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"Srebrenica" / 2: Serbian parliament resolution alert!


A lire aussi:
BOSNIE-HERZÉGOVINE : CETTE ANNÉE, ALEKSANDAR VUČIĆ NE SERA PAS INVITÉ À SREBRENICA (Courrier des Balkans, mercredi 29 juin 2016)
L’an dernier, Aleksandar Vučić avait été chassé des cérémonies commémoratives de Potočari, et cette année, il ne sera pas invité : les familles des victimes ont fermé la porte à ceux qui ne reconnaissent pas le caractère génocidaire du massacre de 8 000 Bosniaques, en juillet 1995. Une décision qui alimente de nouvelles polémiques...

Sul tentato linciaggio del premier serbo Vučić a Potočari (Srebrenica) in occasione della commemorazione del 2015 si veda:

Raccomandiamo anche la consultazione della nostra pagina dedicata alla disinformazione strategica su "Srebrenica":


----- Original Message ----- 
From: S. K.
To: undisclosed-recipients
Sent: Thursday, June 30, 2016 12:35 PM
Subject: Srebrenica Historical Project: Serbian parliament resolution alert!

SREBRENICA HISTORICAL PROJECT

Postbus 90471,

2509LL

Den Haag, The Netherlands

+381 64 403 3612  (Serbia)

E-mail: srebrenica.historical.project@...

Web site: www.srebrenica-project.org

____________________________________________

 

SREBRENICA RESOLUTION ALERT IN THE SERBIAN PALIAMENT

 

          The Srebrenica Lobby in Serbia yesterday launched a stealth campaign to pressure the Serbian Parliament to adopt a resolution about the “Srebrenica genocide” that allegedly took place in July 1995. The proposed resolution is scheduled to be presented to parliament for a vote following “fast track” procedure, designed to be completed in time for this year’s Srebrenica anniversary ceremony on July 11. Obviously, the timing was designed to ensure that maximum emotional pressure is put on parliamentary deputies, while giving them a minimum of time to hold an informed public debate on the underlying Srebrenica issue.

          This year’s resolution proposal is a replay of a similar attempt made in 2010 which resulted in a partial gain for the Lobby. They were frustrated, however, in their ultimate goal of making the Serbian parliament declare that what happened in Srebrenica was genocide for which Serbia was bound to suffer political, economic, and moral consequences. As a result of the vociferous public protests and debate which ensued once the terms of the proposed resolution in 2010 became widely known, parliament was compelled to strike the word “genocide” from the text and to express itself in more guarded terms concerning the controversial issue. The Srebrenica Lobby has apparently reached the conclusion that the time is ripe now to try again. Lessons were learned from the 2010 experience and the plan for the next couple of days is to not give opponents sufficient time to organize or parliamentary deputies who are so inclined the opportunity to study the matter more closely.

          As we have stressed continuously over the years, Srebrenica genocide has nothing to do with the facts of what actually happened or sympathy for the innocent victims who were executed. It is a thoroughly politicized affair which serves an agenda having nothing in common with the interests of Bosnian Muslims and everything to do with inciting enmity between the Muslim and Orthodox inhabitants of the Balkans. The objective is to push them into mutually debilitating strife, with the Western-NATO alliance dominating over both in the strategically important Balkans and plundering their resources in the process, while cynically playing one side against the other. The proposed resolution in the Serbian parliament classifying Srebrenica as genocide and implying that Serbia (and by extension the Serbian people) played a role in that false flag operation is part and parcel of this insidious agenda.

          We learned about the resolution only yesterday because it was deliberately kept under wraps until the last possible moment in order to ensure its stealth passage in parliament. We are, however, mobilizing all our resources to call for a transparent public debate about what happened in Srebrenica and what Serbia allegedly had to do with it. Deputies in parliament are paid their salaries in order to make informed decisions on behalf of their constituents, not to allow themselves to be manipulated by political pressure. In order to make sure that the Srebrenica issue is properly considered and debated, we need your help.

          Serbian people highly regard the opinion of qualified foreign observers. We are therefore asking you to take a few minutes and to send us a mail expressing your view of this matter. Is it the business of the Serbian parliament to pass politically inspired resolutions about Srebrenica, thus taking the onus for this crime on behalf of the Serbian people as a whole? Is it correct and in line with provable facts to call what happened in Srebrenica a genocide? Is it proper to ambush a country’s parliament on an important issue such as this without allowing sufficient time for a full and unfettered public debate?

          If you can comment briefly on this, we are asking you for permission to forward your comments, with proper attribution of course, to Serbian parliament members so that they can take your views into account before voting and make an informed and responsible decision about this very important resolution.

          We thank you very much for your time and engagement in ensuring that Srebrenica is given proper consideration in the Serbian parliament. 

 

Stephen Karganovic

Srebrenica Historical Project




(deutsch / italiano)

"Srebrenica" / 1: In Svizzera condanna per reato di opinione

1) Donatello Poggi sulla procedura penale avviata nei suoi confronti per “discriminazione razziale” per avere espresso una visione non omologata sui fatti di "Srebrenica" (6 giugno 2015)
2) Donatello Poggi condannato in primo grado per “discriminazione razziale” (giugno 2016)
3) Poggi wegen unliebsamer Äusserungen zu Srebrenica verurteilt (Kommunisten.ch)


Riceviamo e pubblichiamo questa notizia gravissima. A essere condannato è un uomo politico che ha espresso il suo punto di vista pubblicamente e il fatto specifico sembra non avere nient'altro a che fare se non con l'interpretazione dei fatti di "Srebrenica": è un precedente assoluto di censura su questi temi. 

Facciamo per inciso notare come in Italia su di un crinale delicato e ambiguo, che ci può potenzialmente portare alle stesse limitazioni della libertà di opinione e di ricerca storica, si trova il dispositivo di modifica della "legge Mancino" (13 ottobre 1975, n. 654) sul "reato di negazionismo", recentemente approvato in via definitiva:
Sul tema si vedano ad es. 
Negazionismo di Stato (Gherush92 Committee for Human Rights)
Arriva in Italia l’ambiguo reato di negazionismo (PTV news 9 giugno 2016)

(A cura di Italo Slavo)


=== 1 ===

http://www.ticinolive.ch/2015/06/06/la-procedura-penale-avviata-contro-donatello-poggi-di-donatello-poggi/

La procedura penale avviata contro Donatello Poggi 


di Donatello Poggi
6 giugno 2015

Nel novembre del 2012 scrissi una lettera a proposito della cittadina bosniaca di Srebrenica descrivendo tutte le incongruenze e la disinformazione portata avanti dalla stampa occidentale. Il mio scritto non presentava nessuna dichiarazione razzista o diffamatoria nei confronti della comunità musulmana nel paese balcanico ma mettevo semplicemente in dubbio la versione ufficiale secondo cui vi fu “genocidio” da parte dei serbi ortodossi. Oltretutto, il governo della Republika Srpska (l’entità serba di Bosnia) ha potuto documentare come quasi 4’000 serbi furono massacrati in quell’area attorno a Srebrenica dalle milizie estremiste di mussulmani guidati da Naser Oric.

Oltre a questo fatto, del tutto ignorato se non si è competenti nella storia dei conflitti che hanno dilaniato l’ex Jugoslavia, nessuno in pratica è a conoscenza delle diverse migliaia di serbi morti durante l’operazione “Tempesta” dell’esercito croato che voleva purgare la Slavonia orientale dall’etnia serba: circa 250’000 civili sono stati costretti ad abbandonare le proprie dimore sotto i colpi croati. In tal senso, credo che Srebrenica sia stata usata come “diversivo” per confondere l’opinione pubblica mondiale e per nascondere questa operazione militare appena descritta.

Sulla base di questo mio scritto, sono stato denunciato per “discriminazione razziale” ma questa imputazione non ha nessuna ragione di essere dato che ho semplicemente spiegato il mio punto di vista a proposito degli eventi appena descritti senza fare considerazioni a proposito di razza o di etnia: le ragioni che ho spiegato sono apertamente condivise da molte persone in Svizzera, Serbia, Russia, Stati Uniti e altri paesi del mondo: una recente e attesa (da parecchi anni) sentenza della Corte dell’Aja ha sancito che nessuno durante le guerre dei Balcani ha perseguito l’obbiettivo di genocidio. A maggior ragione questa denuncia nei miei confronti, portata avanti da una persona che lavora presso il Tribunale d’appello, appare ancor più fuori luogo. È ancora possibile esprimere la propria opinione, per quanto controversa sia, o dobbiamo arrenderci di fronte alla prepotenza di chi fa della giustizia lo strumento per i propri interessi?

Ricordando Srebrenica, ho poi illustrato come anche in Kosovo la stampa internazionale si è apertamente schierata con i miliziani dell’UCK (Esercito di liberazione del Kosovo) che hanno dato inizio alla situazione di ostilità verso quella che è diventata una minoranza in casa propria, quella serba, a partire dagli anni ’60 con attacchi a dimore, proprietà e luoghi di culto ortodossi. L’intervento “umanitario” a favore dell’UCK è stato fatto sulla base di un massacro, quello di Racak, falsamente attribuito ai serbi ma effettivamente perpetrato dai combattenti di etnia albanese.

Come non vedere un nesso tra le due situazioni? La superpotenza americana fa leva sulla comunità musulmana per vedere realizzati i propri obbiettivi geostrategici e, nel caso dei Balcani, volevano essere la fine dell’influenza russa nella regione, con la devastazione completa della Serbia che viene considerata nazione sorella appunto della Russia.

Spingendomi più in là, la “comunità internazionale” sostiene dal 2011 i ribelli siriani così detti “moderati” ma che di moderato non hanno proprio nulla: non si conta nemmeno più il numero di cristiani massacrati da fondamentalisti legati ad Al Qaeda istruiti alle armi dagli Stati Uniti in Turchia e finanziati dai cari alleati della potenza a stella e strisce e cioè l’Arabia Saudita.

Come non vedere un filo conduttore comune nel tentativo di “False flag” prodotto nell’agosto del 2013 che pretendeva di accusare il Governo Siriano dell’impiego di armi chimiche per dar così via ad un nuovo intervento della NATO che avrebbe semplicemente lasciato le frange più fondamentaliste la potere nel paese del vicino oriente?

Tutti noi abbiamo visto i risultati della guerra in Kosovo: da quella che secondo una risoluzione della Nazioni Unite è ancora una provincia serba, il flusso di emigranti è esploso negli ultimi mesi confermando che l’intervento militare occidentale non ha risolto assolutamente nulla. E se dobbiamo soffermarci sull’esplosione dei flussi migratori, come si può considerare la guerra in Libia come positiva quando il numero di rifugiati in partenza verso le coste europee è un problema destinato a durare, purtroppo, ancora diversi decenni?

E cosa sarebbe successo nel caso in cui gli Stati Uniti, fortemente appoggiati da Francia e Gran Bretagna, fossero riusciti nel loro intento terrorista di colpire al cuore il governo siriano, abbattere la nazione guidata da Assad per lasciarla in mano ai fondamentalisti dell’ISIS/Al Qaeda? Altri milioni di profughi in fuga dalle proprie dimore proprio grazie all’ ”intervento umanitario” invocato dalla NATO?

Oggi purtroppo siamo testimoni di un’altra situazione di grave instabilità che si sta verificando nella regione attorno a Kumanovo, una città della Macedonia che ospita una minoranza etnica albanese che negli scontri di due settimane fa ha potuto godere dell’appoggio proprio degli ex combattenti dell’UCK che hanno l’intenzione di creare la “Grande Albania” sottraendo con guerre e massacri porzioni di territorio alla Serbia (obbiettivo raggiunto), Macedonia (in corso), alla Grecia (non ancora tentato) e al Montenegro (non tentato ma nel paese ci sono state già tensioni). La storia prova che gli eventi dalla fine del blocco sovietico ad oggi, in particolare le guerre “preventive” portate avanti dalla NATO non sono state altro che una scusa per espandere l’influenza occidentale senza prendere in minima considerazione la sorte di milioni di persone.

Farsi una propria idea in base alla lettura di documenti che non sono diffusi dalle agenzie di stampa occidentali, per poi esprimerle pubblicamente, è considerato razzismo? Purtroppo c’è gente che deve svegliarsi e riconoscere che quello che sperava fosse un cambiamento positivo, si è invece rivelato come un disastro di proporzioni immani destinato ad influenzare la storia mondiale. Se poi la situazione nei paesi considerati, cioè principalmente Bosnia e Kosovo, perché le persone originarie di queste regioni non tornano alle proprie dimore d’origine? Provate a chiederlo a un albanese, e come risposta otterrete solo il silenzio o l’eco delle vostre parole. E questo è una spiegazione che vale più di mille testi accademici.

Non mi sento colpevole di nulla ed anzi provo uno stimolo ancora maggiore di prima perché se le mie parole danno fastidio a qualche piccolo funzionario che pensa di far della legge il suo strumento politico, allora farò in modo che non manchi mai la discussione, giusta, sana ed aperta, su vari temi di rilevanza mondiale. Non sarò mai servo delle “verità ufficiali e confezionate” di CIA e NATO. Sono un cittadino svizzero e libero e non un burattino.

Donatello Poggi


=== 2 ===


“Il mio è un processo politico”

l'ex granconsigliere Donatello Poggi deve rispondere di ripetuta discriminazione razziale in merito al genocidio di Srebrenica - La sentenza in giornata
31 maggio 2016

BELLINZONA - "È un processo politico". Ha esordito così Donatello Poggi oggi in Pretura penale a Bellinzona. Il 60.enne ex granconsigliere e municipale di Biasca deve rispondere di ripetuta discriminazione razziale per due opinioni pubblicate in Ticino in merito al genocidio di Srebrenica dell'11 luglio 1995.
"Non nego che ci sia stato un massacro (morirono oltre 8.000 mila musulmani bosniaci, ndr. [Non furono affatto 8000 e non fu una strage di civili, cfr.:  ndCNJ] ), ma vi sono stati anche dei morti serbi. E questi sono stati trattati come cittadini di serie B", ha precisato l'operaio delle Officine FFS di Bellinzona. Il dibattimento prosegue ora con la requisitoria della procuratrice pubblica Valentina Tuoni e l'arringa del difensore Andrea Rotanzi. La sentenza in giornata.


Accuse confermate, condannato Poggi

Ritenuto colpevole in Pretura penale a Bellinzona di ripetuta discriminazione razziale per le offese alle vittime di Srebrenica
31 maggio 2016

BELLINZONA – Condannato. Il giudice della Pretura penale di Bellinzona Siro Quadri ha ritenuto l'ex granconsigliere e municipale di Biasca Donatello Poggi colpevole di ripetuta discriminazione razziale per via di due opinioni pubblicate sui media ticinesi riguardanti il massacro di Srebrenica. "Ha fatto passare in secondo piano la tragedia, il genocidio, minimizzando la sofferenza dei parenti delle vittime", ha spiegato il pretore. Confermata quindi la tesi della procuratrice pubblica Valentina Tuoni, la quale si era battuta per una condanna con la condizionale a 45 aliquote da 130 franchi (così come confermato dalla sentenza), e del patrocinatore dell'accusatore privato, l'avvocato Paolo Bernasconi. Dal canto suo il legale difensore Andrea Rotanzi aveva chiesto il proscioglimento dell'imputato. Donatello Poggi ricorrerà quasi sicuramente contro la sentenza alla Corte di appello e di revisione penale. Ulteriori dettagli sull'edizione di domani del CdT. 


Donatello Poggi non ci sta

È dichiarazione di ricorso contro la condanna inflittagli in Pretura penale per aver minimizzato il genocidio di Srebrenica del 1995
03 giugno 2016

BELLINZONA - L'ex granconsigliere e municipale di Biasca Donatello Poggi non ci sta. Attraverso il suo legale, l'avvocato Andrea Rotanzi, ha inoltrato dichiarazione di ricorso alla Corte di appello e di revisione penale contro la condanna che gli è stata inflitta martedì in Pretura (pena sospesa di 45 aliquote giornaliere da 130 franchi). Il 60.enne è stato ritenuto colpevole di discriminazione razziale per aver «ripetutamente disconosciuto, minimizzato grossolanamente e cercato di giustificare» il genocidio di Srebrenica dell'11 luglio 1995. Il giudice Siro Quadri ha accolto in toto il castello accusatorio della procuratrice pubblica Valentina Tuoni. La difesa, per contro, si era battuta per il proscioglimento. Il legale Andrea Rotanzi attende ora le motivazioni scritte della sentenza per decidere se confermare o meno la dichiarazione di Appello.


Il caso-Poggi sconfina

La condanna dell'ex deputato biaschese per discriminazione razziale sui fatti di Srebrenica suscita l'interesse di giornalisti tedeschi e TV serba
17 giugno 2016

BELLINZONA - Ha avuto eco oltre i confini cantonali la vicenda giudiziaria dell'ex deputato e municipale di Biasca Donatello Poggi legata alle sue controverse tesi sul massacro avvenuto a Srebrenica nel 1995, espresse in due lettere pubblicate sul CdT e sul sito TicinoLibero. La condanna dello scorso 31 maggio in Pretura penale per ripetuta discriminazione razziale (cfr. articolo suggerito) ha suscitato l'interesse di due giornalisti tedeschi. A fine mese giungeranno in Ticino per intervistare l'imputato, che nel frattempo ha ricorso contro la sentenza. «Si tratta di due redattori di una rivista tedesca che faranno un'azione a mio sostegno dalla Germania e anche verso il Tribunale d'Appello», spiega il 60.enne. Donatello Poggi annuncia anche l'interesse manifestato dalla TV serba.


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Poggi wegen unliebsamer Äusserungen zu Srebrenica verurteilt – Rückfall in die Maulkorb-Justiz

Der Tessiner Ex-Grossrat Donatello Poggi wurde am heutigen 31. Mai vom kantonalen Strafrichter in Bellinzona der wiederholten Verletzung von Artikel 261bis des Strafgesetzbuches (Anti-Rassismus-Norm) schuldig gesprochen und zu einer bedingten Geldstrafe von 5850 Franken nebst Busse von 1100 Franken verurteilt. Mit verschiedenen Schriften über die Vorgänge in Srebrenica 1995 habe Poggi laut dem Oberrichter “die Tragödie, den Genozid, an die zweite Stelle gesetzt und die Leiden der Angehörigen der Opfer verniedlicht”. In einem Artikel von 2012 hatte Poggi die durch die herrschenden Medien hierzulande verbreitete Darstellung der Ereignisse im Jugoslawien der 1990er Jahre kritisiert und auf allerlei Unstimmigkeiten und Desinformation durch die westliche Presse hingewiesen. Er äusserte Zweifel an der offiziellen Version, wonach in Srebrenica 1995 von serbischer Seite ein Massaker an der muslimischen Bevölkerung verübt worden sei.
Es ist so gut wie sicher, dass sich Poggi gegen den Richterspruch wehren wird. Dies umso mehr, als die Schweiz bereits im ähnlich gelagerten Fall von Dogu Perinçek vom EGMR zurückgepfiffen wurde, weil ihre Gerichtspraxis das verbriefte Grundrecht auf freie Meinungsäusserung verletzt.

