( Sullo stesso argomento vedi anche:
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3541
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3521
http://www.salvaimonasteri.org/ )
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/28-Maggio-2004/art146.html
il manifesto - 28 Maggio 2004
Kosovo, il medioevo bruciato
Dal 1999 al 2004 sono state distrutte dall'ex Uck circa 140 chiese
serbo-ortodosse. Un comitato internazionale lancia l'appello: «Salvate
quel patrimonio della cultura europea»
ARIANNA DI GENOVA
La Madonna con il bambino «nutritore», che distribuisce una manna ai
fedeli, straordinaria icona del Duecento, amata, studiata, pregata,
simbolo di un grande patrimonio artistico, non esiste più. Al suo posto
c'è un buco nero fuliggine: ha preso fuoco insieme alla chiesa che la
ospita, Bogorodica Ljeviska di Prizren, ed è stata volutamente
scalpellata e mutilata nelle sue parti inferiori. L'immagine, proposta
sul sito www.salvaimonasteri.org, con un inquietante paragone - com'era
prima e come si presenta adesso - fa sussultare chiunque si fermi a
guardarla. Non c'è bisogno di essere storici dell'arte per lanciare
l'allarme e gridare all'orrore. Da ieri, sono a Roma due monaci
ortodossi venuti dal Kosovo, per testimoniare con le loro parole le
distruzioni dei monasteri cominciate nel 1999, dopo l'intervento della
Nato e riprese con estrema violenza nel marzo 2004: almeno trenta sono
gli edifici sacri devastati dall'ex Uck (la formazione armata kosovaro
albanese formalmente disciolta, la cui sigla campeggia sinistramente
sulle rovine dei monasteri), durante la recrudescenza degli scontri,
con conseguente epurazione etnica (di serbi e rom), morti e centinaia
di feriti, mentre a Belgrado finiva in fiamme, in risposta all'attacco,
la principale moschea della città.
In questi quattro anni, sono andate letteralmente in fumo - vi è stato
appiccato il fuoco o sono state fatte saltare in aria con esplosivi -
140 chiese, con tutto il loro corredo di oggetti liturgici e i loro
cicli di affreschi, considerati tra i documenti più importanti della
cultura bizantina. La violenza contro i luoghi sacri è diretta non ad
una appartenenza religiosa ma a una identità, alla memoria di un Kosovo
culla della civiltà serba, che ospita, insieme a Costantinopoli e
Salonicco, le maggiori testimonianze, architettoniche e figurative
dell'arte bizantina.
È così che un comitato, dal significativo nome «Salva i monasteri», ha
invitato Sava Janijc e Andrej Sajc, giunti dal monastero di Decani, a
raccontare la distruzione sistematica della storia messa in atto sotto
gli occhi di 20mila soldati dell'Onu. Alla base c'è l'appello lanciato
da Massimo Cacciari: «Il Kosovo ospita opere d'arte di straordinaria
importanza per la vicenda europea. La distruzione di un edificio, di
quegli affreschi equivale al massacro di San Marco e sant'Apollinare a
Ravenna. È la stessa area paleocristiana influenzata da Bisanzio... Per
noi, i cicli pittorici serbo-ortodossi sono diecimila volte più
significativi dei Buddha di Bamiyan». Poi l'intenzione è cresciuta e il
documento si è trasformato in un'iniziativa spontanea ed è stato
firmato da centinaia di personalità della cultura (fra questi, gli
storici dell'arte Valentino Pace e John Lindsay Opie) e della politica.
Esiste anche un'interrogazione dei Verdi sottoposta al ministero degli
esteri e della difesa italiana, condivisa oggi da più parlamentari di
diversi schieramenti. L'appello, cui partecipano anche l'Istituto
centrale per il restauro e l'Ong Intersos, già da tempo attivi sul
territorio, è rivolto alla comunità internazionale affinché cerchi di
salvare quanto più possibile. L'Unesco ha visitato i siti devastati in
aprile e sta preparando una relazione mentre il ministero per i beni
culturali cominceranno i primi lavori a Decani a metà giugno.
