IRAQ = JUGOSLAVIJA / 8
Un articolo di Alberto Burgio su non-violenza, diritto alla resistenza,
ed atteggiamento della sinistra di fronte alla guerra imperialista
=== ALTRI LINK ===
WASHINGTON HA TROVATO LA SOLUZIONE:
"Dividiamo l'Iraq come abbiamo fatto con la Yugoslavia!"
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3055
di Michel Collon
(traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
en FRANCAIS:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3003
in ENGLISH:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3045
===
L'articolo di Alberto Burgio:
Dentro la discussione sulla non-violenza che dura, tra alti e bassi, da
qualche mese c’è di tutto. Non è solo una discussione politica, è anche
la manifestazione di stati d’animo, di sentimenti e passioni
sollecitate dal perdurare della guerra e dal dilagare dell’ansia che
essa porta con sé. C’è stato di tutto, a guardar bene, anche nel
dibattito interno a Rifondazione comunista, dove non di rado fa
capolino la tentazione apocalittica di sbarazzarsi della storia del
Novecento e dove pure l’esperienza «grande e terribile» del movimento
operaio e comunista assume talvolta le sembianze di una preistoria
dalla quale prendere congedo. Da ultimo, registrata l’inconsistenza di
certe posizioni, si è sostenuto che il discorso sul ripudio della
violenza ha inteso mettere in chiaro l’arcaicità di un concetto di
rivoluzione come «presa del Palazzo d’inverno». Peccato che la
consapevolezza del carattere processuale della trasformazione
rivoluzionaria stia alla base dei Quaderni di Gramsci (e della stessa
teoria marxiana delle crisi), dunque al fondamento della discussione
teorica del movimento comunista almeno da mezzo secolo a questa parte.
Ad ogni modo, meglio tardi che mai.
Insomma, molto rumore per nulla. A meno che non abbia ragione Raniero
La Valle. Il quale intende la discussione sulla non-violenza nei
termini di una forte ripresa dei temi del pacifismo. «Togliere alla
guerra asimmetrica le radici di cui si nutre nel mitico sogno di
un’unica sovranità mondiale»: questo è oggi il nucleo propositivo della
scelta non-violenta. Se ci si accorda su questa interpretazione,
allora non c’è dubbio: nessuna battaglia è più attuale e indispensabile
di questa. Dopodiché, forse, si potrebbe aggiungere qualcosa.
L’attuale quadro «politico-storico» è sorto ben prima dell’11
settembre, e cioè all’indomani della rottura del 1989-91. La fine della
Guerra fredda aveva offerto al mondo un’opportunità inedita. Si sarebbe
potuto scegliere la pace, senza che ciò minacciasse le posizioni del
vincitore. La leadership statunitense (segnatamente il padre
dell’attuale presidente americano, il che fornisce materia per qualche
meditazione intorno alla persistenza di logiche arcaiche – in senso
proprio patriarcali – nel cuore stesso della metropoli capitalistica)
volle altrimenti. Puntò tutto sul costante incremento del divario di
potenza militare, spostando su logiche di dominio l’intero asse delle
relazioni internazionali. L’emergere di altre aree di potenza globale
(l’Europa, la Cina, l’India, la stessa Russia) fu di per sé considerato
una sfida e un segno di tracotanza. Un delitto di lesa maestà. Le
guerre che si sono succedute dal ’91 ad oggi si collocano in questo
contesto, dal quale emerge un grave atto di accusa nei confronti della
dirigenza americana.
Non si tratta di essere «anti-americani», ma di onestà intellettuale.