Rückfall in Rechtsunsicherheit und Klima der Einschüchterung

Die Vorgänge von Srebrenica 1995 werden vom UN-Sicherheitsrat nicht als Völkermord berurteilt. Ein entsprechender Resolutionsentwurf mit einseitigen Schuldzuweisungen und Ausblendung der Opfer auf serbischer Seite scheiterte 2015 am russischen Veto. Damit und besonders durch das Perincek-Urteil des EGMR (2015 durch die von der Schweiz angerufene Grosse Kammer bestätigt) wurde eine jahrelange Rechtsunsicherheit beseitigt. Das Urteil aus Bellinzona macht diesen Erfolg zunichte und schafft neue Rechtsunsicherheit und ein Klima der Einschüchterung.
Dieser Rückfall ins Inquisitorische wird zweifellos jene Tendenzen bestärken, die eine Neufassung des Anti-Rassismus-Artikels fordern.[1]
Nämlich so, dass der Gesetztestext keinem Gericht und keinem Kläger Handhabe bietet, um das Recht auf freie Meinungsäusserung und die Freiheit von Forschung und Lehre einzuschränken oder Andersdenkende (oder anders Informierte) einzuschüchtern. Im Justizministerium von Bundesrätin Simonetta Sommarugawill man aber am umstrittenen Gesetzestext festhalten und erachtet dessen Änderung nicht für nötig, um ähnliche Fälle von Konventionsverletzungen durch die Schweiz zu verhindern. Die Äusserungen Sommarugas und ihres Bundesamtes für Justiz, welches dem Europarat im Februar einen Bericht über die Umsetzung des EGMR-Urteils in Sachen Perincek ablieferte, laufen darauf hinaus, dass das Strassburger Urteil als Einzelfall betrachtet wird, dem keine Präjudizwirkung zukommt. Die Haltung von Bundesbern und das Strafurteil aus Bellinzona bedeuten auch einen Rückschlag für die Souveränität der Schweiz. Die schweizerische Rechtsordnung wird dabei so geschwächt, dass der freie Schweizer genötigt wird, sein Recht auf ein ungerades Wort auf dem Umweg über Strassburg zu erstreiten. Ein Zustand der Schande für die Schweiz, egal ob man die Sache unter dem Gesichtspunkt der Unabhängigkeit oder aus dem Winkel der Freiheitsrechte ansieht.

Wiederbelebung der Inquisition?

Gesinnungsjustiz und Inquisition sind in Ost- und Westeuropa im Vormarsch. Heerscharen von grösseren und kleineren Inquisitoren sind am Werk. Sie treiben Lobbying für parlamentarische Mehrheitsbeschlüsse, welche ihre klasseneigene, pro-imperialistische Geschichtsauffassung den Untertanen verbindlich aufdrängen sollen. Sie operieren mit Androhung oder Durchführung von Strafprozessen, so dass ein Klima der Verfolgung und Einschüchterung geschaffen wird, in welchem abweichende Meinungen leicht mundtot gemacht werden können und die offiziellen Wahrheiten ohne Widerrede geschluckt werden müssen.
“Würden geometrische Axiome an menschliche Interessen rühren, so würde man sicherlich versuchen, sie zu widerlegen.” (Lenin)
Mit diesem Ausspruch und den daran geknüpften Ausführungen[2] gibt uns Lenin auch den Schlüssel zum Verständnis bestimmter historischer Debatten der Gegenwart. Es geht auch hier um Interessen, auch wenn im vorliegenden Fall die Thesen und Widerlegungen auf dem Kampffeld der Geschichte nicht wie im Kampf Lenins gegen die Revisionisten durch freien Wettbewerb der Argumente, sondern durch die Staatsgewalt entschieden werden. Welche Interessen haben durchgesetzt, dass sich Parlamente bestimmte historische Vorgänge zur Gesetzgebung auswählen, und andere nicht? Nicht die Kreuzzüge, nicht die Ausrottung der Urbevölkerung Amerikas, und nicht die Verbrechen der französischen und britischen Imperialisten in Afrika und Asien, darunter die Vergiftung der Völker Chinas und französisch Indochinas mit Opium und Alkohol. Die Forderungen nach obligatorischem Bekenntnis zu obrigkeitlich festgelegten Wahrheiten betreffen nicht ein einziges Mal die Bluttaten des Atlantik-Pakts und seiner historischen Vorläufer, sondern immer die Gegenseite.[3]
Der Übergang von der freien Konkurrenz zur Monopolherrschaft (Imperialismus) bedeutet Reaktion auf allen Ebenen, auch Rückfall in die Inquisition. Die Notwendigkeit für den Imperialismus, seine reaktionäre und menschenfeindliche Natur vor den eigenen Völkern zu verbergen, zwingt ihn gesetzmässig zum fortdauernden Lügen im grössten Stil. Zur Bestätigung dieser Gesetzmässigkeit hat auch die Geschichte der letzten Jahrzehnte reichlich Material geliefert. Bei jedem Angriffskrieg des Atlantikpakts – die NATOselbst ist noch nie angegriffen worden! – lagen Recht, Friedenswillen, Vernunft und Mässigung immer bei der angegriffenen Seite. Dort – wo es dem Wesen der Sache nach nichts zu verbergen gibt – ist denn auch die Wahrheit zu vermuten, und diese Vermutung erhärtet sich anhand der bereits entlarvten Propagandalügen zur Rechtfertigung von imperialistischen Angriffskriegen, darunter – allein auf Kosten des Irak – solche Schauermärchen wie die Brutkasten-Lüge von 1991 oder die Lüge der Massenvernichtungswaffen von 2003. Nach aller Erfahrung käme es einem gewaltigen Wunder gleich, wenn die NATO-Propaganda ausgerechnet im Fall des Krieges in Bosnien-Herzegowina der objektiven Realität entsprechen sollte. Kein Wunder ist, dass Neugierige sich damit beschäftigen, die Propaganda der atlantischen Lügenpresse zu hinterfragen und solche Fakten und Quellen zu berücksichtigen, welche in den westlichen Massenmedien unterschlagen oder anrüchig gemacht werden. Wenn der Propaganda-Schwindel beim Golfkrieg von 1991 nicht per Zufall herausgekommen wäre, so müsste sich unsereiner, der nie an das Märchen von der Tötung der Erstgeburt von Kuwait geglaubt hat, heute vermutlich auch als Brutkasten-Genozid-Leugner verdächtigen lassen. Schon manche geschichtliche Wahrheit ist umgestossen worden. Die parlamentarische und juristische (und überhaupt jede) Festnagelung von absoluten Wahrheiten ist generell eher fortschrittshemmend. Dies sogar im günstigsten Fall, wenn der erreichte Forschungsstand von der einhelligen Meinung der Historiker aller interessierten Völker getragen ist; erst recht in der Praxis, wo die Parlamente in einen Historikerstreit eingreifen.

Wo soll das alles noch hinführen?

Heute geht es um Vorwürfe der Leugnung von Genoziden, die nach Auffassung der Kläger und Richter vor rund 100 Jahren durch türkische Hand oder im Jahre 1995 durch serbische Hand geschehen seien. In den meisten Staaten Osteuropas haben Antikommunisten und russenfeindliche Nationalisten die Gesetzgebung über die Geschichte bereits als politisches Instrument verallgemeinert und versuchen die Erinnerung an die Errungenschaften der Sowjetzeiten zu beschmutzen. Ähnlich in Griechenland, das die Türkei des Genozids an den Pontos-Griechen beschuldigt, womit allerdings die faschistische Rechte noch nicht gesättigt ist: diese behauptet einen weiteren Genozid der Pontos-Griechen in der Sowjetunion. 
Wir wissen nicht, was da noch dazukommt, wohin die historische Gesetzgebung je nach politischen Kräfteverhältnissen und parlamentarischen Konstellationen noch führen und gegen wen sich die Maulkorb-Justiz noch wenden wird. Drum: Wehret den Anfängen!
Und wo führt das Ganze hin, wenn wir die Sache nicht vom Standpunkt unserer demokratischen Freiheiten betrachten, sondern vom Standpunkt der betroffenen Völker, die im Rahmen von imperialistischen Kriegen gegeneinander aufgehetzt wurden. Führt etwa die geplante Armenier-Resolution, die der Deutsche Bundestag diese Woche beschliessen soll, zu mehr Frieden und gegenseitigem Verständnis? Nein im Gegenteil: sie pflügt den Boden, auf dem der Hass gegen die Türkei gedeiht, sie liefert frischen Zündstoff zur gegenseitigen Aufhetzung unter den ethnischen und religiösen Bevölkerungsgruppen der Türkei.
Und mit einer solchen Rechtsanwendung, wie sie der Richter von Bellinzona vormacht, droht auch der gut gemeinte Ansatz der Strafnorm, die Hetze unterbinden will, ins Gegenteil umzuschlagen. Auch die Völker des ehemaligen Jugoslawien haben von den Bemühungen unserer Gesetzgeber und Richter zur verbindlichen Scheidung von historischer Wahrheit und Lüge bzw. Verfolgung der letzteren keinen Gewinn.
(Gewinn hätten sie, wenn wir beide Gruppen, die Christen und die Muslime, in ihrem gemeinsamen Interessen zusammenführen und im Bemühen unterstützen würden, die Islamisierung zu stoppen. Diese bedroht nicht nur die Serben der Republika Srpska in ihren existentiellen Rechten, unter ihr leiden besonders auch die zahlreichen nominellen Muslime in Ex-Jugoslawien. Nicht die Serben, sondern diese von korrupten Machteliten mit US-Unterstützung und saudischem Geld und importierten Imamen vorangetriebene Islamisierung der Gesellschaft ist heute die Hauptsorge auch in muslimischen Bevölkerungskreisen, in Pristina ebenso wie in Bosnien, Mazedonien, Montenegro. Dies nebenbei.)

(mh/31.05.2016)

1 Der 1993 in das Schweizerische Strafgesetzbuch eingefügte Artikel 261bis mit der Überschrift “Rassendiskriminierung” umschreibt den umstrittenen Straftatbestand mit den Worten: “wer öffentlich durch Wort, Schrift, Bild, Gebärden, Tätlichkeiten oder in anderer Weise eine Person oder eine Gruppe von Personen wegen ihrer Rasse, Ethnie oder Religion in einer gegen die Menschenwürde verstossenden Weise herabsetzt oder diskriminiert oder aus einem dieser Gründe Völkermord oder andere Verbrechen gegen die Menschlichkeit leugnet, gröblich verharmlost oder zu rechtfertigen sucht”.
2 Lenin, Werke, Band 15, Seite 17. Siehe: Marxismus und Revisionismus
3 “historische Vorläufer”: gemeint sind Grossbritannien, Frankreich und die USA. (Nicht Deutschland, obwohl man natürlich auch den Anti-Komintern-Pakt mit Recht als geistigen Vorläufer der NATObetrachten kann.)




IL SOGNO EUROPEO

<< Per quanto non si possa dire pubblicamente, il fatto è che l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno di una guerra contro l’Unione Sovietica, da saper fare al momento buono >> 

Altiero Spinelli. In: A. Spinelli, Diario Europeo (1948-1969), il Mulino, 1989, p. 175


Chi esalta Altiero Spinelli ha materia per riflettere su un'affermazione del genere. Si parla spesso di "padri fondatori", ma "fondatori" di che? Non sarebbe il caso di riflettere sulle ragioni che hanno portato alla nascita della "Comunità Europea", in cui esistevano tutte le premesse per i futuri sviluppi? (Mauro Gemma, direttore di Marx21. Fonte: http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=82&pg=16361 )



(français / italiano)

Clinton: due interviste a Diana Johnstone

1) Diana Johnstone: “Clinton est vraiment dangereuse” (G. Lalieu)
2) “Regina del caos”, il vero volto di Hillary Clinton (F. Scaglione)
3) Chi protegge Hillary Clinton? (Rete Voltaire)
4) “Hillary Clinton Campaign Funded by Saudi Government, Saudi Official” : L’Agence Petra déclare ne pas être l’auteur de la dépêche qu’elle a publiée sur Hillary Clinton (Réseau Voltaire)


Sull'importante libro di Diana Johnstone
HILLARY CLINTON - LA REGINA DEL CAOS
si veda:


=== 1 ===


Diana Johnstone: “Clinton est vraiment dangereuse”




Jusqu’où ira Hillary Clinton pour accéder à la Maison-Blanche et que pourrait-on attendre de son éventuelle présidence? Nous avons posé la question à Diana Johnstone. Dans son récent ouvrage Hillary Clinton, la reine du chaos, elle analyse le lien entre les ambitions de la candidate sans scrupule et la machine qui sous-tend l’empire américain. Du coup d’Etat au Honduras à la guerre en Libye en passant par l’instrumentalisation de la cause féministe, Diana Johnstone nous dévoile la face cachée de la candidate démocrate et nous met en garde sur le “Smart Power” cher à Clinton. Enfin, elle analyse pour nous le succès de Donald Trump et ce que son alternative représente vraiment.


La course à la Maison-Blanche se fait au coude-à-coude. Hillary Clinton a-t-elle une chance de l’emporter ? Comment analysez-vous sa campagne jusqu’ici ?

Elle a commencé sa campagne en grande favorite, mais ne cesse de baisser dans les sondages. Avec toute la machine du Parti démocrate à son service, un énorme trésor de guerre, et la certitude de gagner les premières primaires dans les Etats du Sud, Hillary Clinton avait une longueur d’avance qui rendait le rattrapage de son challenger imprévu Bernie Sanders quasi impossible. Pourtant, ce vieux sénateur peu connu, se qualifiant de « socialiste démocratique » dans un pays où le socialisme est largement considéré comme l’œuvre du diable, a suscité un enthousiasme extraordinaire, notamment parmi les jeunes. Quoi qu’il arrive, la campagne inattendue de Bernie a réussi à attirer l’attention sur les liens quasi organiques entre les Clinton et Wall Street, liens occultés par les grands médias. Pour la première fois, ceux-ci ont été efficacement contrecarrés par Internet qui fourmille de vidéos dénonçant la cupidité, les mensonges, la bellicosité de Mme Clinton.

Par ailleurs, Hillary Clinton court le risque d’ennuis graves à cause de son utilisation illicite de son propre serveur email en tant que secrétaire d’Etat.

Au cours des primaires, sa popularité a baissé tellement que le Parti démocrate doit commencer à être effrayé de nommer une candidate trainant tant de casseroles. Les derniers sondages montrent que l’impopularité de Hillary Clinton commence à dépasser l’impopularité de Trump. Pour beaucoup d’électeurs, il sera difficile de choisir « le moindre mal ».

 

La campagne de Hillary Clinton aurait déjà coûté 89,6 millions de dollars. De quels personnages influents a-t-elle le soutien ? Peut-on deviner, à partir de là, quels intérêts Clinton pourrait défendre si elle devient présidente ?

 Celui qui se met le plus en avant est un milliardaire israélo-américain, Haim Saban, qui s’est vanté de donner « autant d’argent qu’il faut » pour assurer l’élection de Hillary. En retour, elle promet de renforcer le soutien à Israël dans tous les domaines, de combattre le mouvement BDS et de poursuivre une politique vigoureuse contre les ennemis d’Israël au Moyen-Orient, notamment le régime d’Assad et l’Iran. Le soutien financier considérable qu’elle reçoit de l’Arabie saoudite va dans le même sens. D’autre part, les honoraires faramineux reçus de la part de Goldman Sachs et d’autres géants de la finance laissent peu de doute sur l’orientation de sa politique intérieure.

 

En devenant la première femme présidente des Etats-Unis, pensez-vous que Hillary Clinton ferait avancer la cause féministe ?

Le fait d’être femme est le seul élément concret qui permet à Hillary de prétendre que sa candidature soit progressiste. L’idée est que si elle « brise le plafond de verre » en accédant à ce poste suprême, son exemple aidera d’autres femmes dans leur ambition d’avancer dans leurs carrières. Mais pour la masse des femmes qui travaillent pour de bas salaires, cela ne promet rien.

Il faut placer cette prétention dans le contexte de la tactique de la gauche néolibéralisée de faire oublier son abandon des travailleurs, c’est-à-dire de la majorité, en faveur de l’avancement personnel des membres des minorités ou des femmes.   Il s’agit de la « politique identitaire » qui fait oublier la lutte des classes en se focalisant sur d’autres divisions sociétales. En d’autres termes, la politique identitaire signifie le déplacement du concept de l’égalité du domaine économique à celui de la subjectivité et des attitudes psychologiques.

 

Dans votre livre, Hillary Clinton, la reine du Chaos, vous revenez sur la guerre du Kosovo. Hillary Clinton était la première Dame des Etats-Unis à l’époque. En quoi le bombardement de la Yougoslavie en 1999 a-t-il été un épisode marquant de son parcours politique ?

Avec son amie Madeleine Albright, l’agressive ministre des Affaires étrangères de l’époque, Hillary poussait son mari Bill Clinton à bombarder la Yougoslavie en 1999. Cette guerre pour arracher le Kosovo à la Serbie fut le début des guerres supposées « humanitaires » visant à changer des régimes qui ne plaisent pas à Washington. Depuis, Hillary s’est fait la championne des « changements de régime », notamment en Libye et en Syrie.

Dans mon livre, La Reine du Chaos, je souligne l’alliance perverse entre le complexe militaro-industriel américain et certaines femmes ambitieuses qui veulent montrer qu’elles peuvent faire tout ce que font les hommes, notamment la guerre. Un intérêt mutuel a réuni les militaristes qui veulent la guerre et des femmes qui veulent briser les plafonds de verre. Si les militaristes ont besoin de femmes pour rendre la guerre attrayante, certaines femmes très ambitieuses ont besoin de la guerre pour faire avancer leur carrière. Les personnalités les plus visiblement agressives et va-t’en guerre de l’administration Obama sont d’ailleurs des femmes : Hillary, Susan Rice, Samantha Power, Victoria Nuland…  C’est un signal au monde : pas de tendresse de ce côté-ci !

 

On peut ajouter le Honduras au tableau de chasse de Hillary Clinton. Elle était fraîchement élue secrétaire d’Etat lorsqu’en 2009, l’armée a renversé le président Manuel Zelaya. Un avant-goût de la méthode Clinton ?

Son rôle en facilitant le renversement par des militaires d’un président démocratiquement élu illustre à la fois ses méthodes et ses convictions. Ses méthodes sont hypocrites et rusées : elle feint une désapprobation du procédé tout en trouvant les moyens de l’imposer, contre l’ensemble de l’opinion internationale. Ses convictions, c’est clair, l’amènent à soutenir les éléments les plus réactionnaires dans un pays qui est le prototype de la république bananière : c’est le pays le plus dominé par le capital et par la présence militaire des Etats-Unis de toute l’Amérique latine, le plus pauvre après Haïti.   Zelaya aspirait à améliorer le sort des pauvres et des indigènes. Il osait même proposer de convertir une base militaire américaine en aéroport civil. A la trappe ! Et depuis, les opposants – par exemple la courageuse Bertha Caceres – sont régulièrement assassinés.

 

Cette méthode porte un nom, le Smart Power. Pouvez-vous nous expliquer ce que c’est ?

Dans le discours washingtonien, on distingue depuis longtemps le « hard power » (militaire) du « soft power » (économique, politique, idéologique, etc.). Hillary Clinton, qui se vante d’être très intelligente, a pris comme slogan le « Smart Power », le pouvoir malin, habile, qui ne signifie qu’une combinaison des deux. Bref, elle compte utiliser tous les moyens pour préserver et avancer l’hégémonie mondiale des Etats-Unis.

 

Si le Smart Power aspire à combiner la méthode douce et la manière forte, cette dernière semble avoir la préférence de Clinton malgré tout !

Oui, en tant que chef de la diplomatie américaine, Hillary Clinton a souvent montré une préférence pour la force contre l’utilisation de la diplomatie. On voit les mêmes tendances chez ses consœurs Madeleine Albright, Susan Rice ou Samantha Power. Surtout dans le cas de la Libye, Clinton a saboté les efforts de médiation des pays africains et même d’officiers supérieurs américains et du membre du Congrès Kucinich qui avaient pris contact avec les représentants de Gaddafi en quête d’un compromis pacifique. Elle s’opposait aussi aux négociations avec l’Iran. Et elle est prête à risquer la guerre avec la Russie pour chasser Assad, ce qui s’accorde avec son hostilité affichée envers Poutine.

 

Les années Bush et la brutalité des néoconservateurs ont frappé les esprits, mais le Smart Power de Clinton semble tout aussi dangereux, non ?

