ASSEDIARE LA RUSSIA
4: "Ci sono nostalgici al potere che vogliono una unione di popoli
slavi" (ergo: mamma li turchi!)
4.1 LA RUSSIA NELL’ “ASSE DEL MALE”?
di Mauro Gemma (l’articolo apparirà nel n. 6/2004 della rivista
comunista “L’Ernesto” - www.lernesto.it)
4.2 BUSH E IL NEW-DEAL TRANSATLANTICO
Ultima chiamata per l’UE
(Di Marta Dassu, da La Stampa)
4.3 L'ANNUNCIO DEL CAPO DEL CREMLINO SUI NUOVI MISSILI NUCLEARI E' UN
AVVERTIMENTO: CAMBIANO GLI EQUILIBRI STRATEGICI
Torna la superpotenza russa, e non è un bluff
(Di Giulietto Chiesa, da La Stampa)
4.4 «L’obiettivo di Mosca: ricostituire una piccola Urss»
Brzezinski: ci sono nostalgici al potere che vogliono una unione di
popoli slavi
(Da La Stampa)
=== 4.1 ===
LA RUSSIA NELL’ “ASSE DEL MALE”?
di Mauro Gemma
(l’articolo apparirà nel n. 6/2004 della rivista comunista “L’Ernesto”
- www.lernesto.it)
Un centinaio di personalità del blocco atlantico invocano l’apertura di
un fronte di “guerra fredda” con la Russia di Putin, allo scopo di
destabilizzare il grande concorrente eurasiatico, proprio nel momento
in cui esso tenta di riprendere il controllo delle enormi risorse
energetiche del paese (1).
A sgomberare il campo da equivoci sul futuro oscuro delle relazioni tra
Russia e Stati Uniti ha provveduto, alla vigilia delle elezioni
presidenziali del 2 novembre, Zbignew Brzezinski, già consigliere delle
amministrazioni USA e teorico della strategia americana nell’area
eurasiatica. “L’idillio con Putin, sia per i repubblicani che per i
democratici, è finito. Non prevedo particolari differenze tra le
posizioni di Bush e di Kerry nei confronti del Cremlino. Nei prossimi
anni tutta la politica americana sarà caratterizzata dalla
preoccupazione per gli sviluppi della situazione in Russia. Tale
preoccupazione è condivisa dai più influenti circoli politici degli
USA. E’ il riflesso della disillusione nei confronti di Putin, che ha
iniziato a condurre una politica apertamente antidemocratica, che si
traduce nella feroce e rovinosa guerra in Cecenia”, dichiara il noto
anticomunista, acerrimo nemico prima dell’URSS e poi della Russia, al
giornale filo-oligarchico russo “Novaja Gazeta” (fonte privilegiata di
informazione e commento sulle cose russe anche delle sinistre
occidentali, moderate e “alternative”)(2). E’ stata la più autorevole
smentita anche a quegli ambienti ufficiali russi (che hanno consigliato
Putin a non nascondere le sue preferenze per il candidato Bush) che,
sulla scorta di un’esperienza maturata già al tempo dell’URSS,
continuano a considerare l’establishment repubblicano meno disponibile
di quello democratico a cedere alle pressioni delle lobby anti-russe.
In questa cornice, che lascia prevedere il delinearsi di nuovi
inquietanti scenari di acuta tensione tra le massime potenze nucleari
del pianeta, si inquadra anche quella che può essere considerata una
delle più importanti offensive “mediatiche” di quest’anno. Si tratta
della “lettera aperta”(3), firmata da un centinaio di illustri
personalità americane ed europee del blocco atlantico, indirizzata il
28 settembre “ai capi di stato e di governo dell’Unione Europea e della
NATO”. Gli autori dichiarano di essere “profondamente preoccupati che
questi tragici avvenimenti (di Beslan) possano essere sfruttati (dal
presidente russo Vladimir Putin) per minacciare ulteriormente
l’esistenza della democrazia in Russia”. Tra le varie accuse rivolte a
Putin c’è anche quella di avere arbitrariamente imprigionato o
costretto all’esilio “i suoi avversari politici”: evidentemente ci si
riferisce al petroliere Khodorkovskij e agli altri magnati fuggiti in
Occidente, che sono responsabili del saccheggio della ricchezza
nazionale e di gravissimi crimini di carattere economico. In politica
estera, gli autori della lettera, andando brutalmente al “nocciolo”
della questione, non mascherano la loro preoccupazione per la “pretesa”
della Russia di esercitare il pieno controllo sulle sue ricchezze
energetiche e la loro destinazione, quando osservano che Putin avrebbe
“un atteggiamento minaccioso…nei confronti della sicurezza energetica
europea”. Essi affermano che “è giunto il momento di ripensare i
termini del nostro impegno con la Russia di Putin” e invitano
esplicitamente a schierarsi dalla parte delle “decine di migliaia di
democratici russi (con in prima fila i residui del “clan Eltsin”) che
stanno ancora combattendo per difendere la libertà e la democrazia nel
loro paese”.
E’ un appello esplicito alla rottura di ogni forma di collaborazione
tra la NATO e la Federazione Russa e al rilancio della “guerra fredda”.
Il testo integrale della “lettera” è stato pubblicato
contemporaneamente da diverse prestigiose testate occidentali, tra le
quali spicca quella del “Washington Post”, e ha immediatamente avuto
un’enorme diffusione nell’intera rete web.
