Riceviamo e diffondiamo questo articolo, apparso sul numero del 25
aprile 2003 del quotidiano giuridico on line
"Diritto e Giustizia". (Ringraziamo l'avv. MRB per la segnalazione)

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Dal Kosovo all'Iraq, il tramonto dell'Onu

di Roberto Oliveri del Castillo *


Cessati i combattimenti in Iraq, dopo 28 giorni di guerra, si registra
il dato della caduta del regime di Saddam Hussein con unanime
sollievo. Passa in secondo piano, così, il costo del conflitto, e che
a prescindere dal numero di morti civili innocenti, la popolazione
civile è stremata: mancano ospedali, cibo, medicine, acqua, luce,
ovvero delle condizioni di vita più elementari.
Ma se l'uomo della strada è incline a dimenticare, per il flusso
mediatico cui è quotidianamente sottoposto, le notizie di ieri a causa
delle notizie di oggi e quelle di oggi per far posto a quelle di
domani, all'uomo di buon senso e in particolare al giurista spetta
qualche considerazione critica sull'intervento militare
angloamericano.
Un intervento, quello in Iraq, che ha mutato giustificazione giuridica
nel corso dei giorni: prima la violazione di risoluzioni dell'Onu da
parte di Saddam, poi la presenza di armi di distruzione di massa, poi
il carattere non democratico del regime, poi un po' di tutto.
Durante un convegno organizzato il 17 aprile scorso all'Università di
Bari da Magistratura democratica, con il prof. Vincenzo Starace, sono
state analizzate tutte queste argomentazioni con il risultato di
apparire per quelle che sono: tentativi di giustificare un illecito
sotto il profilo giuridico e morale innanzi alla collettività globale.
Solo per fare un esempio, la famigerata risoluzione n. 1441 del
Consiglio di Sicurezza dell'Onu del novembre 2002, afferma che ci
saranno "gravi conseguenze" in caso di non collaborazione del regime
con gli ispettori delegati ai controlli, mentre di norma la formula
utilizzata dal Consiglio per autorizzare la forza si basa sul concetto
di "uso di tutti i mezzi necessari per".
Tuttavia, non va dimenticato che l'intervento in Iraq costituisce -
anche per l'Italia, che ha condiviso l'intervento - l'ennesima
violazione dell'ordinamento internazionale e dell'Onu, dimenticando
che anche in occasione dell'attacco all'Afghanistan e, prima ancora,
nel marzo 1999, dell'intervento Nato contro la Jugoslavia durante la
crisi del Kosovo, non vi era alcuna autorizzazione del Consiglio di
Sicurezza all'intervento armato, né precedente, né postuma.
Va rimarcato, poi, che tra le tante vulgate che si sono aggirate in
questi anni in tema di legittimità di interventi armati nei confronti
di stati sovrani, quella più equivoca (forse perché interamente
gestita in Italia da un governo di sinistra, durante una grave guerra
civile interna alla Jugoslavia e combattuta in blocco dalla Nato) è
proprio quella dell'intervento cd. "umanitario" in Kosovo, che pare
avere ancora una certa vivacità intellettuale, se è vero (cfr. S.
Zappalà, "Il Kossovo, l'Iraq e le violazioni della Carta delle Nazioni
Unite", in D&G n. 14 del 12 aprile 2003) che questo intervento è
considerato in linea con i principi dell'ONU e affetto solo "da vizi
di forma", oltre che reso inevitabile dalla situazione venutasi a
creare.
Al di là del fatto che nel campo giuridico ogni violazione di forma si
riflette sulla sostanza dei diritti, e che pertanto un intervento
armato non difensivo e non autorizzato dal Consiglio di Sicurezza
dell'Onu ai sensi dell'art. 51 della Carta, è sempre illegittimo, la
guerra era realmente l'ultima risorsa, o la crisi poteva avere uno
sbocco diplomatico?
Qualche dubbio è legittimo.
Per capire la genesi di quell'intervento, è necessario tornare alla
situazione di cinque anni fa, quando in Kosovo, dopo anni di scontri
fattisi sempre più cruenti tra le forze serbe e l'Uçk, l'esercito
indipendentista kosovaro, e dopo l'intervento di una missione
internazionale Osce (chissà mai perché a guida americana nonostante il
carattere europeo dell'organizzazione) che sembra ristabilire una
calma apparente, si giunge all'escalation del gennaio 1999, quando -
durante le trattative di pace di Rabouillet - vengono rinvenuti a
Racak 45 cadaveri di etnia albanese, il che avvia i negoziati verso
l'ultimatum finale.