Tout à fait, cette femme est très dangereuse. Alors que les Etats-Unis s’apprêtent à renouveler leur arsenal nucléaire, alors qu’ils mènent une campagne de propagande haineuse antirusse qui dépasse celle de la guerre froide, alors qu’ils obligent leurs alliés européens à acheter une quantité énorme d’avions de guerre made in USA tout en poussant l’Otan à concentrer les forces militaires le long des frontières russes, la présidence de Mme Hillary Clinton représenterait un péril sans précédent pour le monde entier.

 

Vous pointez dans votre ouvrage tout le poids du complexe militaro-industriel dans la politique étrangère des Etats-Unis. Finalement, la personne qui occupe le bureau ovale a-t-elle une marge de manœuvre ? 

La base matérielle de la politique guerrière des Etats-Unis, c’est ce complexe militaro-industriel (MIC), né au début de la guerre froide, contre la dangerosité duquel le président Eisenhower lui-même a averti le public en 1961. Il a fini par dominer la vie économique et politique du pays. Les intellectuels organiques de ce complexe, logés dans les think tanks et les rédactions des grands journaux, ne cessent de découvrir, ou plutôt d’inventer, les « menaces » et les « missions humanitaires » pour justifier l’existence de ce monstre qui consomme les richesses du pays et menace le monde entier.   Les présidents passent, le MIC reste. Depuis l’effondrement de l’Union soviétique, le « Parti de la Guerre » se sent tout-puissant et devient plus agressif que jamais. Hillary Clinton a tout fait pour devenir leur candidate préférée.

 

Comment construire dès lors une alternative à ce Parti de la Guerre ?

C’est la grande question à laquelle je ne saurais répondre. Par ailleurs, il n’existe pas de formule pour de tels bouleversements, qui dépendent d’une diversité de facteurs, souvent imprévisibles. La candidature tellement décriée de Trump pourrait en être un, car le vieil isolationnisme de droite est certainement un des éléments qui pourrait contribuer à détourner Washington de son cours vers le désastre. Qu’on le veuille ou non, il faut reconnaître que « la gauche » est trop impliquée dans la farce des « guerres humanitaires » pour être la source du revirement. Il faut une prise de conscience qui dépasse les divisions de classes et d’étiquettes politiques. La situation est grave, et tout le monde est concerné.

 

Trump se demande en effet pourquoi les Etats-Unis devraient jouer au gendarme dans le monde entier, plaide pour des relations plus constructives avec la Russie et interroge l’utilité de l’Otan. Il est même opposé au TTIP ! Mais son protectionnisme conservateur ne pourrait-il pas conduire à d’autres guerres de grande ampleur ? N’y a-t-il pas d’autre espoir ? 

 Il est difficile de qualifier un personnage tel que Trump comme « espoir », mais il faut le situer dans le contexte politique américain. En Europe, et notamment en France, on persiste à prendre le spectacle des élections présidentielles américaines comme une évidence de la nature « démocratique » du pays. Mais tous ces spectacles, avec leurs conflits et leurs drames, tendent à obscurcir le fait central : la dictature de deux partis, tous les deux dominés par le complexe militaro-industriel et son idéologie d’hégémonie mondiale. Ces deux partis sont protégés de concurrence sérieuse par les règles particulières à chacun des cinquante Etats qui rendent quasiment impossible la présence d’un candidat tiers.   L’exploit de Trump est d’avoir réussi à envahir et d’accaparer l’un de ces deux partis, le Parti républicain, qui se trouvait dans un état de dégradation intellectuelle, politique et morale extrême. Il l’a accompli par une sorte de démagogie très américaine, perfectionnée pendant sa prestation en tant que vedette d’un programme de « télé-réalité ». C’est une démagogie empruntée au show-business plutôt qu’au fascisme. On ravit l’auditoire en étant choquant.

L’invasion du jeu électoral par cet amuseur de foules est très significative de la dépolitisation du pays – tout comme la réussite plus modeste de Bernie Sanders montre le désir d’une minorité éclairée progressiste de réintroduire le politique dans le spectacle.

Le Parti démocrate, tout corrompu qu’il soit, garde vraisemblablement assez de vigueur pour marginaliser l’intrus. Il a une ligne politique claire, représentée par Hillary Clinton : néolibéralisme et hégémonie mondiale sous couvert des droits de l’homme. Il fera tout pour bloquer Sanders.   Mais on peut toujours espérer que le mouvement inspiré par sa candidature contribuera à un renouveau durable de la gauche.

A court terme, il reste Trump, ancien démocrate plus ou moins, malhonnête comme l’est forcément un homme d’affaires qui a réussi dans l’industrie de la construction, égoïste, comédien, dont on ne sait pas trop à quoi s’attendre. Seulement, il peut difficilement être pire que Hillary, ne serait-ce que parce qu’il casse le jeu actuel qui mène directement à la confrontation avec la Russie.   En tant que présidente, Hillary se trouverait bien chez elle à Washington entourée de néocons et d’interventionnistes de tout poil prêts à s’embarquer ensemble dans des guerres sans fin. Lui par contre se trouverait dans un Washington hostile et consterné. Ce serait une version originale du « chaos créateur » cher aux interventionnistes.

L’idée que « le protectionnisme mène à la guerre » fait partie de la doctrine du libéralisme. En réalité, nous sommes déjà en pleine guerre, et un peu de retrait chez soi de la part des Américains pourrait calmer les choses. Que ce soit Trump ou Sanders, un certain « protectionnisme » à l’égard des produits chinois serait nécessaire pour faire redémarrer l’industrie américaine et créer des postes de travail. Mais il est impossible aujourd’hui de pratiquer le « protectionnisme » des années 1930. La peur du « protectionnisme » mène à la politique néolibérale actuelle de l’Union européenne qui détruit toutes les protections des travailleurs.

Au lieu de craindre Trump, l’Europe ferait mieux de le regarder comme un révélateur. Face à cette Amérique, les Européens doivent retrouver la vieille habitude de formuler leurs propres objectifs, au lieu de suivre aveuglément une direction politique américaine profondément hypocrite, belliqueuse et en pleine confusion. Le bon protectionnisme serait que les Européens apprennent à se protéger de leur grand frère transatlantique.

 

Source: Investig’Action 

Voir Diana Johnstone, Hillary Clinton. La reine du chaos, Editions Delga, 2015


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“Regina del caos”, il vero volto di Hillary Clinton


Disonesta e opportunista. Spietata e guerrafondaia. Con legami oscuri con l’Arabia Saudita. Un libro della giornalista americana Diana Johnstone offre un documentato controcanto alla narrazione prevalente sulla donna che potrebbe diventare il prossimo presidente della superpotenza americana. In questa intervista l’autrice ci spiega perché la Clinton non è un “male minore” rispetto a Trump.

intervista a Diana Johnstone di Fulvio Scaglione

Esperimento. Prendere la biografia autorizzata di Hillary Rodham Clinton, uscita nel 2004 col titolo Living History (in Italia come La mia storia, la mia vita). E poi prendere il libro scritto dalla giornalista americana Diana Johnstone, biografia politica e certo non autorizzata della stessa Hillary, intitolato Hillary Clinton regina del caos, da poco pubblicato da Zambon Editore. È un tuffo vertiginoso non solo da un’epoca all’altra ma da un mondo all’altro. Là la Clinton è, fin dalla copertina, la moglie di successo di un uomo di successo, una signora glamour perfetta anche per il country club. Qua è una donna che fa l’uomo politico, dura, spietata, segnata anche in viso dalle lotte per arrivare al vertice, abile manovratrice nei corridoi del potere. Piccolo particolare: è questo, non quello, il personaggio che ha tutte le carte per diventare il prossimo presidente della superpotenza americana. Il libro della Johnstone, nel suo controcanto alla narrazione prevalente, è già imperdibile. Ecco allora qualche approfondimento dalla sua viva voce.  

Quando ha cominciato a interessarsi a Hillary Clinton? E quale ritiene sia l’aspetto più pericoloso della sua personalità politica? 

“A dire il vero, non ho mai trovato Hillary Clinton interessante. E’ sempre stata troppo ambiziosa, disonesta, opportunista e limitata nella sua visione del mondo per essere interessante. Ma la sua reazione all’assassinio di Mohammar Gheddafi (“Siamo venuti, abbiamo visto, è morto”, seguito da una gran risata) ha rivelato una rara bassezza morale e una totale assenza di compassione e decenza. Con in più la volgarità di alludere a una citazione pretenziosa, senza dubbio preparata in anticipo dai suoi consiglieri per rafforzare la sua immagine di campionessa del “regime change”. E’ proprio questo l’aspetto più pericoloso della sua personalità politica: l’assenza di qualunque rispetto o sentimento umano nei confronti di coloro che lei considera suoi nemici. Quelli che non le piacciono meritano semplicemente di essere eliminati. La donna che sostiene serenamente che Vladimir Putin “non ha l’anima” non può certo portare la pace nel mondo”.  

Molti sembrano pensare che, se Hillary arriverà alla Casa Bianca, sarà suo marito Bill, in realtà, a guidare l’amministrazione. Lei che cosa ne pensa?
 

“A dispetto del loro insolito matrimonio, i Cinton hanno sempre fatto lavoro di squadra. Se lei sarà eletta, lui avrà il suo ufficio alla Casa Bianca, proprio come l’aveva lei quando era First Lady. Tra loro ci sarà una consultazione costante. Difficile però dire se sarà poi lui a guidare l’amministrazione, anche perché lei è più tenace e testarda di lui. Fu lei a spingere Bill a bombardare la Serbia. Hillary è molto impopolare e con ogni probabilità cercherà di usare Bill per le pubbliche relazioni. Il maggiore ostacolo a un “terzo mandato” di Bill è la salute: nel 2004 ha avuto un’operazione al cuore per un quadruplo by-pass, seguita da un’operazione al polmone. A 70 anni è molto meno dinamico di Bernie Sanders che di anni ne ha 74. Bill non è più in grado di assumersi responsabilità così pesanti”. 

Hillary Clinton e l’Arabia Saudita, una pagina molto oscura della sua carriera politica. Perché negli Usa è così difficile dire la verità sui sauditi? 

“All’epoca della crisi in Bosnia, quando l’Unione Europea avrebbe potuto trovare una soluzione di compromesso, l’amministrazione Clinton trovò conveniente schierarsi con i musulmani. In parte, questa alleanza è la continuazione della politica di Brzezynski, cominciata in Afghanistan e basata sull’idea di sfruttare gli estremisti islamici per attaccare il “ventre molle” della Russia. Aiutare i musulmani contro i serbi cristiano-ortodossi fu visto anche come un modo per compensare il tradizionale appoggio a Israele. Ma soprattutto l’alleanza con l’Arabia Saudita è considerata essenziale sia per regolare il prezzo del petrolio (strumento ora usato per indebolire la Russia) sia per finanziare il complesso militar-industriale con le gigantesche spese saudite per comprare armi americane. Hillary Clinton, con gli intensi rapporti che ha con Huma Abedin (per lunghi anni assistente personale della Clinton e figlia di dirigenti della Lega islamica mondiale, n.d.r) e con il denaro saudita, ha sposato questa alleanza con raro entusiasmo. Negli ultimi tempi, però, l’alleanza con l’Arabia Saudita sta subendo molti attacchi politici negli Usa, sia perché cresce il sospetto che i sauditi fossero implicati negli attentati dell’11 settembre, sia per lo sdegno causato dalle atrocità dell’Isis, che attirano anche l’attenzione sulla promozione del fanatismo islamista che l’Arabia Saudita persegue in ogni parte del mondo. Queste critiche potrebbero produrre qualche risultato politico se dovesse vincere Trump. Se vincerà Hillary, invece, non cambierà nulla”.  

Hillary Clinton, Samantha Power, Susan Rice, Madeleine Albright… Lei è molto critica nei confronti delle donne che hanno un ruolo importante nella politica americana. Proprio mentre si esalta come una conquista il fatto che una donna possa diventare Presidente… 

“Negli Usa la vita politica non tende a tirar fuori il meglio delle donne. Ne conosco molte che ammiro per la loro opposizione alla politica bellicista degli Usa. Ma difficilmente diventano note al grosso pubblico, ancor meno riescono a ottenere incarichi importanti. Rispetto moltissimo Cynthia McKinney, che ha perso il seggio al Congresso proprio per le sue critiche alla politica Usa in Medio Oriente. Applaudo l’azione di Tulsi Gabbard, anche lei membro del Congresso, che ha fatto il servizio militare in un’unità medica durante la guerra in Iraq e ha rotto con i Clinton proprio per la sua opposizione alle guerre basate sul regime change. In breve, ammiro molto più le donne che affrontano le sconfitte di quelle che sono circondate dall’aureola del successo”.  

Ma le donne americane, alla fine, voteranno per Hillary? 

“È una questione generazionale. Le donne anziane sono le sue più entusiaste sostenitrici, e spesso l’unica ragione che riescono ad addurre è proprio che è una donna. La maggioranza delle donne giovani alle primarie ha votato per Bernie Sanders. Anzi: le donne giovani erano la prima linea della campagna di Bernie. Certo, i commenti di Trump sulle donne sembrano rivelare l’intenzione di scatenare una guerra tra i sessi. Sta facendo di tutto per esser sicuro che il voto delle donne vada a Hillary”.  

Molti, anche in Italia, pensano che in ogni modo Hillary sarà un “male minore” rispetto a Trump. 

“Questa campagna presidenziale potrebbe rivelarsi un caso unico nel mettere una contro l’altra le due persone più detestate del Paese. Per molti votanti sarà difficile scegliere il “male minore”. Agli europei piace di più Hillary perché i media si sono dati molto da fare nel dipingerla come il candidato ragionevole e civilizzato in opposizione al pazzo scatenato Trump. Lui, in ogni caso, dice di voler trovare un accordo con la Russia, il che segna un punto a suo favore. Gli europei non dovrebbero preoccuparsi di chi vincerà le elezioni ma piuttosto di che cosa significhi per il mondo la leadership degli Usa. Questo è il vero tema del mio libro. Gli europei devono smettere di raccontarsi favole sull’America e riconoscere il pericolo che rappresenta per l’Europa”.  

Lei davvero pensa che Hillary Clinton potrebbe scatenare una terza guerra mondiale? 

“È inimmaginabile che qualcuno, persino Hillary Clinton, possa volontariamente scatenare una terza guerra mondiale. Eppure, solo pochi giorni fa il New York Times ci ha raccontato che 51 funzionari del Dipartimento di Stato hanno firmato un memorandum interno criticando il presidente Obama per non aver lanciato attacchi militari contro Bashar al-Assad in Siria, anche al rischio di aumentare le tensioni con la Russia. Gli interventisti liberal e i neocon che si sono impadroniti della politica estera americana non avrebbero problemi a spingere Hillary Clinton verso una maggiore aggressività. Anzi, è proprio ciò che lei vuole. Gli Stati Uniti stanno forzando la Nato a mettere pressione militare sulla Russia e nello stesso tempo rischiano il conflitto con la Russia in Medio Oriente. Stanno creando una situazione paragonabile a quella che portò alla Prima Guerra Mondiale: basta un singolo incidente per far saltare tutto. Hillary Clinton è particolarmente pericolosa perché non dubita mai del fatto che gli Stati Uniti prevarranno se solo mostrano abbastanza “determinazione”. E che cosa hanno fatto gli alleati europei per impedire il disastro? Finora nulla”. 

Diana Johnstone, “Hillary Clinton regina del caos”, pagine 247, euro 15,00, Zambon Editore

(30 giugno 2016)


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ORIG.: Qui protège Hillary Clinton ? (RÉSEAU VOLTAIRE | 11 JUIN 2016)



Chi protegge Hillary Clinton?

RETE VOLTAIRE  | 11 GIUGNO 2016  

Mentre la stampa celebra la vittoria in seno al Partito Democratico della prima miliardaria della storia, nell’ombra si combatte un’oscura battaglia giuridica.
Il rapporto del Dipartimento di Stato sulla posta elettronica di Hillary Clinton e i diversi atti giudiziari che sono seguiti dimostrano che la Clinton si è resa colpevole di: 
  Ostacolare la Giustizia, insieme ai suoi consiglieri (Sezione 1410); 
  Ostacolare inchieste criminali (Sezione 1511); 
  Ostacolare l’applicazione della legge locale e federale (Sezione 1411); 
  Reato federale di negligenza nella trattazione d’informazioni e documenti classificati (Sezione 1924); 
  Detenzione, nel computer di casa sua e su server non sicuro, di 1.200 documenti segreti (Sezione 1924); 
  Fellonia. A un giudice federale, e sotto giuramento, la Clinton ha dichiarato di aver consegnato al Dipartimento di Stato tutta la sua posta elettronica. Invece questa settimana l’ispettore generale del Dipartimento di Stato ha dichiarato che quanto affermato dalla Clinton è falso (Sezione 798); 
  La Clinton ha altresì dichiarato sotto giuramento di essere stata autorizzata dal Dipartimento di Stato a utilizzare il proprio computer personale per lavorare da casa. L’ispettore generale del Dipartimento di Stato ha dichiarato questa settimana che anche quest’affermazione è falsa (Sezione 798); 
  La Clinton non ha avvertito le autorità, e nemmeno il Dipartimento, che il suo computer personale era stato violato diverse volte. Purtuttavia, la Clinton ha richiesto al suo amministratore di sistema di intervenire per migliorarne la protezione. 
  Concussione e favoreggiamento. La Fondazione Clinton e la signora Clinton sono state corrotte per fare in modo che il Dipartimento di Stato chiuda gli occhi su numerose pratiche (Legge Rico e Sezione 1503).
Considerati i fatti accertati dall’FBI, dal Dipartimento di Stato e da un giudice federale, nonché la loro gravità, Hillary Clinton avrebbe dovuto essere arrestata questa settimana.
Bernie Sanders, l’altro candidato all’investitura democratica, contava sull’arresto della Clinton prima della Convention del partito. Per questa ragione, benché non abbia un numero di delegati sufficiente, ha deciso di mantenere la candidatura. Convocato alla Casa Bianca da Barack Obama, Sanders è stato informato che il presidente avrebbe impedito all’amministrazione di applicare la legge. Facendo seguire i fatti alle parole, Obama ha pubblicamente sostenuto la candidatura di Hillary Clinton.

Traduzione 
Rachele Marmetti
Il Cronista 


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IN ITALIANO: L’agenzia Petra dichiara non suo il dispaccio pubblicato su Hillary Clinton (RETE VOLTAIRE | 16 GIUGNO 2016)



L’Agence Petra déclare ne pas être l’auteur de la dépêche qu’elle a publiée sur Hillary Clinton

RÉSEAU VOLTAIRE  | 15 JUIN 2016  

L’agence de presse officielle du gouvernement jordanien, Petra, a publié sur son site internet, le 12 juin au matin, une dépêche reproduisant des déclarations exclusives du prince Mohammed ben Salman d’Arabie saoudite. Cependant, alors que l’Institute for Gulf Affairs (représentant l’opposition saoudienne à Washington) se saisissait de l’affaire [1], l’agence Petra a déclaré que son site avait été piraté et qu’elle n’était pas l’auteur de la dépêche. L’agence de relations publiques Podesta Group (créée par l’ancien directeur de cabinet de Bill Clinton, John Podesta, aujourd’hui directeur de campagne d’Hillary) a alors contacté les principaux médias états-uniens pour les mettre en garde contre cette « intox ». Le Podesta Group est rémunéré par le royaume d’Arabie saoudite à hauteur de 200 000 dollars par mois.
Selon ce document, le prince Mohammed, fils du roi Salman, aurait déclaré à l’agence Petra que son pays, l’Arabie saoudite, finançait systématiquement les partis républicain et démocrate lors de chaque élection présidentielle états-unienne.
Le prince aurait en outre déclaré que, malgré l’opposition de certains membres de sa famille à une candidature féminine, l’Arabie saoudite avait payé 20 % de l’actuelle campagne électorale d’Hillary Clinton.
En droit US, il est interdit de financer une campag

(Message over 64 KB, truncated)

[Sulle prossime ricorrenze antifasciste in Serbia – 4.7. Giornata del Combattente e 7.7. Giornata dell'Insurrezione –, sulla importanza di celebrarle, e sulla necessità di restituire alla Associazione Partigiani SUBNOR il suo status di associazione combattentistica con ruolo istituzionale, cancellato a seguito del colpo di Stato delle destre filo-occidentali dell'Ottobre 2000]



Председништво

ЈУЛСКЕ СВЕЧАНОСТИ СИМБОЛИ ПОБЕДЕ

Свечаности у Србији, Четврти јул и Седми јул, Дан борца и Дан устанка, својеврсни су симболи непоколебљивости, слободарства, победе нашег народа над фашизмом у Другом светском рату и традиције која је штедро сачувана у име будућности нових генерација.