La Valle ricorda che nel diritto internazionale, dagli albori della
modernità, gli Stati nazionali sono stati considerati titolari di uno
jus ad bellum che rientrava nelle prerogative della sovranità. Ma
quella storia si chiude con il 1945, proprio alla luce dell’esperienza
maturata nei due conflitti mondiali. Tant’è che non solo la nostra
Costituzione «sovietica», ma anche la Carta dell’Onu e il Trattato
fondativo della Nato che vi si richiama mettono la guerra offensiva
fuori legge. Ora, cos’altro è quella scatenata da Bush e dal
«socialista» Blair se non una guerra offensiva in piena regola,
senz’altra motivazione che la volontà di potenza? Cos’altro, se non una
radicale violazione del diritto internazionale e dei diritti umani?
Ogni discussione sulla violenza oggi deve muovere da questa premessa e
incentrarsi su questa denuncia, se non vuol rendersi complice
dell’ignominia.
Su un altro punto La Valle ha ragione, proprio quando descrive
l’infinita arroganza degli Stati Uniti e osserva che «anche la guerra
di difesa contro l’invasione viene dall’invasore considerata
illegittima e coloro che la combattono sono definiti “combattenti
illegali”». Si ripete (lo ricordava anche Lidia Menapace su
Liberazione) la storia dei nostri partigiani chiamati banditi dai
nazifascisti. E, proprio come sessant’anni fa, di nuovo anche le
società dei «vincitori» sono devastate dalla deriva guerresca:
sorvegliate, represse, militarizzate. Mai, dal tempo dei fascismi, la
democrazia occidentale è stata più di oggi in pericolo. Solo che, se le
cose stanno così, bisognerebbe trarne alcune conseguenze.
Perché continuare a parlare di «terrorismo», dimenticando che niente è
più terroristico di una guerra di aggressione? Perché continuare ad
agitare questa fantomatica «spirale guerra-terrorismo», accreditando la
menzogna americana di una risposta bellica al «terrorismo
internazionale»? E cosa vuol dire che «il terrorismo ristabilisce
tragicamente» lo schema dialettico cancellato dalla guerra asimmetrica
e concluderne che «la politica della non violenza deve rompere questo
schema»? Non sembra una sintesi coerente con le premesse. Parlare di
terrorismo a proposito di quanto avviene in Iraq significa – lo si
intenda o meno – far proprio un programma politico, proprio come ieri
parlare di banditi a proposito della lotta partigiana contro nazisti e
repubblichini. Gianni Vattimo ha ragione su questo punto. Se è vero che
– come anche La Valle riconosce – la «guerra degli sconfitti che non
vogliono continuare ad essere sconfitti» non può non far ricorso agli
strumenti della guerriglia, delle due l’una: o riconosciamo un diritto
alla sopraffazione agli Stati Uniti e ai loro alleati (tra cui con
infinita vergogna annoveriamo anche l’Italia, che fa giorno dopo giorno
strame della propria Costituzione), o riconosciamo il diritto dei
popoli invasi di resistere, rispondendo alla violenza nei modi in cui è
loro possibile.
Certo, l’uccisione di prigionieri ripugna alla coscienza civile (al
pari – bisogna pur dirlo – dei crimini di guerra commessi
quotidianamente dalle forze di occupazione). Ma una coscienza civile
non scantona dal fatto che la quantità è qualità e che decine di
migliaia di assassini provocati da una guerra decisa a tavolino sono un
crimine contro l’umanità (oltre che un lievito di inestinguibile
collera) incommensurabile con qualsiasi violazione delle Convenzioni di
Ginevra e dello jus publicum europaeum. È mai possibile che non ci si
accorga che associarsi al coro della «fermezza» contro il «vile
ricatto» dei rapimenti significa ripetere testualmente il commento di
Wolfowitz alla decisione di Zapatero di lasciare l’Iraq? È mai
possibile che Romano Prodi non capisca che se c’è qualcosa per cui non
si può, per nulla al mondo parlare di «unità nazionale», questo
qualcosa è proprio una guerra di occupazione?
