Fassino e il fardello della modernizzazione
(commento al libro di Piero Fassino "Per passione")
di Claudio Grassi
Liberazione, 5 settembre 2003
Questo di Piero Fassino è un libro interessante e autentico, scritto
davvero con passione, quella profonda passione per la politica che ha
sin qui contraddistinto tutta la vita dell'attuale segretario dei Ds.
Sono pagine pensate, nelle quali si riflette un profilo culturale
coerente, precisatosi, nel segno di una sostanziale continuità, in
lunghi decenni di impegno militante. Quale sia il connotato di fondo è
presto detto. Fassino dichiara
senza remore la propria ispirazione socialdemocratica: di una
socialdemocrazia - conviene precisare - peculiare, figlia della
sconfitta del movimento operaio battuto dalla rivoluzione conservatrice
reaganiano-thatcheriana. Per cui mai nel libro emerge, nemmeno in
chiave problematica, la riflessione sulle responsabilità del
capitalismo in ordine ai devastanti problemi politici, sociali,
ambientali e persino morali che l'umanità si trova di fronte.
Ma veniamo ad alcuni snodi salienti della narrazione. Colpisce, in
primo luogo, come in tutte le fasi dello scontro politico richiamate
nel libro Fassino si sia collocato regolarmente su posizioni assai
prossime a quelle dell'avversario. Un caso appare tra tutti
paradigmatico. 1980, la
mobilitazione della Flm contro i licenziamenti decisi dalla Fiat. La
lotta si protrae per 35 lunghi giorni durante i quali Enrico Berlinguer
è vicino agli operai in sciopero, che lo festeggiano ai cancelli di
Mirafiori. Oggi Fassino ricorda e non lesina critiche. Gli appare
sbagliata la posizione oltranzista dei lavoratori e del sindacato dei
meccanici. Giudica errata
anche la scelta del segretario del Pci che avalla quella lotta e non si
pronuncia contro l'occupazione della fabbrica.
Sono pagine dure, come duro fu allora quello scontro. Vi è consegnata,
in sintesi, la tesi portante del libro. Fassino non è critico di
Berlinguer nell'intero arco della sua segreteria. Al contrario, ne
condivide le scelte degli anni Settanta: il compromesso storico,
l'opzione per la Nato, il governo di solidarietà nazionale, la
condivisione della linea dell'Eur e dei
sacrifici imboccata nel '77 dalla Cgil di Luciano Lama. Il problema è
però, ai suoi occhi, che quelle scelte non furono condotte sino in
fondo: si tentennò, non si ebbe il coraggio di “assumere un compiuto
profilo riformista di stampo socialdemocratico”. Questo è il punto,
assunto come un dogma. Poco o nulla rilevano i contraccolpi di quelle
scelte strategiche: il disastro elettorale dell'80 (quando il Pci si
fermò al 26%, otto punti in meno rispetto al '75), il tracollo del Pds
al primo test elettorale (16% nel '92).
Ovvia, poste queste premesse, la requisitoria nei confronti dell'ultimo
Berlinguer. Ovvia anche, benché non per questo meno sconcertante, la
celebrazione di Bettino Craxi, nel quale Fassino scorge un lucido
interprete di quella fase storica e politica. “Craxi interpreta le
domande di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica
di stare al passo. Il Pci invece vede nei cambiamenti un'insidia,
anziché un'opportunità”. Tradotto in volgare: Craxi ha il merito di
capire che la centralità operaia ha fatto il suo tempo, che il
conflitto di classe è una patologia distruttiva, che la
“modernizzazione” impone alla sinistra di riconoscere la centralità
dell'impresa e di farsi carico delle “compatibilità” del capitalismo.
Poco importano, ancora una volta, la dure repliche della storia: il
dilagare della corruzione tra le file del Psi craxiano e la sconfitta
storica della sinistra post-comunista che nei primi anni Novanta,
gettata alle ortiche la cultura classista, assumerà su di sé il
fardello della “modernizzazione” a suon di privatizzazioni, tagli del
welfare, riforme istituzionali e leggi maggioritarie.
Fassino non si limita alla politica interna, il libro è ricco di
riferimenti a questioni e vicende internazionali. Ma, giunti a questo
punto, sarebbe temerario attendersi sorprese. Non ce n'è. Il socialismo
reale è tutto un fallimento: ovviamente sui fallimenti delle
socialdemocrazie al governo in Europa dagli anni Ottanta in poi (e
tanto più sulle odierne porcherie di Blair) il silenzio è assoluto.