СУБНОР Србије, целокупно чланство, достојанствено ће обележити празнике у свакој средини, а централна државна прослава одржаће се 7. јула у Белој Цркви, под крошњама и испред споменика легендарном Жикици Јовановићу Шпанцу и партизанским првоборцима који су се, први у поробљеној Европи 1941, осмелили да, после одлуке највишег руководства КПЈ предвођеног генералним секретаром Титом, крену у оружану борбу са окупатором и помагачима из домаћих редова.

На традиционалном окупљању народа у Белој Цркви говориће представници Владе Србије и СУБНОР-а Србије, а биће приређен и пригодан уметнички програм.

Председништво СУБНОР-а је, на седници којом је председавао Душан Чукић, размотрило како теку празничне припреме на територији целе државе и констатовало да су у већем делу организације већ одржани масовни и квалитетни скупови поводом 75-те годишњице почетка устанка народа Србије који је дао немерљив допринос заједничкој победи антихитлеровске коалиције у Другом светском рату.

Са посебним задовољством је запажено и активно учешће младих, чије окупљање представља један од кључних задатака у даљем раду.

На седници је било речи и о актуелним организационим питањима и, с тим у вези, чврстом ставу руководства да упорно и аргументовано тражи од извршне и парламентарне власти да буду измењени прописи по којима је, док су на сцени биле досовске странке, СУБНОР уврштен без икаквих потребних убедљивих разлога у удружења без ширег друштвеног значаја и утицаја.

Нигде у демократском и цивилизованом свету ветеранске организације нису законски потиснуте, па чврсто верујемо да ће тако, не тражећи никаква посебна права, Србија вратити статус организацији са преко 130.000 чланова који на сваком пољу, у сопственој средини и на међународној сцени, доприносе марљивим конструктивним радом општем бољитку.



Дан борца и Дан устанка

ЈУЛСКЕ БАКЉЕ СЛОБОДЕ

Дан борца Четврти јул и, посебно, Дан устанка Седми јул су симболи слободарства које СУБНОР Србије часно баштини и чува да изђикали фалсфикатори истине не оскрнаве, заметну погане трагове колабораната и разнолике слугане прогласе учесницима слободарског боја нашег народа у тешким годинама за животни опстанак под окупацијском чизмом немачких фашиста.

Ове, 2016. године, јубилеји су посебно значајни. Славимо седам и по деценија од партизанског хица у Белој Цркви. Тада је Србија, као много пута пре и после тога у дугом постојању, изашла још једном на прави пут и под националним и стегом КПЈ и генералним секретаром Титом безусловно се определила за слободу и отпор завојевачима сваких боја код нас и у Европи која је роптала под нацистичким јармом.

У устаничкој Белој Цркви ћемо се Седмог јула масовно окупити да потврдимо значај и снагу прошлости да бисмо били сигурни у будућност нових генерација. У обавези је сваки одбор, из свих крајева Србије, да обезбеди долазак чланства без обзира на то што је извесна финансијска ситуација.

Предлажемо, такође, да се одрже, као и увек до сада, регионалне манифестације на местима везаним за устаничке и друге дане, где ће говорити, где год је могуће, учесници збивања и подсетити шта су поједини крајеви прошли у годинама Другог светског рата. Праксу да окупљамо омладину морамо продубљивати, јер сви скупа знамо колико су школарци, захваљујући промењеним наметнутим уџбеницима, доведени у тоталну забуну и не могу да схвате шта се и у њиховом ужем окружењу, чак и са најближима, догађало током НОБ и какву су огромну улогу имали наши борци и за укупан спас Европе.

Сарадња са школама, без обзира на то што има отпора међу директорима, мора да буде остварена. Знамо да поједини наши одбори имају спремне и пригодне изложбе, па шансу треба искористити за поновни излазак у јавност. Кратки литерарни конкурси су такође више него прихватљиви, као и прикупљање књига са одговарајућим садржајем на поклон ђачким библиотекама. Идеја са трибинима и слична окупљања су увек добродошли и прихваћени у јавности кад се, у нашим или локалним популарним просторијама, добро и осмишљено организују.

Органи локалне власти су у обавези да се укључе у свечаности, па због тога иницирамо да одбори одмах, ако већ нису, ступе у контакт са одговорним без обзира на то којој политичкој групацији припадају. Дан устанка мора да буде свеукупни празник народа Србије, обележавање је камен темељац антифашизма по чему смо ушли на кључне странице светске историје и поштовани као непоколебљиви борци за слободу.

Дужну пажњу јулским свечаностима поклониће и Војска Србије, па и у том правцу треба деловати и координирати посебне и заједничке активности.

Подсећамо, у исто време, да новинске и сличне редакције на својој територији сваки одбор одмах контактира и да их о великој активности, која није никако само за СУБНОР везана, готово свакодневно обавештава и не препусти да само на дан одржавања свечаности извештавају. Указујемо и на обавезу и потребу да наш све читанији Портал на интернетској мрежи и ”Борац” добија вести и фотосе о свечарским збивањима како би и тај сегмент информисања био употпуњен.

Седамдесетпетогодишњица устанка у Србији против фашизма је планетарно важан догођај тим пре што се погубни рецидиви јављају у многим државама и опасно прете човечанству. Обавеза је због тога и новинара у сваком месту, а ми им пружимо аргументе, да у разговорима са нашим борцима, зналцима које предлажемо, представницима млађе и младе генерације, износе детаље везане за шири и ужи простор и тиме, чувајући истину посведочимо зашто смо увек били на правом путу и с тим у вези са хуманим и слободарским делом човечанства.

У дане свечаности морамо посебно указати част старим борцима НОР, заслужним за бриљантну победу, њиховим породицама, потомцима, инвалидима, члановима којима је потребна нега, као и учесницима одбране суверенитета и интегритета наше отаџбине у завршној деценији прошлог века.

Наше целокупно многобројно чланство ће на најбољи начин бити не само организатор и суорганизатор две велике светковине, већ и до краја јубиларне године, свако на свом подручју, истицати плодоносан рад и омасовљавати се новом генерацијом која ће чврсто држати стег народноослободилачке партизанске антифашистичке борбе које СУБНОР Србије поносно баштини због општег бољитка и достојног слободног живота.



Преносимо

НАШ НАРОД ЈЕ УСТАНКОМ УШАО У СВЕТСКУ ИСТОРИЈУ

Пише: Мирољуб Васић

Прошло је седамдесетпет година од устанка народа Србије у лето 1941.године против окупатора, који је означио почетак великог, народно-ослободилачког, антифашистичког и револуционарног рата у Југославији (1941-1945). Јубилеј је прилика да се осврнемо на ту славну прошлост, која је определила будућност, јер тај устанак има непролазну, историјску вредност. Он је показао, потврдио трајна слободарска и револуционарна хтења, идеале, који су обележили нашу историју, а историја је спознавање прошлости. Тим устанком, а он има цивлизацијски значај, југословенски народи, српски народ посебно, ушли су у светску историју. Као савременици, сведоци и актери да се „прокоцкају“ два историјска пројекта тог устанка, НОР-а, Федеративна Југославија и социјализам, и као историчари, а историја је дужна да сажима мудрост људског искуства у прошлости, треба, обавезни смо да нудимо рационалне одговоре на суштинска питања из те прошлости и савремености и да стално преиспитујемо историјску свест времена које је иза нас, али и овог у коме живимо. Устанак у Србији у лето 1941., а он је симбол идентитета и самобитности народа, историографија је добро истражила и оценила, мада он, као и сви значајни историјски догађаји, није неконфликтна појава, њиме ће се и будуће генерације бавити и давати своје судове. Прича која следи је без имагинације, то је спозната истина.

Устанак је организовала, покренила и њиме руководила Комунистичка партија Југославије (КПЈ), која је у Краљевини Југославији била забрањена (деловала илегално од 1921.). КПЈ је била партија интернационалне идеологије и социјалистичке револуције, чија је снага била у снажној илегалној организацији, антиратном, антифашистичком и слободарском расположењу народа, јер је борба за слободу највреднија одредница српског народа и његовог идентитета, у испољеној кризи грађанског друштва, што је посебно дошло до изражаја у априлском рату 1941., у њеном упоришту у Совјетском Савезу и Коминтерни. Потсетимо се укратко најзначајнијих догађаја и актера везаних за тај историјски догађај, устанак, мада је и почетак и ток те приче добро познат али СУБНОР Србије је својим постојањем, бићем дужан да обележава тај историјски догађај и доприноси очувању националне свести и историјског памћења.

КАКО СУ НАС ДЕЛИЛИ

У априлском рату (6-17.IV.1941) Краљевина Југославија је била поражена и окупирана. Агресорске силе Немачка и Италија и њихови сателити Мађарска и Бугарска поделили су Југославију сходно својим завојевачким аспирацијама, са циљем да се делови Краљевине Југославије укључе у нови светски поредак, који је креирао Трећи рајх. У тој подели, уништењу Југославије, као државе, Независној држави Хрватској (проглашена 10.IV) припала је Босна и Херцеговина и Срем, Мађарској Бачка, Барања, Прекомурје и Међумурје, Бугарској скоро цела Македонија, део Косова и Метохије и Југоисточне Србије, Ужа Србија и Банат стављени су под директну управу Немачке, која ће успоставити, поставити квислиншку управу, прво Комесарску, а потом тзв. владу Народног спаса, Црна Гора је потпала под Италију, а потом је Црногорски сабор (12.07) прогласио стварање Независне Црне Горе, у оквиру Краљевине Италије, Италија је анектирала Боку Которску, Санџак, сва острва у Хрватском приморју и део Далмације, највећи део Космета, појас између Црне Горе и Албаније и западну Македонију и прикључила квислиншкој Великој Албанији, Немачка и Италија су поделиле, присвојиле Словенију, Немачка Штајерску, Горењску, делове Долењске и Корушке, а Италија анектирала преостали југозападни део Словеније, назван Љубљанска покрајина.

У војно побеђеној и разбијеној Југославији најгоре је прошла Србија. Матица српског народа сведена је на границе из 1912. године. Српски народ поделио је судбину своје државе. Насељен широм југословенских простора он се нашао издељен и изложен опасностима биолошког, национаног и културног уништења, а посебно у НДХ где је драстично спровођен геноцид над Србима. Срби су свуда означавани као опасност за успостављене режиме. Окупационо подручје Србије имало је за Трећи рајх велики, статешки и ратно-привредни значај (храна, руде, комуникације према југу и Блиском истоку) и сл. Окупација је била испуњена терором, сваки отпор окупационом поретку најсвирепије је кажњаван. Септембра 1941. ступило је на снагу наређење Врховне команде Вермахта о стрељању 100 срба за једног погинулог немачког војника, односно 50 за рањеног. Влада тзв. Народног спаса генерала Милана Недића није успевала да ублажи казнене мере окупатора нити да приволи становништво на лојалност. Под притискм биолошког истребљења са Космета је 1941. исељено око 100.000 Срба, а ликвидирано око 10.000, а из Албаније доведено, насељено око 80.000 Албанаца. Репресалије над српским становништвом је основна карактеристика Мађарске окупационе управе у Бачкој и Барањи (убијено у Тителу око 7.000, у Жабаљском срезу око 2.000, Новом Саду око 2.000, Старом Бечеју око 1.000 Срба); биланс Бугарске окупације износио је око 20.000 убијених и преко 50.000 исељених Срба, активно, плански је рађено на денационализацији Срба, на расрбљавању македонског становништва. Највеће размере злочини су добили у НДХ где је расно законодавство давало легитимитет процесима биолошког истребљења Срба, на удару се нашло све – људски животи, писмо, културно наслеђе, имовина, вера.

У окупираној и растуреној Југославији окупатор је разместио своје трупе јачине 396.000 људи, од тога, Немачка је имала 141.000, Италија 180.000, Бугарска 55.000, Мађарска 20.000 војника, док су квислиншке формације износиле: у НДХ 114.000, у Србији 5.000, у Црној Гори 1.000 војника.

Априлски рат 1941. у Југославији дорпинео је померању напада Немачке на Совјетски Савез (план „Барбароса“, са 15. маја на 22. јуни 1941).

Разбијањем Југославије окупатори су настојали да разбију и јединство југословенских народа, да распире њихове националне, верске, страначке нетрпељивости. И само одвођење у заробљеништво војника и официра српске и словеначке нациналности сведочи о немачким претпоставкама који народи неће им бити покорни (укупно заробљено око 398.000 људи). У најтежем положају био је српски народ који се нашао под влашћу Немаца, Италијана, Мађара и Бугара, као и у НДХ, где је одмах почео геноцид над Србима. На положај појединих народа, Срба посебно под окупацијом, утицало је и држање три најбројније националне мањине – Шиптара, Немаца и Мађара, који су окупаторе дочекали пријатељски и ставили им се у службу.

После напуштања (бежања) из земље краљевска Југословенска влада је изјавила „Да наставља рат“, а као савезнике је видела Велику Британију, САД, и СССР. Влада ће постати центар за окупљање оних друштвених снага које су желеле обнову монархије и дотадашњег друштвеног поретка после пораза сила Тројног пакта. Најпознатији представници таквог мишљења, понашања били су Четници, чији настанак датира од маја 1941. на Равној Гори, на челу са пуковником Драгољубом Дражом Михајловићем, чији је циљ био стварање војске и покрета који се неће замерати окупатору због могућих репресалија, већ се спремати да у време колапса Сила осовине ступи у дејство. Југословенска влада је прихватила тај покрет и означила га као Југословенску војску у отаџбини, а за њеног команданта, поставила Дражу Михаиловића, кога је унапредила у чин генерала, а потом га прогласила министром војске и начелником Врховне команде.

Насупрот таквој политици, пракси, понашању постојала је и друга могућност – отпор, борба против окупатора, али је било питање – како и ко да је организује, а да буде успешна. Та снага је постојала, била је то КПЈ, која није признала капитулацију и разбијање Југославије. Организациона структута КПЈ била је чврста, уходана, кадрови прекаљени, на челу КПЈ био је Централни комитет КПЈ, који је руководио са ЦК КП Хрватске и ЦК КП Словеније, са покрајинским комитетима за Србију, за Босну и Херцеговину, за Црну гору, за Македонију, за Војводину и Обласним комитетом за Косово и Метохију, а ови са нижим партијским руководствима (месним, среским, градским и окружним комитетима). У лето 1941. КПЈ је имала око 12.000 чланова (у Србији око 2.500, у Војводини око 1.200, на Косову и Метохији око 270), а Савез комунистичке омладине Југославије око 50.000 чланова. Била је то добро организована, убојита снага. У таквим условима руководство КПЈ ће позвати народе Југославије на устанак, покренуће и подићи борбу за освајање слободе али и власти. Тај отпор биће назван Народноослободилачка, антифашистичка борба која је имала и револуционарни карактер (револуција).

ПОЗИВ НА ОТПОР

Централни комитет КПЈ већ 10. априла 1941. (дан проглашења НДХ), одржава у Загребу састанак, и позива комунисте и родољубе да пруже отпор агресору, одлучује да се приступи свестраним припремама за борбу против окупатора, именује Војни комитет, на челу ја Ј.Б. Титом, као руководећим органом препремама за борбу; а 15. априла упућује проглас „Народима Југославије“, којим осуђује стварање НДХ и позива на отпор фашистичким поробљивачима, у борбу која ће „на истинској независности створити братску заједницу свих народа југославије“. Руководство КПЈ крајем априла у свом првомајском прогласу „Радном народу Југославије“, позива све раднике, грађане „на окуп, потребно је ујединити све ваше снаге у борби за опстанак“, а на саветовању (почетком маја) у свом документу „Саветовање КПЈ“, потврђује курс на ослободилачку борбу против окупатора која се квалификује као борба за национално и социјално ослобођење. Од комуниста и радника се тражи да прикупљају оружје, стварају борбене групе, врше војну обуку, организују обавештајну службу, да се при руководствима КПЈ формирају војни комитети…

Током априла и маја КПЈ врши интензивне припреме за покретање оружане борбе, устанка против окупатора, о чему сведоче телеграми секретара КПЈ Тита Коминтерни, а тиме и Влади СССР-а (од 21. и 25. aприла, 2,13, и 30. маја) чека се погодан тренутак (војнички и политички) за почетак устанка. Тај тренутак руководство КПЈ је видело, означило нападом Немачке на Совјетски Савез 22. јуна 1941., јер је тај напад означио промену карактера рата од империјалистчког у антифашистички и ослободилачки и да зато треба пружити подршку СССР-у као водећој сили антифашистичке коалиције, Руководство КПЈ упутило је (истог дана) проглас „Радницима, сељацима и грађанима широм Југославије“ којим су позвани да се уједине и крену у борбу окупатора против „највећег непријатеља радничке класе“ с покличем „Напред у последњи и одлучни бој за слободу и срећу човечанства“.

Одлука о непосредним припремама за оружану борбу донета је на састанку Покрајинског комитета КПЈ за Србију (Београд, 23. јуна), упућени су инструктори у поједине крајеве Србије, наређено да се приступи стварању наоружаних ударних група, прикупља санитетски материјал, појача конспирација. На напад Немачке на Совјетски Савез руководство Коминтерне је реаговало упућивањем телеграма руководству КПЈ (свим својим секцијама), у коме је тај напад оцењен као напад „против слободе и независности свих народа“, а Југословенским народима поручено да „развијају сопствену ослободилачку борбу против немачких поробљивача“, уз упозорење да је у тој етапи борбе, рата, „реч о ослобођењу од фашистичких поробљивача, а не о социјалистичкој револуцији“.

У таквим условима ЦК КПЈ 27. јуна формира Главни штаб народноослободилачких партизанских одреда Југославије,на челу са Ј.Б: Титом и обавештава Коминтерну „ми припремамо народни устанак против окупатора“. Руководство Коминтерне 1. јула упозорава телеграмом КПЈ „да се води борба на живот и смрт од чијег исхода не зависи само судбина Совјетског Савеза већ и слобода вашег народа“, да је „куцнуо час када су комунисти дужни подићи народ на отворену борбу против окупатора, да организују партизанске одреде и покрену партизански рат“. Вођа совјетске државе и СКПб Ј.В. Стаљин позвао је својим говором 3. јула све слободољубиве и поробљене народе у борбу против фашизма. Већ сутрадан, 4. јула, Политбиро ЦК КПЈ донео је одлуку о покретању оружане борбе против окупатора, формирао Штаб партизанских одреда за Србију и у све крајеве земље упутио инструкторе да спроводе одлуку о устанку. Своју одлуку о покретању устанка руководство КПЈ је обзнанило 12. јула прогласом „Народима Југославије“, којим је комунистима наређено „хитно организујте партизанске одреде“ а народ позван „у бој, у последњи бој за уништење фашистичке заразе која тежи да истреби не само најбоље борце народа, већ и Словене на Балкану“.

И Покрајински комитет КПЈ за Србију позвао је (средином јула) народ(е) у борбу против окупатора, издао окружницу којом се налаже партијским комитетима и организацијама да организују партизанске одреде, да уништавају ратне фабрике и складишта, руше жељезничке пруге, телефонске мрже, онеспособљавају аеродроме, сакривају жито (храну) од окупатора, да формирају ударне групе по градовима и сл. Током јуна и јула организационе припреме за организовање отпора, покретање оружане борбе биле су завршене, и у готово свим крајевима Југославије почеле су акције партизанских одреда које су биле различитог интензитета. Тај бескомпромисан отпор, борбу најавили су пуцњи у Белој Цркви 7. јула 1941., чиме је почео први оружани отпор фашизму у поробљеној Европи.