Promotore dell’appello è il primo presidente della Repubblica Ceca
Vaclav Havel(4). Per tradurre in pratica l’iniziativa anti-russa, Havel
si è naturalmente servito di numerose potenti collaborazioni. Tra le
innumerevoli fondazioni e istituti che lo sostengono sistematicamente
nella sua azione di promozione della penetrazione della NATO nell’est
europeo e dell’offensiva contro quel che resta della presenza comunista
su scala mondiale, l’ex “dissidente” ha potuto contare sull’appoggio
della cosiddetta “Nuova iniziativa atlantica”, un progetto dell’
“America Enterprise Institute” da lui creato nel 1996.
Nel lanciare l’iniziativa, Havel si è naturalmente preoccupato di
preservarne il carattere rigorosamente “bipartisan”. E’ questa la
ragione che spiega la “trasversalità” delle adesioni raccolte sia in
ambito ultra-conservatore, che tra gli esponenti del “centro-sinistra”
clintoniano e socialdemocratico. Tra le firme si contano quelle di
rappresentanti dell’anticomunismo più spinto dell’attuale corso
est-europeo, come Landsberghis, l’ex presidente di quella Lituania
recentemente associata alla NATO, dove numerosi militanti comunisti
sono sepolti in galera da oltre un decennio, l’ex premier bulgaro
Philip Dimitrov e l’ex ministro e “dissidente” polacco Bronislaw
Geremek.
Immancabili le firme del filosofo francese André Glucksmann e del verde
tedesco Reinhardt Butifoker
E non è certo casuale che tra le firme di italiani, oltre a quella
(scontata) dell’esponente radicale Daniele Capezzone, spicchino quelle
dell’ex premier socialista Giuliano Amato e del capo di governo
italiano che ha partecipato all’aggressione alla Jugoslavia nel 1999,
il presidente dei “democratici di sinistra” Massimo D’Alema.
Rigorosamente bilanciata tra “falchi” e “colombe” è la pattuglia
americana. Il “Corriere della sera” scrive di “un partito trasversale
americano che si è venuto formando tra politici democratici,
repubblicani e indipendenti…Vanno dall’ideologo neoconservatore William
Bristol all’ex ambasciatore all’ONU Richard Holbrooke, un liberal che
diverrebbe segretario di Stato se John Kerry fosse eletto presidente;
dall’ex direttore della CIA James Woolsey, un falco, all’ex
vicedirettore della Sicurezza Nazionale sotto Bill Clinton, James
Steinberg, una colomba; da Francis Fukuyama, l’autore de “La fine della
storia”, a Robert Kagan, il teorico del divario tra l’America (Marte) e
l’Europa (Venere)”(5).
Contemporaneamente al lancio dell’appello, si è provveduto a dar vita a
una serie di centri e di siti internet che dovrebbero affiancare con un
“bombardamento” propagandistico la “battaglia democratica” in Russia.
Tali iniziative sono coordinate dal cosiddetto “Centro per il futuro
della Russia”, un’istituzione che conta sul sostegno finanziario del
banchiere neofascista Richard Mellon Scafe e il cui “cervello”
organizzativo pare essere l’ex direttore della CIA Woolsey, che, come
abbiamo visto, compare tra i firmatari dell’appello. Compito di tale
centro dovrebbe essere quello di denunciare sistematicamente “le
violazioni dei diritti dell’uomo” in Cecenia e “gli attentati alla
libertà di stampa” nell’insieme della Federazione Russa, organizzando
campagne di denuncia, pressione e mobilitazione della “società civile”
in Russia e all’estero.
Tutte queste iniziative, di cui l’appello è sicuramente la più
clamorosa, si proporrebbero di convincere l’Occidente, considerato
ancora titubante, della necessità di una nuova mobilitazione, simile a
quella dei tempi della “guerra fredda”, al fine di contenere la Russia
e bloccare il processo “totalitario” in corso. Nella fase attuale,
secondo i promotori dell’offensiva, muterebbero, rispetto al passato
“comunista”, solo le caratteristiche ideologiche del nuovo
“totalitarismo”. Si tratterebbe di un’ideologia che farebbe leva sulle
inclinazioni autoritarie dell’identità nazionale russa che non si esita
a definire “ataviche”.
Ma, in realtà, le ragioni di un’iniziativa di tale pesantezza appaiono
ben più concrete. In tal senso, occorre fare un passo indietro nel
tempo, dando uno sguardo alle più recenti fasi che hanno scandito il
progressivo deterioramento delle relazioni tra la Federazione Russa e
gli Stati Uniti.
A questo proposito, ci sembra illuminante citare testualmente quanto si
può leggere su “reseau voltaire.net” il 4 ottobre 2004:
“Le relazioni tra il Cremlino e la Casa Bianca si sono raffreddate il 2
luglio 2003, con l’arresto per frode fiscale di Platon Lebedev,
presidente del gruppo bancario “Menatep”. Esse si sono ancor più tese
con l’arresto di Mikhail Khodorkovskij, presidente del gruppo
petrolifero “Yukos-Sibneft”, il 25 ottobre 2003, ugualmente per frode
fiscale. Sono divenute acide con l’arresto in Qatar, nel febbraio 2004,
di tre agenti dei servizi segreti russi, denunciati dalla CIA per
essere venuti ad assassinare Zelimkhan Yandarbiyed, considerato il
mandante della presa degli ostaggi al teatro di Mosca. Sono entrati in
una fase di scontro, nel mese di settembre, dopo la dichiarazione di
Vladimir V. Putin che attribuiva la cattura degli ostaggi di Beslan ai
servizi segreti anglo-sassoni.