È davvero incredibile la timidezza con cui a sinistra si commenta
quanto accade in Iraq. Ci si divide tra quanti denunciano la «barbarie»
dei rapimenti e quanti, con qualche imbarazzo, li giustificano. Tra
quanti parteggiano per la resistenza irachena e quanti non osano
pronunciarne il nome. Ma pochi levano la voce sul punto che dirime
l’intera questione. Lì noi occidentali non abbiamo alcun diritto di
stare. Invece ci stiamo, dopo avere continuato per quindici anni a
scaricare tonnellate di bombe e avere ucciso un milione di bambini con
un embargo criminale. Massacriamo, rapiniamo, devastiamo. Abbiamo le
mani e l’anima sozze di sangue innocente. E per giunta ci chiediamo
«perché ci odiano tanto». Ogni giorno in più di permanenza in Iraq
aggiunge nuove colpe inescusabili. Non c’è molto da aggiungere, il
discorso dovrebbe chiudersi qui, prima ancora di cominciare. Invece
molto ancora aggiungiamo: e che cosa, per distinguerci da Berlusconi?
Che la guerra è stata «sbagliata» (sbagliata!) ma che ora non sarebbe
opportuno «abbandonare gli iracheni a se stessi». Quanto razzismo c’è,
quanti pregiudizi tipici della cultura colonialista, in simili discorsi
– oltre che nella turpe celebrazione della «eroica morte italiana» di
Fabrizio Quattrocchi?
Concludo con una osservazione che riguarda quella parte (per fortuna
sempre meno vasta) dell’Ulivo che brilla per subalternità alla destra.
Le prese di posizione dei Prodi, dei D’Alema, dei Fassino, dei Rutelli
e di quanti come loro spaccano il capello in quattro pur di non dire un
no che dispiacerebbe all’America e all’elettorato italiano più
«moderato» destano serie preoccupazioni sul prossimo futuro di questo
paese. Non è bastato il Kosovo, come non sono bastati i disastri
accumulati negli ultimi quindici anni su tutti i terreni in cui la
sinistra ha rincorso la destra per mostrare a chi conta la propria
affidabilità. C’è da temere che la mancanza di coraggio al cospetto di
questa sporca guerra anglo-americana («una guerra sporca che fa strage
di innocenti», ha detto lo zio di uno dei civili italiani catturati in
Iraq) non sia frutto del caso, ma l’espressione dell’idea di
«modernità» che informa di sé la cultura dei gruppi dirigenti diessini
e post-democristiani. Una cultura figlia di un reaganismo appena
temperato nel segno di una sempre più improbabile «terza via» alla
Giddens.
Tutte le scelte strategiche compiute da questi gruppi dirigenti lo
testimoniano. Dalle riforme istituzionali (con il maggioritario, il
«federalismo», il presidenzialismo e lo sdoganamento delle manomissioni
della Costituzione operato alla Bicamerale) alla precarizzazione del
lavoro, dal welfare alle privatizzazioni, dalla scuola all’università,
non c’è terreno rimasto immune da questa pandemia. E non si intravedono
segni di ripensamento. Né sulla politica, né sulla guerra. Ancora un
anno fa, subito dopo l’occupazione dell’Iraq, l’on. D’Alema chiedeva a
tutta la sinistra di «appoggiare Blair», così come oggi l’Ulivo – per
bocca di Prodi – rivendica il Kosovo. Di questo bisogna discutere e con
urgenza, in vista delle imminenti scadenze elettorali. Per evitare che
– posti dinanzi all’alternativa tra l’originale e una sua copia – gli
italiani tornino a votare come nel 2001. E per evitare che l’Italia si
trovi di nuovo in una guerra decisa da un governo «progressista».
Piuttosto che di dibattere di violenza e non-violenza, si tratta di
riaprire la grande battaglia per il disarmo e la pace che riempì
Firenze in occasione del Social Forum Europeo nel novembre del 2002.
Mentre la resistenza irachena conquista nuove posizioni allontanando il
rischio di nuove aggressioni anglo-americane contro altri Stati
sovrani, è giunto il momento di rilanciare il movimento di lotta contro
la guerra imperialista.