У Србији је процес формирања партизанских одреда почео после седнице ПК КП за Србију 23. јуна а већ средином јула у Србији дела седам партизанских одреда а крајем августа 23 одреда. Њима руководи Штаб народноослободилачких партизанских одреда за Србију, на челу са Сретеном Жујовићем. Устанак је захваљујући напорима организација и руководстава КПЈ ускоро захватио читаву Србију, створена су три устаничка жаришта, у Западној Србији, Шумадији и Поморављу, у Источној Србији и у Југо-источној Србији. Већ крајем јуна створен је Ваљевски партизански одред, а током јула и Космајско-посавски, први и други Шумадијски, а потом и Чачански, Ужички, Крагујевачки, Мачвански, Краљевачки, Расински, Пожаревачки, Топлички, Кукавички (Лесковачки), Врањански и други одреди.

Крајем августа и током септембра партизански одреди прешли су у нападе на веће центре у Шумадији, Западној Србији и Поморављу. Дејство тих одреда усмеравао је Штаб партизанских одреда Србије и ПК КП за Србију у духу сугестија Главног шаба НОП одреда Југославије о стварању шире ослобођене територије. У тим акцијама дошло је и до делимчне борбене сарадње против окпатора са одредима четника Драже Михаиловића, који ће убрзо (почетком новембра) видећи у НОП-у свог главног војног, политичког и идеолошког противника, у колаборацији са окупатором, повести и водити до краја рата жестоку борбу против њега, што ће ослободилачком рату дати и карактер грађанског рата.

До почетка октобра ослобођени су – Крупањ, Бања Ковиљача, Лозница, Богатић, Ужице, Горњи Милановац, Бајина Башта, Ивањица, Гуча, Ариље, Пожега, Чачак, Љиг, Рудник. Партизански одреди израстали су у крупније војне формације, а оружане борбе добијале шире размере и у другим крајевима, две трећине Србије било је ослобођено. Крајем септембра 1941. ЦК КПЈ и Врховни штаб НОПО Југославије пренели су своје седиште из Београда у ослобођено Ужице.

ИСТОРИЈСКА ОДЛУКА

Упоредо са оружаним акцијама партизанских одреда у многим окупираним градовима, а особито у Београду, Крагујевцу, Нишу, Краљеву, Шапцу, извођене су бројне диверзије, саботаже и друге борбене акције.

Србија је почела да се буни, диже, бори, дух Цера, Колубаре, пробоја Солунског фронта, подстицао је патриотско, слободарско раположење. Тај бунт, отпор, народни дух („нека буде што бити не може“) и руководство КПЈ, изнедрили су јесен 1941. прву велику ослобођену територију у поробљеној Европи – Ужичку Републику, која је имала елементе државности.

Курс КПЈ на ослободилачку борбу потстакао је све организоване снаге да се активирају, окупљају, да се организују све антиокупаторске снаге. Све што се дешавало на терну потврђивало је реалност концепције КПЈ о покретању оружане ослободилачке борбе на принципима партизанске тактике и организације. Оружана борба у свим областима постала је опште обележје, које је наметало нове дилеме и задатке, који би се могле сажети у питање – да ли је могуће у датим условима (унутрашњим и међународним) обезбедити прерастање партизанске борбе у НОР за остваривање далекосежних циљева како их је поставила КПЈ. Каснији догађаји током II светског рата су потврдили да је то било могуће, устанак је прерастао у масован народноослободилачки покрет и бескомпромисни народноослободилачки, антифашистички рат који је добио и револуционарно обележје.

Обележавајући 75-ту годишњицу устанка против окупатора 1941. године, а то је празник којим одржавамо везу са прошлошћу, морамо посебно истаћи да је одлука руководства КПЈ о дизању устанка, покретању оружане борбе била тешка, одговорна, историјска. Њу су донели људи револуционарне зрелости, одлучности, високог патриотизма и интернационализма, свесни историјске одговорности, пуни љубави према свом народу, земљи, слободи, спремни на жртве, пуни вере у коначну победу. Та одлука и славни народноослободилачки, антифашистички и револуционарни рат (1941-45) изнедрили су Социјалистичку Федеративну Југославију.

Устанак у Србији у лето 1941. део је херојске ризнице и слободарске традиције њеног народа. Непролазне историјске вредности тог устанка траже да му се чeсто враћамо с поштовањем према његовим оргaнизаторима, борцима, (палим и живим), увек са жељом и циљем да се још боље изуче његови узроци, токови, актери и оцене његове војне, политичке, међународне, етичке, историјске и друге димензије. Тај устанак трајаће колико и историја, дужни смо да га изучавамо, обележавамо, славимо, јер „Сазнање је нужност да би се могло живети“ – рекао је Епикур.





... dà fastidio anche a Diego Zandel e alla lobby europeista di Osservatorio Balcani Caucaso:
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Dubravka Ugresic

Europa in seppia

  • traduzione: Olja Perišić Aršić, Silvia Minetti
  • pagine: 352 - 14X20
  • ISBN: 9788874525997
  • Data Pubblicazione: 18/03/2016
  • collana: cronache

Come si sopravvive in un mondo dove non esistono piú le cabine telefoniche, l’effigie di Tito è stampata su calzini-souvenir e si costruiscono musei sul domani per salvarsi dall’oggi? Dubravka Ugrešić ci mostra l’Europa del primo secolo del nuovo millennio attraverso una galleria di scatti, di foto d’epoca color seppia: raccontando che cosa è rimasto di un Est che, puntato sull’orologio socialista, ha creduto al progresso e ormai non ha piú neanche il tempo per sognare; e di un Ovest che, convinto di dettare il passo al futuro, moltiplica le connessioni e si barrica nei propri confini. Cartoline da aeroporti, alberghi, festival, istantanee di paure e ossessioni, una flotta di corrosivi messaggi in bottiglia lanciati da un’irriducibile contestataria.


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Una trappola chiamata jugonostalgia

di Dubravka Ugrešić, La Repubblica, 23 marzo 2016
Anticipiamo un brano dal nuovo libro della scrittrice croata Dubravka Ugrešic, Europa in seppia (nottetempo, pagg. 352, euro 18,50).

Un invito dell'Oberlin College in Ohio a tenere una lezione sul tema "Il ricordo del comunismo: poetica e politica della nostalgia", aveva risollevato la mia ammaccata autostima di veterana, che quasi subito però si era sgonfiata. Dopo vent'anni a scavare fra le rovine, che cosa avrei potuto dire ancora sulla jugonostalgia?! Davanti a me si innalzava un'irriducibile mole di scritti e di testi non ancora scritti, poi libri, film, memorie, simboli e souvenir, insomma, un enorme ripostiglio, un archivio caotico in cui avevo accumulato roba di ogni genere; da fondamentali testi teorici (il libro di Svetlana Boym, "The Future of Nostalgia"), a film di successo ("Good Bye Lenin" del regista Wolfgang Becker), a progetti nostalgici di seconda
o di terza categoria, fino a oggetti smarriti che non sembravano avere alcuna attinenza con il resto. Ma chi sarà l'arbitro supremo capace di dire quali sono gli oggetti attinenti e quali quelli non attinenti? (...) C'è stato un tempo in cui internet non aveva ancora raggiunto un utilizzo di massa. Oggi ogni postjugoslavo ha modo di soddisfare il proprio appetito jugonostalgico: si trovano siti con vecchi film jugoslavi, le serie televisive più popolari, cantanti pop, vecchie pubblicità di prodotti jugoslavi, le sedie su cui ci sedevamo, le cucine in cui cucinavamo, le mode che seguivamo. Oggi vengono inaugurate mostre jugonostalgiche, si possono acquistare calzini-souvenir con l'effigie di Tito, libri di cucina con le ricette dei suoi piatti preferiti. Oggi nei teatri si tengono rappresentazioni dal contenuto jugonostalgico, si girano documentari nei quali gli intervistati manifestano apertamente la propria pulsione jugonostalgica. Senonché la jugonostalgia ha perso la sua carica sovversiva, non è più un movimento di resistenza personale, è un prodotto di consumo: nel frattempo è diventata un supermercato mentale, un elenco di simboli morti, un semplice promemoria privo di immaginazione emozionale.
Oggi, cioè, il capitalismo predatorio postjugoslavo può permettersi di tollerare la presenza sul mercato ideologico di souvenir jugonostalgici. La jugonostalgia non fa altro che rafforzare la propria posizione. E come?! Al posto di essere la chiave per una migliore comprensione del socialismo jugoslavo, per una resa dei conti reale e a lungo termine tra il vecchio e il nuovo, al posto di essere il generatore di una memoria produttiva, se non addirittura di un futuro migliore - la jugonostalgia oggi si è trasformata nel suo opposto, in un'efficace strategia di conciliazione e oblio. Acquistando i calzini-souvenir di Tito, il postjugoslavo simbolicamente abbatte un divieto ventennale e cancella lo stigma del suo passato socialista. Qui la nostalgia muta radicalmente di significato e non sta più a indicare la protesta contro l'oblio, la polemica contro il sistema vigente o il desiderio di una vita passata (se mai ha avuto questo significato), ma un'accettazione senza riserve della situazione attuale.
Eppure, le profonde frustrazioni suscitate dal solo nominare la parola jugonostalgija (Jugoslavia, jugoslavo, socialismo, comunismo e cosi via), non sono ancora sopite, il che dimostra semplicemente che i cittadini della ex Jugoslavia - diventati croati, serbi, sloveni e via dicendo - non si sono emancipati dal passato jugoslavo. E di conseguenza, per esempio, i personaggi pubblici, che si tratti di politici, letterati, artisti, filosofi, accanto alla parola jugonostalgia aggiungono sempre una nota in calce per segnalare che il loro menzionare la Jugoslavia non significa che la rimpiangano, né per carità, che rimpiangano il comunismo. La mostra «Socialismo e modernità» a Zagabria, inaugurata alla fine del 2011, non fa che confermare e alimentare la frustrazione che in Croazia è stata latente per vent'anni.
Un visitatore può vedere esposta la prima automobile di produzione jugoslava, il primo apparecchio radiofonico, spezzoni di trasmissioni televisive, mobili, manifesti e progetti architettonici, ma il contesto storico è del tutto insignificante. La Jugoslavia, il comunismo o il socialismo vengono a malapena citati, quindi sembra quasi che la modernità degli anni '50 e '60 fosse esclusivamente croata e che avesse i colori della dissidenza, anche se risulta poco chiaro contro cosa il dissenso avrebbe dovuto rivolgersi. I curatori della mostra erano spaventati dal fatto che a quel tempo la Croazia fosse una repubblica jugoslava, come anche dal fatto che fosse stato il socialismo jugoslavo il motore della modernità. Il socialismo e la modernità a quel tempo procedevano di pari passo in un'armoniosa coppia ideologica.
Anche il capitalismo americano sfrutta la nostalgia, sebbene in modo più abile e attraente. L'esempio della campagna pubblicitaria della Levi's ( Go Forth; Go Work) mostra come il capitalismo realizzi un re- branding per difendere se stesso. Sfruttando l'estetica degli spazi postcapitalistici in rovina (capannoni di fabbriche abbandonate a Pittsburgh e Detroit) e servendosi di dilettanti invece che di modelli professionisti, le immagini della pubblicità della Levi's evocano la nostalgia per i valori di una volta, come l'individualismo, la forza, l'onestà, il lavoro, l'autostima, il coraggio, o, in altre parole, la nostalgia per i tempi dei pionieri americani. Ad accompagnare le immagini, frasi come per esempio Things got broken here assolvono da ogni responsabilità i veri colpevoli della crisi economica, equiparando così la crisi a una semplice calamità naturale, che colpisce tutti senza distinzione. La breve frase We need to fix it invita le persone, i lavoratori della classe operaia (!), a rimboccarsi le maniche, a prendere le cose nelle proprie mani e cambiare la propria vita ( Your life is your life!). E, ovviamente, a risolvere la propria vita nessuno ci va con il culo di fuori. Per questo è necessario un minimo investimento iniziale, un paio di Levi's.

© nottetempo, 2016.
Traduzione di Olja Perišic Arsic e Silvia Minetti

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“Caro vecchio Continente senza più un fremito morale”

La scrittrice croata Dubravka Ugrešic racconta in Europa in seppia la disillusione dell’Est dopo la sbornia iniziale di libertà e mercato

23.3.2016
MICHELA TAMBURRINO
ROMA

Il calzino-souvenir con l’effigie di Tito stampata sopra. Una cabina telefonica fuori uso. L’Europa che non ride più. Sono foto dell’anima che la scrittrice croata Dubravka Ugrešic si è trovata a scattare traendo luce dalle mancanze, aprendo il grandangolo del paradosso. Crudeli, ironiche, accorate.  
 
Europa in seppia (Nottetempo, collana cronache) è un album di scatti raccontati, un mondo che non c’è più si impone, l’odierno, mentre esiste è già dimenticabile. Cartoline lanciate come messaggi in bottiglia, da alberghi, aeroporti, convegni. Rassicuranti non sono ma ci si ride sopra. E persino la solida nostalgia di cui la massiccia Dubravka si ciba con famelico altruismo è diventato prodotto usa e getta. La saggista e romanziera, amata per la sua mancanza di conformismo, tradotta in venti lingue, in esilio in Olanda, «mette in posa un’epoca per un impietoso selfie». 
 
Lei scrive che l’Europa non ama più la vita.  
«L’Europa ha perso le coordinate, non funge più da concetto. L’unica cosa certa di ogni singolo Stato europeo è la moneta unica. Umberto Eco diceva che la cultura incontra un problema quando la si paragona alla valuta, in un mondo globale proprio la cultura dovrebbe garantire da difesa identitaria. Per me è un motivo di disperazione. Vedo l’Europa in una luce cupa, soffro la mancanza di un progetto morale per il futuro, non mi sento parte di una comunità, siamo testimoni del proliferare di tanti fascismi diversi, in tanti luoghi diversi, ma noi non li vediamo come tali. Colgo l’incapacità di leggere tanti segni e questo mi preoccupa». 
 
Da qui la nostalgia per il suo mondo fatto a blocchi? 
«La nostalgia in sé ha un grande potenziale di vendita e di guadagno. Oramai la maneggiano tutti, la usano i commercianti e i politici. Prolifera lì dove manca un progetto per il futuro, ma noi viviamo in un tempo in cui nessuno parla più del futuro. Io sono cresciuta in un’epoca di forte progettualità. Pensavo che avrei comprato un biglietto per la Luna. Nessuno lo dice più. La medicina e la tecnologia sono gli unici campi ad indicare il domani. Vivremo tutti una lunghissima vecchiaia contornati da macchine tutto fare. Nessuno però ci dice come staremo in questo mondo, sanissimi, vecchi e sostituiti dai robot. In tanta incertezza fiorisce la nostalgia cattiva ed ecco che allo stadio di Spalato tra il manto in erba, dal cielo si vede una svastica». 
 
C’è anche tanta paura tra le pieghe del suo libro. 
«Viviamo in un mondo che è stato allattato con la paura e la più grande è quella del cambiamento. Il regime comunista organizzava sogni e desideri. Miope pensare che il socialismo in Jugoslavia sia stato abbattuto per uccidere una figura materna. In realtà è stato sostituito da una figura ancora più materna: il nazionalismo. Peggiore perché mancante del piglio ideologico, criminale perché si basa sull’etnia e sul gruppo sanguigno». 
 
Lei parla di Zagabria come farebbe un’amante tradita 
«Ai Padiglioni della Fiera di Zagabria ho accompagnato un mio amico scivolato nella povertà a prendere pacchi destinati ai “casi sociali”. Vent’anni fa in un analogo padiglione vennero torturati i concittadini serbi». 
 
Lei partecipa a molti festival letterari, eppure li descrive di grande pochezza. 
«Il sistema letterario ha perso appeal. Sgretolato il sostegno dato dalle università e dalla critica, i festival sono entrati a far parte del mercato. L’idea guida è pubblicizzare pur non essendo certi della bontà del prodotto. C’è una manifestazione inglese nella quale si dava spazio agli scrittori. Oggi chiedono agli autori una performance, purché sia divertente. Finiremo tutti come Elena Ferrante e non ci mostreremo più». 
 
Lei adora il Museo del Cinema di Torino (oggi sarà al Circolo dei Lettori nell’ambito del Festival Slavika) perché il cinema è il prodotto più potente ed emozionante della nostra epoca. 
«Sì, è il posto più bello al mondo, sensuale, illuminato da energia onirica. Stesa su quelle poltrone ho visto scene di ballo tratte dai film. Ecco, il mio messaggio per il futuro sarebbe il ballo, gente normale che balla come stelle in cielo».

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Europa in seppia 

Diego Zandel, 20 giugno 2016

E' l'ultimo libro uscito in Italia per la casa editrice Nottetempo della scrittrice Dubravka Ugrešić. Una riflessione sull'Europa del Novecento, in particolare quella dell'est. Recensione
Dubravka Ugrešić è una delle scrittrici croate più tradotte in Italia. Nel tempo, Garzanti prima, quindi Bompiani ed ora Nottetempo hanno pubblicato i suoi libri più significativi. Eppure è, o meglio sarebbe dire, è stata una delle scrittrici più odiate in patria al tempo della cosiddetta “Guerra patriottica” e del regime di Tuđman, tanto da costringersi a una sorta di auto esilio, scegliendo poi di vivere in Olanda.
L’ultimo ad essere pubblicato in Italia da Nottetempo, ed è ben il terzo libro per i tipi di questa bella casa editrice, è una raccolta di articoli e saggi di attualità, piuttosto recenti, dal titolo “Europa in seppia” (pag,349, €. 18,50, traduzione di Olja Perišić Arsić e Silvia Minetti). Perché in seppia? Perché guarda a quell’Europa del Novecento che non c’è più. O, meglio, c’è, ma è l’Europa di oggi, in particolare quella dell’est, che si volta indietro e scopre un continente invecchiato nei suoi miti, ridotti per lo più a icone consumistiche. L’esempio più significativo per una croata, spesso accusata di jugonostalgia, è quello di Tito, la cui immagine, che un tempo si vedeva esposta in ogni luogo pubblico, si ritrova stampata su calzini-souvenir oppure, con la memoria del fatto che era un bon viveur, in libri di cucina con le ricette dei suoi piatti preferiti. La Ugrešić, proprio con riferimento alla jugonostalgia, critica severamente questo atteggiamento come una resa al capitalismo: “Oggi, cioè” scrive “il capitalismo predatorio postjugoslavo può permettersi di tollerare la presenza sul mercato ideologico di souvenir jugonostalgici. La jugonostalgia non fa altro che rafforzare la propria posizione.”
Può sembrare una critica alla jugonostalgia, ma in realtà il suo è un fastidio per una storia, la storia del paese sotto il quale è nata e cresciuta, ridotta a questi espedienti consumistici che ne riducono l’importanza e allontanano da una vera riflessione su ciò che è stata la Jugoslavia di Tito. Scrive infatti l’autrice che questo tipo di jugonostalgia: “al posto di essere la chiave per un’indagine seria, per una migliore comprensione del socialismo jugoslavo, per una resa dei conti reale e a lungo termine tra il vecchio e il nuovo, al posto di essere il generatore di una memoria produttiva, se non addirittura di un futuro migliore, la jugonostalgia oggi si è trasformata nel suo opposto, in un’efficace strategia di conciliazione e oblio”.
Con ciò, però, secondo me, confermando la tesi di chi sostiene il suo essere jugonostalgica, di una Jugoslavia però vista con altri occhi, quelli di un rimpianto per un paese che non c’è più e che, se non portato alla distruzione, avrebbe potuto essere. Una posizione, la sua, che per altro ben emerge soprattutto nel suo romanzo “Il ministero del dolore”, edito in Italia da Garzanti in cui racconta la storia di una insegnante di serbo-croato autoesiliatasi da Zagabria, come la Ugrešić, che insegna letteratura a giovani ex jugoslavi, ora croati, serbi, bosniaci, montenegrini, figli o parenti di criminali di guerra alla sbarra al tribunale dell’Aia. Con essi nasce un gioco della memoria: cercare di ricordare tutto ciò che era riconducibile alla ex Jugoslavia, compresa la lingua, della quale la protagonista sottolinea l’assurda distinzione tra serbo e croato che conta su una diversità di non più di 50 parole. L’intento, quello di alimentare nei giovani allievi una comune identità jugoslava che cancelli i nazionalismi esacerbati dalla guerra interetnica, che era poi il motivo profondo del romanzo stesso.
Questa visione, che è quella di una donna di cuore comunista, rappresenta un po’ tutta la chiave degli articoli e dei saggi raccolti in “Europa in seppia”, in particolare quando l’autrice, ospite in questo o quel paese europeo soprattutto per convegni e presentazioni, si trova in quelli dell’est, ex comunisti, dove non manca di criticare la volontà dei nuovi governi di cancellare, fin nei nomi, i retaggi nel passato comunista. Gran parte del libro è assorbito da questa discussione e non a caso il libro si apre con il ricordo di quando Dubravka Ugrešić fu invitata all’Oberlin College, nell’Ohio, che aveva organizzato una serie di lezioni sul tema Il ricordo del comunismo: poetica e politica della nostalgia, che è poi il tema di questo libro, scritto con acume e un po’ di acredine.
E’ pur vero che il libro non parla solo di questo, pur ritornandoci spesso, ed è interessante il punto di vista dell’autrice anche su altri aspetti della realtà europea, che lei vive ormai anche come cittadina olandese e viaggiatrice culturale per essere spesso chiamata a festival, rassegne, conferenze, eventi culturali (è stata anche a Torino e Roma, per presentare questo ultimo libro). Il timore però è che l’invito sia rivolto alla dissidente più che alla brava scrittrice che la Ugrešić è, facendole ricoprire un ruolo che ormai dovrebbe scrollarsi di dosso, credo con una profonda riflessione sui passi in avanti compiuti dalla Repubblica di Croazia dai tempi di Tuđman che, perseguitando lei ed altri scrittori critici, mostrava il volto becero di un regime. Magari partendo dalla semplice considerazione che l’attuale Repubblica di Croazia non solo contribuisce economicamente, attraverso il ministero della Cultura, alla traduzione dei suoi libri all’estero, ma anche a qualcuno dei suoi viaggi di lavoro come, ad esempio, l’ultimo nel nostro paese per la presentazione proprio di questo libro a Torino e a Roma.