Il Cremlino si è poi impegnato in una politica di riappropriazione
delle ricchezze nazionali, privatizzate sotto Boris Eltsin a vantaggio
di un pugno di sodali, liquidando uno ad uno gli “oligarchi”. Questo
processo, che viene vissuto dal popolo russo come il recupero dei beni
collettivi rubati, è analizzato negli Stati Uniti alla stregua di una
nazionalizzazione mascherata, di un ritorno strisciante al
collettivismo statalista. Esso ha toccato gli investimenti di Wall
Street, in particolare in seguito all’arresto di Khodorkovskij. Egli in
effetti era vicino alla famiglia Bush, fino a diventare consigliere
della loro società di investimenti, il gruppo “Carlyle”.
Per il FSB (l’ex KGB), sebbene tali elementi non figurino negli atti
giudiziari, Mikhail Khodorkovskij non era solo un uomo d’affari, ma
anche un traditore. In combutta con Henry Kisinger e George Soros,
avrebbe preparato il rovesciamento di Vladimir Putin e la decisione del
suo arresto sarebbe stata presa all’ultimo momento per impedire un
colpo di stato.
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 esiste un accordo non scritto
tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che li
autorizza ad assassinare all’estero i capi terroristi, senza che ciò
possa creare incidenti diplomatici. In tal modo, la CIA ha potuto
liquidare nello Yemen uomini sospettati di appartenere ad
un’organizzazione terrorista internazionale, lanciando un missile
“Predator”, senza sollevare proteste. Allo stesso modo il FSB ha
ritenuto di potere assassinare in Qatar Yandarbiyed per vendicare le
129 vittime della cattura degli ostaggi al teatro di Mosca nell’ottobre
2002. Ma gli agenti del FSB sono stati denunciati dalla CIA alle
autorità del Qatar e bloccati all’aeroporto di Doha mentre si
accingevano a lasciare il paese. Incarcerati, sono in attesa di
processo e rischiano la pena di morte. Per il Cremlino è stata la prova
definitiva che la “guerra mondiale al terrorismo” non è che un
artificio retorico privo di senso, utilizzato dalla Casa Bianca per
avere la possibilità di passare oltre il diritto internazionale”.
Poi c’è stata la tragedia di Beslan, che ha rappresentato il momento di
massima tensione nei rapporti russo-americani, come abbiamo avuto modo
di analizzare in un nostro precedente articolo(6). In quell’occasione
la risposta di Vladimir Putin è stata durissima: nel corso di un
incontro con i giornalisti stranieri ha inchiodato alle loro
responsabilità, chiamandoli esplicitamente in causa, quegli ambienti
occidentali che “vogliono indebolire la Russia esattamente come i
Romani volevano distruggere Cartagine”(7).
E’ ancora “reseau voltaire.net”(8)a rilevare come la clamorosa presa di
posizione contro il corso politico di Putin si manifesti proprio nel
momento di maggiore difficoltà per gli USA ad esercitare uno stabile
controllo sulle risorse petrolifere del pianeta, dovuto in particolare
ad importanti fenomeni di resistenza di popoli e stati, registrabili in
alcune aree “calde”, strategiche dal punto di vista
dell’approvvigionamento energetico. E’ sempre più evidente che la
poderosa armata americana non riesce ad avere la meglio dell’eroica
Resistenza irachena e a stabilizzare il controllo delle aree di
produzione del paese. In Venezuela, altro grande produttore di
petrolio, le azioni di destabilizzazione, messe in atto
dall’amministrazione Bush, hanno avuto come effetto solo quello di
rafforzare la Rivoluzione “bolivariana” e il prestigio popolare del suo
leader Hugo Chavez. Gli Stati Uniti sono stati costretti in tal modo a
rinunciare, almeno in parte significativa, a diversificare le loro
fonti di approvvigionamento. Si presenta, inevitabile, la necessità di
alzare il tiro direttamente sugli obiettivi principali della
competizione: i tre maggiori produttori del mondo, vale a dire l’Arabia
Saudita, l’Iran e, naturalmente, la Russia, con la sua insopportabile
richiesta di porre delle regole alla penetrazione delle multinazionali
nel suo sterminato territorio.
Una nuova diversa strategia, di conseguenza, potrebbe caratterizzare il
secondo mandato di Bush. Il complesso militare-industriale e le
multinazionali del petrolio cercano di ridefinire gli obiettivi,
creando, allo scopo, nuove “squadre”.
La pressione propagandistica del potente fronte delle “personalità” del
blocco atlantico risponde pienamente allo scopo.
(1) Gran parte delle informazioni contenute in questo articolo sono
reperibili nel lungo e dettagliatissimo contributo apparso il 4 ottobre
2004 nel sito francese di analisi internazionali “reseau voltaire.net”.
http://www.reseauvoltaire.net/%c2%a0
(2) “L’idillio dell’America con Putin è finito”. Intervista a Zbignew
Brzezinski. “Novaja Gazeta”, n. 76, 14 ottobre 2004. ,
http://2004.novayagazeta.ru/nomer/2004/76n/n76n-s10.shtml
(3) La versione italiana della “Lettera aperta ai Capi di Stato e di
governo dell’Unione europea e della NATO” è apparsa il 30 settembre in
“Il Foglio”.
