articoli 3, 4 e 22, i Commissari avranno facoltà di allontanarsi di mezzo chilometro dalla linea di confine fissata nel presente Trattato per adeguare la frontiera alle condizioni geografiche ed economiche locali, ma ciò alla condizione che nessun villaggio o città di più di 500 abitanti, nessuna ferrovia o strada importante, e nessuna importante sorgente di energia elettrica o d’acqua venga ad essere sottoposta in tal modo ad una sovranità che non sia quella risultante dalle delimitazioni stabilite dal presente Trattato.
SEZIONE IV – REPUBBLICA FEDERALE POPOLARE DI JUGOSLAVIA (CLAUSOLE SPECIALI)
Art. 11.
- L’Italia cede, mediante il presente Trattato, in piena sovranità alla Jugoslavia il territorio situato fra i nuovi confini della Jugoslavia, come sono definiti dagli articoli 3 e 22 ed i confini italo-jugoslavi, quali esistevano il 1º gennaio 1938, come pure il comune di Zara e tutte le isole e isolette adiacenti, che sono comprese nelle zone seguenti:
- La zona delimitata:
- al nord dal parallelo 42º50’N;
- al sud dal parallelo 42º42’N;
- all’est dal meridiano 17º10’E;
- all’ovest dal meridiano 16º25’E;
- La zona delimitata:
- al nord da una linea che passa attraverso il Porto del Quieto, equidistante dalla costa del Territorio Libero di Trieste e da quella della Jugoslavia, e di là raggiunge il punto 45º15’N – 13º24’E.
- al sud dal parallelo 44º23’N;
- all’ovest da una linea che congiunge i punti seguenti:
- 45º15’N – 13º24′ E
- 44º51’N – 13º37′ E
- 44º23’N – 14º18’30E
- ad oriente dalla costa occidentale dell’Istria, le isole ed il territorio continentale della Jugoslavia.
Una carta di queste zone figura nell’Allegato I.
2. L’Italia cede alla Jugoslavia in piena sovranità l’Isola di Pelagosa e le isolette adiacenti.
L’Isola di Pelagosa rimarrà smilitarizzata.
I pescatori italiani godranno a Pelagosa e nelle acque circostanti degli stessi diritti di cui godevano i pescatori jugoslavi prima del 6 aprile 1941.
Art. 12.
- L’Italia restituirà alla Jugoslavia tutti gli oggetti di carattere artistico, storico, scientifico, educativo o religioso (compresi tutti gli atti, manoscritti, documenti e materiale bibliografico) come pure gli archivi amministrativi (pratiche, registri, piani e documenti di qualunque specie) che, per effetto dell’occupazione italiana, vennero rimossi fra il 4 novembre 1918 ed il 2 marzo 1924 dai territori ceduti alla Jugoslavia in base ai Trattati firmati a Rapallo il 12 novembre 1920 ed a Roma il 27 gennaio 1924. L’Italia restituirà pure tutti gli oggetti appartenenti ai detti territori e facenti parte delle categorie di cui sopra, rimossi dalla Missione italiana di armistizio che sedette a Vienna dopo la prima guerra mondiale.
- L’Italia consegnerà alla Jugoslavia tutti gli oggetti aventi giuridicamente carattere di beni pubblici e facenti parte delle categorie di cui al paragrafo 1 dell’articolo presente, rimossi a partire dal 4 novembre 1918 dal territorio che, in base al presente Trattato, viene ceduto alla Jugoslavia e quelli, relativi al detto territorio, che l’Italia ricevette dall’Austria e dall’Ungheria per effetto dei Trattati di pace firmati a St. Germain il 10 settembre 1919 ed al Trianon il 4 giugno 1920 ed in base alla Convenzione fra l’Austria e l’Italia firmata a Vienna il 4 maggio 1920.
- Se, in determinati casi, l’Italia si trovasse nell’impossibilità di restituire o consegnare alla Jugoslavia gli oggetti di cui ai paragrafi 1 e 2 del presente articolo, l’Italia consegnerà alla Jugoslavia oggetti dello stesso genere e di valore approssimativamente equivalente a quello degli oggetti rimossi, in quanto siffatti oggetti possano trovarsi in Italia.
Art. 13.
L’approvvigionamento dell’acqua per Gorizia ed i suoi dintorni sarà regolato a norma delle disposizioni dell’Allegato V.
PARTE II
CLAUSOLE POLITICHE
SEZIONE I -CLAUSOLE GENERALI
Art. 15.
L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone soggette alla sua giurisdizione, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, di godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ivi compresa la libertà d’espressione, di stampa e di diffusione, di culto, di opinione politica e di pubblica riunione.
Art. 16.
L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguiterà alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle forze armate, per solo fatto di avere, durante il periodo di tempo corrente dal 10 giugno 1940 all’entrata in vigore del presente Trattato, espressa simpatia od avere agito in favore della causa delle Potenze Alleate ed Associate.
Art. 17.
L’Italia, la quale, in conformità dell’articolo 30 della Convenzione di Armistizio, ha preso misure per sciogliere le organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà, in territorio italiano, la rinascita di simili organizzazioni, siano esse politiche, militari o militarizzate, che abbiano per oggetto di privare il popolo dei suoi diritti democratici.
SEZIONE II – NAZIONALITA’ – DIRITTI CIVILI E POLITICI
Art. 19.
- I cittadini italiani che, al 10 giugno 1940, erano domiciliati in territorio ceduto dall’Italia ad un altro Stato per effetto del presente Trattato, ed i loro figli nati dopo quella data diverranno, sotto riserva di quanto dispone il paragrafo seguente, cittadini godenti di pieni diritti civili e politici dello Stato al quale il territorio viene ceduto, secondo le leggi che a tale fine dovranno essere emanate dallo Stato medesimo entro tre mesi dall’entrata in vigore del presente Trattato. Essi perderanno la loro cittadinanza italiana al momento in cui diverranno cittadini dello Stato subentrante.
