(questa intervista comparirà sul prossimo numero di Contropiano -
http://www.contropiano.org/ )
A Parigi il congresso di "Actuel Marx"
L’autismo del marxismo europeo
Intervista con Luciano Vasapollo
A cavallo tra settembre e ottobre, a Parigi si è svolto il congresso
"Marx Internazionale IV" promosso da "Actuel Marx". Intorno a questa
prestigiosa rivista marxista francese, in questi anni si è ritrovato il
dibattito e l’elaborazione marxista europea. Il pregio di aver tenuto
duro negli anni della caccia alle streghe culturale scatenatasi negli
anni Novanta, non ha impedito che l’elaborazione marxista in Europa sia
via via ricaduta in quel difetto ben individuato trenta anni fa da
Perry Anderson ne "Il dibattito nel marxismo occidentale". Anderson,
contestava ai marxisti europei di essersi ritirati dal rapporto con il
conflitto di classe ed i movimenti reali e di essersi rifugiati sugli
aspetti sovrastrutturali ed accademici. La definizione di
"Katedhersocialisten" (socialisti da cattedra) è qualcosa di meno di un
anatema e qualcosa di più di una critica. Luciano Vasapollo, studioso
marxista italiano, autore di numerosi testi tradotti ormai in varie
lingue, insieme ad altri
marxisti europei, statunitensi e latinoamericani, ha contribuito a
riaprire negli ultimi anni un dibattito su questioni decisive come la
teoria marxista del valore, l’imperialismo, la centralità del conflitto
tra capitale e lavoro. Vasapollo ha partecipato al congresso marxista
di Parigi ed è stato relatore in alcuni workshop ed in una delle
plenarie finali. In più occasioni è entrato in conflitto con le altre
"scuole" del marxismo occidentale. Gli abbiamo chiesto di spiegarci
come è andata la discussione.
D: Quale era l’agenda della discussione del Congresso marxista di
Parigi? C’è stato un confronto tra le varie "tendenze"?
Il tema dell’incontro era "Guerra imperiale, guerra sociale" ed era
suddiviso in dodici sessioni scientifiche, tra cui economia, diritto,
ecologia, genere, storia, filosofia, socialismo. Il confronto in verità
è avvenuto un po’ a compartimenti stagni tra le varie tendenze ed ha
privilegiato un carattere un po’ accademico della discussione.
D: Ma quali sono, per grandi linee, le tendenze marxiste attuali?
Una prima possiamo definirla come accademica nel senso stretto della
parola e che non si pone il problema di una dialettica con i movimenti
reali ma solo quello di una ipotizzata "originalità culturale". Ci sono
poi altre due tendenze che si esprimono con un linguaggio più radicale,
mi riferisco a coloro che condividono l’elaborazione di Toni Negri e
agli studiosi più vicini alla IV Internazionale. Usano un linguaggio
radicale ma sotto molti aspetti convergono con la prima per la distanza
con cui si misurano dai movimenti sociali reali. Esiste poi una quarta-
nella quale mi trovo collocato - che potremmo definire di "studiosi
militanti" che hanno un rapporto più stretto con i movimenti sociali,
sindacali etc. e che si è consolidata soprattutto in America Latina.
D: Dopo gli anni del silenzio e della resistenza culturale - gli anni
Novanta - a che punto è secondo te il dibattito e l’elaborazione
marxista in Europa?
Girando un po’ per vari incontri a livello internazionale, devo
ammettere che la nostra posizione - fino a qualche anno fa piuttosto
ostracizzata a livello culturale ed a livello politico - oggi sta
trovando maggiori occasioni di confronto. In questi anni si è riaperto
un dibattito ampio ed anche aspro sulla attualità della teoria del
valore di Marx. Il dibattito è scaturito all’inizio dentro l’ambito
marxista in cui emergevano posizioni che potremmo definire "sraffiane"
che affermano di voler mantenere una visione marxista ma nei fatti
l’hanno svuotata dai suoi contenuti con argomentazioni che non hanno
retto sul piano scientifico. In alcuni casi queste posizioni sono
approdate al keynesismo - anche se con un linguaggio più radicale. Gli
stessi keynesiani sono divisi tra keynesiani "di sinistra" e
"neokeynesiani"con posizioni diversificate. Ci sono poi alcuni che sono
approdati a quello che chiamano postmarxismo e che ormai sostengono
apertamente la fuoriuscita dal marxismo salvandone solo alcuni scritti
giovanili come i "Gundrisse". Due anni fa organizzammo a tale scopo un
convegno internazionale all’Università di Roma, che ha presentato una
elaborazione collettiva mia, di Carchedi, Freeman, Kliman e Giussani,
la quale ha riaffermato la validità dell’intero impianto scientifico
marxiano sul valore sottolineando come la trasformazione del valore in
prezzi fosse un falso problema. Per tre giorni c’è stato un confronto
ricco ma anche aspro tra posizioni diverse anche divergenti dalla
nostra (Mongiovi, Foley, Screpanti ed altri). Ma il vero nodo di
divergenza resta a mio avviso la dialettica tra l’elaborazione teorica
e il movimento reale.