(4) L’artefice della cosiddetta “rivoluzione di velluto” cecoslovacca
del 1989 è uno degli alfieri dell’atlantismo. Il suo servilismo nei
confronti degli Stati Uniti è giunto fino al punto di spingerlo a
proporre una modifica della legge elettorale della Repubblica Ceca, per
permettere all’ex segretario di stato USA Madeleine Albright di
succedergli nella carica di capo dello stato. Fortunatamente la
proposta è apparsa balzana persino alla stessa donna politica
americana, di cui non si può mettere certo in discussione la provata
fede anticomunista. Nel luglio 2004, su suo suggerimento, il governo
ceco ha creato addirittura un “dipartimento per i paesi totalitari” in
seno al ministero degli esteri. Insieme all’ex premier spagnolo José
Maria Aznar, Vaclav Havel si è distinto per il feroce accanimento nei
confronti di Cuba, fino ad organizzare lo scorso settembre, nelle sale
del Senato ceco, una conferenza internazionale “per la democrazia a
Cuba”, con il compito esplicito di appoggiare l’attività
controrivoluzionaria e terroristica nell’ “Isola della libertà”.
(5) Ennio Caretto, “Appello a Europa e NATO: Putin resti democratico”,
“Corriere della Sera”, 29 settembre 2004
(6) Mauro Gemma, “Russia: dopo la tragedia di Beslan”, “L’Ernesto”,
n.4/2004.
(7) “Le Monde”, 8 settembre 2004
(8) “Le dispositif Woolsey”, www.reseauvoltaire.net , 4 ottobre 2004
=== 4.2 ===
<< Sembra che l'Europa non abbia alternative alla subalternità
atlantica: "...alzi la mano chi pensa che convenga coltivare, in
alternativa agli Stati Uniti, matrimoni di convenienza con Pechino o
Mosca...", fino al punto di richiamarsi alle comune radici "liberali"
per difendersi dai paesi emergenti: "il vecchio Occidente non ha più
molto tempo a disposizione (il suo potere relativo diminuirà
rapidamente) per influenzare le regole del futuro sistema
internazionale". Così pensa la giornalista de La Stampa, insieme a
tanta parte della classe politica italiana... >>
(S. Franchi)
BUSH E IL NEW-DEAL TRANSATLANTICO
Ultima chiamata per l’UE
Di Marta Dassu, da La Stampa del 24/11/2004
Vista dall'America di Bush 2, l'Europa non è più irrilevante. Per
convinzione (dubbia) o per necessità (probabile), il presidente
americano meno amato dagli europei intende ritrovare l'Europa.
Nonostante l'Iraq.
Vista dai think-tanks americani, l'Europa ha due capitali: Londra e
Bruxelles. Bush padre guardava a Berlino quando lanciò, senza successo,
la sua visione di un nuovo ordine mondiale successivo alla guerra
fredda; anche Kerry avrebbe probabilmente guardato lì. Bush 2 scommette
invece su un'Unione «anglo-atlantica», con Londra ancorata al suo
interno. Secondo gli analisti di Washington, quel che Bush proporrà,
nel suo tour europeo a febbraio, è un rilancio politico della Nato o
una sorta di nuovo patto Stati Uniti-Ue. Quali che siano le formule
Bush 2 cambierà almeno il tono e lo stile, con quei «pappamolla» degli
europei (definizione «neocon»); butterà simbolicamente alle ortiche -
con la tappa a Bruxelles - la teoria che agli Stati Uniti convenga
disaggregare, invece che unire, il Vecchio Continente; e cercherà così
di offrire una sponda agli «euro-atlantisti». Ci riuscirà? E quanto
conviene agli europei stessi che la superpotenza solitaria cerchi di
nuovo la loro compagnia? Bush 2 potrebbe anche rtiuscire, ma a due
condizioni. La prima è che qualcosa si sblocchi, in Iraq e nel Medio
Oriente allargato, con il recupero di almeno qualche grano di realismo
da parte americana.
La Conferenza di Sharm el-Sheikh ci dirà fino a che punto Bush 2 sia
deciso a coinvolgere l'Iran nel tentativo di chiudere il fronte
iracheno. Se così non sarà - e se la linea del rifiuto su Teheran
spazzerà via anche l'accordo provvisorio degli UE-3 (Francia, Germania
e Gran Bretagna) sulla questione nucleare - l'Iran finirà per dividere
Stati Uniti ed Europa come e più dell'Iraq. Dobbiamo esserne
consapevoli, sia noi che gli americani: il rapporto transatlantico è
diventato ormai «ostaggio» dell'intera vicenda mediorientale. Senza un
accordo su questo fronte -dal Golfo fino a Gerusalemme - un new deal
transatlantico non si avrà.
La seconda condizione è che Londra rimanga effettivamente ancorata
all'Unione europea. Tendiamo quasi a rimuovere il problema, ma se il
referendum sul Trattato costituzionale verrà bocciato dagli inglesi,
nel 2006, la disaggregazione dell' Europa diventerà uno scenario
realistico, non perché impostoci dal di fuori ma perché inflittoci dal
di dentro. Il cuore continentale dell'Unione può anche sognare che
liberarsi di Londra sia il modo per tornare ad esistere, come Europa.
Ma così non sarebbe: la storia degli ultimi due anni ha già dimostrato
che la teoria della «piccola Europa» non ha, nell'Unione allargata,
credibilità sufficiente.