- Il Governo dello Stato al quale il territorio è trasferito, dovrà disporre, mediante appropriata legislazione entro tre mesi dall’entrata in vigore del presente Trattato, perché tutte le persone di cui al paragrafo 1, di età superiore ai diciotto anni (e tutte le persone coniugate, siano esse al disotto od al disopra di tale età) la cui lingua usuale è l’italiano, abbiano facoltà di optare per la cittadinanza italiana entro il termine di un anno dall’entrata in vigore del presente Trattato. Qualunque persona che opti in tal senso conserverà la cittadinanza italiana e non si considererà avere acquistato la cittadinanza dello Stato al quale il territorio viene trasferito. L’opzione esercitata dal marito non verrà considerata opzione da parte della moglie. L’opzione esercitata dal padre, o se il padre non è vivente, dalla madre, si estenderà tuttavia automaticamente a tutti i figli non coniugati, di età inferiore ai diciotto anni.
- Lo Stato al quale il territorio è ceduto potrà esigere che coloro che si avvalgono dell’opzione, si trasferiscano in Italia entro un anno dalla data in cui l’opzione venne esercitata.
- Lo Stato al quale il territorio è ceduto dovrà assicurare, conformemente alle sue leggi fondamentali, a tutte le persone che si trovano nel territorio stesso, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ivi comprese la libertà di espressione, di stampa e di diffusione, di culto, di opinione politica, e di pubblica riunione.
Art. 20.
- Entro il termine di un anno dall’entrata in vigore del presente Trattato, i cittadini italiani di oltre 18 anni di età (e quelli coniugati, siano essi al disotto od al disopra di tale età), la cui lingua usuale è una delle lingue jugoslave (serbo, croato o sloveno) e che sono domiciliati in territorio italiano, potranno, facendone domanda ad un rappresentante diplomatico o consolare jugoslavo in Italia, acquistare la nazionalità jugoslava, se le autorità jugoslave accetteranno la loro istanza.
- In siffatti casi il Governo jugoslavo, comunicherà al Governo italiano, per via diplomatica gli elenchi delle persone che avranno così acquistato la nazionalità jugoslava. Le persone indicate in tali elenchi perderanno la loro nazionalità italiana alla data della suddetta comunicazione ufficiale.
- Il Governo italiano potrà esigere che tali persone trasferiscano la loro residenza in Jugoslavia entro il termine di un anno dalla data della suddetta comunicazione ufficiale.
- Ai fini del presente articolo varranno le medesime norme, relative all’effetto delle opzioni rispetto alle mogli ed ai figli, contenute nell’articolo 19, paragrafo 2.
- Le disposizioni dell’Allegato XIV, paragrafo 10 del presente Trattato, che si applicano al trasferimento dei beni appartenenti alle persone che optano per la nazionalità italiana, si applicheranno egualmente al trasferimento dei beni tenenti alle persone che optano per la nazionalità jugoslava, in base al presente articolo.
SEZIONE III – TERRITORIO LIBERO DI TRIESTE
Art. 21.
- È costituito in forza del presente Trattato il Territorio Libero di Trieste, consistente dell’area che giace fra il mare Adriatico ed i confini definiti negli articoli 4 e 22 del presente Trattato. Il Territorio Libero di Trieste è riconosciuto dalle Potenze Alleate ed Associate e dall’Italia, le quali convengono, che la sua integrità e indipendenza saranno assicurate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
- La sovranità italiana sulla zona costituente il Territorio Libero di Trieste, così come esso è sopra definito, cesserà con l’entrata in vigore del presente Trattato.
- Dal momento in cui la sovranità italiana sulla predetta zona avrà cessato d’esistere il Territorio Libero di Trieste sarà governato in conformità di uno Strumento per il regime provvisorio, redatto dal Consiglio dei Ministri degli Esteri e approvato dal Consiglio di Sicurezza. Detto Strumento resterà in vigore fino alla data che il Consiglio di Sicurezza determinerà per l’entrata in vigore dello Statuto Permanente, che dovrà essere stato da esso Consiglio approvato. A decorrere da tale data, il Territorio Libero sarà govemato secondo le disposizioni dello Statuto Permanente. I testi dello Statuto permanente e dello Strumento per il regime provvisorio sono contenuti negli Allegati VI e VII.
- Il Territorio Libero di Trieste non sarà considerato come territorio ceduto, ai sensi dell’articolo 19 e dell’Allegato XIV del presente Trattato.
- L’Italia e la Jugoslavia s’impegnano a dare al Territorio Libero di Trieste, le garanzie di cui all’Allegato IX.
Art. 22.
La frontiera fra Jugoslavia ed il Territorio Libero di Trieste sarà fissata come segue:
- Il confine parte da un punto situato sulla linea di demarcazione amministrativa che separa le province di Gorizia e di Trieste, a circa 2 chilometri a nord-est del villaggio di S. Giovanni e a circa mezzo chilometro a nord-ovest di quota 208, che costituisce il punto d’incontro delle frontiere della Jugoslavia, dell’Italia e del Territorio Libero di Trieste; segue la detta linea di demarcazione fino a Monte Lanaro (quota 546); continua a sud-est fino a Monte Cocusso (quota 672) passando per le quote 461, Meducia (quota 475), Monte dei Pini (quota 476) e quota 407, che taglia la Strada Nazionale n. 58, che va da Trieste a Sesana, a circa 3,3 chilometri a sud-ovest di detta città e lasciando ad est i villaggi di Vogliano e di Orle e a circa 0,4 chilometri ad ovest, il villaggio di Zolla.
- Da Monte Cocusso, la linea, continuando in direzione sud-est lascia ad ovest il villaggio di Grozzana, raggiunge il Monte Goli (quota 621), poi, proseguendo verso sud-ovest, taglia la strada tra Trieste e Cosina alla quota 455 e la linea ferroviaria alla quota 485; passa per le quote 416 e 326, lasciando i villaggi di Beca e Castel in territorio jugoslavo, taglia la strada tra Ospo e Gabrovizza d’Istria a circa 100 metri a sud-est di Ospo; taglia poi il fiume Risana e la strada fra Villa Decani e Risano ad un punto a circa 350 metri ad ovest di Risano, lasciando in territorio jugoslavo il villaggio di Rosario e la strada tra Risano e San Sergio. Da questo punto la linea procede fino al crocevia situato a circa 1 chilometro a nord-est della quota 362, passando per le quote 285 e 354.