Attualmente, le truppe italiane in missione in Kosovo (Kfor) presidiano
e tutelano i tre maggiori monumenti: il complesso di Pec, Gracanica e
Decani. Ma, come spiega lo storico John Lindsay Opie, «tre siti, pur
eccezionali, non sono tutto. È come se venisse salvato solo San Marco a
Venezia e qualche basilica ravennate, lasciando tutto il resto andare
alla deriva. Ci sono chiese di cui non è rimasta neanche una pietra,
che non si potranno restaurare mai più, sono sparite». Non solo
cattedrali ma anche teatri, biblioteche, cinema, cioè edifici di culto
e più propriamente culturali, sono andati in rovina. È un patrimonio
dell'umanità intera che rischia di estinguersi, un tesoro dell'arte
medievale europea che va dal XII al XV secolo.
A Prizren, in marzo, dopo varie profanazioni, è stato appiccato il
fuoco alle chiese di Bogorodica Ljeviska - il cui nartece conserva
l'importante galleria dei ritratti dei Nemanja dell'inizio del
Trecento- e di st. Georgy. La cattedrale della Madonna Ljeviska, con i
suoi affreschi di valore inestimabile, era stata lasciata sguarnita di
protezione dal presidio tedesco. Valentino Pace, docente di arte
medievale all'università di Udine, ha commentato così la notizia del
danneggiamento del ciclo figurativo: «Questi affreschi sono un
capolavoro assoluto. Si potrebbe dire che hanno la stessa rilevanza
della Cappella degli Scrovegni a Padova. I ritratti della dinastia
regnante serba, i Nemanja, risalgono al XIV secolo: vi sono
rappresentati il fondatore della dinastia, Simeone, divenuto monaco sul
monte Athos e altri esponenti della sua famiglia, vescovi e re. L'altro
affresco importantissimo è la Madonna col bambino cosiddetto
«nutritore» (oggi un testo pittorico divenuto illegibile, secondo
quanto pubblicato sul sito di «Salva i monasteri», ndr.). Il soffitto
ligneo che li sovrastava è bruciato provocando danni ingenti al
patrimonio sottostante: sembra essersi miracolosamente «conservata»,
interamente, la figura centrale di re Simeone.
Tra gli altri luoghi, Devic (secolo XIV) è in rovina, il monastero di
Sant'Arcangeli è stato attaccato e distrutto, gli alloggi devastati, i
suoi «abitanti» dormono ancora sotto le tende e si sta pensando a come
ovviare al rigido inverno kosovaro.
Il monaco serbo-ortodosso Sava Janijc, nella conferenza romana, ha
tenuto a sottolineare con forza che «gli attacchi sono sistematici,
fanno parte di un progetto di cancellazione di una cultura. Non stiamo
parlando di una distruzione avvenuta in guerra ma di qualcosa che viene
perpetrato `dopo', contro i monumenti della cristianità e nonostante le
truppe della Nato e le Nazioni unite. Quella che va perduta è la
coscienza di una civiltà, la sua memoria. È necessaria allora una
mobilitazione internazionale ma tutto dipende dalla stabilità e
sicurezza che si potrà dare in seguito al Kosovo. È inutile ricostruire
o restaurare un patrimonio se poi questo viene ridotto in macerie nel
giro di qualche mese». E soprattutto senza i serbi cacciati dal
territorio kosovaro.
---
http://www.salvaimonasteri.org/stampa_10.htm
Kosovo e Metohija 1998-2000.
Rapporto preliminare sulla situazione del patrimonio culturale.
(il presente contributo, è desunto dall’introduzione del volume, di
Fabio Maniscalco, “Kosovo e Metohija 1998-2000. Rapporto preliminare
sulla situazione del patrimonio culturale”, Napoli 2000, Massa Editore)
A circa un anno dalla fine della crisi in Kosovo, la situazione
culturale, sociale e politica si rivela particolarmente complessa.
In questa piccola regione della Repubblica Federale Jugoslava sono
presenti vari gruppi “etnici” e religiosi, tutti separati e non
integrati fra loro, distinti in kosovaro-albanesi di religione
musulmana (la maggioranza degli abitanti, che si considerano i soli
futuri gestori della vita socio-politica); kosovaro-albanesi di
religione cattolica (assoluta minoranza); kosovaro-serbi di religione
ortodossa (parte esigua della popolazione, costretta in ambiti
ristretti ed isolati, protetti dai contingenti della forza
multinazionale di pace); slavik-gorans musulmani nell’area di Daragash;
bosniaci nell’area di Jupa Region nella municipalità di Prizren; rom
gypsy (di religione musulmana o cristiana).