Cosa allora conviene, dal punto di vista europeo? Conviene lasciarsi
alle spalle le finte lotte di prestigio (né Parigi né Londra hanno in
realtà esercitato nessuna vera influenza su Bush 1), prendendo atto di
una scomoda verità: un'Europa divisa sul rapporto con l'America avrà
sempre poca voce in capitolo. Conviene anche rinunciare all'utilizzo di
Bush come alibi (le elezioni ci sono state, l'America è quella che ha
votato), per guardare in faccia il punto essenziale: europeismo e
atlantismo sono ancora compatibili? Dall'Iraq in poi, una parte dei
governi e larga parte dell'opinione pubblica europea hanno teso a
rispondere di no. Se cerchiamo di riflettere in modo più freddo,
dovrebbe essere chiaro che, per quanto le società europee possano
sentirsi diverse da quella americana, l'Europa non ha alternative
miglióri al rapporto preferenziale con gli Stati Uniti. Un Churchill di
oggi, se ci fosse, direbbe che è il rapporto peggiore - eccetto tutti
gli altri.
E nel disordine anarchico che ancora prevale, l'Europa non ha certo la
forza di giocare in proprio: alzi la mano chi pensa che convenga
coltivare, in alternativa agli Stati Uniti, matrimoni di convenienza
con Pechino o Mosca. Fra Stati Uniti ed Europa esistono conflitti
importanti, economici e politici: gestirli in modo cooperativo è una
priorità, essendo consci, come scrive Tim Garton Ash nel suo ultimo
libro (Free World), che il vecchio Occidente non ha più molto tempo a
disposizione (il suo potere relativo diminuirà rapidamente) per
influenzare le regole del futuro sistema internazionale. Questo è il
nostro interesse di fondo. Per il resto, il dibattito sull'America è
soprattutto un surrogato; o meglio la spia delle nostre difficoltà a
definire in positivo una identità politica europea condivisa. Sperare
che l'America ci serva, in negativo, da federatore esterno, che faccia
l'Europa al posto nostro e contro di sé, è chiedere troppo.
=== 4.3 ===
L'ANNUNCIO DEL CAPO DEL CREMLINO SUI NUOVI MISSILI NUCLEARI E' UN
AVVERTIMENTO: CAMBIANO GLI EQUILIBRI STRATEGICI
Torna la superpotenza russa, e non è un bluff
Di Giulietto Chiesa, da La Stampa del 24/11/2004
ALLA vigilia di una serie di importanti summit internazionali, in cui
incontrerà - tra gli altri - i massimi dirigenti degli Stati Uniti,
della Cina e dell'Unione europea, Vladimir Putin ha annunciato che la
Russia sarà presto in condizione di disporre operativamente di nuovi
sistemi di armi strategiche nucleari «che le altre potenze non hanno e
non potranno avere». Sebbene la dichiarazione - fatta di fronte agli
Alti comandi delle Forze armate russe - contenesse un riferimento alla
necessità di rafforzare le difese del Paese contro il terrorismo
internazionale, è del tutto evidente che (poiché quest'ultimo non si
combatte con testate nucleari multiple e missili intercontinentali
capaci di portare bombe atomiche per 4,4 tonnellate a missile), il
Cremlino ha inteso comunicare alle altre potenze nucleari, tutte
nessuna esclusa, l'avvenuta sostanziale modificazione degli equilibri
strategici. Si tratta di una dichiarazione di enorme importanza. In
primo luogo Putin conferma che la Russia, in questi ultimi quattro anni
successivi all'uscita unilaterale degli Stati Uniti dall'accordo
Usa-Urss (Abm -Antimissile balistico) del 1972, ha rivoluzionato il
proprio sistema nucleare strategico. Washington viene informata che il
suo Scudo spaziale, ancora in costruzione e che prevede una spesa
complessiva superiore ai 120 miliardi di dollari, è già perforabile,
quindi inutile. II presidente russo non indica nessuna delle potenziali
minacce, ma è del tutto chiaro che gli Stati Uniti entrano nel novero
dei bersagli: «Se ignorassimo alcune componenti della nostra difesa,
come ad esempio lo Scudo nucleare e missilistico, ecco che altre
minacce potrebbero crescere». Ma l'avvertimento è a 360 gradi. Anche la
Cina fa parte del club. Mosca riafferma il proprio ruolo di potenza
mondiale in perfetta solitudine: non promuove alleanze, semplicemente
dice che, con le sue forze tecnologiche e scientifiche, ha risalito la
china dello svantaggio. E' dunque terminata l'era della cooperazione
con una Russia considerata dall'Occidente come un partner importante ma
minore. Adesso si dovrà discutere alla pari. Bush ha ricevuto appoggio
e congratulazioni da Putin, ma il suo secondo mandato comincia in
condizioni strategiche opposte a quelle con cui cominciò il primo. La
seconda questione riguarda la veridicità della dichiarazione di Putin.