- Di qui, la linea prosegue fino ad un punto a circa mezzo chilometro ad est del villaggio di Cernova, tagliando il fiume Dragogna a circa 1 chilometro a nord di detto villaggio, lasciando ad ovest i villaggi di Bucciai e Truscolo e ad est il villaggio di Tersecco; di qui, procede in direzione di sud-ovest a sud-est della strada che congiunge i villaggi di Cernova e Chervoi, lasciando questa strada a 0,8 chilometri a est del villaggio di Cucciani; prosegue poi in direzione generale di sud, sud-ovest, passando a circa 0,4 chilometri ad est del monte Braico e a circa 0,4 chilometri ad ovest del villaggio di Sterna Filaria, lasciando ad oriente la strada che va da detto villaggio a Piemonte, passando a circa 0,4 chilometri ad ovest della città di Piemonte e a circa mezzo chilometro ad est della città di Castagna e raggiungendo il fiume Quieto ad un punto a 1,6 chilometri circa, a sud-ovest della città di Castagna.
- Di qui il tracciato segue il canale principale rettificato del Quieto fino alla foce, e, passando attraverso Porta del Quieto, raggiunge il mare aperto, seguendo una linea ad eguale distanza dalla costa del Territorio Libero di Trieste e da quella della Jugoslavia.
La carta alla quale la descrizione presente si riferisce, fa parte dell’Allegato I.
PARTE III
CRIMINALI DI GUERRA
Art. 45.
- L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare l’arresto e la consegna ai fini di un successivo giudizio:
- delle persone accusate di aver commesso od ordinato crimini di guerra e crimini contro la pace o l’umanità, o di complicità in siffatti crimini;
- dei sudditi delle Potenze Alleate od Associate, accusati di aver violato le leggi del proprio paese, per aver commesso atti di tradimento o di collaborazione con il nemico, durante la guerra.
- A richiesta del Governo delle Nazioni Unite interessata, l’Italia dovrà assicurare inoltre la comparizione come testimoni delle persone sottoposte alla sua giurisdizione, le cui deposizioni siano necessarie per poter giudicare le persone di cui al paragrafo 1 del presente articolo.
- Ogni divergenza concernente l’applicazione delle disposizioni dei paragrafi 1 e 2 del presente articolo sarà sottoposta da uno qualsiasi dei Governi interessati agli Ambasciatori a Roma dell’Unione Sovietica, del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e della Francia, i quali dovranno raggiungere un accordo sulla questione oggetto della divergenza.
SEZIONE VII – AZIONE PREVENTIVA CONTRO IL RIARMO DELLA GERMANIA E DEL GIAPPONE
Art. 68.
L’Italia s’impegna a prestare alle Potenze Alleate e Associate tutta la sua collaborazione, allo scopo di mettere la Germania e il Giappone in condizione di non poter adottare, fuori dei territori della Germania e del Giappone, misure tendenti al proprio riarmo.
Art. 69.
L’Italia s’impegna a non permettere l’impiego o l’allenamento in Italia di tecnici, compreso il personale dell’aviazione militare o civile, che siano o siano stati sudditi della Germania o del Giappone.
Art. 70.
L’Italia s’impegna a non acquistare e a non fabbricare alcun apparecchio civile che sia di disegno tedesco o giapponese o che comporti importanti elementi di fabbricazione o di disegno tedesco o giapponese.
PARTE VI
INDENNITA’ IN CONSEGUENZA DELLA GUERRA
SEZIONE I – RIPARAZIONI
Art. 74.
- L’Italia pagherà riparazioni a favore dei seguenti Stati:
- Albania, per un ammontare di 5.000.000 di dollari;
- Etiopia, per un ammontare di 25.000.000 di dollari;
- Grecia, per un ammontare di 105.000.000 di dollari;
- Jugoslavia, per un ammontare di 125.000.000 di dollari.
Tali pagamenti saranno effettuati nello spazio di 7 anni, a decorrere dall’entrata in vigore del presente Trattato. Durante i primi due anni non si farà luogo a prestazioni tratte dalla produzione italiana corrente.
SEZIONE III – RINUNCIA A RAGIONI DA PARTE DELL’ITALIA
Art. 76.
- L’Italia rinuncia a far valere contro le Potenze Alleate ed Associate, ogni ragione di qualsiasi natura, da parte del Governo o di cittadini italiani, che possa sorgere direttamente dal fatto della guerra o dai provvedimenti adottati a seguito dell’esistenza di uno stato di guerra in Europa, dopo il 1º settembre 1939, indipendentemente dai fatto che la Potenza Alleata o Associata interessata fosse o non fosse in guerra non l’Italia a quella data. Sono comprese in tale rinuncia:
- le domande pel risarcimento di perdite o danni subiti in conseguenza di atti delle Forze Armate o delle autorità di Potenze Alleate o Associate;
- le ragioni risultanti dalla presenza, dalle operazioni o dalle azioni delle Forze Armate od autorità di Potenze Alleate o Associate in territorio italiano;
- le doglianze rispetto a decreti ed ordinanze dei tribunali delle Prede di Potenze Alleate o Associate, impegnandosi l’Italia a riconoscere come validi e aventi forza esecutiva tutti i decreti e le ordinanze di detti tribunali emessi alla data del 1º settembre 1939 o successivamente e concernenti navi italiane, merci italiane o il pagamento delle spese;
- le ragioni risultanti dall’esercizio o dall’asserto esercizio di diritti di belligeranza.
- Le disposizioni del presente articolo precluderanno, completamente e definitivamente, ogni domanda della specie di quelle a cui questo articolo si riferisce, che rimarrà da questo momento estinta, quali che siano le parti interessate. Il Governo italiano accetta di corrispondere equa indennità in lire alle persone che abbiano fornito, a seguito di requisizione, merci o servizi a favore delle Forze Armate di Potenze Alleate o Associate in territorio italiano e per soddisfare le domande avanzate contro le Forze Armate di Potenze Alleate o Associate relative a danni causati in territorio italiano e non provenienti da fatti di guerra.
- L’Italia rinuncia ugualmente a fare valere domande della specie di quelle previste dal paragrafo 1 del presente articolo, da parte del Governo o cittadini italiani contro una qualsiasi delle Nazioni Unite, che abbia rotto le relazioni diplomatiche con l’Italia e che abbia adottato provvedimenti in collaborazione con le Potenze Alleate ed Associate.