Numerosi sono i rifugiati all’estero o in Serbia, che attendono le
condizioni possibili per il rientro in patria.
In ogni caso, non esistono dati di consistenza certi sulla popolazione
attualmente residente né su quella profuga.
Della originaria economia agricolo-pastorale sopravanzano tracce nel
paesaggio verde, fertile e pianeggiante, dove si elevano alberi di
pioppo, querce e numerosi noci di dimensioni maestose.
Ad eccezione dell’agricoltura, che non sembra razionalmente
organizzata, non risulta in atto alcuna attività produttiva, ma solo
una diffusa occupazione di piccolo commercio connesso alle molteplici
opere di ricostruzione.
Attualmente la presenza della forza di pace KFOR (Kosovo Forces) e
degli amministratori OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico) e UNMIK (United Nation Mission in Kosovo), oltre a
garantire la sopravvivenza delle minoranze, la certezza degli stipendi
statali e la dotazione dei servizi di base, costituisce, col suo
effetto indotto, la maggiore entrata economica del Paese.
A prima vista alcune città, Prizren, Peja o Priština, si presentano
piene di vita, soprattutto nelle copiose caffetterie all’aperto in cui
una moltitudine di giovani sorridenti ravviva l’ambiente.
Tuttavia, soffermandosi in dettaglio, sono ancora numerose le case
demolite, i souk-bazar incendiati, i caratteristici kulla
(case-fortezza in pietra tipiche del luogo) distrutti, le centrali
elettriche di distribuzione gas e carburanti cannoneggiate, le stazioni
ferroviarie danneggiate.
Quasi tutte le chiese serbo-ortodosse rimaste integre nelle murature,
dopo essere state date alle fiamme da estremisti dell'UCK, sono al
momento transennate e presidiate dalle forze della NATO.
La popolazione cristiano-ortodossa di fatto non esiste più e la poca
residua è costretta in immobili o in villaggi isolati, presidiati e
protetti dalla KFOR., in condizione di soggiorno coatto e senza alcuna
possibilità di contatto con l’esterno.
Frequenti lungo le strade s’incontrano i cimiteri di guerra e svariate
sono ancora le aree minate o ricoperte da ordigni inesplosi.
I toponimi serbi sono stati sostituiti con quelli kosovaro-albanesi;
così, ad esempio, Pec è stata rinominata Peja.
Gli edifici di culto ed i simboli architettonici storici caratteristici
delle due culture e religioni principali sono stati distrutti.
La pubblica amministrazione è ora affidata all’organizzazione
internazionale UNMIK che sta tentando di organizzarsi, unitamente ad
esponenti locali, in vari settori amministrativi e gestionali. Nel
frattempo provvede al solo pagamento dello stipendio base degli
impiegati statali, che lamentano di essere sottopagati, insoddisfatti,
demotivati ed annichiliti dal conflitto bellico, che è stato d’inaudita
violenza, e si mostrano confusi, impotenti, impauriti, frustrati, ma
dignitosamente desiderosi di riprendere le loro originali funzioni
sociali.
Scaltri ex dirigenti hanno preso il sopravvento e in alcuni casi la
loro personalità sovente arriva ad influenzare addirittura l’azione
dell’UNMIK.
Numerosissime ONG (Organizzazioni non Governative) operano nel
territorio e non appare come le loro singole attività risultino svolte
secondo un piano strategico d’intervento coordinato. Al contrario, si è
assistito come, rispetto ad una stessa iniziativa, più ONG abbiano
elaborato proposte e promesse parallele, creando situazioni di profonda
confusione nelle autorità municipali locali.
Alcuni progetti sottoposti a chi scrive si sono dimostrati incompleti e
privi di un qualsiasi approccio metodologico e scientifico, rivelando
la carente sensibilità e preparazione culturale nel campo dell’arte e
del restauro monumentale di alcuni "responsabili culturali" di ONG.
