Le ong italiane, tra pornografia del dolore e nuovo umanitarismo
Sabato 29 novembre si è tenuto a Lucca il convegno "Dove va l’aiuto
umanitario? Ascesa e crisi dell’aiuto umanitario tra ambiguità e
solidarietà". Molte le organizzazioni non governative italiane
presenti. A parlare di sé.
Sintesi a cura di Andrea Rossini, Osservatorio sui Balcani.
Dove va l’aiuto umanitario? Nell’epoca delle organizzazioni non
governative (ong) “embedded”, cioè al seguito delle truppe nelle guerre
– per l’appunto – “umanitarie”, è questa la impegnativa domanda che ICS
(Consorzio Italiano di Solidarietà), Provincia di Lucca e Scuola per la
Pace hanno posto al mondo della cooperazione italiano. Al centro del
dibattito la crisi – finanziaria e di legittimità – delle ong, e le
relazioni pericolose venutesi a creare tra politica, media, militari e
interventi umanitari. Punto di partenza della discussione – come
affermato nel documento introduttivo di Giulio Marcon, presidente di
ICS - la ricerca di un nuovo fondamento etico e politico dell’operare,
di un nuovo codice di condotta che abbia la autonomia come principio
guida, la affermazione di un intervento che sappia sempre coniugare il
legame tra effetti e cause delle crisi nelle quali le ong si trovano ad
operare.
Il convegno di Lucca riprende un dibattito avviato due anni or sono da
Osservatorio Balcani (v. Dieci anni di cooperazione con il sud est
Europa: bilancio, critiche, prospettive), arricchito in questa nuova
fase dagli elementi introdotti dopo il Kosovo dalle crisi in
Afghanistan e Iraq. Sabato a Lucca sono intervenuti in molti, proviamo
ad articolare una sintesi della discussione attorno ai punti che hanno
attraversato tutti gli interventi dei relatori.
Indipendenza
Indipendenza (Carlo Garbagnati, Emergency) politica e finanziaria
coincidono, ma l’autofinanziamento è possibile solo quando i media
accendono i riflettori su di una data situazione. Sul campo, la
indipendenza si ottiene solo con la opposizione alla guerra. In caso
contrario sei per uno dei due contendenti. L’aiuto umanitario (Raffaele
Salinari, Terre des Hommes)è entrato in crisi non per la perdita di
indipendenza, ma perchè è entrato in crisi il diritto internazionale,
sotto il fuoco incrociato di nuova destra Usa e terrorismo. Le
convenzioni internazionali non sono più applicate, e chi cerca di
praticare l’aiuto umanitario risulta schiacciato. Negli ultimi dieci
anni (Loris de Filippi, Medici Senza Frontiere Italia) ci sono stati
tre tipi di crisi: quelle in cui la comunità internazionale è
intervenuta; quella nella quali è stata coinvolta; quelle dalle quali
si è astenuta. Quante ong sono intervenute in questi anni in crisi del
terzo tipo, come in Cecenia o in Algeria? Neutralità ed indipendenza
devono essere criteri che guidano anche la valutazione delle aree in
cui intervenire. L’indipendenza si persegue (Toni Vaux, Oxfam, autore
de “L’altruista egoista”) ponendo un limite ai fondi che si ricevono da
un governo (max 30%); avendo principi chiari, sulla base dei quali
prendere le decisioni rispetto alle proposte dei donatori; mantenendo
la imparzialità tra le parti in conflitto. Imparzialità non significa
neutralità o distacco, ma essere dalla parte delle vittime e non
intervenire solamente dove ci sono i soldi. Tra ong e ditte private i
confini si stanno assottigliando: entrambi sono “contractors” di
governi. La crisi delle ong (Paolo Dieci, Cisp) è dovuta alla
sovraesposizione mediatica e politica, e alla assunzione di compiti
impropri. La nostra legittimità (Giorgio Cardone, Ics) non consiste
nella capacità di raccogliere fondi o nell’essere in televisione, ma
nella onestà intellettuale nostra e dei nostri dirigenti, nell’essere
forse meno presenti nei vari Paesi in giro per il mondo e più presenti
nel nostro. Non è sufficiente raccogliere aiuti in forma privata per
affermare la propria indipendenza (Carlo Malavolti, Cospe): i fondi –
privati o pubblici – sono sempre condizionati, e si raccolgono
solamente su argomenti di attualità. E’ necessaria invece una battaglia
perché i fondi pubblici siano gestiti democraticamente. Tutte le
raccolte fondi (Fabio Alberti, Un ponte per)sono orientate dalla
televisione.
