[Una facile ricerca internet sul "Pane di Sant'Antonio" ci ha consentito di risalire ai seguenti documenti, tuttora leggibili online. Li riportiamo all'attenzione di tutti, credendo di fare cosa utile anche ai tanti cattolici e religiosi onesti, che insieme a noi condividono il ripudio della guerra senza "se" e senza "ma". CNJ]

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http://www.diario.it/cnt/articoli/INVIATI/articolo33.html

"Diario" da mercoledì 19 a martedì 25 maggio 1999

I Nostri Inviati tra gli «Amici» dell'Uck


La Caritas modello bresciano

Una storia in cui, incredibilmente, convivono veri frati, falsi volontari e incalliti mercanti d'armi. Tutti vecchie conoscenze

di Luca Rastello
Milano

Pane amaro, marcio pane di sant'Antonio. Strano che nessuno ricordi questa sigla: «Il pane di sant'Antonio», nota copertura di traffici mortali nella guerra di Bosnia. Di solito la si trova in calce a un simbolo apparentemente pacifico con la croce e le spighe, già macchiato di sangue italiano: il
sangue di Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni, assassinati il 29 maggio del 1993 sulla strada che da Gornji Vakuf porta a Novi Travnik, nella Bosnia centrale. Eppure ancora oggi, quando «Il pane di sant'Antonio» si ripresenta sulle banchine del porto di Ancona con il suo consueto carico di morte,
sembrano cadere tutti dalle nuvole, a cominciare dai volontari della Caritas, che manifestano sorpresa e indignazione per l'uso indebito delle loro insegne da parte dei trafficanti.
Anche l'usurpazione del nome Caritas, però, non è una assoluta novità, come sanno molto bene dalle parti di Brescia, capitale italiana della produzione d'armi e, nello stesso tempo, degli aiuti umanitari.
I fatti, quelli recenti: il 12 aprile scorso, tre grandi camion con le insegne Caritas, provenienti da Sarajevo e diretti a Scutari, in Albania, vengono fermati dalla guardia di finanza italiana al porto di Ancona. È un controllo casuale, dovuto in larga parte al ritardo nelle operazioni di carico della motonave diretta a Durazzo su cui i Tir devono essere imbarcati: i militari italiani quasi non credono ai loro occhi davanti all'arsenale che salta fuori sotto le merci, peraltro avariate, catalogate come aiuti umanitari. Due dei tre camion sono stati modificati per nascondere in appositi tramezzi uomini e armi, e dietro le patate in germoglio e il mangime per polli scaduto, spuntano cose come missili anticarro e antiaereo, mortai, lanciagranate, un cannone senza rinculo, ma anche valigette per puntamento e innesco di ordigni elettronici a distanza: trenta tonnellate di sofisticatissime attrezzatur per la produzione di morte che viaggiano con i documenti dell'associazione «Il pane di sant'Antonio», organo
esecutivo per gli aiuti umanitari della Caritas francescana di Sarajevo.
«Siamo stati ingannati», dice Silvio Tessari, uno dei responsabili Caritas che dall'Albania aveva telefonato al porto di Ancona sollecitando lo sdoganamento del convoglio: «Il marchio su quel camion è solo un'imitazione. Se qualcuno se ne appropria commette un atto illegale di cui non siamo responsabili».
Solo che non è la prima volta.