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Altri link consigliati:
Quando l'esilio è una scelta di vita, una conversazione con Dubravka Ugreŝić (Pagina 99, sezione Arti, pag. 39 - 30 aprile 2016 - di Gabriele Santoro)





Missili terra-aria italiani al confine siriano

1) I MISSILI TERRA-ARIA ITALIANI AL CONFINE SIRIANO (di Gianandrea Gaiani)
2) L’ITALIA ALLA GUERRA IN SIRIA A FIANCO DI ERDOGAN (di Antonio Mazzeo)


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EDITORIALE

I MISSILI TERRA-ARIA ITALIANI AL CONFINE SIRIANO


di Gianandrea Gaiani
13 giugno 2016, pubblicato in Editoriale

L’Esercito italiano ha schierato una batteria di missili terra aria SAMP/T in Turchia, nell’ambito dell’impegno assunto dalla Nato per rispondere alla richiesta di aiuto di Ankara per la protezione del suo spazio aereo dal rischio di sconfinamenti provenienti dalla Siria.
La notizia era attesa da tempo ed era stata anticipata il mese scorso da Analisi Difesa. In realtà la missione degli uomini e dei missili MBDA Aster 30 era nell’aria già da tempo e negli ultimi tre anni sono state inviate nel sud della Turchia batterie di missili Patriot statunitensi, tedeschi, olandesi e spagnoli.
Il 18 maggio scorso, in un articolo dedicato al rinnovo delle missioni italiane oltremare, evidenziammo l’imminente partenza della batteria missilistica del 4° reggimento artiglieria contraerea “Peschiera”, non ancora annunciata ma deducibile dallo stanziamento di 7 milioni di euro per la partecipazione italiana all’operazione NATO “Active Fence”.
Le conferme dell’arrivo in Turchia dei militari e dei mezzi dell’Esercito Italiano sono state fornite dalla stampa turca e dall’agenzia di Stato Anadolu che il 7 giugno hanno pubblicato le foto della colonna militare (una decina di autocarri) sbarcata nel porto di Iskenderun e diretta nella zona di Kahramanras nei pressi del confine siriano.
Il giornale Daily Sabah ha riferito del dispiegamento del “sistema di difesa aerea avanzato italiano per combattere lo Stato Islamico” che però notoriamente non dispone né di velivoli né di missili balistici. Lo stesso giornale riportò inoltre la presenza di 25 militari italiani, numero che appare molto limitato ma che indicherebbe come logistica e sicurezza del contingente siano garantiti dalle forze turche.
Come ha sottolineato Guido Olimpio sul Corriere della Sera “per i media locali l’Italia ha inviato un apparato che può contrastare aerei, missili da crociera e tattici. Una minaccia potenziale che può arrivare da russi o siriani”.
La nuova missione militare italiana, oltre alle implicazioni legate al conflitto siriano, non può non venire contestualizzata nella crescenti tensioni tra NATO e Russia.
La batteria missilistica è infatti schierata a due passi da un’area conflittuale complessa dove le truppe turche colpiscono in Siria le milizie dello Stato Islamico e quelle curde, sostengono altre milizie islamiste come quelle di al-Qaeda (Fronte al-Nusra) e combattono sul territorio turco e in Iraq le forze curde del PKK.
Lo stesso territorio turco viene colpito da attentati e attacchi condotti dall’Isis e dal PKK mentre nei cieli lungo il confine operano gli aerei statunitensi, della Coalizione e quelli delle forze siriane e russe: queste ultime inoltre schierano a Latakya batterie di missili terra–aria a lungo raggio S-400 che di fatto inibiscono le operazioni dei caccia di Ankara nello spazio aereo di frontiera.
Anche alla luce di queste valutazioni stupisce l’assenza di un dibattito politico in Italia circa l’opportunità o meno di inviare nostre truppe e mezzi in quell’area con un compito che rischia di coinvolgerci nel confronto in atto tra Ankara e l’asse Damasco/Mosca, specie dopo l’abbattimento da parte di un F-16 turco di un Sukhoi 24 russo del 24 novembre scorso, episodio che rappresenta il più eclatante tentativo della Turchia di coinvolgere la Nato nel conflitto siriano e nel braccio di ferro con  Mosca.
Il governo italiano ha mantenuto un basso profilo anche su questa missione senza annunciare la partenza della batteria missilistica fino al  7 giugno, quando i ministri Roberta Pinotti (nella foto a sinistra) e Paolo Gentiloni hanno comunicato la partecipazione delle forze italiane all’operazione “Active Fence” alle commissioni Esteri e Difesa, senza che nessun domanda o richiesta di chiarimenti sia stata posta dai (pochi) parlamentari presenti.
Eppure le perplessità su questa missione non mancano di certo. La missione Nato di supporto al controllo dello spazio aereo turco ai confini siriani include anche la presenza di velivoli radar Awacs ma, come sottolinea Gianluca De Feo su Repubblica, “le regole di ingaggio per l’impiego dei missili italiani sono top secret”.
Come è normale che siano: la catena di comando e controllo di “Active Fence” è Nato ma non è chiaro chi deciderebbe un eventuale lancio di missili italiani contro aerei siriani o russi che dovessero sconfinare in Turchia, né se Roma abbia posto “caveat” nazionali che condizionino il comando alleato nell’impiego dei missili italiani.
Difficile non notare che dopo l’abbattimento del bombardiere russo tutti i partner NATO hanno ritirato le loro batterie di missili terra-aria (presenti dal 2013) dal sud della Turchia mentre gli italiani si schierano in quella polveriera nel momento più critico col rischio di coinvolgimento diretto in uno scontro con la Russia in un momento in cui diversi alleati (statunitensi in testa) sembrano voler soffiare sul fuoco di una nuova guerra fredda.
Quali contropartite ha chiesto (ammesso che ne abbia chieste) e ottenuto l’Italia per schierare truppe e mezzi lungo il confine più caldo del pianeta?
In fondo è la stessa domanda che ci ponemmo poche settimane or sono in occasione dello schieramento (anch’esso poco pubblicizzato) dei primi bersaglieri del contingente del 6° reggimento presso la Diga di Mosul, in Iraq, a pochi chilometri dalle linee dello Stato Islamico.
Sul piano strategico varrebbe la pena discutere il senso di una missione a tutela della Turchia, nominalmente nostro alleato nella NATO ma la cui politica interventista nel conflitto siriano ha danneggiato l’Italia e l’Europa favorendo le forze jihadiste e speculando brutalmente sui flussi di profughi e immigrati clandestini.
Insomma, siamo davvero convinti che i turchi siano nostri “amici” e russi e siriani “nemici” oppure questa missione rappresenta l’ennesimo obolo pagato agli statunitensi?
Resta invece fuori discussione l’importanza operativa e industriale di schierare per la prima volta in un contesto reale il SAMP/T realizzato dal consorzio italo-francese Eurosam (MBDA e Thales), sia in termini di esperienza del personale militare e di valutazione sul campo del sistema sia per favorirne l’export anche in vista dello sviluppo della versione aggiornata Block 1NT (Nuova Tecnologia) con spiccate capacità contro i missili balistici a medio raggio.
Proprio i turchi sembravano voler acquisire il sistema SAMP/T nell’ambito del programma T-Loramids poi cancellato perché Ankara preferisce cercare partner internazionali per sviluppare un sistema nazionale antimissile.
Foto: MBDA, NATO, US DoD, Difesa.it e Corriere.it


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L’Italia alla guerra in Siria a fianco di Erdogan


di Antonio Mazzeo, mercoledì 15 giugno 2016


Operazione top secret dell’Esercito italiano al confine turco-siriano. Il 6 giugno, una batteria di missili terra-aria SAMP/T e una trentina di militari italiani sono stati schierati nella zona di Kahramanras, a nord di Gaziantep (Turchia meridionale), nell’ambito dell’impegno assunto dalla NATO a protezione dello spazio aereo turco dal “rischio di sconfinamenti provenienti dalla Siria”. La notizia è stata pubblicata dai maggiori quotidiani turchi e dall’agenzia di Stato “Anadolu”. I mezzi militari italiani sono sbarcati nel porto di Iskenderun per dirigersi poi nella zona di Kahramanras, nei pressi del confine siriano. Sempre secondo i media turchi, il sistema missilistico messo a disposizione dal nostro paese “avrà esclusivamente il compito di contrastare aerei, missili da crociera e tattici e non sarà impiegato nell’imposizione di una no-fly zone”.

La batteria SAMP/T sostituirà il sistema “Patriot” che le forze armate della Germania avevano schierato a sud della Turchia circa tre anni fa. La decisione del cambio negli assetti missilistici NATO a “protezione” delle forze armate di Erdogan che operano al confine e in territorio siriano è stata assunta all’ultimo vertice dei ministri degli esteri dei paesi del’Alleanza tenutosi a Bruxelles. Oltre alla batteria dei SAMP/T italiani, a luglio la NATO fornirà alla Turchia il supporto di un altro velivolo radar AWACS (Airborne Warning and Control System).

Il sistema antiaereo e antimissile a medio raggio SAMP/T è stato sviluppato dal consorzio europeo “Eurosam” formato dalle aziende MBDA Italia (gruppo Leonardo-Finmeccanica) e Thales (Francia). Basato sul missile intercettore “Aster 30” con un raggio sino a 100 km e una velocità massima di 1.400 m/s, il nuovo sistema sarebbe in grado di intercettare e abbattere anche in maniera del tutta automatica aerei, elicotteri, droni, missili di crociera, missili teleguidati, ecc.. Ogni batteria SAMP/T è costituita da lanciatori con un numero variabile di missili da 8 a 48 che possono ingaggiare fino a 10 bersagli contemporaneamente. Il costo del sistema è elevatissimo: nel 2008 l’Esercito italiano, dopo i test effettuati in Francia e nel poligono di Salto di Quirra in Sardegna ha deciso di acquistare 6 batterie di lanciatori con una prima tranche di spesa di 246,1 milioni di euro.

Il trasferimento in Turchia di una batteria missilistica SAMP/T del 4° reggimento artiglieria contraerea “Peschiera” era stato anticipato il 18 maggio scorso da un articolo di Analisi Difesache analizzava il decreto di rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero. In esso, infatti, era stato previsto uno stanziamento di 7 milioni di euro per la partecipazione all’operazione NATO “Active Fence” al confine turco-siriano. La missione italiana nell’ambito di “Acrive Fence” era stata confermata il 7 giugno in Parlamento dai ministri Roberta Pinotti e Paolo Gentiloni, ma senza che ne fossero specificate le modalità o i tempi.

“La nuova missione militare, oltre alle implicazioni legate al conflitto siriano, non può non venire contestualizzata nella crescenti tensioni tra NATO e Russia”, scrive l’analista Gianandrea Gaiani. “La batteria missilistica è infatti schierata a due passi da un’area conflittuale complessa dove le truppe turche colpiscono in Siria le milizie dello Stato Islamico e quelle curde, sostengono altre milizie islamiste come quelle di al-Qaeda (Fronte al-Nusra) e combattono sul territorio turco e in Iraq le forze curde del PKK”. 
“Alla luce di queste valutazioni stupisce l’assenza di un dibattito politico in Italia circa l’opportunità o meno di inviare nostre truppe e mezzi in quell’area con un compito che rischia di coinvolgerci nel confronto in atto tra Ankara e l’asse Damasco/Mosca”, aggiunge Gaiani. “Difficile non notare che dopo l’abbattimento da parte di un F-16 turco di un bombardiere russo il 24 novembre scorso, tutti i partner NATO hanno ritirato le loro batterie di missili terra-aria dal sud della Turchia mentre gli italiani si schierano in quella polveriera nel momento in cui diversi alleati (statunitensi in testa) sembrano voler soffiare sul fuoco di una nuova guerra fredda”. Ma, si sa, Renzi, Pinotti e Gentioni non brillano certamente per lungimiranza politica e militare…





Sulla questione del revisionismo promosso dalla Unione Europea e dallo Stato italiano si vedano anche

– il servizio di PandoraTV del 9 giugno scorso "Arriva in Italia l’ambiguo reato di negazionismo"

– Tosi come Poroshenko: il nostro volantino 
distribuito in occasione del presidio tenuto a Verona contro la proposta di cittadinanza onoraria per il golpista ucraino Porošenko
https://www.facebook.com/events/1594026064222467/

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Inizio messaggio inoltrato:
Da: Gherush92 <gherush92 @ gmail.com>
Oggetto: Negazionismo di Stato
Data: 17 giugno 2016 12:09:03 CEST



Gherush92 Committee for Human Rights 

E’ NEGAZIONISMO DI STATO
LA DEPORTAZIONE DEL MEMORIALE ITALIANO DA AUSCHWITZ

 

Il recente decreto  sul negazionismo (demagogico e giustizialista), tanto sbagliato quanto inefficace, dispone l'applicazione della pena "da due a sei anni se la propaganda, ovvero l'istigazione e l'incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale".

Il decreto è sbagliato visto che il testo esplicitamente cita solo la Shoah, senza elencare altri avvenuti crimini contro lo stesso popolo ebraico e contro altri popoli.  E’ inapplicabile non entrando nel merito di cosa sia il negazionismo e di cosa si può e cosa non si può, secondo la legge, citare, dire, diffondere. E’ inefficace visto che l’intrinseca indeterminatezza ed ambiguità del decreto non tutela dal pericolo del diffondersi di falsità e verità storiche “di stato” e dal rischio di ricadute di tipo inquisitoriale.

Se è vero che il negazionismo della Shoah esiste, è anche vero che si tratta di un fenomeno circoscritto e minoritario che richiede una risposta documentata ed articolata, ma non certo una legge specifica che non serve ad inibire qualche miserabile o qualche “illustre” accademico ma solo a far demagogia a proprio uso e consumo.

Una legge contro l’antisemitismo è doverosa, purché l’obiettivo non sia quello di colpire unicamente qualche decina di esponenti negazionisti, ma il sistema culturale che propugna negazionismo e antisemitismo. Gherush92 in quest’ambito ha già proposto nelle sedi opportune le linee guida per una Convenzione Europea contro l’Antisemitismo e contro l'Antiromanì.

I negazionismi sono mille: esiste chi nega la Shoah e lo sterminio degli Ebrei, chi nega lo sterminio dei Rom, degli Indiani d’America, chi nega la deportazione e il massacro degli Africani, il genocidio dei Curdi, degli Armeni, lo sterminio dei Tutsi, e così via. Esiste chi nega i pogrom, le crociate, i ghetti, persino l’Inquisizione, o attribuisce a questi fatti storici un significato parziale e li giustifica riducendone la portata distruttiva in termine di vite umane e di devastazione culturale e ambientale. Nonostante le conseguenze di questi crimini efferati  arrivino fino ad oggi  esiste chi celebra la propria segregazione nel ghetto. I negazionismi sono mille, la gran parte sono la negazione di stermini avvenuti per opera dell'occidente cristiano.

Anche le forme del negazionismo sono mille.

Esiste chi nega le implicazioni di Pio XII nella Shoah e intercede per la sua beatificazione. Esiste chi appoggia e sostiene la beatificazione di Isabella di Castiglia e manipola fatti, nasconde leggi, bolle papali, tutte prove delle sue responsabilità nelle persecuzioni di Ebrei, Mori, Rom e Indios. Anche questo è negazionismo.

Esiste chi nega la pedofilia nella chiesa o la nasconde con omertà. Esiste chi, a bella posta, confonde nazismo con comunismo. Esiste chi vuole imporre un falso per legge, che l’Europa abbia origini giudaico-cristiane. Esiste chi giustifica la deportazione dei Rom. Anche questo è negazionismo.

Esiste chi nega che la Shoah, avvenuta nell’Europa cristiana, è il frutto di secoli di persecuzioni. Anche questo è negazionismo, negare che la Shoah, organizzata ed eseguita dai nazi-fascisti, è l'apice e la chiara conclusione di un processo discriminatorio e persecutorio verso gli Ebrei in Europa per opera dell'occidente cristiano.

Esiste, infine, il Governo che, nonostante ripetuti interventi, appelli, interrogazioni parlamentari in difesa della conservazione del Memoriale Italiano ad Auschwitz, ne ha decretato la deportazione dal  Blocco 21 del campo di sterminio. Con quello sciagurato atto si è voluto rimuovere da Auschwitz l'effige della falce e martello, il simbolo dei liberatori. E' bene ricordare che la Shoah include vittime, carnefici e liberatori, fra cui i soldati dell’Armata Rossa che, combattendo contro i nazifascisti, hanno liberato il campo e l'Europa. Anche questo è negazionismo.

Attenzione, però. Questa volta si potrebbe trattare di Negazionismo di Stato, di gran lunga la forma più subdola e pericolosa, reato che anche il recente decreto, sbagliato ed inadeguato, punisce con la reclusione.