Non esistono forze dell'ordine locali, ma solo Polizia delle Nazioni
Unite.
La maggioranza degli autoveicoli circola liberamente senza targhe,
anche perché di provenienza illecita, ed il tentativo dell'UNMIK di
creare una sorta di registro automobilistico è fallito. Difatti, le
targhe che venivano consegnate agli utenti previo il pagamento di una
tassa, non autorizzavano gli stessi a spostarsi oltre i confini del
Kosovo stesso.
La manutenzione delle strade è inesistente, come la segnaletica
stradale.
In tale drammatico e complesso contesto è evidente come la salvaguardia
e la tutela dei beni culturali non venga presa in considerazione.
All'interno della recente crisi in Kosovo è possibile focalizzare
quattro fasi distinte, a seguito delle quali il patrimonio culturale
immobile è stato distrutto o danneggiato:
a. inizio del conflitto civile tra Serbi e Kosovaro-Albanesi;
b. bombardamenti della NATO in tutta la Repubblica Federale Jugoslava;
c. rientro dei profughi kosovaro-albanesi;
d. ricostruzione post bellica.
Durante la prima fase (tra la fine del 1998 e gli inizi del 1999), che
ha avuto carattere di conflitto interno, non si sono riscontrati
danneggiamenti di particolare entità a monumenti né ad edifici
culturali e cultuali.
La reale distruzione monumentale, invece, ha avuto inizio a seguito
dell'opinabile intervento bellico della NATO (tra marzo e giugno 1999).
La comunità politica internazionale, infatti, non ha preso in
considerazione l'eventualità che le truppe serbe potessero
avvantaggiarsi del disordine e del caos prodotti dai bombardamenti
(talvolta imprecisi) per accelerare il processo di "epurazione etnica"
e per strumentalizzare la risoluzione della NATO.
In questo periodo l'esercito regolare e, soprattutto, la polizia ed i
diversi corpi paramilitari serbi, oltre a deportare ed a massacrare la
popolazione kosovaro-albanese, con sistemi analoghi a quelli impiegati
in Bosnia tra il 1992 ed il 1995 (come gli stupri di massa), hanno
saccheggiato e devastato proprietà private e pubbliche del “nemico”,
quali moschee o madrase.
Inoltre, non pochi danni sono stati inferti dai missili della NATO alla
popolazione civile ed ai monumenti.
Dopo il rientro della popolazione kosovaro-albanese, favorito dallo
schieramento a terra delle truppe KFOR, e la fuga di quella serba, è
iniziata una nuova ed infausta fase di distruzione monumentale
incentrata, però, sui monumenti serbo-ortodossi.
A partire dal luglio 1999 gruppi di facinorosi hanno iniziato ad
appiccare incendi o a demolire con esplosivi molte chiese dalle quali,
come hanno evidenziato le indagini dello scrivente, venivano prima
sottratte le icone e gli oggetti facilmente asportabili.
Recenti ed irrimediabili violazioni al patrimonio monumentale kosovaro
sono talvolta imputabili, invece, all'attuale fase di ricostruzione
post bellica, e anche alla messa in atto di tecniche e metodologie
errate e prive di logica; è questo, ad esempio, il caso della Moschea
dell’Hammam di Peja o della Moschea di Gazi Ali Bey a Vucitrn.
Inoltre, il conflitto in Kosovo ha comportato il deterioramento e la
corruzione della quasi totalità della cultura locale mediante la
distruzione fisica di edifici cultuali e culturali (biblioteche,
teatri, cinema etc.); la traduzione forzata a Belgrado di buona parte
del patrimonio storico-artistico mobile dai musei, ad opera delle forze
serbe in ritirata; l’assoluta mancanza di mezzi destinati agli
operatori culturali ed il conflitto etnico fra le possibili entità
sociali, che rende di fatto impossibile tra loro il dialogo e la
coesistenza e che, senza interventi mirati, comporterà la scomparsa
totale del patrimonio culturale serbo.