LA BRAVA GENTE E I FRATI.
I fatti, quelli antichi: «Il pane di sant'Antonio» è l'organizzazione diretta dal frate croato Bozo Blazevic
che si occupa di smistare gli aiuti umanitari in Bosnia centrale nel corso della guerra croato-musulmana del 1993. Centro logistico delle operazioni di Blazevic e compagni è la Caritas francescana di Spalato, diretta da padre Leonard Orec, dove arrivano i convogli dall'estero, in massima parte dall'Italia. «Il pane di sant'Antonio» ha un suo agente di collegamento in Italia: la signora Spomenka
Bobas, residente a Modena. Proprio Spomenka viene in contatto con un gruppo di preghiera costituitosi a Ghedi (Brescia) intorno alla figura di Giancarlo Rovati, industriale di grande prestigio nella zona che si pone il problema di intervenire in soccorso delle vittime di guerra. È la fine del 1992, il gruppo di Rovati conta cinque o sei membri, ma la volontà è forte e i mezzi non mancano: il contatto con Spomenka e i francescani d'Erzegovina fornisce l'occasione per il salto di qualità: «Grazie all'appoggio dei frati», raccontava Rovati, «eravamo in grado di servire, viaggiando ogni settimana, oltre sessanta località in Bosnia centrale». È l'inizio della primavera del 1993, le Nazioni Unite
considerano la Bosnia centrale «zona instabile», eufemismo che copre i più spaventosi massacri di quegli anni, e hanno sospeso i loro convogli in quell'area.
Rovati e compagni con il pane di sant'Antonio viaggiano invece al ritmo di venti Tir la settimana. L'associazione si chiama «Caritas di Ghedi». Attenzione: non Caritas, sezione di Ghedi ma, come se fosse tutto attaccato, «Associazione Caritas di Ghedi».
«No», dice don Alberto Nolli, allora responsabile della Caritas di Brescia, «non erano Caritas, ma era brava gente e permettevamo loro di usare quel nome. Sa, a quel tempo era un po' come un lasciapassare, aiutava...». Ecco come fu che il nome dell'associazione di Rovati dovette cambiare. Il 29
maggio del 1993 un piccolo convoglio di un gruppo di volontari bresciani viene contattato a Spalato da Spomenka Bobas e padre Orec. Poiché vanno in Bosnia centrale, i religiosi li pregano di consegnare quattro pacchi a Vitez: con questa scusa li forniscono di documenti con il marchio del pane di
sant'Antonio, un po' come se firmassero l'ignara spedizione dei bresciani. A fare da garante è
Fabio Moreni, che collabora con Rovati da qualche settimana e ora accompagna i bresciani nel loro viaggio. Poche ore dopo, appena transitati da Gornji Vakuf, i cinque bresciani vengono intercettati da una banda di irregolari bosniaci che sequestra il carico e i documenti e uccide a freddo Moreni insieme a Sergio Lana e Guido Puletti.
Stranamente è presente in zona proprio padre Blazevic, il capo dell'organizzazione francescana che si trova a Gornji Vakuf per contrattare con il comandante bosniaco Goran Cisic il rilascio di un altro convoglio marcato pane di sant'Antonio, ben più consistente di quello bresciano, da un paio di
giorni sotto sequestro. Blazevic non si fa vedere dai volontari che ha segnato con il proprio marchio mentre vanno alla morte. Ma non si turba più di tanto: sei mesi dopo, alla testa di un grande convoglio, viene fermato su quella stessa strada, nello stesso punto dove erano stati intercettati i bresciani, al canyon di Opara. È il 22 dicembre 1993, a fermare il convoglio è il comandante Goran Cisic, l'interlocutore di padre Blazevic: la vecchia trattativa è andata a buon fine, dato che Cisic non si scompone quando sotto i generi alimentari chiamati «aiuto umanitario» saltano fuori i soliti lanciarazzi, mortai a treppiede eccetera. Si limita ad arrestare i due giornalisti italiani involontariamente testimoni dei traffici in corso - sono Ettore Mo ed Eros Bicic - e lascia ripartire
il carico verso la zona controllata dai croati a cui era diretto. La morte dei tre ignari volontari italiani era probabilmente un segnale nel linguaggio tipico di questo tipo di trattative, un messaggio in codice fra soci in affari che non si sono ancora messi bene d'accordo e forse vogliono alzare il prezzo.