Neutralità o politica
Le ong sono portatrici di progetti politici. Per la neutralità c’è la
Croce Rossa (Fabio Alberti, Un ponte per). Rivendichiamo il nostro
operare tra nord e sud del mondo, che ha favorito la nascita di
movimenti ed esperienze come quella di Porto Alegre. Chi in Iraq non ha
accettato di cooperare con le forze militari non lo ha fatto per una
pretesa neutralità, ma perché con gli occupati contro gli occupanti. Le
ong devono essere neutrali (David Rieff, giornalista, autore de “Il
paradosso umanitario”), che legittimità hanno per fare politica? Se non
c’è neutralità non può esserci aiuto umanitario, può esserci
qualcos’altro. Dobbiamo chiederci perché oggi in Iraq (Joe Washington,
Università di Pisa) le ong sono diventate target. Noi non siamo né
neutrali né imparziali (Eugenio Melandri, Campagna Chiama l’Africa),
lavoriamo nel nostro settore con un progetto globale di cambiamento.
Basta con gli aiuti e basta (Carlo Malavolti, Cospe), bisogna fare
chiarezza tra emergenza e cooperazione. Noi facciamo parte del Cocis,
gruppo di ong intenzionate a rimanere aderenti ad un concetto di
cooperazione come fatto politico, modo di stabilire relazioni
internazionali che comprenda la volontà di cambiare, siamo contro
approcci assistenziali che non si sforzino di avviare processi endogeni
che affrontino le cause dei problemi.
Le risorse umane e il fascino delle ong
Le ong si comportano al proprio interno secondo le stesse modalità che
affermano di voler combattere (Gianni Rufini, Fields). I problemi non
sono solo fuori ma anche dentro (Edoardo). Da 10 anni cerco di far
capire a chi me lo chiede che non sono un volontario (Giorgio Cardone,
Ics), ma che questa attività per me è un lavoro. La competizione sul
campo tra le ong per accaparrare fondi è oscena (Angela Mackay,
Fields). Bisogna fare qualcosa di buono ma anche in condizioni buone
dal punto di vista delle risorse umane, avere un buon management,
salari e un ambiente professionale, mantenendo attenzione alla
questione di genere. Sono più di 3000 (Gianluca Antonelli – Vis,
Volontari per lo Sviluppo) gli studenti che oggi in Italia seguono
masters e corsi di laurea sulla cooperazione allo sviluppo. Il nostro
settore è al centro dell’attenzione. Cosa faranno tutte queste persone
dopo l’università? [Voce dal pubblico: niente.] Per una posizione
all’interno di Amnesty (Marco Bertotto, Amnesty Italia, Ics) abbiamo
ricevuto in questi giorni più di 800 curriculum di persone che
provengono anche dal profit e sono pronti a vedere ridotto il proprio
stipendio attuale anche dei 2/3.
Dove va l’aiuto umanitario?
Dove ci sono i soldi (Gianluca Antonelli, Vis).
Lo stato delle cose
Il nuovo umanitarianesimo deve essere più legato alle esperienze locali
e al tempo stesso più assertivo sul piano politico generale,
sull’esempio di associazioni come Greenpeace. Il sistema
dell’intervento umanitario (Claudio Bazzocchi, autore de “La
balcanizzazione dello sviluppo") per come si è venuto configurando
negli ultimi anni ha avuto come obiettivo quello di porre fine alla
sovranità degli Stati e di rendere l’aiuto pubblico allo sviluppo uno
strumento per imporre piani di aggiustamento strutturale, sostituendo
ad una società civile “luogo dove le classi subalterne creano gli
strumenti per trasformare la situazione” una asfittica “classe media
dell’aiuto umanitario”. Le crisi non vanno interpretate unicamente come
prodotto di un deficit di sviluppo e ricchezza, laddove le nuove guerre
possono essere lette come progetti politici e sociali per resistere
alla globalizzazione e affermare un nuovo comunitarismo. Le ong hanno
avuto una grande responsabilità in quanto agenti del neoliberismo e
delle privatizzazioni, anche noi abbiamo contribuito a distruggere
quelle società. I poveri (Tony Vaux) e le donne lavoratrici dei Paesi
nei quali ci troviamo ad operare hanno comportamenti guidati da analisi
più scientifiche delle nostre. Senza le ong (Gianni Rufini, Fields)
staremmo ancora a parlare di apartheid, di mine antiuomo o di Tribunale
Penale Internazionale. Oggi però le ong hanno perso la parola, sono
affogate nei progettifici. Dobbiamo tornare a chiederci perché siamo
nati e al tempo stesso produrre metodologie nuove e creative.