Fabio Maniscalco (docente di “Tutela dei Beni Culturali” presso la
Facoltà di Studi Arabo-Islamici e del Mediterraneo dell’Università
L’Orientale e direttore dell’Osservatorio per la Protezione dei Beni
Culturali in Area di Crisi)
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3541
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3521
http://www.salvaimonasteri.org/ )
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/28-Maggio-2004/art146.html
il manifesto - 28 Maggio 2004
Kosovo, il medioevo bruciato
Dal 1999 al 2004 sono state distrutte dall'ex Uck circa 140 chiese
serbo-ortodosse. Un comitato internazionale lancia l'appello: «Salvate
quel patrimonio della cultura europea»
ARIANNA DI GENOVA
La Madonna con il bambino «nutritore», che distribuisce una manna ai
fedeli, straordinaria icona del Duecento, amata, studiata, pregata,
simbolo di un grande patrimonio artistico, non esiste più. Al suo posto
c'è un buco nero fuliggine: ha preso fuoco insieme alla chiesa che la
ospita, Bogorodica Ljeviska di Prizren, ed è stata volutamente
scalpellata e mutilata nelle sue parti inferiori. L'immagine, proposta
sul sito www.salvaimonasteri.org, con un inquietante paragone - com'era
prima e come si presenta adesso - fa sussultare chiunque si fermi a
guardarla. Non c'è bisogno di essere storici dell'arte per lanciare
l'allarme e gridare all'orrore. Da ieri, sono a Roma due monaci
ortodossi venuti dal Kosovo, per testimoniare con le loro parole le
distruzioni dei monasteri cominciate nel 1999, dopo l'intervento della
Nato e riprese con estrema violenza nel marzo 2004: almeno trenta sono
gli edifici sacri devastati dall'ex Uck (la formazione armata kosovaro
albanese formalmente disciolta, la cui sigla campeggia sinistramente
sulle rovine dei monasteri), durante la recrudescenza degli scontri,
con conseguente epurazione etnica (di serbi e rom), morti e centinaia
di feriti, mentre a Belgrado finiva in fiamme, in risposta all'attacco,
la principale moschea della città.
In questi quattro anni, sono andate letteralmente in fumo - vi è stato
appiccato il fuoco o sono state fatte saltare in aria con esplosivi -
140 chiese, con tutto il loro corredo di oggetti liturgici e i loro
cicli di affreschi, considerati tra i documenti più importanti della
cultura bizantina. La violenza contro i luoghi sacri è diretta non ad
una appartenenza religiosa ma a una identità, alla memoria di un Kosovo
culla della civiltà serba, che ospita, insieme a Costantinopoli e
Salonicco, le maggiori testimonianze, architettoniche e figurative
dell'arte bizantina.
È così che un comitato, dal significativo nome «Salva i monasteri», ha
invitato Sava Janijc e Andrej Sajc, giunti dal monastero di Decani, a
raccontare la distruzione sistematica della storia messa in atto sotto
gli occhi di 20mila soldati dell'Onu. Alla base c'è l'appello lanciato
da Massimo Cacciari: «Il Kosovo ospita opere d'arte di straordinaria
importanza per la vicenda europea. La distruzione di un edificio, di
quegli affreschi equivale al massacro di San Marco e sant'Apollinare a
Ravenna. È la stessa area paleocristiana influenzata da Bisanzio... Per
noi, i cicli pittorici serbo-ortodossi sono diecimila volte più
significativi dei Buddha di Bamiyan». Poi l'intenzione è cresciuta e il
documento si è trasformato in un'iniziativa spontanea ed è stato
firmato da centinaia di personalità della cultura (fra questi, gli
storici dell'arte Valentino Pace e John Lindsay Opie) e della politica.
Esiste anche un'interrogazione dei Verdi sottoposta al ministero degli
esteri e della difesa italiana, condivisa oggi da più parlamentari di
diversi schieramenti. L'appello, cui partecipano anche l'Istituto
centrale per il restauro e l'Ong Intersos, già da tempo attivi sul
territorio, è rivolto alla comunità internazionale affinché cerchi di
salvare quanto più possibile. L'Unesco ha visitato i siti devastati in
aprile e sta preparando una relazione mentre il ministero per i beni
culturali cominceranno i primi lavori a Decani a metà giugno.