Maastricht? Rose e fiori, peccato solo che il centrosinistra al governo
non abbia completato la riforma delle pensioni e sia stato troppo
timido con la flessibilità. E i milioni di disoccupati, i nuovi poveri,
i bilanci terremotati delle famiglie? Inevitabili contraccolpi della
modernità. Gli Stati Uniti? Un modello di democrazia, e pazienza per la
dottrina della guerra preventiva e permanente (di cui invano si
cercherebbe traccia). Israele? “Non possiamo non amar[lo]. Non possiamo
non riconoscere Israele come una forte e libera democrazia”: dunque
nessun problema di occupazione militare di territori altrui, di
discriminazioni etniche, di violazioni di diritti umani.
La perla è, naturalmente, la parte dedicata alla guerra nella
ex-Jugoslavia. Fassino ci tiene a rivendicare un primato: “Nel governo
italiano, i più determinati nell'auspicare un intervento militare siamo
io e Andreatta”. Poi, però, dà a Massimo quel che è di Massimo:
“D'Alema rivela qui la sua parte migliore di uomo di stato: con
freddezza e lucidità gestisce i rapporti interni dell'Ulivo e si fa
apprezzare [.] dai generali della Nato”. E la distruzione della
Zastava? La pulizia etnica ancora in corso contro il popolo serbo? La
disoccupazione dilagante, l'uranio impoverito? Quisquilie, polvere
impalpabile sotto il
carro trionfale della Storia.
Non servono lunghi commenti né faticose interpretazioni. Fassino è
onesto, non si maschera, non stempera le proprie convinzioni. Del
resto, perché mai si dovrebbe volere occultare quanto si considera
titolo di merito? Senonché il punto è proprio questo. Come mai non si
avverte la problematicità di una metamorfosi ideologica e politica che
ribalta di 180 gradi una lunga storia e impedisce qualsiasi presa di
distanza dal neoliberismo, dall'attacco al lavoro e ai diritti sociali,
dalle nuove guerre imperialiste? Questo libro è uno specchio della
mutazione genetica subita dal Pci nel corso degli ultimi
vent'anni e della cui portata è indice proprio la concezione della
modernità di cui Fassino è entusiasta alfiere. Moderno non è il
processo, potenzialmente rivoluzionario, di espansione della
cittadinanza e di costruzione dell'universalità: moderna è la
“razionalizzazione” del
capitalismo, la controffensiva dei poteri forti (a mezzo di
compressione dei salari e flessibilità, di tagli alla spesa e
privatizzazioni) idonea a salvaguardare sufficienti margini di
profitto. Non c'è metro migliore della devastazione prodottasi a
sinistra nei due decenni alle nostre spalle.
Claudio Grassi
(commento al libro di Piero Fassino "Per passione")
di Claudio Grassi
Liberazione, 5 settembre 2003
Questo di Piero Fassino è un libro interessante e autentico, scritto
davvero con passione, quella profonda passione per la politica che ha
sin qui contraddistinto tutta la vita dell'attuale segretario dei Ds.
Sono pagine pensate, nelle quali si riflette un profilo culturale
coerente, precisatosi, nel segno di una sostanziale continuità, in
lunghi decenni di impegno militante. Quale sia il connotato di fondo è
presto detto. Fassino dichiara
senza remore la propria ispirazione socialdemocratica: di una
socialdemocrazia - conviene precisare - peculiare, figlia della
sconfitta del movimento operaio battuto dalla rivoluzione conservatrice
reaganiano-thatcheriana. Per cui mai nel libro emerge, nemmeno in
chiave problematica, la riflessione sulle responsabilità del
capitalismo in ordine ai devastanti problemi politici, sociali,
ambientali e persino morali che l'umanità si trova di fronte.
Ma veniamo ad alcuni snodi salienti della narrazione. Colpisce, in
primo luogo, come in tutte le fasi dello scontro politico richiamate
nel libro Fassino si sia collocato regolarmente su posizioni assai
prossime a quelle dell'avversario. Un caso appare tra tutti
paradigmatico. 1980, la
mobilitazione della Flm contro i licenziamenti decisi dalla Fiat. La
lotta si protrae per 35 lunghi giorni durante i quali Enrico Berlinguer
è vicino agli operai in sciopero, che lo festeggiano ai cancelli di
Mirafiori. Oggi Fassino ricorda e non lesina critiche. Gli appare
sbagliata la posizione oltranzista dei lavoratori e del sindacato dei
meccanici. Giudica errata
anche la scelta del segretario del Pci che avalla quella lotta e non si
pronuncia contro l'occupazione della fabbrica.