D: A questo congresso marxista di Parigi si notavano assenze
significative?
Per paradosso c’era una sottostima di presenze dalle aree più al centro
del conflitto di classe e di impetuosi processi di cambiamento come
l’America Latina, l’Asia, l’Europa dell’Est o ad esempio la Germania.
Pochissimi anche gli studiosi della Grecia. Il rischio
dell’eurocentrismo si è corso abbastanza chiaramente.
D: Come mai il nesso tra teoria e prassi, cioè tra elaborazione
marxista e realtà del conflitto di classe, si è così "allentato" in
Europa?
Occorre tenere conto che i grandi partiti comunisti sono scomparsi in
Spagna, Italia e Francia. In quest’ultima il PCF sta virando verso la
socialdemocrazia piuttosto nettamente anche se incontra forti
resistenze all’interno. In Spagna l’esperienza di Izquierda Unida è in
forte crisi e in Italia abbiamo due partiti comunisti pari a un quarto
del peso politico ed elettorale del vecchio PCI. Ma in Italia la virata
di Bertinotti, quella che alcuni definiscono una nuova Bolognina,
possiamo dire che è stata innescata e si è inserita proprio su questo
indebolimento del carattere rivoluzionario dell’elaborazione del
marxismo in Europa. Non è solo il problema dell’eclettismo ma è ad
esempio la rinuncia a mettere in discussione i rapporti di proprietà o
la rimozione della categoria dell’imperialismo che stanno ormai
spianando la strada al keynesismo, anche radicale, come quadro teorico
dell’azione politica di partiti che si chiamano ancora comunisti.
D: Perry Anderson, diversi anni fa, sosteneva che il marxismo
occidentale avesse in un certo senso perduto la sua carica
"rivoluzionaria" mentre questa era andata crescendo nel terzo mondo.
C’è del vero o no in questa affermazione?
La tesi di Perry Anderson mantiene la sua straordinaria attualità anche
trenta anni dopo. Il problema non è il terzo mondo ma il rapporto tra
oggettività e soggettività che si esprime concretamente nelle
situazioni dove il conflitto di classe si rivela più acuto. Il problema
non è neanche quello del linguaggio. Anche tra i marxisti europei si
ricorre a linguaggi e categorie radicali ma spesso si mettono sullo
stesso piano terrorismo e resistenza, c’è la demonizzazione della
violenza indipendentemente dai contesti in cui avviene il conflitto, si
accettano gli anatemi e le chiavi di lettura dell’imperialismo sugli
"Stati canaglia". Si cerca in sostanza di mettere sulla graticola il
Novecento ma si ricorre a categorie sempre del Novecento per definire
la realtà o banalizzare le varie posizioni. In Europa si è dato il
comunismo come fenomeno novecentesco che, nel migliore dei casi, rimane
come orizzonte lontano dell’umanità. E’ una posizione determinista che
attende la caduta del capitalismo a causa delle sue contraddizioni
implicite, omettendo il dato decisivo della soggettività che muove in
questa direzione; ragione per cui in attesa che questo accada ci si
appiattisce su un programma sostanzialmente riformista magari con un
linguaggio un po’ più radicale. In altre parti del mondo la lotta per
la trasformazione sociale si pone concretamente come alternativa di
sopravvivenza per quote rilevanti di umanità. Ad esempio è il caso
dell’America Latina.
D: Ci è sembrato però che te ed altri studiosi marxisti presenti al
congresso avete dovuto faticare un bel po’ per discutere e far
discutere ad esempio di Cuba o dei movimenti in America Latina. Com’è
andata?