- Il Governo italiano assumerà piena responsabilità della valuta militare alleata emessa in Italia dalle autorità militari alleate, compresa tutta la valuta in circolazione alla data dell’entrata in vigore del presente Trattato.
- La rinuncia da parte dell’Italia, ai sensi del paragrafo 1 del presente articolo, si estende ad ogni domanda nascente dai provvedimenti adottati da qualunque delle Potenze Alleate ed Associate nei confronti delle navi italiane, tra il 1º settembre 1939 e la data di entrata in vigore del presente Trattato e ad ogni domanda o debito risultante dalle Convenzioni sui prigionieri di guerra, attualmente in vigore.
- Le disposizioni del presente articolo non dovranno essere interpretate nel senso di recare pregiudizio ai diritti di proprietà sui cavi sottomarini, che, allo scoppio delle ostilità, appartenevano al Governo italiano od a cittadini italiani. Il presente paragrafo non precluderà l’applicazione, nei riguardi dei cavi sottomarini, dell’articolo 79 e dell’Allegato XIV.
PARTE VII
BENI, DIRITTI ED INTERESSI
SEZIONE II – BENI ITALIANI SITUATI NEL TERRITORIO DELLE POTENZE ALLEATE E ASSOCIATE
Art. 79.
- Ciascuna delle Potenze Alleate e Associate avrà il diritto di requisire, detenere, liquidare o prendere ogni altra azione nei confronti di tutti i beni, diritti e interessi, che, alla data dell’entrata in vigore del presente Trattato si trovino entro il suo territorio che appartengano all’Italia o a cittadini italiani e avrà inoltre il diritto di utilizzare tali beni o proventi della loro liquidazione per quei fini che riterrà opportuni, entro il limite dell’ammontare delle sue domande o di quelle dei suoi cittadini contro l’Italia o i cittadini italiani, ivi compresi i crediti che non siano stati interamente regolati in base ad altri articoli del presente Trattato. Tutti i beni italiani od i proventi della loro liquidazione, che eccedano l’ammontare di dette domande, saranno restituiti.
- La liquidazione dei beni italiani e le misure in base alle quali ne verrà disposto, dovranno essere attuate in conformità della legislazione delle Potenze Alleate o Associate interessate. Per quanto riguarda detti beni, il proprietario italiano non avrà altri diritti che quelli che a lui possa concedere la legislazione suddetta.
- Il Governo italiano s’impegna a indennizzare i cittadini italiani, i cui beni saranno confiscati ai sensi del presente articolo e non saranno loro restituiti.
- Il presente articolo non pone l’obbligo per alcuna delle Potenze Alleate o Associate, di restituire al Governo italiano od ai cittadini italiani, diritti di proprietà industriale, né di contare tali diritti nei calcolo delle somme, che potranno essere trattenute, ai sensi del paragrafo 1 del prese
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"Il numero totale delle persone alla cui memoria sono stati attribuiti i riconoscimenti è di 323... inferiore persino alla cifra di 471 “martiri delle foibe” riportata dalla stampa fascista... Coloro i cui corpi sono stati gettati in una foiba sono 33 (10,22%) ..."
Lettera Aperta al Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca
alla vigilia del 10 febbraio “Giorno del Ricordo”
Gentile Ministro,
a fine febbraio dell’anno scorso sono stati prorogati per dieci anni i termini per il conferimento di riconoscimenti e medaglie a vittime (ai loro congiunti) delle foibe del ’43 e del ’45, in base alla legge 92 del 2004 che ha istituito il «Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale» per il 10 febbraio di ogni anno.
Ma quanti e chi sono stati coloro che hanno ricevuto riconoscimenti e medaglie nei primi dieci anni di applicazione della legge?
La domanda è tanto più importante alla luce del “caso Mori”, il caso del parmense Paride Mori fascista repubblichino volontario al confine nordorientale col grado di capitano del Battaglione Bersaglieri “Mussolini” ucciso nel ’44 con armi da fuoco dai partigiani jugoslavi, al quale le massime autorità della Repubblica il 10 febbraio 2015 hanno conferito la medaglia da vittima delle foibe e poi l’hanno revocata in seguito alle proteste antifasciste.
Non esiste un elenco ufficiale centrale; secondo ricerche e studi storici recenti (in particolare di Sandi Volk, all’indirizzo web www.diecifebbraio.info/2017/01/truffe-fuffe-e-fascisti-i-premiati-del-giorno-del-ricordo-un-bilancio-provvisorio/) le persone insignite di medaglie, pur nell’accezione molto ampia del termine “infoibato” introdotto nella legge 92/2004, risultano appena poco più di trecento, 323, un numero assai inferiore a quello delle migliaia e decine di migliaia di “infoibati” sostenuto dai promotori della legge 92, di cui la gran parte, 250 (77%), sono state appartenenti a formazioni armate dell’Italia fascista e personale politico fascista.
Sulla base di questi numeri - ma anche ipotizzando l’esistenza di altre vittime non presenti fra i beneficiari del riconoscimento, dispersi, scomparsi o fatti prigionieri dagli jugoslavi al momento della Liberazione (maggio’45), anche considerando il fenomeno stesso dell’esodo da Istria e Dalmazia in Italia, che ha riguardato 200.000÷250.000 persone compresa una parte per quanto piccola di sloveni e croati, è avvenuto nel corso di oltre un decennio, e (a differenza di fenomeni analoghi avvenuti altrove) non è stato imposto dalle autorità jugoslave con provvedimenti di espulsione - è insostenibile la tesi che vi sia stato nei confronti dell’Italia e degli italiani un «disegno annessionistico slavo» che «assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica» come disse il Presidente Napolitano il 10 febbraio 2007.
Semmai disegno annessionistico e sprezzante razzismo nei confronti delle popolazioni slave vi fu da parte del fascismo e di Mussolini. Con la guerra d’aggressione e d’occupazione della Jugoslavia, che nulla aveva fatto all’Italia, condotta al fianco dell’alleato nazista, con l’italianizzazione forzata nel corso del ventennio precedente di zone del confine abitate da sloveni e croati, con le violenze squadriste dei primi anni ’20 nei loro confronti. Il razzismo del fascismo si manifestò la prima volta, quasi vent’anni prima delle leggi contro gli ebrei, nel ’20 a Pola con le parole di Mussolini: «Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone».