E' un bluff? E' una cosa seria? Le prime reazioni in Occidente e in
Oriente sono state caute, ma nessuno sembra incline a ritenere che
Putin stia giocando una partita a poker senza avere il poker. Del resto
sono stati numerosi i segnali che Mosca ha sviluppato nuovi sistemi
d'arma negli ultimi tempi. In particolare nel settore dei missili di
crociera ipersonici. Le parole di Putin, associate ad alcune
indiscrezioni anonime fatte filtrare nei mesi scorsi dai vertici
militari russi, fanno emergere l'ipotesi che il sistema di testate
multiple sia stato integrato con i sistemi di guida dei missili di
crociera, rendendo le singole testate non intercettabili proprio perché
non più balistiche. Del resto Mosca ha già messo in vendita, per
acquirenti privilegiati, tra cui l'Iran, un sistema missilistico di
crociera che, a detta degli esperti, non ha al momento alcun antidoto
efficace su teatri di guerra anche molto vasti. II missile si chiama
3M82, detto Moskit (secondo la definizione Nato: SS-N-22 Sunburn), ha
un raggio d'azione di 100 miglia, oltre il doppio dei micidiali Exocet
di fabbricazione francese che affondarono due navi britanniche nella
guerra delle Falkland e che spezzarono in due la USS Stark nel 1987,
durante la guerra Iran-Irak, uccidendo 37 marinai americani. Ma
MoskitSunburn è molto di più: viaggia a una velocità di mach 2,1, cioè
due volte e oltre quella del suono; può trasportare un carico nucleare
di 200 chiloton, ovvero una testata convenzionale di circa 400 chili;
ha un sistema di guida che gli permette bruschi e improvvisi mutamenti
di rotta (ecco la novità che potrebbe riguardare le testate multiple
dei missili balistici intercontinentali); infine, essendo tremendamente
più veloce dei normali missili di crociera e avendo un massa di tre o
quattro volte superiore, può colpire il bersaglio con un'energia
cinetica tanto potente da poter affondare anche navi di grande e
grandissimo tonnellaggio. Nemmeno gli Stati Uniti hanno sistemi
difensivi per neutralizzare quest'arma, che non può essere fermata né
dal sistema radar Aegis, né dal sistema di fuoco Phalanx, ad esso
collegato, che spara 3000 proiettili al minuto sul bersaglio
identificato dal radar. In queste condizioni una nave da guerra diventa
una bara. Putin non sta bluffando e bisogna prenderlo sul serio.
=== 4.4 ===
LA STAMPA, 24/11/2004
L’EX CONSIGLIERE PER LA SICUREZZA NAZIONALE ED ESPERTO DELL’EUROPA
ORIENTALE
«L’obiettivo di Mosca: ricostituire una piccola Urss»
Brzezinski: ci sono nostalgici al potere che vogliono una unione di
popoli slavi
corrispondente da NEW YORK - C’E’ lo zampino di Vladimir Putin nel
tentativo delle vecchie élite ucraine di impedire l'affermarsi della
democrazia». Così Zbignew Brzezinski, già consigliere per la Sicurezza
nazionale del presidente Carter e profondo conoscitore dell'Europa
orientale, legge quanto sta avvenendo a Kiev.
Quale è l'origine della crisi politica in atto in Ucraina?
«E' nella volontà delle ex élite politiche locali e della leadership
del Cremlino di impedire all'Ucraina di avvicinarsi all'Unione europea
con il fine di mantenerla vicina a Mosca, stretta alla Russia».
Che cosa accomuna i vecchi poteri locali a Mosca?
«L'obiettivo strategico che si cela dietro questo disegno politico è di
fare dell'Ucraina una nuova Bielorussia».
Perché il presidente russo Vladimir Putin vuole questo?
«Perché lui e gli ex agenti del Kgb come lui che lo circondano nelle
stanze del Cremlino condividono idee nostalgiche, sognano di realizzare
nel prossimo futuro una nuova versione dell'Unione Sovietica, creata
attorno a un'unione di popolo slavi come quelli della Bielorussia e
dell'Ucraina».
L'Unione europea ha reagito al braccio di ferro in atto a Kiev
lanciando segnali di apertura verso il leader l'opposizione. Non crede
che anche questa possa essere considerata un'intromissione negli affari
interni dell'Ucraina?
«L'Unione europea ha interesse a veder emergere in Ucraina la
democrazia e a denunciare le manipolazioni elettorali che sono
avvenute. I brogli alle urne sono incompatibili con una democrazia
europea. Oggi l'Europa non può accettare che un risultato elettorale
venga manomesso».
Lei crede dunque che sia stato davvero Viktor Yushenko a vincere la
tornata elettorale?
«Se teniamo presente i dati che sono stati raccolti dalle opposizioni,
ciò che hanno visto e raccontato i pochi osservatori internazionali
presenti sul posto e anche i dati contraffatti che ci sono stati
forniti dal governo, non credo proprio che rimangano dubbi sul fatto
che l'opposizione abbia prevalso e che è in atto un tentativo di
privare Viktor Yushenko della vittoria legittimamente ottenuta alle
urne».
L'amministrazione Bush considera Vladimir Putin un alleato ma ha fatto
trapelare negli ultimi giorni una crescente attenzione politica nei
confronti di Viktor Yushenko. Quali conclusioni dovrebbe trarre, a suo
avviso, la Casa Bianca da quanto sta avvenendo a Kiev?
«Questa Amministrazione dovrebbe essere seriamente preoccupata per la
sorte della democrazia e dell'Ucraina. Ciò che sta avvenendo a Kiev
avrà ripercussioni nella Federazione russa. Non ci troviamo di fronte a
un evento di importanza secondaria. Una vittoria della democrazia a
Kiev rafforzerebbe chi a Mosca si batte e vuole la democrazia. Una
sconfitta della democrazia a Kiev invece darebbe forza a chi a Mosca
persegue disegni nostalgici ed è animato da propositi illiberali e
dispotici».
Come dovrebbe allora reagire la comunità internazionale di fronte allo
scontro fra Yanukovic e Yushenko?