Comunicazione, ricerca
Le ong devono dotarsi di strumenti di analisi adeguati per poter agire
nei contesti delle nuove guerre, cui partecipano non solo gli eserciti
ma anche la gente, e nelle quali la povertà gioca un ruolo fondamentale
(Tony Vaux). L’unica comunicazione che sembra funzionare (Andrea Segre,
Ics, Unità di Comunicazione Creativa) è quella che alimenta lo
spettacolo, la pornografia del dolore o la compassione sui bambini,
mente l’elemento critico deve essere la distanza: dobbiamo ridurre la
distanza tra coloro i cui racconti raccogliamo e gli spettatori,
coinvolgendo i primi nel racconto come autori e dando la parola
(“attiva”) ai secondi, rompendo un meccanismo di spot che prevede come
unico strumento di relazione il dono. In un mercato della comunicazione
occupato da poche grandi ong, noi siamo incapaci di agire(Marco
Bertotto, Amnesty Italia, Ics), così come siamo incapaci di fare
politica e lobby seriamente, uscendo dalla mera affermazione di slogans.
E’ Giulio Marcon, alla fine, a sottolineare come il disordine del
dibattito rifletta la situazione del mondo della cooperazione oggi:
“Siamo parte del movimento contro la globalizzazione neoliberista e in
certi momenti ne siamo (o rischiamo di esserne) strumenti. Scopo della
giornata era anche quello di far emergere questo problema. Tenendo a
mente tuttavia che in Italia esistono oggi circa 1450 gruppi e
associazioni che fanno solidarietà internazionale e che non hanno
niente a che vedere né con il business né con il parastato. Questi sono
il nostro riferimento.” Proprio una rappresentante di questi gruppi
(Laura Cocci, Lodi per Mostar) aveva preso la parola nella parte finale
di una discussione quasi completamente maschile: “Siamo nati durante il
conflitto in ex Yugoslavia per creare ponti di pace e solidarietà tra
comunità locali: mi sento estranea a questo dibattito, noi non ci
sentiamo in crisi e continuiamo con le nostre attività come in passato.”
Il circo umanitario è tale anche perché sia gli spettatori che, in
qualche modo, gli attori, tendono a costruire un immaginario unico e
indistinto di persone e gruppi occupati a “fare del bene”. Il convegno
di Lucca ha contribuito su questo a fare chiarezza, presentando uno
scenario ancora molto diversificato tra ong “embedded”, chi si occupa
di emergenza e chi di sviluppo o di relazioni tra comunità. Sul campo,
tuttavia, le recenti crisi internazionali tendono sempre più ad
affermare un modello unico, per ciò stesso ambiguo, di aiuto
umanitario, basato sulla emergenza, lontano dalle istanze della
cooperazione allo sviluppo modello anni ’60 e ’70 – peraltro già in
crisi - che recava nel proprio dna un chiaro progetto di trasformazione
del mondo, o dalle nuove forme di cooperazione decentrata affermatesi
nei Balcani. Con questo modello unico dovrà confrontarsi in futuro in
maniera sempre più stringente il mondo della cooperazione. Partendo
dalla ricerca e affermazione di un linguaggio e di forme di
comunicazione nuove. Lontane dalla pornografia del dolore. E anche da
categorie ormai inutilizzabili. Come quella dell’umanitario.