Con la legge 92/2004 che ha attribuito medaglie della Repubblica immeritate, che ha istituito un giorno di solennità civile nazionale il 10 febbraio, che ha introdotto anche nelle scuole racconti del passato parziali e incompleti, si è generato un revisionismo storico del tutto inaccettabile. I soggetti vengono considerati in modo rovesciato rispetto alla realtà storica, in definitiva facendo dell’aggressore, l’Italia fascista, la vittima, e dell’aggredito, le popolazioni dell’ex Jugoslavia, il carnefice.
Nella scuola della Repubblica vanno fatte ricostruzioni storiche corrette, ben più documentate e complete di quanto è stato negli ultimi dieci anni in occasione del 10 febbraio.
Alla vigilia del 10 febbraio alle autorità scolastiche e a Lei stessa sig. Ministro dell’Istruzione Università e Ricerca chiediamo: che nelle scuole rievocazioni e iniziative sui fatti e i temi oggetto della legge 92/2004 non siano lasciate in modo esclusivo alle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, alle quali in questi anni sono stati dati consistenti finanziamenti pubblici, ma vedano coinvolti anche studiosi, storici, associazioni culturali, istituti storici, ecc., impegnati nel dibattito e nella ricerca in merito; che vengano non più sottaciuti ma adeguatamente fatti conoscere i crimini dell’Italia fascista nei Balcani e in Jugoslavia (con morti delle popolazioni jugoslave non solo precedenti i morti delle foibe ma di numero di più ordini di grandezza superiore a questi); che venga proiettato l’istruttivo al riguardo film documentario inglese della BBC «Fascist Legacy» acquistato dalla RAI; che vengano ricordate e commemorate le tante migliaia di soldati italiani, i quarantamila soldati italiani, che in Jugoslavia l’indomani dell’8 settembre ’43 scelsero di combattere come partigiani insieme con la Resistenza Jugoslava contro il nazifascismo e in ventimila morirono in questa guerra di liberazione transnazionale, così riscattando l’Italia dall’onta in cui il fascismo l’aveva gettata.
Giuseppe Aragno storico, Napoli
Boris Bellone Segretario ANPPIA provinciale Torino
Andrea Catone Direttore della rivista “MarxVentuno”
Claudia Cernigoi giornalista e ricercatrice storica, Trieste
Serena Colonna Segretaria Nazionale ANPPIA
Davide Conti storico e consulente dell’Archivio Storico del Senato, Roma
Angelo Del Boca storico, Università di Torino
Angelo D'Orsi storico, Università di Torino
Sante Giovannetti partigiano, Roma
Eric Gobetti storico freelance, Torino
Alexander Hobel ricercatore di storia contemporanea e saggista, Roma
Alessandra Kersevan storica ed editrice, Udine
Umberto Lorenzoni partigiano, Presidente ANPI provinciale Treviso
Gabriella Manelli già Preside Liceo Classico ed ex Presidente ANPI provinciale Parma
Rita Martufi ricercatrice, direttrice CESTES
Raul Mordenti docente, Università Tor Vergata Roma
Carla Nespolo membro del Comitato Nazionale ANPI
Miriam Pellegrini Ferri partigiana, Roma
Vito Francesco Polcaro ricercatore, Roma
Giacomo Scotti scrittore e storico, Fiume - Trieste
Roberto Spocci Presidente ANPPIA Parma
Luciano Vasapollo docente, Università La Sapienza Roma
Alessandro (Sandi) Volk storico, Trieste
Roma, 9 febbraio 2017
per contatti: diecifeb @ diecifebbraio.info
Oggetto: Il Poligrafico di Stato oltraggia le vittime delle guerre europee
Data: 6 febbraio 2017 18:18:45 CET
Apprendiamo dalla stampa che il Poligrafico di Stato ha ricevuto un riconoscimento internazionale per le monete celebrative dei "70 anni di pace in Europa", un progetto vergognoso e oltremodo offensivo per tutte le vittime dei conflitti che hanno insanguinato questo continente da dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Come si può parlare di 70 anni di pace agli jugoslavi che hanno visto il loro paese distrutto anche grazie ad alcuni stati europei? Ai greci che ancora pagano il prezzo di una infinita guerra contro la Turchia? Agli spagnoli che solo grazie ad un eroica resistenza sono riusciti a porre fine alla dittatura franchista?
Questa iniziativa ci porta a pensare che lo Stato italiano abbia un'idea alquanto malsana di pace: sicuramente la intende come "nessuna scocciatura in casa propria". Ma anche un bambino sa bene che pace significa "non fare la guerra". Eppure gli stati europei ne hanno fatte moltissime di guerre negli ultimi 70 anni, ma sempre in altri stati. Per l'Italia basti ricordare: Somalia, 2 volte in Iraq, Yugoslavia, Afganistan, Libia, ecc.
Se guardiamo ad altri partner europei lo scenario è ancora peggiore, ad esempio la Croazia ha attuato una feroce pulizia etnica di matrice fascista massacrando migliaia di persone.
Invece la Francia oltre alle guerre a cui ha partecipato insieme all'Italia ha fatto: l'intervento in Indocina, la criminale permanenza in Algeria, la guerra in Siria, la guerra in Mali e tanti altri interventi in Africa.
Analogo discorso vale per tutti gli altri stati europei con un passato coloniale che si è trascinato (più o meno esplicitamente) oltre il secondo conflitto mondiale: Regno Unito, Belgio, Portogallo, ecc.
Se si fa la guerra in altri paesi e si sostiene di stare in un periodo di pace, si è degli ipocriti.
Le guerre europee non sono tutte finite. L'eurocentrismo porta a pensare che l'Europa sia solo l'Unione Europea, ma ovviamente non è così, quindi nella lista dei conflitti del vecchio continente va inserito anche quello attualmente in corso nell'ex-Ucraina. Proprio in questi giorni l'artiglieria di Kiev ha ripreso a bombardare insistentemente i civili delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, un bagno di sangue che si sta consumando in un assordante silenzio.