Attualmente, le truppe italiane in missione in Kosovo (Kfor) presidiano
e tutelano i tre maggiori monumenti: il complesso di Pec, Gracanica e
Decani. Ma, come spiega lo storico John Lindsay Opie, «tre siti, pur
eccezionali, non sono tutto. È come se venisse salvato solo San Marco a
Venezia e qualche basilica ravennate, lasciando tutto il resto andare
alla deriva. Ci sono chiese di cui non è rimasta neanche una pietra,
che non si potranno restaurare mai più, sono sparite». Non solo
cattedrali ma anche teatri, biblioteche, cinema, cioè edifici di culto
e più propriamente culturali, sono andati in rovina. È un patrimonio
dell'umanità intera che rischia di estinguersi, un tesoro dell'arte
medievale europea che va dal XII al XV secolo.
A Prizren, in marzo, dopo varie profanazioni, è stato appiccato il
fuoco alle chiese di Bogorodica Ljeviska - il cui nartece conserva
l'importante galleria dei ritratti dei Nemanja dell'inizio del
Trecento- e di st. Georgy. La cattedrale della Madonna Ljeviska, con i
suoi affreschi di valore inestimabile, era stata lasciata sguarnita di
protezione dal presidio tedesco. Valentino Pace, docente di arte
medievale all'università di Udine, ha commentato così la notizia del
danneggiamento del ciclo figurativo: «Questi affreschi sono un
capolavoro assoluto. Si potrebbe dire che hanno la stessa rilevanza
della Cappella degli Scrovegni a Padova. I ritratti della dinastia
regnante serba, i Nemanja, risalgono al XIV secolo: vi sono
rappresentati il fondatore della dinastia, Simeone, divenuto monaco sul
monte Athos e altri esponenti della sua famiglia, vescovi e re. L'altro
affresco importantissimo è la Madonna col bambino cosiddetto
«nutritore» (oggi un testo pittorico divenuto illegibile, secondo
quanto pubblicato sul sito di «Salva i monasteri», ndr.). Il soffitto
ligneo che li sovrastava è bruciato provocando danni ingenti al
patrimonio sottostante: sembra essersi miracolosamente «conservata»,
interamente, la figura centrale di re Simeone.
Tra gli altri luoghi, Devic (secolo XIV) è in rovina, il monastero di
Sant'Arcangeli è stato attaccato e distrutto, gli alloggi devastati, i
suoi «abitanti» dormono ancora sotto le tende e si sta pensando a come
ovviare al rigido inverno kosovaro.
Il monaco serbo-ortodosso Sava Janijc, nella conferenza romana, ha
tenuto a sottolineare con forza che «gli attacchi sono sistematici,
fanno parte di un progetto di cancellazione di una cultura. Non stiamo
parlando di una distruzione avvenuta in guerra ma di qualcosa che viene
perpetrato `dopo', contro i monumenti della cristianità e nonostante le
truppe della Nato e le Nazioni unite. Quella che va perduta è la
coscienza di una civiltà, la sua memoria. È necessaria allora una
mobilitazione internazionale ma tutto dipende dalla stabilità e
sicurezza che si potrà dare in seguito al Kosovo. È inutile ricostruire
o restaurare un patrimonio se poi questo viene ridotto in macerie nel
giro di qualche mese». E soprattutto senza i serbi cacciati dal
territorio kosovaro.
---
http://www.salvaimonasteri.org/stampa_10.htm
Kosovo e Metohija 1998-2000.
Rapporto preliminare sulla situazione del patrimonio culturale.
(il presente contributo, è desunto dall’introduzione del volume, di
Fabio Maniscalco, “Kosovo e Metohija 1998-2000. Rapporto preliminare
sulla situazione del patrimonio culturale”, Napoli 2000, Massa Editore)
A circa un anno dalla fine della crisi in Kosovo, la situazione
culturale, sociale e politica si rivela particolarmente complessa.
In questa piccola regione della Repubblica Federale Jugoslava sono
presenti vari gruppi “etnici” e religiosi, tutti separati e non
integrati fra loro, distinti in kosovaro-albanesi di religione
musulmana (la maggioranza degli abitanti, che si considerano i soli
futuri gestori della vita socio-politica); kosovaro-albanesi di
religione cattolica (assoluta minoranza); kosovaro-serbi di religione
ortodossa (parte esigua della popolazione, costretta in ambiti
ristretti ed isolati, protetti dai contingenti della forza
multinazionale di pace); slavik-gorans musulmani nell’area di Daragash;
bosniaci nell’area di Jupa Region nella municipalità di Prizren; rom
gypsy (di religione musulmana o cristiana).