E’ la diretta conseguenza di quello che dicevo prima. Quando diventa
necessario trasferire i problemi dalla dimensione teorica a quella
pratica, molti marxisti europei vanno fuori di testa. Ciò spiega perché
non si capisce l’importanza del Venezuela di Chavez, della resistenza
di Cuba al progetto egemonico dell’imperialismo USA in America Latina,
magari contrapponendo quella di Lula ad altre esperienze importanti per
quell’area del mondo o accusando i movimenti sociali latinoamericani di
non capire il processo democratico. I due dibattiti che abbiamo animato
su Cuba e sull’America Latina, hanno visto come protagonisti proprio
quegli studiosi "militanti" - come Remy Herrera o Al Campbell ma
soprattutto latinoamericani come Paulo Nakatami, Leda Paulani, Flavio
Bezzerra De Farias, Isabel Monal, Elena Alvarez ed altri - che hanno
avuto una funzione decisiva di orientamento della discussione sui
problemi connessi al conflitto di classe e alla resistenza globale.
D: Nella plenaria che hai tenuto insieme a Gorge Labica, Samir Amin,
Isabel Monal, tra te e Samir Amin c’è stata un po’ di discussione sul
ruolo dell’Europa. Quale erano i punti di divergenza?
Premesso che ho una grande stima di Samir Amin perché lo ritengo uno
studioso marxista onesto, la discussione c’è stata su una diversa
analisi del ruolo dell’Europa e dell’imperialismo statunitense. Sono
moltissimi gli studiosi e i compagni che vedono nell’Europa una sorta
di alleato tattico contro il nemico principale rappresentato dagli USA.
Questa posizione che ha una sua legittimità, porta però a sottovalutare
il processo di costituzione del polo imperialista europeo. Molti
ritengono che l’Europa del XXI Secolo sia la stessa del secolo scorso
quando esisteva il bipolarismo USA-URSS. Penso di poter dire che non è
più così e che questo processo se è stato subalterno agli USA per più
di mezzo secolo oggi non lo è più, e non lo sarà più neanche sul piano
politico e militare che sono stati sempre i due punti deboli del polo
imperialista europeo. E’ un dibattito vero e che ha bisogno di
approfondimenti rigorosi. Su questo la nostra rete ha prodotto diversi
testi come "La dolce maschera dell’Europa", "Il piano inclinato del
capitale" o "Eurobang". C’è materiale per fare questa discussione e c’è
una grande stima per studiosi come Samir Amin che pure non condividono
la nostra tesi con il quale ci piacerebbe portare avanti il confronto.
D: La tesi della competizione globale sostenuta da te e da altri
marxisti, ripropone in qualche modo attualizzandola, una analisi
dell’imperialismo e della competizione interimperialista che è stata
rimossa o negata nel dibattito marxista contemporaneo. Cosa diverge tra
la vostra tesi e, ad esempio, quella de "L’Impero" o quella della
globalizzazione neoliberista?
A questo abbiamo dedicato un intero libro insieme a James Petras e
Mauro Casadio ed un altro - "Competizione globale" che vede anche un
contributo di Henry Veltmeyer - sta uscendo adesso nelle librerie.
L’Impero parte dal presupposto che nel mondo contemporaneo il conflitto
sia tra un capitale collettivo e le moltitudini, che lo stato-nazione
abbia perso la sua funzione strategica e che l’Europa sia il "topos"
democratico per la trasformazione sociale. Noi riteniamo, al contrario,
che la centralità del conflitto sia oggi più che mai quella tra
capitale e lavoro, che settori sociali ben definiti abbiano interesse a
ricomporre i loro interessi dentro un progetto di cambiamento radicale
dei rapporti di proprietà e dei rapporti sociali. La tesi della
competizione globale afferma che lo Stato-nazione non è stato superato
ma è stato sussunto dentro i poli imperialisti sopranazionali che ne
esercitano le funzioni e, soprattutto, che non siamo più in presenza di
un capitale collettivo come può essere stato nell’epoca della
globalizzazione, ma di poli imperialisti in competizione tra loro. Per
spezzare i meccanismi regressivi di questa rinnovata competizione
interimperialista, i movimenti di resistenza popolare sono decisivi.