ALBERTO BURGIO
La Rinascita 22.4.2004
Un articolo di Alberto Burgio su non-violenza, diritto alla resistenza,
ed atteggiamento della sinistra di fronte alla guerra imperialista
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WASHINGTON HA TROVATO LA SOLUZIONE:
"Dividiamo l'Iraq come abbiamo fatto con la Yugoslavia!"
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di Michel Collon
(traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
en FRANCAIS:
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in ENGLISH:
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L'articolo di Alberto Burgio:
Dentro la discussione sulla non-violenza che dura, tra alti e bassi, da
qualche mese c’è di tutto. Non è solo una discussione politica, è anche
la manifestazione di stati d’animo, di sentimenti e passioni
sollecitate dal perdurare della guerra e dal dilagare dell’ansia che
essa porta con sé. C’è stato di tutto, a guardar bene, anche nel
dibattito interno a Rifondazione comunista, dove non di rado fa
capolino la tentazione apocalittica di sbarazzarsi della storia del
Novecento e dove pure l’esperienza «grande e terribile» del movimento
operaio e comunista assume talvolta le sembianze di una preistoria
dalla quale prendere congedo. Da ultimo, registrata l’inconsistenza di
certe posizioni, si è sostenuto che il discorso sul ripudio della
violenza ha inteso mettere in chiaro l’arcaicità di un concetto di
rivoluzione come «presa del Palazzo d’inverno». Peccato che la
consapevolezza del carattere processuale della trasformazione
rivoluzionaria stia alla base dei Quaderni di Gramsci (e della stessa
teoria marxiana delle crisi), dunque al fondamento della discussione
teorica del movimento comunista almeno da mezzo secolo a questa parte.
Ad ogni modo, meglio tardi che mai.
Insomma, molto rumore per nulla. A meno che non abbia ragione Raniero
La Valle. Il quale intende la discussione sulla non-violenza nei
termini di una forte ripresa dei temi del pacifismo. «Togliere alla
guerra asimmetrica le radici di cui si nutre nel mitico sogno di
un’unica sovranità mondiale»: questo è oggi il nucleo propositivo della
scelta non-violenta. Se ci si accorda su questa interpretazione,
allora non c’è dubbio: nessuna battaglia è più attuale e indispensabile
di questa. Dopodiché, forse, si potrebbe aggiungere qualcosa.
L’attuale quadro «politico-storico» è sorto ben prima dell’11
settembre, e cioè all’indomani della rottura del 1989-91. La fine della
Guerra fredda aveva offerto al mondo un’opportunità inedita. Si sarebbe
potuto scegliere la pace, senza che ciò minacciasse le posizioni del
vincitore. La leadership statunitense (segnatamente il padre
dell’attuale presidente americano, il che fornisce materia per qualche
meditazione intorno alla persistenza di logiche arcaiche – in senso
proprio patriarcali – nel cuore stesso della metropoli capitalistica)
volle altrimenti. Puntò tutto sul costante incremento del divario di
potenza militare, spostando su logiche di dominio l’intero asse delle
relazioni internazionali. L’emergere di altre aree di potenza globale
(l’Europa, la Cina, l’India, la stessa Russia) fu di per sé considerato
una sfida e un segno di tracotanza. Un delitto di lesa maestà. Le
guerre che si sono succedute dal ’91 ad oggi si collocano in questo
contesto, dal quale emerge un grave atto di accusa nei confronti della
dirigenza americana.
Non si tratta di essere «anti-americani», ma di onestà intellettuale.
La Valle ricorda che nel diritto internazionale, dagli albori della
modernità, gli Stati nazionali sono stati considerati titolari di uno
jus ad bellum che rientrava nelle prerogative della sovranità. Ma
quella storia si chiude con il 1945, proprio alla luce dell’esperienza
maturata nei due conflitti mondiali. Tant’è che non solo la nostra
Costituzione «sovietica», ma anche la Carta dell’Onu e il Trattato
fondativo della Nato che vi si richiama mettono la guerra offensiva
fuori legge. Ora, cos’altro è quella scatenata da Bush e dal
«socialista» Blair se non una guerra offensiva in piena regola,
senz’altra motivazione che la volontà di potenza? Cos’altro, se non una
radicale violazione del diritto internazionale e dei diritti umani?