Numerosi sono i rifugiati all’estero o in Serbia, che attendono le
condizioni possibili per il rientro in patria.
In ogni caso, non esistono dati di consistenza certi sulla popolazione
attualmente residente né su quella profuga.
Della originaria economia agricolo-pastorale sopravanzano tracce nel
paesaggio verde, fertile e pianeggiante, dove si elevano alberi di
pioppo, querce e numerosi noci di dimensioni maestose.
Ad eccezione dell’agricoltura, che non sembra razionalmente
organizzata, non risulta in atto alcuna attività produttiva, ma solo
una diffusa occupazione di piccolo commercio connesso alle molteplici
opere di ricostruzione.
Attualmente la presenza della forza di pace KFOR (Kosovo Forces) e
degli amministratori OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico) e UNMIK (United Nation Mission in Kosovo), oltre a
garantire la sopravvivenza delle minoranze, la certezza degli stipendi
statali e la dotazione dei servizi di base, costituisce, col suo
effetto indotto, la maggiore entrata economica del Paese.
A prima vista alcune città, Prizren, Peja o Priština, si presentano
piene di vita, soprattutto nelle copiose caffetterie all’aperto in cui
una moltitudine di giovani sorridenti ravviva l’ambiente.
Tuttavia, soffermandosi in dettaglio, sono ancora numerose le case
demolite, i souk-bazar incendiati, i caratteristici kulla
(case-fortezza in pietra tipiche del luogo) distrutti, le centrali
elettriche di distribuzione gas e carburanti cannoneggiate, le stazioni
ferroviarie danneggiate.
Quasi tutte le chiese serbo-ortodosse rimaste integre nelle murature,
dopo essere state date alle fiamme da estremisti dell'UCK, sono al
momento transennate e presidiate dalle forze della NATO.
La popolazione cristiano-ortodossa di fatto non esiste più e la poca
residua è costretta in immobili o in villaggi isolati, presidiati e
protetti dalla KFOR., in condizione di soggiorno coatto e senza alcuna
possibilità di contatto con l’esterno.
Frequenti lungo le strade s’incontrano i cimiteri di guerra e svariate
sono ancora le aree minate o ricoperte da ordigni inesplosi.
I toponimi serbi sono stati sostituiti con quelli kosovaro-albanesi;
così, ad esempio, Pec è stata rinominata Peja.
Gli edifici di culto ed i simboli architettonici storici caratteristici
delle due culture e religioni principali sono stati distrutti.
La pubblica amministrazione è ora affidata all’organizzazione
internazionale UNMIK che sta tentando di organizzarsi, unitamente ad
esponenti locali, in vari settori amministrativi e gestionali. Nel
frattempo provvede al solo pagamento dello stipendio base degli
impiegati statali, che lamentano di essere sottopagati, insoddisfatti,
demotivati ed annichiliti dal conflitto bellico, che è stato d’inaudita
violenza, e si mostrano confusi, impotenti, impauriti, frustrati, ma
dignitosamente desiderosi di riprendere le loro originali funzioni
sociali.
Scaltri ex dirigenti hanno preso il sopravvento e in alcuni casi la
loro personalità sovente arriva ad influenzare addirittura l’azione
dell’UNMIK.
Numerosissime ONG (Organizzazioni non Governative) operano nel
territorio e non appare come le loro singole attività risultino svolte
secondo un piano strategico d’intervento coordinato. Al contrario, si è
assistito come, rispetto ad una stessa iniziativa, più ONG abbiano
elaborato proposte e promesse parallele, creando situazioni di profonda
confusione nelle autorità municipali locali.
Alcuni progetti sottoposti a chi scrive si sono dimostrati incompleti e
privi di un qualsiasi approccio metodologico e scientifico, rivelando
la carente sensibilità e preparazione culturale nel campo dell’arte e
del restauro monumentale di alcuni "responsabili culturali" di ONG.
