il manifesto - 10 Aprile 2003

DOPOGUERRA

Chi non si rassegna al dominio americano

ALBERTO BURGIO - CLAUDIO GRASSI


Davanti a quella che parrebbe la fine di questa guerra infame alcune
cose si possono dire con sicurezza. Ormai gli Stati uniti teorizzano
apertamente che è giusto tutto ciò che è nel loro interesse. Non è una
novità assoluta. Negli ultimi anni si sono rifiutati di sottoscrivere
il protocollo di Kyoto, la Convenzione di Ottawa sulle mine antiuomo,
il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e
il trattato istitutivo della Corte penale internazionale; hanno
denunciato i trattati di non-proliferazione nucleare e, dopo il caso
Nicaragua, si sono dissociati dalla Corte internazionale di giustizia.
Giorni fa, Garcia Marquez ricordava che, da quando esistono, gli Stati
uniti hanno operato poco meno che ottanta invasioni a danno di paesi
sovrani e ordito e finanziato innumerevoli golpe per insediare governi
amici in aree strategiche del mondo. Ma la teoria e la pratica della
«guerra preventiva» segnano un salto di qualità.
Rivendicando a sé il ruolo di sovrano e di giudice plenipotenziario,
Bush si è arrogato il diritto all'uso della forza senza regole né
limiti. L'aggressione all'Iraq, le ripetute minacce di espansione del
conflitto alla Siria e all'Iran, e ora l'inaudita evocazione della
quarta guerra mondiale da parte dell'ex capo della Cia, sono le
dirette conseguenze di tale impostazione: ci rifletta la signora Dal
Ponte, pensi anche a Guantanamo e spieghi - se può - che cosa osti
all'incriminazione di George W. Bush e di Tony Blair per crimini
contro l'umanità.

Dinanzi a questo quadro, le divisioni emerse in seno alla sinistra
italiana costituiscono un fatto grave quanto significativo. Appena
dopo l'inizio del conflitto, le forze dell'opposizione avevano
ritrovato la propria unità contro la guerra. Se oggi riemergono
contrasti, è perché, fatta salva la censura nei confronti della
strategia di Bush, gran parte della dirigenza del centrosinistra non
prende le distanze dalla linea blairiana dell'interventismo
«democratico» e neocoloniale. Di qui il rifiuto di mettere in
discussione le scelte compiute in occasione dei bombardamenti Nato sul
Kosovo. Benissimo che oggi D'Alema, Fassino, Veltroni e Rutelli
denuncino la tracotanza angloamericana e il servilismo del nostro
governo. Ma non è accettabile che essi continuino a difendere la
decisione di partecipare, appena quattro anni fa, a una guerra non
legittimata dalle Nazioni unite, una guerra che Massimo D'Alema definì
nientemeno che «la più bella pagina della storia italiana
contemporanea».

Certo, la tentazione di difendere la propria persona è grande, ma si
ha l'obbligo di resistervi e di cercare in sé la forza di dire la
verità. Che non sta nella foglia di fico della «polizia
internazionale», delle bombe «etiche», dell'«intervento umanitario».
Ma nella sciagurata decisione di far guerra senza l'Onu e contro
l'Onu, e di giustificarla con argomenti molto simili a quelli
agitati oggi da Bush e dai suoi vassalli. «L'uso della forza può
rivelarsi necessario quando gli strumenti della ragione e della
persuasione pacifica si rivelano impotenti» (D'Alema). «Inutile
appellarsi al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, paralizzato dal sistema
dei veti» (Veltroni). Se anche a proposito della guerra la destra
dilaga, è perché le si è spianata la strada svendendo conquiste,
regalando risorse, stracciando la Costituzione.