«La posta in palio in Ucraina è davvero molto alta. Per l'Europa, per
gli Stati Uniti, per chiunque ha a cuore la democrazia. Ciò che io
credo è che l'Unione europea e gli Stati Uniti dovrebbero agire assieme
e in tempi molto ravvicinati».
In quale maniera, per fare che cosa?
«Per chiedere formalmente all'ex presidente Leonid Kuchma o alla Rada
Suprema, il Parlamento ucraino, di indire al più presto nuove elezioni
politiche con la garanzia che avvengano sotto un monitoraggio
internazionale tale da impedire il ripetersi dei brogli che sono
avvenuti in questa occasione».
4: "Ci sono nostalgici al potere che vogliono una unione di popoli
slavi" (ergo: mamma li turchi!)
4.1 LA RUSSIA NELL’ “ASSE DEL MALE”?
di Mauro Gemma (l’articolo apparirà nel n. 6/2004 della rivista
comunista “L’Ernesto” - www.lernesto.it)
4.2 BUSH E IL NEW-DEAL TRANSATLANTICO
Ultima chiamata per l’UE
(Di Marta Dassu, da La Stampa)
4.3 L'ANNUNCIO DEL CAPO DEL CREMLINO SUI NUOVI MISSILI NUCLEARI E' UN
AVVERTIMENTO: CAMBIANO GLI EQUILIBRI STRATEGICI
Torna la superpotenza russa, e non è un bluff
(Di Giulietto Chiesa, da La Stampa)
4.4 «L’obiettivo di Mosca: ricostituire una piccola Urss»
Brzezinski: ci sono nostalgici al potere che vogliono una unione di
popoli slavi
(Da La Stampa)
=== 4.1 ===
LA RUSSIA NELL’ “ASSE DEL MALE”?
di Mauro Gemma
(l’articolo apparirà nel n. 6/2004 della rivista comunista “L’Ernesto”
- www.lernesto.it)
Un centinaio di personalità del blocco atlantico invocano l’apertura di
un fronte di “guerra fredda” con la Russia di Putin, allo scopo di
destabilizzare il grande concorrente eurasiatico, proprio nel momento
in cui esso tenta di riprendere il controllo delle enormi risorse
energetiche del paese (1).
A sgomberare il campo da equivoci sul futuro oscuro delle relazioni tra
Russia e Stati Uniti ha provveduto, alla vigilia delle elezioni
presidenziali del 2 novembre, Zbignew Brzezinski, già consigliere delle
amministrazioni USA e teorico della strategia americana nell’area
eurasiatica. “L’idillio con Putin, sia per i repubblicani che per i
democratici, è finito. Non prevedo particolari differenze tra le
posizioni di Bush e di Kerry nei confronti del Cremlino. Nei prossimi
anni tutta la politica americana sarà caratterizzata dalla
preoccupazione per gli sviluppi della situazione in Russia. Tale
preoccupazione è condivisa dai più influenti circoli politici degli
USA. E’ il riflesso della disillusione nei confronti di Putin, che ha
iniziato a condurre una politica apertamente antidemocratica, che si
traduce nella feroce e rovinosa guerra in Cecenia”, dichiara il noto
anticomunista, acerrimo nemico prima dell’URSS e poi della Russia, al
giornale filo-oligarchico russo “Novaja Gazeta” (fonte privilegiata di
informazione e commento sulle cose russe anche delle sinistre
occidentali, moderate e “alternative”)(2). E’ stata la più autorevole
smentita anche a quegli ambienti ufficiali russi (che hanno consigliato
Putin a non nascondere le sue preferenze per il candidato Bush) che,
sulla scorta di un’esperienza maturata già al tempo dell’URSS,
continuano a considerare l’establishment repubblicano meno disponibile
di quello democratico a cedere alle pressioni delle lobby anti-russe.
In questa cornice, che lascia prevedere il delinearsi di nuovi
inquietanti scenari di acuta tensione tra le massime potenze nucleari
del pianeta, si inquadra anche quella che può essere considerata una
delle più importanti offensive “mediatiche” di quest’anno. Si tratta
della “lettera aperta”(3), firmata da un centinaio di illustri
personalità americane ed europee del blocco atlantico, indirizzata il
28 settembre “ai capi di stato e di governo dell’Unione Europea e della
NATO”. Gli autori dichiarano di essere “profondamente preoccupati che
questi tragici avvenimenti (di Beslan) possano essere sfruttati (dal
presidente russo Vladimir Putin) per minacciare ulteriormente
l’esistenza della democrazia in Russia”. Tra le varie accuse rivolte a
Putin c’è anche quella di avere arbitrariamente imprigionato o
costretto all’esilio “i suoi avversari politici”: evidentemente ci si
riferisce al petroliere Khodorkovskij e agli altri magnati fuggiti in
Occidente, che sono responsabili del saccheggio della ricchezza
nazionale e di gravissimi crimini di carattere economico. In politica
estera, gli autori della lettera, andando brutalmente al “nocciolo”
della questione, non mascherano la loro preoccupazione per la “pretesa”
della Russia di esercitare il pieno controllo sulle sue ricchezze
energetiche e la loro destinazione, quando osservano che Putin avrebbe
“un atteggiamento minaccioso…nei confronti della sicurezza energetica
europea”. Essi affermano che “è giunto il momento di ripensare i
termini del nostro impegno con la Russia di Putin” e invitano
esplicitamente a schierarsi dalla parte delle “decine di migliaia di
democratici russi (con in prima fila i residui del “clan Eltsin”) che
stanno ancora combattendo per difendere la libertà e la democrazia nel
loro paese”.