Alla competizione globale capitalistica è oggi necessario opporre una
resistenza globale che è cresciuta soprattutto in America Latina e Asia
e che può influenzare sul piano concreto - e non tanto su quello del
terzomondismo romantico - anche la lotta politica qui in Europa. Di
questi movimenti di resistenza dobbiamo salvaguardare l’indipendenza
sapendone cogliere le peculiarità e gli elementi di ricomposizione più
avanzata sul terreno dell’antimperialismo e della fuoriuscita dal
capitalismo.
http://www.contropiano.org/ )
A Parigi il congresso di "Actuel Marx"
L’autismo del marxismo europeo
Intervista con Luciano Vasapollo
A cavallo tra settembre e ottobre, a Parigi si è svolto il congresso
"Marx Internazionale IV" promosso da "Actuel Marx". Intorno a questa
prestigiosa rivista marxista francese, in questi anni si è ritrovato il
dibattito e l’elaborazione marxista europea. Il pregio di aver tenuto
duro negli anni della caccia alle streghe culturale scatenatasi negli
anni Novanta, non ha impedito che l’elaborazione marxista in Europa sia
via via ricaduta in quel difetto ben individuato trenta anni fa da
Perry Anderson ne "Il dibattito nel marxismo occidentale". Anderson,
contestava ai marxisti europei di essersi ritirati dal rapporto con il
conflitto di classe ed i movimenti reali e di essersi rifugiati sugli
aspetti sovrastrutturali ed accademici. La definizione di
"Katedhersocialisten" (socialisti da cattedra) è qualcosa di meno di un
anatema e qualcosa di più di una critica. Luciano Vasapollo, studioso
marxista italiano, autore di numerosi testi tradotti ormai in varie
lingue, insieme ad altri
marxisti europei, statunitensi e latinoamericani, ha contribuito a
riaprire negli ultimi anni un dibattito su questioni decisive come la
teoria marxista del valore, l’imperialismo, la centralità del conflitto
tra capitale e lavoro. Vasapollo ha partecipato al congresso marxista
di Parigi ed è stato relatore in alcuni workshop ed in una delle
plenarie finali. In più occasioni è entrato in conflitto con le altre
"scuole" del marxismo occidentale. Gli abbiamo chiesto di spiegarci
come è andata la discussione.
D: Quale era l’agenda della discussione del Congresso marxista di
Parigi? C’è stato un confronto tra le varie "tendenze"?
Il tema dell’incontro era "Guerra imperiale, guerra sociale" ed era
suddiviso in dodici sessioni scientifiche, tra cui economia, diritto,
ecologia, genere, storia, filosofia, socialismo. Il confronto in verità
è avvenuto un po’ a compartimenti stagni tra le varie tendenze ed ha
privilegiato un carattere un po’ accademico della discussione.
D: Ma quali sono, per grandi linee, le tendenze marxiste attuali?
Una prima possiamo definirla come accademica nel senso stretto della
parola e che non si pone il problema di una dialettica con i movimenti
reali ma solo quello di una ipotizzata "originalità culturale". Ci sono
poi altre due tendenze che si esprimono con un linguaggio più radicale,
mi riferisco a coloro che condividono l’elaborazione di Toni Negri e
agli studiosi più vicini alla IV Internazionale. Usano un linguaggio
radicale ma sotto molti aspetti convergono con la prima per la distanza
con cui si misurano dai movimenti sociali reali. Esiste poi una quarta-
nella quale mi trovo collocato - che potremmo definire di "studiosi
militanti" che hanno un rapporto più stretto con i movimenti sociali,
sindacali etc. e che si è consolidata soprattutto in America Latina.
D: Dopo gli anni del silenzio e della resistenza culturale - gli anni
Novanta - a che punto è secondo te il dibattito e l’elaborazione
marxista in Europa?
Girando un po’ per vari incontri a livello internazionale, devo
ammettere che la nostra posizione - fino a qualche anno fa piuttosto
ostracizzata a livello culturale ed a livello politico - oggi sta
trovando maggiori occasioni di confronto. In questi anni si è riaperto
un dibattito ampio ed anche aspro sulla attualità della teoria del
valore di Marx. Il dibattito è scaturito all’inizio dentro l’ambito
marxista in cui emergevano posizioni che potremmo definire "sraffiane"
che affermano di voler mantenere una visione marxista ma nei fatti
l’hanno svuotata dai suoi contenuti con argomentazioni che non hanno
retto sul piano scientifico. In alcuni casi queste posizioni sono
approdate al keynesismo - anche se con un linguaggio più radicale. Gli
stessi keynesiani sono divisi tra keynesiani "di sinistra" e
"neokeynesiani"con posizioni diversificate. Ci sono poi alcuni che sono
approdati a quello che chiamano postmarxismo e che ormai sostengono
apertamente la fuoriuscita dal marxismo salvandone solo alcuni scritti
giovanili come i "Gundrisse". Due anni fa organizzammo a tale scopo un
convegno internazionale all’Università di Roma, che ha presentato una
elaborazione collettiva mia, di Carchedi, Freeman, Kliman e Giussani,
la quale ha riaffermato la validità dell’intero impianto scientifico
marxiano sul valore sottolineando come la trasformazione del valore in
prezzi fosse un falso problema. Per tre giorni c’è stato un confronto
ricco ma anche aspro tra posizioni diverse anche divergenti dalla
nostra (Mongiovi, Foley, Screpanti ed altri). Ma il vero nodo di
divergenza resta a mio avviso la dialettica tra l’elaborazione teorica
e il movimento reale.