Pertanto chiediamo al Ministero delle Finanze di presentare delle pubbliche scuse per l'emissione di queste oltraggiose monete.
Se si deve fare una moneta celebrativa di qualcosa, si scelga un altro tema. La si può dedicare al popolo del Donbass che da tre anni eroicamente resiste alla violenza fascista, oppure a tutte le vittime delle guerre sferrate dagli stati europei negli ultimi 70 anni.
Comitato Donbass Antinazista
dott.ssa Alessandra Kersevan, studiosa e coordinatrice del Gruppo di lavoro Resistenza Storica
dott. Davide Conti, ricercatore e consulente presso l'Archivio Storico del Senato della Repubblica
I dettagli per l'accesso non sono ancora noti, sarà probabilmente necessario accreditarsi come giornalisti; agli ambienti della Camera si accede con abbigliamento adeguato (giacca cravatta ecc.).
alle ore 21 presso il Cinema Astra – Piazzale Volta 3
FOIBE E FASCISMO: manifestazione antifascista alternativa al "giorno del ricordo" del 10 febbraio (XII ed. – 2017)
ore 21:00 conferenza: Crimini e criminali fascisti nei Balcani e in Jugoslavia
con DAVIDE CONTI, storico, consulente Archivio Storico Senato della Repubblica
ore 22:00 filmato: sequenze dal documentario della BBC "FASCIST LEGACY" sui crimini dell'Italia fascista in Jugoslavia
ingresso gratuito – promuovono: ANPI, ANPPIA, Comitato Antifascista Antimperialista e per la Memoria Storica
evento FB: https://www.facebook.com/events/1190804784369909/
scarica la locandina: https://www.cnj.it//INIZIATIVE/PARMA/controm2017.pdf
GIORNO DEL RICORDO: GENESI DI UNA RICORRENZA E USI POLITICI DELLA STORIA
interventi di Piero Purini e Federico Tenca Montini
Pordenone, venerdì 10 febbraio 2017
I GIORNI DEI RICORDI: STORIA, STORIOGRAFIA E MANIPOLAZIONI SULLE FOIBE E IL CONFINE ORIENTALE
intervento di Federico Tenca Montini
... Maldestro tentativo di censura a Pordenone, dove il Comune sta pesantemente sabotando l’incontro... Gli organizzatori ... dopo il diniego del Comune si erano indirizzati verso il ridotto del vicino Teatro Verdi (regolarmente concesso pagando l’affitto della sala in anticipo) ma il 5 febbraio ecco arrivare la revoca della concessione della sala anche da parte del Teatro...
Orvieto (TR), sabato 11 febbraio 2017
FOIBE E CONFINE ORIENTALE (titolo provvisorio)
interventi di Alessandra Kersevan
e Angelo Bitti, ricercatore I.S.U.C.
letture di Laura Ricci
introduzione a cura del Centro di Documentazione Popolare
Vittorio Veneto (TV), sabato 11 febbraio 2017
I GIORNI DEI RICORDI: STORIA, STORIOGRAFIA E MANIPOLAZIONI SULLE FOIBE E IL CONFINE ORIENTALE
intervento di Federico Tenca Montini
Arcore (MI), domenica 12 febbraio 2017
OPERAZIONE FOIBE TRA STORIA E MITO
intervento di Claudia Cernigoi
Modena, domenica 19 febbraio 2017
FOIBE E CONFINI ORIENTALI: LE AMNESIE DELLA REPUBBLICA
intervento di Alessandra Kersevan
PRESIDIO
in solidarietà alla popolazione del Donbass colpita dalla guerra
Dal gennaio 2017 la situazione in Donbass si è aggravata. La guerra infuria con morti e feriti, case distrutte, danni ingenti alle infrastrutture con persone al freddo a 25 gradi sotto zero: i bombardamenti hanno distrutto acquedotti, fabbriche, infrastrutture civili, scuole e ospedali. Mentre in Ucraina si celebrano gli “eroi” collaborazionisti dei nazisti come Bandera, mentre le burocrazie europee si voltano dall’altra parte, il martellamento ucraino colpisce Makeevka, Jasinovataja e Gorlovka. IL COORDINAMENTO UCRAINA ANTIFASCISTA INVITA TUTTI GLI ANTIFASCISTI AD ESPRIMERE SOLIDARIETA' AL DONBASS.
PACE NELL'UCRAINA COLPITA DALLE BOMBE DI UN GOVERNO NATO DA UN GOLPE SOSTENUTO DA FORZE FASCISTE E NAZIONALISTE CON L'AVALLO DELLA NATO
Comitato Ucraina Antifascista Bologna
(aderente al Coordinamento Ucraina Antifascista)
per adesioni e contatti: ucraina.antifascista.bo@...
evento FB: https://www.facebook.com/events/243817632731380/
storia, storiografia e manipolazioni sulle foibe e il confine orientale
Quali processi comunicativi costruiscono una «narrazione» sostitutiva della storia? Quale finalità politica sottende a una operazione di questa natura? A queste domande proviamo a rispondere grazie al lavoro di Piero Purini, e al suo libro "Metamorfosi etniche: i cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria, 1914-1975", (Edizioni Kappa VU), un testo che affronta le cause politiche e le implicazioni sociologiche delle memorie e degli esodi del confine orientale.
Grazie agli studi di Piero Purini tutto diventa più comprensibile: partiremo dell'annessione dei territori del confine orientale avvenuta tra le due guerre mondiali, della successiva espulsione delle moniranze, del dominio di questi territori da parte dell'Italia fascista e delle conseguenze a cui questi eventi hanno portato. Lo sguardo sarà rivolto anche alla contemporenaità: alla propaganda revisionista sempre più intensa e portata a tutti i livelli da organizzazioni neofasciste e dalle istituzioni - come la recente vicenda della "foiba volante"di Rosazzo, archiviata con un nulla di fatto dalla Procura di Udine - ha evidenziato.