» Fonte: © Osservatorio sui Balcani
www.osservatoriobalcani.org
NEWSLETTER SETTIMANALE DELL'OSSERVATORIO SUI BALCANI n. 48/2003
Sabato 29 novembre si è tenuto a Lucca il convegno "Dove va l’aiuto
umanitario? Ascesa e crisi dell’aiuto umanitario tra ambiguità e
solidarietà". Molte le organizzazioni non governative italiane
presenti. A parlare di sé.
Sintesi a cura di Andrea Rossini, Osservatorio sui Balcani.
Dove va l’aiuto umanitario? Nell’epoca delle organizzazioni non
governative (ong) “embedded”, cioè al seguito delle truppe nelle guerre
– per l’appunto – “umanitarie”, è questa la impegnativa domanda che ICS
(Consorzio Italiano di Solidarietà), Provincia di Lucca e Scuola per la
Pace hanno posto al mondo della cooperazione italiano. Al centro del
dibattito la crisi – finanziaria e di legittimità – delle ong, e le
relazioni pericolose venutesi a creare tra politica, media, militari e
interventi umanitari. Punto di partenza della discussione – come
affermato nel documento introduttivo di Giulio Marcon, presidente di
ICS - la ricerca di un nuovo fondamento etico e politico dell’operare,
di un nuovo codice di condotta che abbia la autonomia come principio
guida, la affermazione di un intervento che sappia sempre coniugare il
legame tra effetti e cause delle crisi nelle quali le ong si trovano ad
operare.
Il convegno di Lucca riprende un dibattito avviato due anni or sono da
Osservatorio Balcani (v. Dieci anni di cooperazione con il sud est
Europa: bilancio, critiche, prospettive), arricchito in questa nuova
fase dagli elementi introdotti dopo il Kosovo dalle crisi in
Afghanistan e Iraq. Sabato a Lucca sono intervenuti in molti, proviamo
ad articolare una sintesi della discussione attorno ai punti che hanno
attraversato tutti gli interventi dei relatori.
Indipendenza
Indipendenza (Carlo Garbagnati, Emergency) politica e finanziaria
coincidono, ma l’autofinanziamento è possibile solo quando i media
accendono i riflettori su di una data situazione. Sul campo, la
indipendenza si ottiene solo con la opposizione alla guerra. In caso
contrario sei per uno dei due contendenti. L’aiuto umanitario (Raffaele
Salinari, Terre des Hommes)è entrato in crisi non per la perdita di
indipendenza, ma perchè è entrato in crisi il diritto internazionale,
sotto il fuoco incrociato di nuova destra Usa e terrorismo. Le
convenzioni internazionali non sono più applicate, e chi cerca di
praticare l’aiuto umanitario risulta schiacciato. Negli ultimi dieci
anni (Loris de Filippi, Medici Senza Frontiere Italia) ci sono stati
tre tipi di crisi: quelle in cui la comunità internazionale è
intervenuta; quella nella quali è stata coinvolta; quelle dalle quali
si è astenuta. Quante ong sono intervenute in questi anni in crisi del
terzo tipo, come in Cecenia o in Algeria? Neutralità ed indipendenza
devono essere criteri che guidano anche la valutazione delle aree in
cui intervenire. L’indipendenza si persegue (Toni Vaux, Oxfam, autore
de “L’altruista egoista”) ponendo un limite ai fondi che si ricevono da
un governo (max 30%); avendo principi chiari, sulla base dei quali
prendere le decisioni rispetto alle proposte dei donatori; mantenendo
la imparzialità tra le parti in conflitto. Imparzialità non significa
neutralità o distacco, ma essere dalla parte delle vittime e non
intervenire solamente dove ci sono i soldi. Tra ong e ditte private i
confini si stanno assottigliando: entrambi sono “contractors” di
governi. La crisi delle ong (Paolo Dieci, Cisp) è dovuta alla
sovraesposizione mediatica e politica, e alla assunzione di compiti
impropri. La nostra legittimità (Giorgio Cardone, Ics) non consiste
nella capacità di raccogliere fondi o nell’essere in televisione, ma
nella onestà intellettuale nostra e dei nostri dirigenti, nell’essere
forse meno presenti nei vari Paesi in giro per il mondo e più presenti
nel nostro. Non è sufficiente raccogliere aiuti in forma privata per
affermare la propria indipendenza (Carlo Malavolti, Cospe): i fondi –
privati o pubblici – sono sempre condizionati, e si raccolgono
solamente su argomenti di attualità. E’ necessaria invece una battaglia
perché i fondi pubblici siano gestiti democraticamente. Tutte le
raccolte fondi (Fabio Alberti, Un ponte per)sono orientate dalla
televisione.