Ogni discussione sulla violenza oggi deve muovere da questa premessa e
incentrarsi su questa denuncia, se non vuol rendersi complice
dell’ignominia.
Su un altro punto La Valle ha ragione, proprio quando descrive
l’infinita arroganza degli Stati Uniti e osserva che «anche la guerra
di difesa contro l’invasione viene dall’invasore considerata
illegittima e coloro che la combattono sono definiti “combattenti
illegali”». Si ripete (lo ricordava anche Lidia Menapace su
Liberazione) la storia dei nostri partigiani chiamati banditi dai
nazifascisti. E, proprio come sessant’anni fa, di nuovo anche le
società dei «vincitori» sono devastate dalla deriva guerresca:
sorvegliate, represse, militarizzate. Mai, dal tempo dei fascismi, la
democrazia occidentale è stata più di oggi in pericolo. Solo che, se le
cose stanno così, bisognerebbe trarne alcune conseguenze.
Perché continuare a parlare di «terrorismo», dimenticando che niente è
più terroristico di una guerra di aggressione? Perché continuare ad
agitare questa fantomatica «spirale guerra-terrorismo», accreditando la
menzogna americana di una risposta bellica al «terrorismo
internazionale»? E cosa vuol dire che «il terrorismo ristabilisce
tragicamente» lo schema dialettico cancellato dalla guerra asimmetrica
e concluderne che «la politica della non violenza deve rompere questo
schema»? Non sembra una sintesi coerente con le premesse. Parlare di
terrorismo a proposito di quanto avviene in Iraq significa – lo si
intenda o meno – far proprio un programma politico, proprio come ieri
parlare di banditi a proposito della lotta partigiana contro nazisti e
repubblichini. Gianni Vattimo ha ragione su questo punto. Se è vero che
– come anche La Valle riconosce – la «guerra degli sconfitti che non
vogliono continuare ad essere sconfitti» non può non far ricorso agli
strumenti della guerriglia, delle due l’una: o riconosciamo un diritto
alla sopraffazione agli Stati Uniti e ai loro alleati (tra cui con
infinita vergogna annoveriamo anche l’Italia, che fa giorno dopo giorno
strame della propria Costituzione), o riconosciamo il diritto dei
popoli invasi di resistere, rispondendo alla violenza nei modi in cui è
loro possibile.
Certo, l’uccisione di prigionieri ripugna alla coscienza civile (al
pari – bisogna pur dirlo – dei crimini di guerra commessi
quotidianamente dalle forze di occupazione). Ma una coscienza civile
non scantona dal fatto che la quantità è qualità e che decine di
migliaia di assassini provocati da una guerra decisa a tavolino sono un
crimine contro l’umanità (oltre che un lievito di inestinguibile
collera) incommensurabile con qualsiasi violazione delle Convenzioni di
Ginevra e dello jus publicum europaeum. È mai possibile che non ci si
accorga che associarsi al coro della «fermezza» contro il «vile
ricatto» dei rapimenti significa ripetere testualmente il commento di
Wolfowitz alla decisione di Zapatero di lasciare l’Iraq? È mai
possibile che Romano Prodi non capisca che se c’è qualcosa per cui non
si può, per nulla al mondo parlare di «unità nazionale», questo
qualcosa è proprio una guerra di occupazione?