IL PROGRAMMA:
- Piero Purini/storico
Autore di "Metamorfosi etniche: i cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria, 1914-1975"
seguirà dibattito
sarà presente un banchetto con libri e dossier sul tema
Organizzano
NEA (Osservatorio Antifascista del Nord-Est)
alle ore 21 presso il Cinema Astra – Piazzale Volta 3
FOIBE E FASCISMO
manifestazione antifascista alternativa al "giorno del ricordo" del 10 febbraio
dodicesima edizione – 2017
ore 21:00 conferenza
Crimini e criminali fascisti nei Balcani e in Jugoslavia
DAVIDE CONTI
storico, consulente Archivio Storico Senato della Repubblica
ore 22:00 filmato
sequenze dal documentario della BBC
FASCIST LEGACY
sui crimini dell'Italia fascista in Jugoslavia
ingresso gratuito
promuovono: ANPI, ANPPIA, Comitato Antifascista Antimperialista e per la Memoria Storica
evento FB: https://www.facebook.com/events/1190804784369909/
scarica la locandina: https://www.cnj.it//INIZIATIVE/PARMA/controm2017.pdf
Il velo “umanitario” sulle missioni militari all’estero va strappato
Il vice presidente della Commissione Difesa, on. Massimo Artini (ex M5S), ha replicato con un lungo e articolato commento al nostro articolo di venerdi – ovviamente e fortemente critico – verso la legge approvata a luglio 2016 ed entrata in vigore il 31 dicembre 2016. Ci contesta una lettura negativa di un impianto legislativo a suo dire positivo. A noi così non sembra affatto, e non sembra esserlo stato neanche per 41 senatori che si sono astenuti o votato direttamente contro (al Senato l'astensione vale come voto contrario, ndr).
La legge quadro sulle missioni militari all'estero, infatti è stata approvata al Senato con 194 sì, un no e 40 astenuti, tra questi ultimi i senatori del M5S e alcuni del gruppo misto. Il voto contrario alla legge e' stato della senatrice Paola De Pin (anche lei ex M5S).
La legge disciplina (art. 1) «la partecipazione delle forze armate, delle forze di polizia … e dei corpi civili di pace a missioni internazionali istituite nell'ambito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) o di altre organizzazioni internazionali cui l'Italia appartiene» (in particolare, come ben si comprende, la NATO e la Ue), toglie (art. 2) al Parlamento, che può intervenire solo con generici “atti d'indirizzo”, la facoltà di approvare o respingere, in modo vincolante, le missioni militari, e dà, viceversa, al Governo (art. 2 e art. 3), pieni poteri nella realizzazione e nella conduzione delle missioni di guerra del nostro Paese.
All'apparenza la Legge prevede che la decisione di spedire militari in teatri di guerra adottata dal governo, vada inviata al Parlamento, il quale con appropriati atti di indirizzo, può dare luce verde o meno alla missione. Tale autorizzazione può essere sottoposta a condizioni. Dal momento che si è in presenza del totale coinvolgimento dei due rami del Parlamento, se non venisse dato l’assenso dai deputati e senatori, la missione internazionale non si potrebbe realizzare. Probabilmente, su questo impianto, a luglio 2016, quando la legge è stata approvata, il governo già riteneva che il Senato non ci sarebbe più stato in base alla controriforma costituzionale che il paese ha respinto a maggioranza il 4 dicembre con il referendum. Avevano insomma fatto i conti senza l'oste e venduto la pelle dell'orso prima di averlo ucciso.
Un risultato è stato comunque raggiunto dal governo. Le missioni militari all'estero non dovranno essere rinnovate (anche economicamente) ogni sei mesi ma saranno una decisione strategica che può essere revocata solo con un atto politico del governo. Nè ci sembra che la gravità della Legge sulle missioni militari possa essere attenuata da una delle operazioni più insidiose che abbiamo denunciato negli anni scorsi: i cosiddetti Corpi civili di pace che potranno affiancare le missioni militari vere e proprie. Su questo vedi un articolo pubblicato tempo addietro.
E' una lettura catastrofista e pregiudiziale della legge? Per dimostrare che su questo pesano e fanno la differenza i presupposti di partenza, è interessante vedere come invece i “laboratori” legati agli apparati di potere hanno dato la loro lettura delle legge stessa.
Ad esempio secondo la fondazione Astrid:“La legge quadro in questo senso costituisce un vero e proprio salto di qualità nella governance della nostra politica estera e di difesa”. Prendiamo ancora a prestito le valutazioni positive espresse dall'Astrid che, come noi coglie il dato secondo cui questa legge cerca di sanare le molteplici contraddizioni manifestatesi nella politica militare italiana dalla prima guerra del Golfo nel 1991. “L’importanza della cooperazione internazionale nelle missioni di peace-keeping, peace-making e peace-enforcement si è andata affermando soprattutto negli ultimi venti anni. Lo spartiacque può essere considerato la prima guerra del Golfo chevide operare, sotto l’egida di una risoluzione Onu, una coalizione di 34 nazioni, tra cui l’Italia, guidata dagli Stati Uniti”. Non solo. Lo stesso think thank ammette che quelle contraddizioni andavano sanate con un apparato legislativo che adeguasse la proiezione militare dell'Italia al nuovo scenario nelle relazioni internazionali: “Da allora, a causa di contesti internazionali sempre più complessi e di vincoli costituzionali molto stringenti, tale paradigma cooperativo si è rapidamente imposto come la principale modalità di intervento delle nostre Forze armate all’estero. Di fronte al moltiplicarsi degli eventi che hanno richiesto una partecipazione dell’Italia a missioni internazionali si è dunque reso necessario il rinnovamento di un quadro normativo che rimaneva troppo legato alle logiche rigide e bipolari della guerra fredda”.
L'on. Artini, di cui apprezziamo l'attenzione per il nostro articolo, ragiona su un presupposto diverso e distante dal nostro. In questa legge vede una razionalizzazione dell'impianto legislativo sulle missioni militari all'estero, noi ci siamo battuti sistematicamente contro l'idea e le decisioni di partecipare alle missioni militari italiane nei teatri di guerra. Perchè di questo si è trattato. Adesso ci sono 300 militari in Libia “per proteggere la costruzione di un ospedale a Misurata” e 1300 militari in Iraq “per proteggere la ristrutturazione della diga a Mosul”. Tremiamo all'idea che una azienda italiana vinca l'appalto per la costruzione di una autostrada in Siria o in qualche altro paese in guerra.