D: A questo congresso marxista di Parigi si notavano assenze
significative?
Per paradosso c’era una sottostima di presenze dalle aree più al centro
del conflitto di classe e di impetuosi processi di cambiamento come
l’America Latina, l’Asia, l’Europa dell’Est o ad esempio la Germania.
Pochissimi anche gli studiosi della Grecia. Il rischio
dell’eurocentrismo si è corso abbastanza chiaramente.
D: Come mai il nesso tra teoria e prassi, cioè tra elaborazione
marxista e realtà del conflitto di classe, si è così "allentato" in
Europa?
Occorre tenere conto che i grandi partiti comunisti sono scomparsi in
Spagna, Italia e Francia. In quest’ultima il PCF sta virando verso la
socialdemocrazia piuttosto nettamente anche se incontra forti
resistenze all’interno. In Spagna l’esperienza di Izquierda Unida è in
forte crisi e in Italia abbiamo due partiti comunisti pari a un quarto
del peso politico ed elettorale del vecchio PCI. Ma in Italia la virata
di Bertinotti, quella che alcuni definiscono una nuova Bolognina,
possiamo dire che è stata innescata e si è inserita proprio su questo
indebolimento del carattere rivoluzionario dell’elaborazione del
marxismo in Europa. Non è solo il problema dell’eclettismo ma è ad
esempio la rinuncia a mettere in discussione i rapporti di proprietà o
la rimozione della categoria dell’imperialismo che stanno ormai
spianando la strada al keynesismo, anche radicale, come quadro teorico
dell’azione politica di partiti che si chiamano ancora comunisti.
D: Perry Anderson, diversi anni fa, sosteneva che il marxismo
occidentale avesse in un certo senso perduto la sua carica
"rivoluzionaria" mentre questa era andata crescendo nel terzo mondo.
C’è del vero o no in questa affermazione?
La tesi di Perry Anderson mantiene la sua straordinaria attualità anche
trenta anni dopo. Il problema non è il terzo mondo ma il rapporto tra
oggettività e soggettività che si esprime concretamente nelle
situazioni dove il conflitto di classe si rivela più acuto. Il problema
non è neanche quello del linguaggio. Anche tra i marxisti europei si
ricorre a linguaggi e categorie radicali ma spesso si mettono sullo
stesso piano terrorismo e resistenza, c’è la demonizzazione della
violenza indipendentemente dai contesti in cui avviene il conflitto, si
accettano gli anatemi e le chiavi di lettura dell’imperialismo sugli
"Stati canaglia". Si cerca in sostanza di mettere sulla graticola il
Novecento ma si ricorre a categorie sempre del Novecento per definire
la realtà o banalizzare le varie posizioni. In Europa si è dato il
comunismo come fenomeno novecentesco che, nel migliore dei casi, rimane
come orizzonte lontano dell’umanità. E’ una posizione determinista che
attende la caduta del capitalismo a causa delle sue contraddizioni
implicite, omettendo il dato decisivo della soggettività che muove in
questa direzione; ragione per cui in attesa che questo accada ci si
appiattisce su un programma sostanzialmente riformista magari con un
linguaggio un po’ più radicale. In altre parti del mondo la lotta per
la trasformazione sociale si pone concretamente come alternativa di
sopravvivenza per quote rilevanti di umanità. Ad esempio è il caso
dell’America Latina.
D: Ci è sembrato però che te ed altri studiosi marxisti presenti al
congresso avete dovuto faticare un bel po’ per discutere e far
discutere ad esempio di Cuba o dei movimenti in America Latina. Com’è
andata?