Sono pagine dure, come duro fu allora quello scontro. Vi è consegnata,
in sintesi, la tesi portante del libro. Fassino non è critico di
Berlinguer nell'intero arco della sua segreteria. Al contrario, ne
condivide le scelte degli anni Settanta: il compromesso storico,
l'opzione per la Nato, il governo di solidarietà nazionale, la
condivisione della linea dell'Eur e dei
sacrifici imboccata nel '77 dalla Cgil di Luciano Lama. Il problema è
però, ai suoi occhi, che quelle scelte non furono condotte sino in
fondo: si tentennò, non si ebbe il coraggio di “assumere un compiuto
profilo riformista di stampo socialdemocratico”. Questo è il punto,
assunto come un dogma. Poco o nulla rilevano i contraccolpi di quelle
scelte strategiche: il disastro elettorale dell'80 (quando il Pci si
fermò al 26%, otto punti in meno rispetto al '75), il tracollo del Pds
al primo test elettorale (16% nel '92).
Ovvia, poste queste premesse, la requisitoria nei confronti dell'ultimo
Berlinguer. Ovvia anche, benché non per questo meno sconcertante, la
celebrazione di Bettino Craxi, nel quale Fassino scorge un lucido
interprete di quella fase storica e politica. “Craxi interpreta le
domande di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica
di stare al passo. Il Pci invece vede nei cambiamenti un'insidia,
anziché un'opportunità”. Tradotto in volgare: Craxi ha il merito di
capire che la centralità operaia ha fatto il suo tempo, che il
conflitto di classe è una patologia distruttiva, che la
“modernizzazione” impone alla sinistra di riconoscere la centralità
dell'impresa e di farsi carico delle “compatibilità” del capitalismo.
Poco importano, ancora una volta, la dure repliche della storia: il
dilagare della corruzione tra le file del Psi craxiano e la sconfitta
storica della sinistra post-comunista che nei primi anni Novanta,
gettata alle ortiche la cultura classista, assumerà su di sé il
fardello della “modernizzazione” a suon di privatizzazioni, tagli del
welfare, riforme istituzionali e leggi maggioritarie.
Fassino non si limita alla politica interna, il libro è ricco di
riferimenti a questioni e vicende internazionali. Ma, giunti a questo
punto, sarebbe temerario attendersi sorprese. Non ce n'è. Il socialismo
reale è tutto un fallimento: ovviamente sui fallimenti delle
socialdemocrazie al governo in Europa dagli anni Ottanta in poi (e
tanto più sulle odierne porcherie di Blair) il silenzio è assoluto.
Maastricht? Rose e fiori, peccato solo che il centrosinistra al governo
non abbia completato la riforma delle pensioni e sia stato troppo
timido con la flessibilità. E i milioni di disoccupati, i nuovi poveri,
i bilanci terremotati delle famiglie? Inevitabili contraccolpi della
modernità. Gli Stati Uniti? Un modello di democrazia, e pazienza per la
dottrina della guerra preventiva e permanente (di cui invano si
cercherebbe traccia). Israele? “Non possiamo non amar[lo]. Non possiamo
non riconoscere Israele come una forte e libera democrazia”: dunque
nessun problema di occupazione militare di territori altrui, di
discriminazioni etniche, di violazioni di diritti umani.
La perla è, naturalmente, la parte dedicata alla guerra nella
ex-Jugoslavia. Fassino ci tiene a rivendicare un primato: “Nel governo
italiano, i più determinati nell'auspicare un intervento militare siamo
io e Andreatta”. Poi, però, dà a Massimo quel che è di Massimo:
“D'Alema rivela qui la sua parte migliore di uomo di stato: con
freddezza e lucidità gestisce i rapporti interni dell'Ulivo e si fa
apprezzare [.] dai generali della Nato”. E la distruzione della
Zastava? La pulizia etnica ancora in corso contro il popolo serbo? La
disoccupazione dilagante, l'uranio impoverito? Quisquilie, polvere
impalpabile sotto il
carro trionfale della Storia.
Non servono lunghi commenti né faticose interpretazioni. Fassino è
onesto, non si maschera, non stempera le proprie convinzioni. Del
resto, perché mai si dovrebbe volere occultare quanto si considera
titolo di merito? Senonché il punto è proprio questo. Come mai non si
avverte la problematicità di una metamorfosi ideologica e politica che
ribalta di 180 gradi una lunga storia e impedisce qualsiasi presa di
distanza dal neoliberismo, dall'attacco al lavoro e ai diritti sociali,
dalle nuove guerre imperialiste? Questo libro è uno specchio della
mutazione genetica subita dal Pci nel corso degli ultimi
vent'anni e della cui portata è indice proprio la concezione della
modernità di cui Fassino è entusiasta alfiere. Moderno non è il
processo, potenzialmente rivoluzionario, di espansione della
cittadinanza e di costruzione dell'universalità: moderna è la
“razionalizzazione” del
capitalismo, la controffensiva dei poteri forti (a mezzo di
compressione dei salari e flessibilità, di tagli alla spesa e
privatizzazioni) idonea a salvaguardare sufficienti margini di
profitto. Non c'è metro migliore della devastazione prodottasi a
sinistra nei due decenni alle nostre spalle.
Claudio Grassi