La presunta strage è sempre stata ammantata di mistero, perché in
realtà Racak era tornata sotto controllo Uçk da oltre 24 ore quando si
diffusero le informazioni sul ritrovamento alla stampa occidentale, e
furono gli albanesi a condurre la stampa occidentale sul posto.
Nel mondo dell'informazione continua, nulla è più manipolabile
dell'informazione stessa.
Come che sia, il vero oggetto di analisi dovrebbero essere i negoziati
di Rambouillet, il contenuto delle proposte del cd. gruppo di
contatto (Usa, Francia, Inghilterra, Germania, Italia e Russia),
l'ultimatum alla Serbia e la risoluzione serba all'indomani del ritiro
della missione Osce.
Partendo da quest'ultimo punto, la risoluzione dell'Assemblea
nazionale serba condannava il ritiro degli osservatori Osce, e
prendeva in considerazione l'ipotesi di una "presenza internazionale"
che vigilasse sugli accordi che si sarebbero conclusi a Rambouillet
relativamente all'"autonomia del Kosovo che garantisse uguali diritti
a tutti i cittadini e a tutte le comunità etniche nel rispetto della
sovranità e dell'integrità territoriale della Repubblica di Serbia e
della Repubblica federale di Jugoslavia" (cfr. Marc Weller,
International documents & analysis, vol I, The crisis in Kosovo
1989-1999, Cambridge University Press, 1999).
Questa proposta, avanzata ai negoziatori il 23 febbraio 1999, non fu
mai presa in considerazione.
Ciò che fece naufragare l'accordo, dopo che la Serbia aveva accettato
le principali proposte politiche, furono le disposizioni introdotte
mediante "allegati" all'ultimo momento e durante i negoziati di
Parigi nel marzo 1999, secondo le quali sarebbe stata la Nato a
vigilare sugli accordi con un "diritto di passaggio libero senza
restrizioni e un accesso illimitato in tutta la repubblica federale di
Jugoslavia, compresi il suo spazio aereo e le sue acque
terrritoriali". Inoltre le autorità avrebbero dovuto eseguire gli
ordini della Nato "su una base prioritaria e con tutti i mezzi
appropriati" (cfr. Noam Chomsky, In Kosovo, un'altra soluzione era
possibile, su Le monde diplomatique, 9 marzo 2000) .
Di fronte a richieste dell'ultimo momento che comportavano di fatto
l'occupazione dell'intero territorio jugoslavo da parte di una forza
estranea all'Onu e all'Osce, i serbi non potevano che rifiutare, cosa
che avvenne il 18 marzo 1999.
Dopo una settimana iniziavano i bombardamenti della Nato, che
colpivano non solo istallazioni ed obiettivi militari, ma anche
strutture civili, ospedali, fabbriche, ambasciate.
All'esito, il 9 giugno, la Jugoslavia accettava una presenza
internazionale che contenesse forze Nato nel solo Kosovo.
In sostanza, dopo 78 giorni di bombardamento si è raggiunto un
risultato già ampiamente alla portata dei negoziatori - in quanto
sostanzialmente accettato dalla Jugoslavia prima dell'intervento Nato
- ovvero un'occupazione militare di forze Nato e russe nel solo
Kosovo.
Bisognerebbe chiedersi, come autorevoli analisti internazionali:
l'ultimatum last minute della Nato "Era un cavallo di Troia? Mirava a
salvare la pace, o a sabotarla?" (cfr. Robert Frisk, The Independent,
Londra, 26 novembre 1999)
Al di la' delle inutili devastazioni e delle innumerevoli morti
evitabili, il conflitto ha aggiunto due risultati, tra loro connessi,
che - insistendo sui negoziati trasparenti e senza diktat inspiegabili
(secondo buon senso, ma spiegabili in una logica di potenza) - non si
sarebbero verificati: 1) l'accelerazione da parte serba del redde
rationem etnico in Kosovo; 2) la contro-pulizia etnica albanese
all'indomani del conflitto, tant'è che a fronte dei 200.000 serbi di
Kosovo oggi ne restano meno di 60.000, con buona pace di un Kosovo
multietnico e pacificato.