E’ la diretta conseguenza di quello che dicevo prima. Quando diventa
necessario trasferire i problemi dalla dimensione teorica a quella
pratica, molti marxisti europei vanno fuori di testa. Ciò spiega perché
non si capisce l’importanza del Venezuela di Chavez, della resistenza
di Cuba al progetto egemonico dell’imperialismo USA in America Latina,
magari contrapponendo quella di Lula ad altre esperienze importanti per
quell’area del mondo o accusando i movimenti sociali latinoamericani di
non capire il processo democratico. I due dibattiti che abbiamo animato
su Cuba e sull’America Latina, hanno visto come protagonisti proprio
quegli studiosi "militanti" - come Remy Herrera o Al Campbell ma
soprattutto latinoamericani come Paulo Nakatami, Leda Paulani, Flavio
Bezzerra De Farias, Isabel Monal, Elena Alvarez ed altri - che hanno
avuto una funzione decisiva di orientamento della discussione sui
problemi connessi al conflitto di classe e alla resistenza globale.
D: Nella plenaria che hai tenuto insieme a Gorge Labica, Samir Amin,
Isabel Monal, tra te e Samir Amin c’è stata un po’ di discussione sul
ruolo dell’Europa. Quale erano i punti di divergenza?
Premesso che ho una grande stima di Samir Amin perché lo ritengo uno
studioso marxista onesto, la discussione c’è stata su una diversa
analisi del ruolo dell’Europa e dell’imperialismo statunitense. Sono
moltissimi gli studiosi e i compagni che vedono nell’Europa una sorta
di alleato tattico contro il nemico principale rappresentato dagli USA.
Questa posizione che ha una sua legittimità, porta però a sottovalutare
il processo di costituzione del polo imperialista europeo. Molti
ritengono che l’Europa del XXI Secolo sia la stessa del secolo scorso
quando esisteva il bipolarismo USA-URSS. Penso di poter dire che non è
più così e che questo processo se è stato subalterno agli USA per più
di mezzo secolo oggi non lo è più, e non lo sarà più neanche sul piano
politico e militare che sono stati sempre i due punti deboli del polo
imperialista europeo. E’ un dibattito vero e che ha bisogno di
approfondimenti rigorosi. Su questo la nostra rete ha prodotto diversi
testi come "La dolce maschera dell’Europa", "Il piano inclinato del
capitale" o "Eurobang". C’è materiale per fare questa discussione e c’è
una grande stima per studiosi come Samir Amin che pure non condividono
la nostra tesi con il quale ci piacerebbe portare avanti il confronto.
D: La tesi della competizione globale sostenuta da te e da altri
marxisti, ripropone in qualche modo attualizzandola, una analisi
dell’imperialismo e della competizione interimperialista che è stata
rimossa o negata nel dibattito marxista contemporaneo. Cosa diverge tra
la vostra tesi e, ad esempio, quella de "L’Impero" o quella della
globalizzazione neoliberista?
A questo abbiamo dedicato un intero libro insieme a James Petras e
Mauro Casadio ed un altro - "Competizione globale" che vede anche un
contributo di Henry Veltmeyer - sta uscendo adesso nelle librerie.
L’Impero parte dal presupposto che nel mondo contemporaneo il conflitto
sia tra un capitale collettivo e le moltitudini, che lo stato-nazione
abbia perso la sua funzione strategica e che l’Europa sia il "topos"
democratico per la trasformazione sociale. Noi riteniamo, al contrario,
che la centralità del conflitto sia oggi più che mai quella tra
capitale e lavoro, che settori sociali ben definiti abbiano interesse a
ricomporre i loro interessi dentro un progetto di cambiamento radicale
dei rapporti di proprietà e dei rapporti sociali. La tesi della
competizione globale afferma che lo Stato-nazione non è stato superato
ma è stato sussunto dentro i poli imperialisti sopranazionali che ne
esercitano le funzioni e, soprattutto, che non siamo più in presenza di
un capitale collettivo come può essere stato nell’epoca della
globalizzazione, ma di poli imperialisti in competizione tra loro. Per
spezzare i meccanismi regressivi di questa rinnovata competizione
interimperialista, i movimenti di resistenza popolare sono decisivi.
Alla competizione globale capitalistica è oggi necessario opporre una
resistenza globale che è cresciuta soprattutto in America Latina e Asia
e che può influenzare sul piano concreto - e non tanto su quello del
terzomondismo romantico - anche la lotta politica qui in Europa. Di
questi movimenti di resistenza dobbiamo salvaguardare l’indipendenza
sapendone cogliere le peculiarità e gli elementi di ricomposizione più
avanzata sul terreno dell’antimperialismo e della fuoriuscita dal
capitalismo.