LE VIE DELLA CONNIVENZA.
Guido, Sergio e Fabio sono morti, padre Blazevic, amico personale del presidente Tudjman, è parroco a Okucani in Slavonia e minaccia in nome della sicurezza nazionale croata chi prova a tirarlo in ballo, Rovati è una potenza intercontinentale degli aiuti umanitari e spedisce convogli in tutto il mondo, dal Perù al Burundi alla Romania: è comparso alla televisione italiana, a Pinocchio, dove è stato definito
«il volto pulito dell'Italia, quello che ci piace guardare». Ha continuato anche a lavorare con i frati d'Erzegovina, ed è tornato a Gornji Vakuf, per progetti di ricostruzione e per portare il suo perdono agli assassini di allora. Ovviamente la sua associazione non si chiama più Caritas di Ghedi: il nome nuovo è «Associazione 29 maggio», i nomi delle tre vittime compaiono sui teloni dei Tir in partenza per i cinque continenti.
Strana storia, quella del pane marcio di sant'Antonio, e triste storia, quella della leggerezza con cui si instaurano relazioni pericolose quando a legittimare i gesti avventati è la ragione umanitaria. L'interesse per il volontariato non sempre risponde a nobili ragioni, e l'uso strumentale delle azioni di pace da parte di strateghi e profittatori di guerra è ormai la regola, non più l'eccezione. In queste condizioni l'ingenuità è semplicemente un placido modo della connivenza. Anche se, magari, sulle strade dello sforzo di pace si verificano formidabili conversioni, come quella dell'ex maresciallo Germano Tessari, ben noto ai lettori di Diario della settimana (1999, numero 15) per il suo coinvolgimento nei processi sui traffici d'armi del Sisde in Val di Susa. Proprio a Scutari, centro della
missione in Albania della Diocesi di Susa, Tessari si è recato in passato a portare aiuti umanitari e mezzi da trasporto. Se lo ricorda bene una suora della Fondazione Monsignor Rosaz, a Susa. La polizia italiana segnala, fra l'altro, il transito a Valona di mezzi pesanti recanti, magari abusivamente, il marchio della Sitaf, la società delle autostrade del Fréjus, di cui l'ex maresciallo è stato a lungo consulente per la sicurezza, negli anni degli attentati e dei miliardi pubblici intascati
da comitati d'affari in vario modo legati all'azienda. Come si convertono gli individui si convertono anche le grandi aziende.
Ma di quando in quando qualche pecorella smarrita si fa cogliere in flagrante, sulle banchine di Ancona, intenta ai vizi d'un tempo.

©diario della settimana

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http://www.lapadania.com/1999/maggio/04/040499p02a3.htm

Per i servizi segreti americani l'Uck è legato alla mafia albanese e autofinanzia la guerriglia con il traffico di eroina

La via della droga passa per il Kosovo

Intanto i "basisti" dell'Esercito di liberazione hanno trasformato Bari nel loro quartier generale

di Elisa Carcano

Non c'è nessun nuovo indagato nell'inchiesta condotta dal sostituto procuratore della Repubblica di Ancona Cristina Tedeschini sui tre tir bloccati dalla Guardia di Finanza e dalla dogana nel porto di Ancona lo scorso 12 aprile (ma la notizia del sequestro è stata data solo l'altro giorno): seppur carichi d'aiuti umanitari per i profughi del Kosovo, i camion trasportavano nei doppifondi un enorme carico d'armi diretto all'Uck. Al centro dell'interesse del magistrato ci sarebbe per ora la figura di un prete, probabilmente coinvolto nella vicenda. I tre tir viaggiavano sotto le insegne dell'organizzazione
umanitaria "Kruh Svetog Ante" (Il pane di Sant'Antonio) di Sarajevo ed erano diretti, secondo la bolla d'accompagnamento, alla "Caritas" di Scutari (che però si è chiamata fuori dicendo "quei camion non sono nostri"). Il religioso potrebbe essere o l'ultimo destinatario, in Albania, dell'ingente quantitativo
di armi ritrovato sui tre tir o il penultimo intermediario, sempre albanese, in grado di indicare a chi, nel territorio controllato dall'Uck, avrebbe dovuto essere consegnato alla fine le armi. Un vero e proprio arsenale, con armi anche sofisticate, di cui facevano parte fra l'altro cinque valigette per puntamento e innesco elettronico a distanza di ordigni, missili anticarro e antiaereo, armi con puntamento laser, bazooka, mortai, munizioni, esplosivi - in gran parte dell'ex Urss e dell'ex Jugoslavia - mitragliatrici belghe, cinesi e americane e un gran numero di granate Usa. Il presidente dell'organizzazione umanitaria mittente, padre Stipo Karajica, ha già dichiarato, attraverso il proprio procuratore legale ad Ancona, che la "Kruh Svetog Ante" è totalmente all'oscuro delle armi e che ha
solamente provveduto alla raccolta degli aiuti affidandone l'invio a terzi. Quanto ai tre autisti, bosniaci (ma uno di loro ha un cognome tedesco), sono ancora in carcere ad Ancona.