Neutralità o politica
Le ong sono portatrici di progetti politici. Per la neutralità c’è la
Croce Rossa (Fabio Alberti, Un ponte per). Rivendichiamo il nostro
operare tra nord e sud del mondo, che ha favorito la nascita di
movimenti ed esperienze come quella di Porto Alegre. Chi in Iraq non ha
accettato di cooperare con le forze militari non lo ha fatto per una
pretesa neutralità, ma perché con gli occupati contro gli occupanti. Le
ong devono essere neutrali (David Rieff, giornalista, autore de “Il
paradosso umanitario”), che legittimità hanno per fare politica? Se non
c’è neutralità non può esserci aiuto umanitario, può esserci
qualcos’altro. Dobbiamo chiederci perché oggi in Iraq (Joe Washington,
Università di Pisa) le ong sono diventate target. Noi non siamo né
neutrali né imparziali (Eugenio Melandri, Campagna Chiama l’Africa),
lavoriamo nel nostro settore con un progetto globale di cambiamento.
Basta con gli aiuti e basta (Carlo Malavolti, Cospe), bisogna fare
chiarezza tra emergenza e cooperazione. Noi facciamo parte del Cocis,
gruppo di ong intenzionate a rimanere aderenti ad un concetto di
cooperazione come fatto politico, modo di stabilire relazioni
internazionali che comprenda la volontà di cambiare, siamo contro
approcci assistenziali che non si sforzino di avviare processi endogeni
che affrontino le cause dei problemi.
Le risorse umane e il fascino delle ong
Le ong si comportano al proprio interno secondo le stesse modalità che
affermano di voler combattere (Gianni Rufini, Fields). I problemi non
sono solo fuori ma anche dentro (Edoardo). Da 10 anni cerco di far
capire a chi me lo chiede che non sono un volontario (Giorgio Cardone,
Ics), ma che questa attività per me è un lavoro. La competizione sul
campo tra le ong per accaparrare fondi è oscena (Angela Mackay,
Fields). Bisogna fare qualcosa di buono ma anche in condizioni buone
dal punto di vista delle risorse umane, avere un buon management,
salari e un ambiente professionale, mantenendo attenzione alla
questione di genere. Sono più di 3000 (Gianluca Antonelli – Vis,
Volontari per lo Sviluppo) gli studenti che oggi in Italia seguono
masters e corsi di laurea sulla cooperazione allo sviluppo. Il nostro
settore è al centro dell’attenzione. Cosa faranno tutte queste persone
dopo l’università? [Voce dal pubblico: niente.] Per una posizione
all’interno di Amnesty (Marco Bertotto, Amnesty Italia, Ics) abbiamo
ricevuto in questi giorni più di 800 curriculum di persone che
provengono anche dal profit e sono pronti a vedere ridotto il proprio
stipendio attuale anche dei 2/3.
Dove va l’aiuto umanitario?
Dove ci sono i soldi (Gianluca Antonelli, Vis).
Lo stato delle cose
Il nuovo umanitarianesimo deve essere più legato alle esperienze locali
e al tempo stesso più assertivo sul piano politico generale,
sull’esempio di associazioni come Greenpeace. Il sistema
dell’intervento umanitario (Claudio Bazzocchi, autore de “La
balcanizzazione dello sviluppo") per come si è venuto configurando
negli ultimi anni ha avuto come obiettivo quello di porre fine alla
sovranità degli Stati e di rendere l’aiuto pubblico allo sviluppo uno
strumento per imporre piani di aggiustamento strutturale, sostituendo
ad una società civile “luogo dove le classi subalterne creano gli
strumenti per trasformare la situazione” una asfittica “classe media
dell’aiuto umanitario”. Le crisi non vanno interpretate unicamente come
prodotto di un deficit di sviluppo e ricchezza, laddove le nuove guerre
possono essere lette come progetti politici e sociali per resistere
alla globalizzazione e affermare un nuovo comunitarismo. Le ong hanno
avuto una grande responsabilità in quanto agenti del neoliberismo e
delle privatizzazioni, anche noi abbiamo contribuito a distruggere
quelle società. I poveri (Tony Vaux) e le donne lavoratrici dei Paesi
nei quali ci troviamo ad operare hanno comportamenti guidati da analisi
più scientifiche delle nostre. Senza le ong (Gianni Rufini, Fields)
staremmo ancora a parlare di apartheid, di mine antiuomo o di Tribunale
Penale Internazionale. Oggi però le ong hanno perso la parola, sono
affogate nei progettifici. Dobbiamo tornare a chiederci perché siamo
nati e al tempo stesso produrre metodologie nuove e creative.