Un ragionamento analogo vale, mutatis mutandis, per alcuni
intellettuali che si cimentano nell'analisi della realtà
contemporanea. Gli ultimi mesi hanno messo in evidenza come la
politica di guerra degli Stati uniti non sia rivolta solo contro gli
«Stati canaglia» ma anche contro un possibile ruolo autonomo
dell'Europa, contro la Russia, l'India e soprattutto la Cina, indicata
in tutti i documenti del Pentagono come il nuovo antagonista
strategico. Dalla caduta del Muro di Berlino, la politica americana si
è mantenuta fedele a un imperativo: spingere al massimo sulla macchina
militare (per la quale gli Stati uniti spendono oggi, in percentuale,
quanto spendevano al momento del massimo coinvolgimento nella guerra
del Vietnam) nella speranza, folle e rischiosissima, di tenere il
resto del mondo sotto scacco. Pur di raggiungere questo obiettivo, gli
Stati uniti hanno imboccato la via di un imperialismo sempre più
aggressivo, dichiarando apertamente di considerare irrinunciabile la
«capacità di imporre la propria volontà a qualsiasi avversario,
inclusi stati ed entità non-statali». In questo contesto, l'apparente
unanimità della «coalizione internazionale contro il terrorismo»
all'indomani dell'11 settembre avrebbe dovuto convincere solo gli
ingenui, se non altro per la logica schmittiana («o con noi o contro
di noi») su cui riposava. Invece ci si è attardati in discussioni a
dir poco fatue: il G-8 come nuovo «Direttorio mondiale», la «fine
degli stati», il «capitalismo globale»...

Per fortuna oggi, di fronte a una rottura drammatica tra gli stati
uniti e il resto del mondo, sono in pochi a parlare ancora di Impero e
di una presunta unità politica transnazionale contrapposta alla
«moltitudine» degli oppressi. Nessuno più ignora l'enorme rilevanza
dell'opposizione alla guerra di stati come la Russia, la Cina, la
Francia e la Germania, e lo stesso Toni Negri ha fatto marcia
indietro, rimproverando Bush di nutrire «ancora» mire imperialistiche.
Meglio tardi che mai. Benché tardivamente, si è fatto un grande passo
in avanti nel momento in cui si è riconosciuto che non esiste alcun
«capitalismo mondiale» senza centro né patria, e che a mettere oggi a
repentaglio il mondo è, al contrario, il capitalismo statunitense,
anzi anglo-americano, se è vero che alla base dell'alleanza di ferro
tra Bush e Blair c'è la stretta integrazione degli interessi
industriali e commerciali inglesi e statunitensi nei settori della
finanza, del petrolio e della difesa. Anche in questo caso, tuttavia,
l'onestà intellettuale imporrebbe uno scrupoloso inventario delle
ipotesi rivelatesi infondate, a cominciare dalla pretesa di mettere da
parte la nozione di imperialismo e dall'idea dell'esaurimento dei
contrasti inter-imperialistici.

Detto questo, si tratta di guardare avanti, di mettere in valore la
straordinaria opposizione alla guerra che salda un vastissimo
schieramento di stati e di popoli in ogni parte del mondo. Ovunque
centinaia di milioni di persone si mobilitano, riempiono strade e
piazze, denunciano la barbarie della «guerra preventiva». Un ruolo di
primo piano svolge su questo fronte il movimento contro la
globalizzazione capitalistica, presso il quale non trovano più udienza
i discorsi generici sul «neoliberismo» in cui il G-8 e la Wto erano
additati come nemici mortali, senza tener conto dei loro legami con
gli Stati uniti e con gli altri paesi capitalistici più forti. Come
dimostra la mobilitazione contro le basi Usa e Nato, il movimento ha
compreso il ruolo cruciale della guerra nel quadro dell'offensiva
politico-militare anglo-americana contro il sud del mondo e le altre
potenze globali emergenti.

Se questo è vero, un compito sopra ogni altro attende le forze
dell'opposizione alla vigilia della manifestazione nazionale del 12
aprile: far sì che il movimento per la pace cresca quanto più
possibile e acquisti continuità. Perché, ammesso che questa guerra
finisca qui, un'altra se ne preparerà, fin quando negli Stati uniti il
potere resterà nelle mani di una lobby disposta a tutto, pur di
conservare i propri privilegi.