Valentina Sereni, Delfina Piu, Stefano Mannacio
Gherush92 Committee for Human Rights



(français / srpskohrvatski / italiano)

Il Montenegro tra psicopatia e ricatti


Una operazione editoriale demenziale, frutto degli ingenti finanziamenti elargiti dalla cattiva politica: parliamo della stampa del primo dizionario della "lingua montenegrina" mai esistito. Mai esistito e che mai sarebbe dovuto esistere, perché codifica l'invenzione di una lingua inesistente, a solo uso e consumo degli interessi separatisti delle cricche anti-jugoslave che hanno preso d'ostaggio la repubblichetta. Tra queste cricche, una – quella revanscista pan-albanese – contesta l'operazione solo perché qualche voce del dizionario è irrispettosa nei suoi confronti; un'altra – quella della NATO – spinge il paese verso la annessione alla stessa Alleanza militare che appena 17 anni fa lo bombardò, per rovinare i rapporti con i popoli alleati storici e contro il volere della maggioranza degli abitanti; un'altra ancora – quella dei camorristi al potere – si gongola tra invenzioni identitarie e ricevimenti nei salotti di lusso dell'imperialismo euro-atlantico. "Niente di buono ... finché Dzelaludin comanda", scriveva l'attualissimo Ivo Andrić. (a cura di Italo Slavo)


LINK CONSIGLIATI:

« L’AFFAIRE DU DICTIONNAIRE » DÉCHIRE LE MONTÉNÉGRO
Radio Slobodna Evropa | Traduit par Chloé Billon | mercredi 15 juin 2016
La parution du premier dictionnaire de la langue monténégrine devait être un événement scientifique, mais le scandale l’a emporté. En cause, quelques définitions outrageantes pour les Albanais et les Bosniaques du Monténégro. Certains se demandent néanmoins si le DPS n’a pas cherché à entretenir la polémique, pour raviver, une fois de plus, la carte des tensions ethniques...
http://www.courrierdesbalkans.fr/articles/montenegro-le-dictionnaire-de-la-discorde.html

ORIG.: Bunt zbog rječnika: Albanci su autohtoni, a ne agresori
maj/svibanj 24, 2016 – Lela Šćepanović
... Početkom aprila Crnogorska akademija nauka i umjetnosti (CANU) objavila je prvi dio Rječnika crnogorskog narodnog i književnog jezika, kao "skroman poklon narodu uoči deset godina nezavisnosti". Na nešto više od 500 stranica popisano je više od 12.000 riječi koje počinju slovima A, B i V zajedno sa informacijama o njihovom izgovoru, značenju i upotrebi...
http://www.slobodnaevropa.org/a/bunt-zbog-rjecnika-albanci-su-autohtoni-a-ne-agresori/27754715.html

Sulla situazione in Montenegro:

Sulla questione linguistica serbo-croata:


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Le Monténégro victime de l’appétit insatiable de l’OTAN



L’OTAN a invité le Monténégro à entamer des négociations d’adhésion à son organisation. Ainsi, probablement en 2018, après achèvement de ces pourparlers et ratification de l’accord conclu par les parlements nationaux, l’appartenance de ce petit pays balkanique à la plus grande alliance militaire de la planète sera effective.

Si le Monténégro possède un port important sur l’Adriatique, il ne risque pas, en raison de sa taille et de sa population (650.000 habitants), de devenir un poids-lourd de l’organisation atlantiste. Mais ce nouvel élargissement, à un 29ème membre, appelle diverses remarques et questions.

Cependant, en avalant le Monténégro, l’OTAN contrôlera directement tout le nord et le nord-est de la Méditerranée, du détroit de Gibraltar à la frontière syrienne, tandis qu’Israël et la plupart des pays arabes du pourtour méditerranéen entretiennent déjà divers types de partenariats avec cette organisation.

D’autre part, bien que son Secrétaire général, Jens Stoltenberg, ait loué son « engagement inébranlable à nos valeurs communes », le Monténégro a bien du mal à ressembler à une démocratie dans le sens habituel du terme. Le pays est dirigé, depuis plus d’un quart de siècle, par le même homme, Milo Djukanovic, qui alterne les postes de premier ministre et de président afin de donner l’illusion d’un respect de la constitution. Devenu tour à tour allié puis ennemi du dirigeant serbe, Slobodan Milosevic, renversé en 2000, il a ensuite eu des relations difficiles avec les gouvernements pro-européens qui se sont succédés à Belgrade. En 2006, il a enfoncé le dernier clou du cercueil de la fédération yougoslave en proclamant l’indépendance de sa république. Une indépendance plutôt formelle puisque la monnaie officielle y était, depuis 1999, le deutsche mark puis l’euro. 

Pendant des années, Djukanovic a été un des animateurs principaux de la contrebande européenne de cigarettes, de cheville avec la Sacra Corona Unita, une des mafias italiennes. Sa longévité au pouvoir et son immunité en tant que chef d’Etat lui ont permis d’échapper à un mandat d’arrêt de la justice italienne. Mais il n’est dès lors pas étonnant que le Monténégro demeure un havre de la corruption et du crime organisé et le centre de nombreux trafics, de la drogue à la prostitution. Paradis des mafieux, le pays ne l’est pas pour la liberté de la presse, les journalistes les plus gênants connaissant souvent une fin tragique. 

Protestations massives

Mais il semble que le règne de Djukanovic et de son Parti démocratique socialiste touche à leur fin : depuis plusieurs semaines, des manifestations massives et parfois violentes se tiennent dans la capitale du pays, Podgorica. Si nombre de manifestants sont révoltés par la pauvreté et la stagnation de leur économie, l’opposition à l’OTAN a été aussi un des moteurs des mobilisations. En décembre 2015,  plusieurs milliers de personnes ont manifesté contre cette adhésion et en faveur d’un référendum sur la question, certaines d’entre elles déclarant que, dans le cas contraire, l’adhésion à l’OTAN serait considérée comme une « occupation étrangère » et le signal d’une « insurrection armée ».

Pourtant, il est à craindre que ces avertissements ne suffiront pas à imposer un référendum : tous les sondages ont montré qu’une majorité de citoyens dirait « non à l’OTAN », notamment parce qu’ils n’ont pas oublié qu’en 1999 le pays a subi les frappes atlantistes. Même si les bombardements y ont été plus légers qu’en Serbie, ils ont quand même occasionné leur lot de victimes civiles. D’autre part, une grande partie de la population monténégrine se dit « ethniquement » serbe et partage, avec une écrasante majorité de leurs « frères » de Serbie, une même aversion pour l’OTAN.

Par ailleurs, même si les autorités vendent l’appartenance à l’OTAN comme un pas vers l’Union européenne et donc une illusoire amélioration de leur qualité de vie, les Monténégrins n’ont pas grand-chose à attendre de cette adhésion. Jusqu’à présent, ce que cela leur a apporté est surtout une brouille historique avec la Russie, peu contente de voir un allié de longue date (plus de trois siècles de relations étroites !) tomber dans l’escarcelle otanienne. Moscou – qui a qualifié l’invitation de l’OTAN de « conflictuelle » – a annoncé des mesures de rétorsion, qui pourraient prendre la forme d’un désinvestissement massif, alors que des milliers de touristes russes viennent chaque année passer leurs vacances sur la côte monténégrine, dont de vastes portions ont été achetées par des spéculateurs et autres mafieux, également russes. 

Reste à voir si, en cas de victoire de l’opposition aux prochaines législatives, prévues en octobre 2016, le nouveau gouvernement aura le courage de stopper le processus d’adhésion et rejoindre la ligne de neutralité militaire, encore actuellement prônée par la Serbie, dans la tradition de l’ancienne fédération yougoslave.

Source: Le Drapeau Rouge





La storia gloriosa e scomoda del calcio jugoslavo

1) Calcio jugoslavo, una storia gloriosa (Giuliano Geri)
2) La "Kosova", squadra di uno "Stato" non riconosciuto da 82 membri dell'ONU, viene fatta entrare manu militari nella UEFA e nella FIFA


Per una selezione di altri materiali sulla storia dello sport jugoslavo e della sua devastazione, cui continuano a contribuire anche FIFA e UEFA con le loro scelte determinate politicamente, si veda la nostra pagina: https://www.cnj.it/documentazione/sportecultura.htm 


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Calcio jugoslavo, una storia gloriosa

Giuliano Geri  
1 giugno 2016

Se il calcio è lo specchio di un popolo, quello jugoslavo ha regalato immagini di grandezza, classe finissima e miseria umana, sempre in bilico tra il mito dolce-amaro di trionfi sempre vicini e quasi mai raggiunti
Quando gli fu chiesto di designare un’avversaria per la sua partita d’addio con la nazionale, lui non ebbe alcuna esitazione. Nemmeno davanti allo stupore dei dirigenti della Federazione calcistica brasiliana, che le provarono tutte pur di convincerlo a procrastinare l’evento, o almeno a selezionare uno sparring partner più blasonato. Niente da fare, la decisione era presa. E la scelta era caduta sulla compagine che per storia e natura più si avvicinava alla sua idea di calcio, al “suo” Brasile. L’incontro amichevole si tenne, come previsto, il 18 luglio 1971, di fronte a duecentomila spettatori, in un Maracanà che traboccava lacrime di orgoglio e di rimpianto. Lui si chiamava Edson Arantes do Nascimento. Per i non intenditori: Pelè. La squadra che scese in campo quel giorno contro i verdeoro era la Jugoslavia. Per i tassonomici: finì 2-2.
Tra gli amanti della disciplina si è soliti dire, o dare per scontato, che il calcio, inteso come espressione estetica che diventa fenomeno popolare, sia lo specchio di un paese, che traduca in un linguaggio universale attitudini e stilemi di un’intera comunità nazionale, mettendone a nudo le componenti ataviche, vere o presunte, sacre o pagane. Che nel calcio si proiettino non soltanto vocabolari emotivi e aspettative più o meno legittime o razionali, ma anche criteri di appartenenza, istanze identitarie, archetipi condivisi. E tuttavia, quando simboli e destini di una nazione paiono seguire le traiettorie di una sfera di cuoio, finiscono talvolta per evidenziare contenuti paradossali, riservando esiti inattesi. In questo senso la storia calcistica della Jugoslavia non fa eccezione, anzi, diventa vicenda paradigmatica. Con un dettaglio tutt’altro che trascurabile: già in epoca non sospetta la macchina del football preconizza l’epilogo tragico di un’esperienza collettiva a metà strada tra la realtà e l’utopia, al culmine della quale, però, quella stessa macchina si rifiuta di assecondare il disegno della Storia – o di chi ne fa arbitrariamente le veci ‑, prova a sottrarsi fino all’ultimo al suo abbraccio mortale.
Per il suo essere stata una regione tra due mondi, per la sua composizione multiforme e frammentaria, per il particolarissimo mosaico sociale e culturale che ha saputo configurare, la Jugoslavia ha potuto annoverare, tra le tante specificità, una scuola calcistica autoctona rivelatasi un serbatoio inesauribile di talenti. Un modello distante anni luce dall’organizzazione tattica militaresca e dall’atletismo spinto delle compagini del blocco socialista, ma anche dalla predominanza muscolare dei tedeschi, dall’inveterato difensivismo italico, dal classico giropalla iberico (di cui il recente tiki-taka è solo una più scientifica messa a punto), e soprattutto alieno dalle varie elaborazioni del modulo Chapman, o dalla concezione “totale” dell’Olanda anni settanta.

Un calcio unico

Il calcio jugoslavo ha rappresentato un unicum, un’inedita combinazione di geometria e fantasia, un ordinato componimento da spartito intervallato da improvvise jam session. Un calcio pulito ed elegante, sofisticato e incostante, votato alle giocate di pregio e alla tecnica individuale, dalle trame ipnotiche e dalle fulminee verticalizzazioni, che ha dato spazio a straordinari quanto fragili solisti inquadrati in un’orchestra dai ritmi compassati e dall’insana abitudine allo sperpero. Un certo virtuosismo mitteleuropeo, che tracima in un lezioso senso di superiorità, si è fuso con l’estro malinconico e l’anarchia dissipatrice che caratterizzano il verace spirito balcanico.
Da questo connubio ha preso forma il futebol bailado d’Europa, e non è un caso, né solo il frutto di un’ironica e sfrontata emulazione, che gli stadi di Rio de Janeiro e Belgrado portino lo stesso nome. A questo intreccio di affinità elettive, due dettagli decisivi hanno distinto i campioni slavi dai loro cugini d’arte brasiliani. Il primo è condensato nel verbo nadmudrivati, di per sé intraducibile, che denota un “giocare con astuzia”, un prendere atto della supremazia naturale dell’avversario superandolo con furbizie e malizie degne dell’eroe omerico, e in cui però la pervicace volontà di rimirarsi può diventare il preludio di un’imminente quanto inevitabile disfatta. Il secondo è molto più semplice e attinge a un dizionario comprensibile a tutti: arrestarsi sempre a un passo dalla vittoria, trasformare l’epos in melodramma e inchinarsi così alla dura legge di Eupalla. Come se prima del salto finale verso l’Eden cedesse puntualmente la pedana; come se la genialità non potesse mai smarcarsi da amnesie e ingenuità.
È questa la chiave di lettura che offrono del calcio jugoslavo due recenti pubblicazioni, entrambe dai titoli emblematici: A un passo dal Paradiso. Il calcio slavo, gli artisti dei Balcani rivali della Storia di Fabrizio Tanzilli (Ultrasport, pp. 144, € 15,00)Il Brasile d’Europa. Il calcio nella ex Jugoslavia tra utopia e fragilità di Paolo Carelli (Urbone Publishing, pp. 128, € 12,00). Due volumi agili quanto pregevoli, che puntano i riflettori su uno dei fenomeni sportivi più eclettici e interessanti del Novecento.
Il libro di Tanzilli è una puntuale ricognizione storica sul movimento calcistico jugoslavo con particolare attenzione alle vicende della Nazionale e alle due società che di questo movimento hanno lasciato traccia indelebile sulla scena internazionale, il Partizan e la Stella Rossa. Il saggio di Carelli, invece, si sofferma maggiormente sulle vicende interne, sullo stretto legame tra i club più rappresentativi e le città di appartenenza (Spalato e l’Hajduk, Sarajevo divisa tra la borghese FK e il proletario Željezničar, e Belgrado tra il Partizan dell’Armata popolare e la Zvezda dei quartieri popolari, quindi Mostar e il Velež, Novi Sad e il Vojvodina ‑ Zagabria purtroppo non pervenuta), sui talenti duraturi ma anche su qualche bizzarra meteora, con contrappunti extra-sportivi che fanno da necessaria cornice storica e sociale.

Tra Kant e il "Maradona dei Balcani"

Ne emerge un quadro a tinte vivide, un tableau vivant di assi del pallone sacrificati non solo ai bilanci societari, ma a una vera e propria congiura degli eventi. Calciatori "incoscienti e pragmatici, lucidi avventurieri costretti a cambiare continuamente latitudine per rinnovare la propria missione", ma anche uomini-simbolo che hanno legato a doppio filo la propria carriera a una maglia, come le celebri Zvezdine zvezde (le Stelle della Stella), portabandiera della Stella Rossa, tra cui spiccano gli immortali Dragoslav “Šeki” Šekularac, Dragan Džajić e Dragan “Piksi” Stojković, il “Maradona dei Balcani”. Autentici artisti del pallone, per i quali Tanzilli scomoda addirittura Kant, chiamando in causa quel "libero gioco di intelletto e immaginazione produttiva" da cui ha origine il sentimento del bello. Interpreti fuori dai canoni abituali che duellano in punta di fioretto, anteponendo il genio alla forza bruta o all’esecuzione schematica, condannati però al ruolo di romantiche vittime di una Storia che maledettamente si ripete, di una perenne precarietà imposta da un destino crudelmente beffardo.
Va detto che per il calcio jugoslavo la Storia non ha inizio nel 1945, con l’avvento ufficiale del socialismo e del nuovo assetto federale dello stato, e con la nascita delle polisportive volute dal regime. Come raccontato da un recente film di successo, per la regia di Dragan Bjelogrlić, Montevideo, Bog te video (2010), già ai primi Campionati mondiali del 1930 in Uruguay, quella che da soltanto un anno può fregiarsi della denominazione di Jugoslavia, con appuntata sul petto l’ingombrante aquila bicipite dei Karadjordjević, dà del filo da torcere alle migliori formazioni. Una squadra sorprendente, un dream team che gioca con disarmante naturalezza e tra cui spicca Blagoje “Moša” Marjanović, attaccante del BSK Belgrado (antenata dell’odierna OFK) e futuro allenatore in Italia negli anni cinquanta. Un drappello di audaci che nonostante il boicottaggio dei croati (una storia che si ripeterà sessantun anni più tardi) riesce ad arrivare in semifinale contro i padroni di casa, sconfitto, più che dall’ambiente ostile e da un avversario di caratura non certo inferiore, da discutibili scelte arbitrali. Il terzo posto finale rimarrà il miglior risultato mai raggiunto dalla nazionale maggiore alle competizioni mondiali.

Sfida al Destino

Da quel momento in poi prende vita un sentimento tipico di chi sa di poter vincere ‑ ma anche perdere ‑ contro chiunque, e si culla nel narcisismo autoconsolatorio e languidamente vittimista di colui che si crede destinato a vestire i panni di "coprotagonista di una leggenda in corso d’opera", nonché perseguitato da sfortuna e altri fattori più genuinamente umani: il vero contendente comincia a essere il Destino, che riserva ogni volta l’avversario sbagliato al momento sbagliato nel posto sbagliato. La Svezia del mitico tridente Gre-No-Li alle Olimpiadi di Londra del 1948, i brasiliani al Mondiale del 1950, spensierati e ignari di ciò che li attenderà di lì a poco nel celebre maracanaço. O ancora la gloriosa Aranycsapat guidata da Gustav Sebes ai Giochi Olimpici di Helsinki del 1952: i plavi resisteranno oltre settanta minuti, prima che Ferenc Puskás e Zoltán Czibor pongano fine al sogno. La Jugoslavia arriva sempre e immancabilmente seconda, dopo cavalcate irresistibili e avversari spazzati via con disinvoltura e sfoggio di preziosismi. È il mito di Davide contro Golia con il finale rinviato a data da destinarsi. Un mito che si nutre di un capitolo speciale, quello delle sfide contro l’Unione Sovietica, che si ammantano di inevitabili significati extra-calcistici e si portano dietro la rottura tra Tito e Stalin, l’uscita della Jugoslavia dal Cominform e l’orgogliosa e coraggiosa scelta dell’Autogestione interna e del non allineamento in politica estera. Partite sentitissime e combattutissime (indimenticabile il 5-5 di Tampere nel 1952), con il consueto epilogo su cui, da un certo momento in poi, distende inevitabilmente la sua ombra il Ragno Nero, al secolo Lev Jašin.
Gli anni d’oro del calcio nazionale jugoslavo sono senz’altro i cinquanta e i sessanta. Sono gli anni di Rajko Mitić e Stjepan Bobek, di Miloš Milutinović e dell’indimenticato “filosofo” Vujadin Boškov, di Milan Galić e di un Partizan che arriva a disputare la finale della prima edizione della Coppa dei Campioni contro il Real Madrid (anno 1966, anche qui il solito refrain). Il sipario si chiude a Roma nel 1968, quando il Destino prenderà le sembianze di Riva e Anastasi nella ripetizione della finale dell’Europeo. Nel primo round, finito in pareggio, la Jugoslavia domina in lungo e in largo, va in vantaggio con l’ala sinistra Džajić e sfiorano più volte il colpo del ko, raggelando il pubblico dell’Olimpico nonostante la torrida serata di giugno, prima di essere raggiunti nel finale da una punizione (assai dubbia) di Domenghini: la solita esuberanza priva di sostanza, la solita recidiva irresolutezza, la solita apoteosi soltanto accarezzata. I settanta saranno anni di evanescenza e scarsi risultati.