È davvero incredibile la timidezza con cui a sinistra si commenta
quanto accade in Iraq. Ci si divide tra quanti denunciano la «barbarie»
dei rapimenti e quanti, con qualche imbarazzo, li giustificano. Tra
quanti parteggiano per la resistenza irachena e quanti non osano
pronunciarne il nome. Ma pochi levano la voce sul punto che dirime
l’intera questione. Lì noi occidentali non abbiamo alcun diritto di
stare. Invece ci stiamo, dopo avere continuato per quindici anni a
scaricare tonnellate di bombe e avere ucciso un milione di bambini con
un embargo criminale. Massacriamo, rapiniamo, devastiamo. Abbiamo le
mani e l’anima sozze di sangue innocente. E per giunta ci chiediamo
«perché ci odiano tanto». Ogni giorno in più di permanenza in Iraq
aggiunge nuove colpe inescusabili. Non c’è molto da aggiungere, il
discorso dovrebbe chiudersi qui, prima ancora di cominciare. Invece
molto ancora aggiungiamo: e che cosa, per distinguerci da Berlusconi?
Che la guerra è stata «sbagliata» (sbagliata!) ma che ora non sarebbe
opportuno «abbandonare gli iracheni a se stessi». Quanto razzismo c’è,
quanti pregiudizi tipici della cultura colonialista, in simili discorsi
– oltre che nella turpe celebrazione della «eroica morte italiana» di
Fabrizio Quattrocchi?
Concludo con una osservazione che riguarda quella parte (per fortuna
sempre meno vasta) dell’Ulivo che brilla per subalternità alla destra.
Le prese di posizione dei Prodi, dei D’Alema, dei Fassino, dei Rutelli
e di quanti come loro spaccano il capello in quattro pur di non dire un
no che dispiacerebbe all’America e all’elettorato italiano più
«moderato» destano serie preoccupazioni sul prossimo futuro di questo
paese. Non è bastato il Kosovo, come non sono bastati i disastri
accumulati negli ultimi quindici anni su tutti i terreni in cui la
sinistra ha rincorso la destra per mostrare a chi conta la propria
affidabilità. C’è da temere che la mancanza di coraggio al cospetto di
questa sporca guerra anglo-americana («una guerra sporca che fa strage
di innocenti», ha detto lo zio di uno dei civili italiani catturati in
Iraq) non sia frutto del caso, ma l’espressione dell’idea di
«modernità» che informa di sé la cultura dei gruppi dirigenti diessini
e post-democristiani. Una cultura figlia di un reaganismo appena
temperato nel segno di una sempre più improbabile «terza via» alla
Giddens.
Tutte le scelte strategiche compiute da questi gruppi dirigenti lo
testimoniano. Dalle riforme istituzionali (con il maggioritario, il
«federalismo», il presidenzialismo e lo sdoganamento delle manomissioni
della Costituzione operato alla Bicamerale) alla precarizzazione del
lavoro, dal welfare alle privatizzazioni, dalla scuola all’università,
non c’è terreno rimasto immune da questa pandemia. E non si intravedono
segni di ripensamento. Né sulla politica, né sulla guerra. Ancora un
anno fa, subito dopo l’occupazione dell’Iraq, l’on. D’Alema chiedeva a
tutta la sinistra di «appoggiare Blair», così come oggi l’Ulivo – per
bocca di Prodi – rivendica il Kosovo. Di questo bisogna discutere e con
urgenza, in vista delle imminenti scadenze elettorali. Per evitare che
– posti dinanzi all’alternativa tra l’originale e una sua copia – gli
italiani tornino a votare come nel 2001. E per evitare che l’Italia si
trovi di nuovo in una guerra decisa da un governo «progressista».
Piuttosto che di dibattere di violenza e non-violenza, si tratta di
riaprire la grande battaglia per il disarmo e la pace che riempì
Firenze in occasione del Social Forum Europeo nel novembre del 2002.
Mentre la resistenza irachena conquista nuove posizioni allontanando il
rischio di nuove aggressioni anglo-americane contro altri Stati
sovrani, è giunto il momento di rilanciare il movimento di lotta contro
la guerra imperialista.
ALBERTO BURGIO
La Rinascita 22.4.2004