In definitiva, l'opzione militare è stata decisa dalla Nato dopo aver
"deciso di rigettare le opzioni diplomatiche, che non erano affatto
esaurite" (cfr. Noam Chomsky, op. cit.), come riconosciuto
tardivamente da autorevoli mezzi di informazione occidentali secondo i
quali "sarebbe stato possibile avviare un vero ciclo di negoziati - e
non il disastroso diktat americano presentato a Milosevic alla
conferenza di Rambouillet - e inviare un consistente numero di
osservatori esterni capaci di proteggere sia i civili albanesi che i
civili serbi" (cfr. editoriale del Boston Globe del 9 dicembre 1999,
citato da Noam Chomsky, op. cit.).
Questo sull'inevitabilità del conflitto.
Sul punto della sostanziale rispondenza dell'intervento ai principi
della Carta dell'Onu, va segnalato che l'articolo 2 paragrafo 4 della
Carta fa espresso divieto agli stati membri di usare la forza per la
risoluzione di controversie internazionali nonché al fine di incidere
sull'integrità territoriale o l'indipendenza politica di altro Stato,
mentre le finalità dell'Onu (articolo 1 par. 1, 2 e 3) si evidenziano
per lo sviluppo delle relazioni amichevoli, la risoluzione pacifica
delle controversie, la cooperazione internazionale anche per i
problemi di tipo umanitario.
Altrettanto infondata è l'argomentazione umanitaria fondata su
presunto "stato di necessità".
Appare veramente paradossale, infatti, che per salvaguardare i diritti
umani di una parte della popolazione di uno stato si sottoponga
l'altra parte, in ipotesi non responsabile per l'atteggiamento
persecutorio di un governo, alle vessazioni proprie di una guerra da
parte di paesi terzi che nella fattispecie non hanno alcun interesse
essenziale, per quanto "civili e sensibili ai problemi umanitari" in
quanto per interessi essenziali devono intendersi quelli connessi alla
propria sopravvivenza, integrità territoriale ed indipendenza politica
(cfr. Giuseppe Palmisano, Not in my name - Guerra e diritto, Editori
Riuniti, 2003).
E poi, tali valutazioni non devono comunque essere prese da un
organismo, il Consiglio di Sicurezza, a ciò deputato dall'ordinamento
giuridico internazionale?
Diversamente opinando, in futuro chiunque potrebbe ritenersi investito
di una missione umanitaria e scatenare una guerra giustificandola a
difesa di un popolo oppresso. Ieri in Kosovo è intervenuta la Nato a
protezione degli albanesi, oggi in Iraq gli Stati Uniti ed un gruppo
di paesi satelliti a protezione degli stessi iracheni e dei curdi,
domani i paesi arabi potrebbero ritenere meritevole dello stesso
trattamento Israele per come agisce nei territori (occupati) a danno
dei palestinesi da oltre trent'anni, in contrasto con innumerevoli
risoluzioni Onu.
La realtà è un'altra.
In questi anni stiamo assistendo ad una pericolosa eclissi dei diritti
sul piano delle legislazioni interne in tutto l'occidente, dal lavoro,
alla cittadinanza, alla giustizia, con compressione dei poteri di
garanzia e controllo, e dove finanche la Costituzione Italiana diventa
un fastidioso retaggio del passato da rivedere.
A tale situazione fa eco, sul versante internazionale, un altrettanto
grave ridimensionamento dell'Onu, con guerre che vengono scatenate per
tutelare diritti e diritti che vengono schiacciati (si pensi ai
"dannati" senza nome di Guantanamo, non prigionieri di guerra, non
imputati, non cittadini) in nome della sicurezza e della guerra al
terrorismo globale, in una spirale perversa e senza fine, in cui anche
la tortura diventa lecita dopo secoli di bando.
Francis Fukujama nel 1992 parlò, per il dopo guerra-fredda, di un
periodo di pace e prosperità nelle relazioni internazionali e di fine
della storia: Non immaginava, forse, che quel periodo cui si riferiva
sarebbe stato caratterizzato, più semplicemente, dalla fine del
diritto e dal tramonto dell'Onu.
A questi scenari ci si può e ci si deve opporre recuperando la memoria
del 25 aprile e, in generale, dello spirito riformatore che animò la
collettività internazionale dopo la tragedia del secondo conflitto
mondiale, troppo spesso dimenticati.

* Magistrato del pubblico ministero