Non esistono forze dell'ordine locali, ma solo Polizia delle Nazioni
Unite.
La maggioranza degli autoveicoli circola liberamente senza targhe,
anche perché di provenienza illecita, ed il tentativo dell'UNMIK di
creare una sorta di registro automobilistico è fallito. Difatti, le
targhe che venivano consegnate agli utenti previo il pagamento di una
tassa, non autorizzavano gli stessi a spostarsi oltre i confini del
Kosovo stesso.
La manutenzione delle strade è inesistente, come la segnaletica
stradale.
In tale drammatico e complesso contesto è evidente come la salvaguardia
e la tutela dei beni culturali non venga presa in considerazione.
All'interno della recente crisi in Kosovo è possibile focalizzare
quattro fasi distinte, a seguito delle quali il patrimonio culturale
immobile è stato distrutto o danneggiato:
a. inizio del conflitto civile tra Serbi e Kosovaro-Albanesi;
b. bombardamenti della NATO in tutta la Repubblica Federale Jugoslava;
c. rientro dei profughi kosovaro-albanesi;
d. ricostruzione post bellica.
Durante la prima fase (tra la fine del 1998 e gli inizi del 1999), che
ha avuto carattere di conflitto interno, non si sono riscontrati
danneggiamenti di particolare entità a monumenti né ad edifici
culturali e cultuali.
La reale distruzione monumentale, invece, ha avuto inizio a seguito
dell'opinabile intervento bellico della NATO (tra marzo e giugno 1999).
La comunità politica internazionale, infatti, non ha preso in
considerazione l'eventualità che le truppe serbe potessero
avvantaggiarsi del disordine e del caos prodotti dai bombardamenti
(talvolta imprecisi) per accelerare il processo di "epurazione etnica"
e per strumentalizzare la risoluzione della NATO.
In questo periodo l'esercito regolare e, soprattutto, la polizia ed i
diversi corpi paramilitari serbi, oltre a deportare ed a massacrare la
popolazione kosovaro-albanese, con sistemi analoghi a quelli impiegati
in Bosnia tra il 1992 ed il 1995 (come gli stupri di massa), hanno
saccheggiato e devastato proprietà private e pubbliche del “nemico”,
quali moschee o madrase.
Inoltre, non pochi danni sono stati inferti dai missili della NATO alla
popolazione civile ed ai monumenti.
Dopo il rientro della popolazione kosovaro-albanese, favorito dallo
schieramento a terra delle truppe KFOR, e la fuga di quella serba, è
iniziata una nuova ed infausta fase di distruzione monumentale
incentrata, però, sui monumenti serbo-ortodossi.
A partire dal luglio 1999 gruppi di facinorosi hanno iniziato ad
appiccare incendi o a demolire con esplosivi molte chiese dalle quali,
come hanno evidenziato le indagini dello scrivente, venivano prima
sottratte le icone e gli oggetti facilmente asportabili.
Recenti ed irrimediabili violazioni al patrimonio monumentale kosovaro
sono talvolta imputabili, invece, all'attuale fase di ricostruzione
post bellica, e anche alla messa in atto di tecniche e metodologie
errate e prive di logica; è questo, ad esempio, il caso della Moschea
dell’Hammam di Peja o della Moschea di Gazi Ali Bey a Vucitrn.
Inoltre, il conflitto in Kosovo ha comportato il deterioramento e la
corruzione della quasi totalità della cultura locale mediante la
distruzione fisica di edifici cultuali e culturali (biblioteche,
teatri, cinema etc.); la traduzione forzata a Belgrado di buona parte
del patrimonio storico-artistico mobile dai musei, ad opera delle forze
serbe in ritirata; l’assoluta mancanza di mezzi destinati agli
operatori culturali ed il conflitto etnico fra le possibili entità
sociali, che rende di fatto impossibile tra loro il dialogo e la
coesistenza e che, senza interventi mirati, comporterà la scomparsa
totale del patrimonio culturale serbo.
Fabio Maniscalco (docente di “Tutela dei Beni Culturali” presso la
Facoltà di Studi Arabo-Islamici e del Mediterraneo dell’Università
L’Orientale e direttore dell’Osservatorio per la Protezione dei Beni
Culturali in Area di Crisi)