Da Ancona spostiamoci a Bari, diventata importante snodo di guerriglieri dell'Uck. Nel porto della città pugliese sono infatti dislocati i basisti dell'Esercito di liberazione del Kosovo che assistono i combattenti, acquistano per loro i biglietti di viaggi, forniscono cibo e acqua, provvedono al trasporto dei volontari dalla stazione ferroviaria al porto. Un'organizzazione, si direbbe, svizzera.
Come svizzera è l'originaria appartenenza dei trenta camion militari bloccati dalla Guardia di Finanza a Bari. Guidati da autisti kosovari, gli automezzi sono in attesa dell'autorizzazione necessaria alla partenza per Durazzo: trasportano sì generi alimentari ed altri aiuti umanitari, ma una volta in Albania
non sarebbero più utilizzati come spola per gli aiuti e rimarrebbero invece a disposizione dell'Uck a scopi militari. Finora, nel giro di quattro settimane, sono passati dal porto di Bari tremila combattenti kosovari: si imbarcano su traghetti di linea diretti a Durazzo, da qui poi raggiungono il confine con il Kosovo per combattere contro i serbi. Secondo la Guardia di Finanza il flusso è molto cambiato negli ultimi giorni: da una fase caratterizzata da una "chiamata alle armi" per certi versi spontanea, si è passati ad un vero e proprio viaggio verso il fronte organizzato nei minimi particolari. Nei primi giorni, per esempio, decine di uomini si presentavano già in tuta mimetica nel capoluogo pugliese, ora invece per non destare eccessivamente l'attenzione delle forze di polizia, proprio i "basisti" hanno disposto che i volontari dell'Uck vengano in borghese.
Intanto in America mostra la corda il fronte pro guerriglieri: ai due parlamentari Usa che vorrebbero armarli e finanziarli con i soldi dei contribuenti (il repubblicano Mitch McConnell e il democratico Joseph Lieberman), il "Washington Post" replica, citando documenti dell'intelligence statunitense e di altri paesi, con un articolo in prima pagina secondo cui l'Uck "è un'organizzazione terroristica che trae gran parte delle sue risorse dal traffico di eroina". Secondo questi documenti, agenti antidroga di cinque nazioni (tra cui gli Usa) ritengono che l'Uck abbia stretti legami con il crimine organizzato albanese, responsabile del traffico di eroina e cocaina verso i mercati europei occidentali e, in misura minore, verso gli Stati Uniti. La "mafia albanese", scrive ancora il giornale, è legata ad un'organizzazione per il narcotraffico con base a Pristina in Kosovo, e ha tra i suoi capi diversi responsabili del Fronte nazionale
del Kosovo, il braccio politico dell'Uck. Questo cartello sarebbe oggi uno dei più potenti del mondo, e gran parte dei suoi proventi servirebbero a finanziare le armi dell'Uck.
La "rotta" dell'eroina gestita dagli albanesi del Kosovo attraversa Grecia, Jugoslavia, Turchia e Bulgaria, è chiamata dagli agenti dell'antidroga, "la strada dei Balcani". Il 75% dell'eroina sequestrata in Europa lo scorso anno ha seguito questa rotta. "Un anno fa erano semplici terroristi ed ora,
per politica, sono diventati combattenti per la libertà", ha dichiarato al quotidiano un agente antidroga americano.