Comunicazione, ricerca
Le ong devono dotarsi di strumenti di analisi adeguati per poter agire
nei contesti delle nuove guerre, cui partecipano non solo gli eserciti
ma anche la gente, e nelle quali la povertà gioca un ruolo fondamentale
(Tony Vaux). L’unica comunicazione che sembra funzionare (Andrea Segre,
Ics, Unità di Comunicazione Creativa) è quella che alimenta lo
spettacolo, la pornografia del dolore o la compassione sui bambini,
mente l’elemento critico deve essere la distanza: dobbiamo ridurre la
distanza tra coloro i cui racconti raccogliamo e gli spettatori,
coinvolgendo i primi nel racconto come autori e dando la parola
(“attiva”) ai secondi, rompendo un meccanismo di spot che prevede come
unico strumento di relazione il dono. In un mercato della comunicazione
occupato da poche grandi ong, noi siamo incapaci di agire(Marco
Bertotto, Amnesty Italia, Ics), così come siamo incapaci di fare
politica e lobby seriamente, uscendo dalla mera affermazione di slogans.
E’ Giulio Marcon, alla fine, a sottolineare come il disordine del
dibattito rifletta la situazione del mondo della cooperazione oggi:
“Siamo parte del movimento contro la globalizzazione neoliberista e in
certi momenti ne siamo (o rischiamo di esserne) strumenti. Scopo della
giornata era anche quello di far emergere questo problema. Tenendo a
mente tuttavia che in Italia esistono oggi circa 1450 gruppi e
associazioni che fanno solidarietà internazionale e che non hanno
niente a che vedere né con il business né con il parastato. Questi sono
il nostro riferimento.” Proprio una rappresentante di questi gruppi
(Laura Cocci, Lodi per Mostar) aveva preso la parola nella parte finale
di una discussione quasi completamente maschile: “Siamo nati durante il
conflitto in ex Yugoslavia per creare ponti di pace e solidarietà tra
comunità locali: mi sento estranea a questo dibattito, noi non ci
sentiamo in crisi e continuiamo con le nostre attività come in passato.”
Il circo umanitario è tale anche perché sia gli spettatori che, in
qualche modo, gli attori, tendono a costruire un immaginario unico e
indistinto di persone e gruppi occupati a “fare del bene”. Il convegno
di Lucca ha contribuito su questo a fare chiarezza, presentando uno
scenario ancora molto diversificato tra ong “embedded”, chi si occupa
di emergenza e chi di sviluppo o di relazioni tra comunità. Sul campo,
tuttavia, le recenti crisi internazionali tendono sempre più ad
affermare un modello unico, per ciò stesso ambiguo, di aiuto
umanitario, basato sulla emergenza, lontano dalle istanze della
cooperazione allo sviluppo modello anni ’60 e ’70 – peraltro già in
crisi - che recava nel proprio dna un chiaro progetto di trasformazione
del mondo, o dalle nuove forme di cooperazione decentrata affermatesi
nei Balcani. Con questo modello unico dovrà confrontarsi in futuro in
maniera sempre più stringente il mondo della cooperazione. Partendo
dalla ricerca e affermazione di un linguaggio e di forme di
comunicazione nuove. Lontane dalla pornografia del dolore. E anche da
categorie ormai inutilizzabili. Come quella dell’umanitario.
» Fonte: © Osservatorio sui Balcani
www.osservatoriobalcani.org
NEWSLETTER SETTIMANALE DELL'OSSERVATORIO SUI BALCANI n. 48/2003