Calcio su, Jugoslavia giù

La analisi di Tanzilli e Carelli sembrano confluire su una tesi difficilmente confutabile, per quanto in apparenza paradossale. Il vero boom del calcio jugoslavo coincide con il lento dissolversi della Repubblica federale e del suo tessuto istituzionale, minato all’interno dalla crisi economica e dal risorgere dei nazionalismi. Già nel 1979, un anno prima della morte di Tito, la Stella Rossa raggiunge la finale di UEFA, sconfitta, manco a dirlo, dal Borussia Moenchengladbach. Da lì in poi sarà un progressivo salire alla ribalta nazionale e internazionale di talentuosi virgulti del pallone, ma anche dei primi rigurgiti separatisti, che troveranno negli spalti degli stadi una potente cassa di risonanza e un corredo simbolico in grado di modellare il nuovo immaginario collettivo. Il linguaggio delle cronache sportive, circonfuso di retorica neorevanscista e palesemente ancillare a ben più strategici piani di manipolazione delle masse, fa il resto: le tifoserie organizzate diventano l’avanguardia della disgregazione politica, prima di trasformarsi, all’apice del tracollo, in luoghi di reclutamento per milizie paramilitari e di selezione di fresca carne da cannone. Illuminante su questo tema è la raccolta di saggi dell’antropologo belgradese Ivan Čolović dal titolo Campo di calcio, campo di battaglia (traduzione di Silvio Ferrari, Mesogea 1999), cui fa da aggiornamento il recente Dio, Calcio e Milizia. Il Comandante Arkan, le curve da stadio e la guerra in Jugoslavia di Diego Mariottini (Bradipo Libri, 2015, pp. 184).
Di questo fenomeno sempre meno strisciante il pubblico italiano fa conoscenza diretta il 31 marzo 1988. Allo stadio Poljud di Spalato va in scena l’amichevole Jugoslavia-Italia, trasmessa in diretta senza la consueta telecronaca per uno sciopero dei cronisti sportivi Rai (ce ne fossero più spesso oggigiorno...). Ebbene, i fischi assordanti dei tifosi di casa non sono rivolti agli avversari, ma ai giocatori serbi ogniqualvolta entrano in possesso del pallone. Preludio di un altro, chiarissimo sintomo dell’incombente dissoluzione, che si palesa agli occhi degli italiani nell’esordio della Jugoslavia ai Campionati mondiali del 1990 contro la corazzata Germania Ovest. Un mese prima, il 13 maggio, il Maksimir di Zagabria è stato teatro di cruenti scontri tra tifosi serbi della Stella Rossa e croati della Dinamo, preambolo di altri scontri, stavolta armati, che avranno luogo un anno più tardi in Slavonia. San Siro è gremito in ogni ordine di posto e nonostante il dinaro ipersvalutato nutritissima è la rappresentanza jugoslava sugli spalti. Sono presenti i maggiori gruppi organizzati (la Torcida dell’Hajduk, i Bad Blue Boys di Zagabria, l’Horde Zla di Sarajevo, i Delije belgradesi e altri), ciascuno con il proprio striscione e ciascuno con i vessilli jugoslavi (forse in un ultimo, contraddittorio sussulto di Fratellanza e Unità), ma separati chirurgicamente e distribuiti a chiazza di leopardo.

Ultimo capitolo

E qui si apre il capitolo conclusivo di questa gloriosa e mesta storia, fatalmente ostaggio dell’inesorabile gioco delle possibilità negate, così diffuso al di là dell’Adriatico. L’ipotetica dell’irrealtà si nutre al solito della scontata domanda inevasa: che cosa sarebbe potuto accadere se...? Già, cosa sarebbe potuto accadere se Faruk Hadžibegić, roccioso difensore bosniaco, avesse insaccato l’ultimo rigore contro l’Argentina, anziché gettare il pallone tra le braccia di Goycochea? Cosa sarebbe successo se quella compatta e armonica Nazionale ("molto migliore del paese che rappresentava" affermò più tardi il tecnico Ivica Osim) avesse proseguito il cammino nei Mondiali italiani, raggiungendo magari la finale? "Le cose nel nostro paese sarebbero andate diversamente" giurano alcuni; "saremmo comunque arrivati secondi", chiosano altri con un sorriso amaro. E se a quella generazione irripetibile di fuoriclasse ‑ laureatisi, giovanissimi, campioni mondiali Under 20 in Cile nel 1988 ‑ fosse stato concesso il futuro che si meritava? Se il Destino non avesse disperso in mille rivoli un patrimonio di inventiva e di intelligenza calcistica? Se, insomma, ai Boban, Prosinečki, Šuker, Boksić, che spinsero la Croazia fino all’incredibile terzo posto al torneo mondiale del 1998, si fossero potuti affiancare gli Stojković, Savicević, Mihajlović, Mijatović? E se provassimo a stilare una formazione jugoslava oggi, alla vigilia degli Europei in Francia, mescolando calciatori serbi, croati, sloveni e bosniaci? "Saremmo diventati – o diventeremmo ‑ finalmente, e a pieno titolo, il Brasile d’Europa" scommettono (quasi) tutti.
La realtà, si sa, è un cimitero di sogni, una fabbrica di nostalgie; pone un solido argine alle sterili fantasie e alle iperboli dell’immaginazione, le relega nell’alveo dell’illusione. Ma la realtà dice che il 29 maggio 1991 la mitobiografia di una nazione ebbe il suo congruo epilogo, che Davide riuscì finalmente a uccidere Golia. Quel giorno, a Bari, la Stella Rossa salì sul tetto d’Europa e vinse la sua prima e sinora unica Coppa dei Campioni. Un mese più tardi il pallone venne schiacciato dai cingolati e quelle emozioni uniche e irripetibili che solo "il gioco senza fine bello" sa regalare furono barbaramente soffocate. Ma questa è un’altra storia. Una brutta storia.


2 Commenti

Marko • 12 giorni fa
Bell'articolo. Va ricordato per completezza la vicenda degli europei 92 in cui la Jugoslavija si classificò prima nel suo girone, ma in seguito delle sanzioni ONU fu estromessa e fu richiamata la seconda del girone, la Danimarca che vinse gli europei; certo nel calcio 2+2 non fa sempre 4 (la nazionale che vi avrebbe partecipato sarebbe stata orfana dei croati e forse anche di bosniaci) ma chissà ci piace pensare che...
Giusto menzionare Stojkovic, giocatore che ha seminato molto e raccolto poco (basti pensare che nella finale di Bari 91 lui giocava dall'altra parte!). A Italia 90 ricordo bene, almeno per la mia esperienza, noi serbi tifavamo tutta la squadra e non solo per in nostri, come si diceva allora.

Franco Balestrieriopinionista • 14 giorni fa
NEL 1976 LA JUGOSLAVIA PER TROPPA PRESUNZIONE BUTTò AL VENTO GLI EUROPEI CASALINGHI.


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Il Kosovo entra nell'Uefa: sconfitta la Serbia

Con 28 voti a favore e 24 contrari, la Federcalcio kosovara (FFK) entra ufficialmente a far parte della Confederazione calcistica europea. La nazione balcanica spera ora nel sì della Fifa, per poter partecipare alle qualificazioni a Russia 2018



03 maggio 2016

BUDAPEST - Anche il Kosovo entra ufficialmente a far parte dell'Uefa: a deciderlo è stato il 40/o Congresso Ordinario, riunitosi a Budapest. Il nuvoo ingresso è stato deciso con maggioranza semplice, ricevendo 28 voti a favore e 24 contrari (due i voti non validi), con la Serbia a guidare il fronte del 'no' contro la sua ex provincia. Tra le Nazioni Unite, 111 su 193 paesi hanno già riconosciuto lo stato kosovaro, Italia compresa.

IL KOSOVO ORA ASPETTA LA FIFA - La FFK, la Federcalcio kosovara, è il 55/o membro della Confederazione che sovrintende al calcio europeo e segue Gibiliterra, ultima accolta in seno all'Uefa, nel 2013. Adesso il Kosovo spera in un provvedimento analogo da parte della Fifa, in modo da debuttare ufficialmente in occasione delle qualificazioni ai Mondiali di Russia, già nel prossimo settembre.



Anche la Fifa dice sì al Kosovo, la Serbia ricorre al Tas

Il congresso della Federazione internazionale calcistica ha approvato con 141 voti favorevoli e 23 contrari l'ingresso tra gli stati membri del Paese balcanico. Indignato il ministro serbo Vanja Udovicic: "Decisione che avrà conseguenza imprevedibili". Riconosciuta anche Gibilterra



14 maggio 2016

CITTA' DEL MESSICO - Dopo l'Uefa anche la Fifa dà il proprio placet. Il Kosovo è diventato il 210/o Paese membro della Fifa, decisione accolta con sdegno e rabbia in Serbia, che a sua volta ha già annunciato di ricorrere al Tribunale per l'arbitrato dello sport, a Losanna. Belgrado, appoggiata da Russia e Cina e in compagnia anche di cinque Paesi Ue (Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro), non riconosce l'indipendenza proclamata unilateralmente dalla sua ex provincia il 17 febbraio 2008 e si oppone all'adesione di Pristina a organizzazioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite. Ma con 141 voti a 23, il congresso della Federazione internazionale calcistica a Città del Messico ha detto sì all'ingresso del Kosovo.
LO SDEGNO DELLA SERBIA - All'esultanza della dirigenza kosovara, che ha parlato di "giornata storica" per il giovane Paese balcanico, ha fatto eco la dura protesta della Serbia, che ha denunciato una sfacciata ingerenza della politica nello sport. Il ministro serbo Vanja Udovicic ha detto che questa
decisione, di natura "politica", rappresenta una "sconfitta per il calcio" e potrà avere "conseguenze imprevedibili". "Come reagiranno i Paesi che non riconoscono il Kosovo? Come si organizzeranno gli incontri, con quale protocollo e contrassegni distintivi?", si è chiesto Udovicic. Il Kosovo, intanto, potrà partecipare alle qualificazioni per i Mondiali del 2018 in Russia, così come Gibilterra anch'essa ammessa dalla Fifa.






Sul radicalismo islamico armato, fomentato da un quarto di secolo in Bosnia e nel resto dei Balcani per gli interessi della NATO, si veda anche la nostra pagina dedicata: https://www.cnj.it/documentazione/bih.htm

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Jean Toschi Marazzani Visconti

LA PORTA D'INGRESSO DELL'ISLAM
Bosnia Erzegovina: un Paese ingovernabile

prefazione di Paolo Borgognone, postfazione di Manlio Dinucci
Frankfurt: Zambon, 2016
Formato: 14x20,5 cm – 240 pagine – 18,00 € – ISBN 978 88 98582 32 7
zambon@...www.zambon.net

Il 14 dicembre 2015 compiva vent’anni il Trattato di Dayton, firmato a Parigi nel 1995 alla presenza dei massimi rappresentanti delle potenze occidentali. L’accordo metteva così fine a tre anni e mezzo di feroce guerra civile in Bosnia-Erzegovina. L’amministrazione Clinton considerava un grande successo aver fermato il conflitto e creato una nazione composta di tre etnie divise in due entità: la Federazione Croata - musulmana e la Republika Srpska. Però aveva distrutto il multiculturalismo in favore del nazionalismo. 
Oggi la Bosnia Erzegovina è nello stesso stato d’allora, congelata dalla costituzione imposta a Dayton, in uno stato di caos contenuto e di odio. Nel corso degli anni si sono alternati Alti Commissari europei al controllo del paese, ma anche altre nazioni sono intervenute nel delicato equilibrio. La Turchia ha una forte presenza. Ricchi finanziamenti giungono da Iran e Arabia Saudita per costruire moschee e scuole islamiche. Dalle parole di diversi protagonisti della politica locale e internazionale intervistati in queste pagine esce un'imbarazzante realtà.
Un’importante geopolitico francese, il Generale Pierre Marie Gallois, esaminando nel 1997 la politica statunitense in Bosnia-Erzegovina, aveva commentato che era stata aperta all’Islam la porta d’Europa, un paese a tre ore e mezzo d’autostrada da Trieste.

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LA PORTA D’INGRESSO DELL’ISLAM

Recensione al libro edito da Zambon e scritto da Jean Toschi Marazzani Visconti
di David Lifodi
La porta d’ingresso dell’Islam, il libro edito da Zambon e scritto da Jean Toschi Marazzani Visconti (già collaboratrice del manifesto e della rivista di geopolitica Limes), è assai esplicito fin dal suo sottotitolo: Bosnia Erzegovina: un paese ingovernabile. È infatti dalla Bosnia, definito più volte come uno stato artificiale, che è partito un altissimo numero di combattenti arruolati sotto le bandiere nere dell’Isis e, sempre in Bosnia, sono in crescita villaggi trasformatisi in una sorta di comuni dove si vive secondo i più rigidi dettami islamici.
Il viaggio dell’autrice nella polveriera balcanica, caratterizzato da dati, interviste ai principali protagonisti della politica nei territori della ex Jugoslavia e approfondimenti legati al ruolo della Nato, degli Stati Uniti e dell’Occidente nello sfaldamento di quello che una volta era un unico paese multietnico, parte dalla distruzione della Bosnia Erzegovina e della Federazione jugoslava per far posto all’Islam politico. Jean Toschi Marazzani Visconti indica nella nascita di partiti nazionalisti in funzione secessionista anti-jugoslava prima e anti-serba poi lo sgretolamento della Jugoslavia. La tesi esposta nel libro è supportata dalla prefazione di Paolo Borgognone, che evidenzia come gli Stati Uniti avessero elaborato un piano per lo smantellamento politico, economico e sociale della Jugoslavia fin dal 1982, all’epoca della presidenza Reagan. Gli Stati Uniti, e lo stesso Occidente pro-atlantista, prima lavorarono per disgregare la Jugoslavia e poi favorirono la nascita di stati indipendenti incentrati sul più estremo nazionalismo, ad esempio riuscendo a rinverdire quella Grande Croazia indipendente di Ante Pavelić costituita dai nazisti nel 1941. In questo contesto, gli Stati Uniti riconoscevano la Bosnia-Erzegovina allo scopo di trasformarla in protettorato occidentale, nota ancora Borgognone nella prefazione, favorendo così le mire di Alija Izetbegović per la nascita di uno stato musulmano. Sono queste le premesse da cui deriva la penetrazione islamista nei Balcani, rafforzata, secondo il geopolitico serbo Dragoš Kalajić, dal desiderio di Washington di creare una rete di stati islamici dal Golfo Persico al Mar Adriatico in funzione antislava e antirussa. Di conseguenza, spiega Jean Toschi Marazzani Visconti, “non si può parlare di Bosnia Erzegovina senza considerare la storia della nascita e fine della Federazione delle Repubbliche Socialiste di Jugoslavia”. La nuova Federazione jugoslava, composta esclusivamente da Serbia e Montenegro a seguito del dissolvimento (pilotato da Stati Uniti e Occidente) della Jugoslavia socialista, sperava comunque di salvare la Jugoslavia in qualità di confederazione di stati, ma la Dichiarazione islamica di Alija  Izetbegović, che auspicava appunto una “grande Federazione islamica dal Marocco all’Indonesia”, faceva capire quale avrebbe dovuto essere il futuro della Bosnia Erzegovina. “La sua dichiarazione”, osserva Jean Toschi Marazzani Visconti, “alla luce dei programmi del Califfato, assume il valore di una profezia o di un piano prestabilito in corso di attuazione”. Oggi la Bosnia Erzegovina, la cui configurazione attuale deriva dai controversi accordi di Dayton (1995), è suddivisa nella Republika Srpska (ad ampia maggioranza serba) e nella Federazione di Bosnia Erzegovina, a prevalenza musulmana. È proprio qui, secondo l’autrice, che nei cantoni della Federazione a prevalenza musulmana, si registrano cospicue infiltrazioni islamiche soprattutto attraverso le ong, secondo quanto testimonia Giorgio Blais, generale degli Alpini in congedo  e direttore del Centro regionale di Banja Luka  nella missione Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Intervistato da Jean Toschi Marazzani Visconti, il generale precisa: “Le ong disponevano di cospicui finanziamenti e sostenevano la ricostruzione delle moschee distrutte  durante la guerra e la costruzione di madrase, le scuole islamiche per l’insegnamento del Corano. Prima del mio arrivo in Bosnia, sotto la copertura di ong, veniva effettuata attività di reclutamento e addestramento per terroristi. Mentre l’addestramento non viene più praticato, non posso escludere che il reclutamento venga ancora effettuato”. Tutti gli attori sociali e politici intervistati dall’autrice, compresi i rappresentanti delle principali religioni, concordano su un aspetto, quello della convivenza pacifica, prima dello scoppio della guerra civile. Sono indicative, a questo proposito, le parole del vescovo cattolico Franjo Komarca. “Questa non è stata una guerra domestica, ma voluta a livello internazionale. Era il seguito della prima e della seconda guerra mondiale fra Oriente e Occidente. Le popolazioni hanno subito. Tutto è stato deciso a Washington, Bruxelles e Bonn. Quest’area è stata selezionata come poligono per una sporchissima operazione”. Komarca insiste: “La Bosnia Erzegovina è un semi protettorato. Gli amministratori sembrano avere tutti i diritti, ma non i doveri”. Del resto, nelle tante interviste raccolte da  Jean Toschi Marazzani Visconti, ricorrono le dichiarazioni in cui si accusa l’Occidente di aver distrutto quella coesistenza e quella fratellanza tra le etnie che si era creata durante l’epoca della Jugoslavia socialista.
Il viaggio dell’autrice in Bosnia Erzegovina è all’insegna del disincanto. Rispetto a venti anni fa, all’epoca della guerra civile, le strade non sono più coperte di bossoli e pallottole, la maggior parte dei ponti e dei palazzi non è sbrecciata o distrutta, ma, spiega  Jean Toschi Marazzani Visconti, basta parlare con le persone per capire che la normalità è solo apparente, il rancore è tangibile e che ci sono degli abissi tra gli abitanti del paese nonostante si possa passare senza problemi da un territorio all’altro. Fino ad ora non è stata promossa alcuna politica pacificatrice né è stato fatto niente per ricostruire una cultura multietnica: “C’è la pace”, conclude l’autrice, “ma non nella popolazione, dalla scenografia elegiaca del paese potrebbero scaturire nuovamente, per una sciocchezza qualsiasi, l’odio e la rabbia che covano”.





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Spoleto (PG), venerdì 17 giugno 2016
alle ore 18 presso la Libreria Aurora, Via dell'Anfiteatro 12


A 72 anni dalla liberazione di Spoleto il FGC – Fronte della Gioventù Comunista dell'Umbria – presenta il libro

Il Territorio Libero di Norcia e Cascia 
a 70 anni dalla proclamazione 1944-2014

a cura di Andrea Martocchia
prefazione di Francesco Innamorati
introduzione di Costantino Di Sante
Roma: Odradek Edizioni, 2014

... un territorio come l'Umbria, che nel 1944 contava all'attivo 18000 partigiani (il 24% di quelli sparsi sul territorio nazionale) è stato sicuramente una delle punte di diamante della Resistenza italiana contro il nemico e traditore nazi-fascista. La Resistenza umbra che contava il maggior numero di combattenti per la libertà, in larga parte comunisti, subisce, contemporaneamente all'alzata di testa dei gruppi neofascisti, un tentativo di oscurantismo non indifferente da parte di quei partiti che opportunisticamente, fino a ieri, ne rivendicavano l'esperienza. La lotta di liberazione, l'apporto anche di partigiani iugoslavi per la vittoria, vive principalmente qui un relegamento ad una scolastica ed inefficace "favola inattuale" ...

All'iniziativa interverrà il Curatore del libro. E' prevista inoltre la proiezione di un video con interviste inedite, d'epoca e recenti, ai partigiani della bgt. Gramsci, dei battaglioni Tito e della bgt. Melis.

 
=== * ===  I PARTIGIANI JUGOSLAVI NELLA RESISTENZA ITALIANA Storie e memorie di una vicenda ignorata   Roma, Odradek, 2011 pp.348 - euro 23,00   Per informazioni sul libro si vedano: Il sito internet: http://www.partigianijugoslavi.it La scheda del libro sul sito di Odradek: http://www.odradek.it/Schedelibri/partigianijugoslavi.html La pagina Facebook: http://www.facebook.com/partigianijugoslavi.it   Ordina il libro: http://www.odradek.it/html/ordinazione.html   === * ===

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