Negli anni scorsi, la cortina fumogena “umanitaria” in Jugoslavia, Libia, ha nascosto orrori e decisioni politicamente vergognose dei nostri governi. Quella poi dell'intervento militare in Afghanistan e Iraq è quanto ha somigliato di più ad una partecipazione vera e propria ad una guerra di aggressione ad altri Stati. E su questo non c'è alcuna mediazione possibile, né in parlamento né fuori. Su questo presupposto, e proprio per questo, abbiamo fatto a sportellate e poi rotto con i senatori e i deputati della sinistra al tempo del secondo governo Prodi. Purtroppo e per fortuna abbiamo buona memoria e senso della coerenza.
18 gennaio 2017
Il giorno 13 gen 2017, alle ore 18:00, 'Coord. Naz. per la Jugoslavia' ha scritto:http://contropiano.org/news/politica-news/2017/01/13/litalia-si-dota-della-legge-la-guerra-087877
L’Italia si dota della Legge per la guerra
Piuttosto in sordina, il 31 dicembre scorso è entrata in vigore la Legge quadro sulle missioni militari all'estero. La legge era già stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale fin dal 1̊ agosto; ma ne era stata rimandata l'attuazione a fine anno, tranne che per la disposizione all'integrazione del Copasir, cioè dell'organismo di controllo sulle attività dei servizi segreti (venuto fuori come problema in occasione delle “missioni coperte” in Libia), anche se valido solo per la legislatura in corso.
L'Italia si è così dotata di una legge organica dello Stato per l'invio di contingenti militari all'estero che dovrebbe azzerare le contraddizioni di incostituzionalità sul ricorso alle azioni militari contro, verso o in altri paesi vincolate al rispetto dell'art.11. Infatti il nostro ordinamento fino ad oggi prevedeva solo la disciplina della "guerra". Ma lo stato di guerra deve essere deliberato dalle Camere, che conferiscono al Governo i poteri necessari (art. 78 Cost.), mentre la dichiarazione di guerra è prerogativa del Presidente della Repubblica (art. 87, 9° comma). ll tutto nei limiti sanciti dall'art. 11 Cost., che vieta la guerra di aggressione e consente l'uso della violenza bellica solo in ipotesi ben determinate (la difesa).
La storia di questi ultimi venticinque anni, con numerose operazioni militari all'estero e il coinvolgimento dell'Italia in teatri di guerra (Iraq, Afghanistan, Jugoslavia ma anche Somalia, Libano etc.), ha reso inevitabile una legge organica che legittimasse sul piano legale la partecipazione dei militari italiani a guerre e operazioni militari in altri paesi.
La Legge individua la tipologia di missioni, i principi generali da osservare e detta disposizioni circa il procedimento da seguire. La newsletter Affari Internazionali ne offre una sintesi molto utile:
a) Le missioni militari all'estero, sia di peace-keeping che di peace-emforcement, sono in primo luogo quelle con il mandato delle Nazioni Unite, ma aadesso lo sono anche quelle istituite nell'ambito delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia è membro, comprese quelle dell'Unione Europea;
2) La Nato non è menzionata espressamente, ma è automaticamente inclusa. La Legge poi si riferisce anche alle missioni istituite nelle coalition of willing, cioè coalizione create su una crisi specifica sulla base di decisioni unilaterali dei paesi che vi aderiscono, infine si riferisce alle missioni "finalizzate ad eccezionali interventi umanitari".
3) La Legge specifica che l'invio di militari fuori dal territorio nazionale può avvenire in ottemperanza di obblighi di alleanze, o in base ad accordi internazionali o intergovernativi, o per eccezionali interventi umanitari, purché l'impiego avvenga nel rispetto della legalità internazionale e delle disposizioni e finalità costituzionali (che a questo punto vengono aggirate dalla legge stessa)
“Resterebbe da chiarire il significato di accordi intergovernativi e come questi si differenzino dagli accordi internazionali. Si tratta di accordi sottoscritti dall'esecutivo o addirittura di accordi segreti?” si interroga Affari Internazionali. “In parte tali dubbi dovrebbero essere fugati dai paletti volti a scongiurare una deriva interventista. Le missioni devono avvenire nel quadro del rispetto: a) dei principi stabiliti dall'art. 11 Cost., b) del diritto internazionale generale, c) del diritto internazionale umanitario, d) del diritto penale internazionale”.
Quanto al procedimento per la partecipazione alle missioni internazionali, viene reso centrale il ruolo del Parlamento, razionalizzando una prassi, qualche volta in verità disattesa, che faceva precedere l'invio del contingente militare all'estero da una discussione parlamentare. Ma spesso la ratifica parlamentare avveniva a posteriori, in occasione della conversione in legge del decreto-legge (DL) di finanziamento della missione.
L'iter disegnato dalla L. 145/2016 è il seguente: la partecipazione alle missioni militari è deliberata dal Consiglio dei ministri, Cdm, previa comunicazione al Presidente della Repubblica ed eventuale convocazione del Consiglio supremo di difesa.
La Legge quadro mette mano anche ad un'altra spinosa questione, ossia se ai militari impegnati nelle missioni debba essere applicato il codice penale militare di pace o il codice penale militare di guerra. Anche la soluzione indicata lascia aperta tutte le strade. La nuova legge dispone che sia applicabile il codice penale militare di pace, ma il governo potrebbe deliberare l'applicabilità di quello di guerra per una specifica missione. In tal caso è però necessario un provvedimento legislativo e il governo deve presentare al Parlamento un apposito disegno di legge.E' dalla partecipazione alla prima Guerra del Golfo (1991) che si pone il problema di conformare la legislazione italiana al ripetuto ricorso alla guerra "nella risoluzione delle controversie internazionali" che di volta in volta è stata mascherata con acronimi sempre più improbabili: operazione di polizia internazionale, guerra umanitaria, protezione di civili, difesa preventiva etc. etc. Operazioni militari che hanno visto negli anni migliaia e migliaia di soldati italiani prendere parte a guerre in altri paesi e miliardi di euro spesi per parteciparvi. Quando le furberie sulla guerra diventano una Legge organica dello Stato, vuole dire che il punto di non ritorno si è avvicinato ancora di un altra spanna.
13 gennaio 2017