E’ un appello esplicito alla rottura di ogni forma di collaborazione
tra la NATO e la Federazione Russa e al rilancio della “guerra fredda”.
Il testo integrale della “lettera” è stato pubblicato
contemporaneamente da diverse prestigiose testate occidentali, tra le
quali spicca quella del “Washington Post”, e ha immediatamente avuto
un’enorme diffusione nell’intera rete web.
Promotore dell’appello è il primo presidente della Repubblica Ceca
Vaclav Havel(4). Per tradurre in pratica l’iniziativa anti-russa, Havel
si è naturalmente servito di numerose potenti collaborazioni. Tra le
innumerevoli fondazioni e istituti che lo sostengono sistematicamente
nella sua azione di promozione della penetrazione della NATO nell’est
europeo e dell’offensiva contro quel che resta della presenza comunista
su scala mondiale, l’ex “dissidente” ha potuto contare sull’appoggio
della cosiddetta “Nuova iniziativa atlantica”, un progetto dell’
“America Enterprise Institute” da lui creato nel 1996.
Nel lanciare l’iniziativa, Havel si è naturalmente preoccupato di
preservarne il carattere rigorosamente “bipartisan”. E’ questa la
ragione che spiega la “trasversalità” delle adesioni raccolte sia in
ambito ultra-conservatore, che tra gli esponenti del “centro-sinistra”
clintoniano e socialdemocratico. Tra le firme si contano quelle di
rappresentanti dell’anticomunismo più spinto dell’attuale corso
est-europeo, come Landsberghis, l’ex presidente di quella Lituania
recentemente associata alla NATO, dove numerosi militanti comunisti
sono sepolti in galera da oltre un decennio, l’ex premier bulgaro
Philip Dimitrov e l’ex ministro e “dissidente” polacco Bronislaw
Geremek.
Immancabili le firme del filosofo francese André Glucksmann e del verde
tedesco Reinhardt Butifoker
E non è certo casuale che tra le firme di italiani, oltre a quella
(scontata) dell’esponente radicale Daniele Capezzone, spicchino quelle
dell’ex premier socialista Giuliano Amato e del capo di governo
italiano che ha partecipato all’aggressione alla Jugoslavia nel 1999,
il presidente dei “democratici di sinistra” Massimo D’Alema.
Rigorosamente bilanciata tra “falchi” e “colombe” è la pattuglia
americana. Il “Corriere della sera” scrive di “un partito trasversale
americano che si è venuto formando tra politici democratici,
repubblicani e indipendenti…Vanno dall’ideologo neoconservatore William
Bristol all’ex ambasciatore all’ONU Richard Holbrooke, un liberal che
diverrebbe segretario di Stato se John Kerry fosse eletto presidente;
dall’ex direttore della CIA James Woolsey, un falco, all’ex
vicedirettore della Sicurezza Nazionale sotto Bill Clinton, James
Steinberg, una colomba; da Francis Fukuyama, l’autore de “La fine della
storia”, a Robert Kagan, il teorico del divario tra l’America (Marte) e
l’Europa (Venere)”(5).
Contemporaneamente al lancio dell’appello, si è provveduto a dar vita a
una serie di centri e di siti internet che dovrebbero affiancare con un
“bombardamento” propagandistico la “battaglia democratica” in Russia.
Tali iniziative sono coordinate dal cosiddetto “Centro per il futuro
della Russia”, un’istituzione che conta sul sostegno finanziario del
banchiere neofascista Richard Mellon Scafe e il cui “cervello”
organizzativo pare essere l’ex direttore della CIA Woolsey, che, come
abbiamo visto, compare tra i firmatari dell’appello. Compito di tale
centro dovrebbe essere quello di denunciare sistematicamente “le
violazioni dei diritti dell’uomo” in Cecenia e “gli attentati alla
libertà di stampa” nell’insieme della Federazione Russa, organizzando
campagne di denuncia, pressione e mobilitazione della “società civile”
in Russia e all’estero.
Tutte queste iniziative, di cui l’appello è sicuramente la più
clamorosa, si proporrebbero di convincere l’Occidente, considerato
ancora titubante, della necessità di una nuova mobilitazione, simile a
quella dei tempi della “guerra fredda”, al fine di contenere la Russia
e bloccare il processo “totalitario” in corso. Nella fase attuale,
secondo i promotori dell’offensiva, muterebbero, rispetto al passato
“comunista”, solo le caratteristiche ideologiche del nuovo
“totalitarismo”. Si tratterebbe di un’ideologia che farebbe leva sulle
inclinazioni autoritarie dell’identità nazionale russa che non si esita
a definire “ataviche”.
Ma, in realtà, le ragioni di un’iniziativa di tale pesantezza appaiono
ben più concrete. In tal senso, occorre fare un passo indietro nel
tempo, dando uno sguardo alle più recenti fasi che hanno scandito il
progressivo deterioramento delle relazioni tra la Federazione Russa e
gli Stati Uniti.
A questo proposito, ci sembra illuminante citare testualmente quanto si
può leggere su “reseau voltaire.net” il 4 ottobre 2004:
“Le relazioni tra il Cremlino e la Casa Bianca si sono raffreddate il 2
luglio 2003, con l’arresto per frode fiscale di Platon Lebedev,
presidente del gruppo bancario “Menatep”. Esse si sono ancor più tese
con l’arresto di Mikhail Khodorkovskij, presidente del gruppo
petrolifero “Yukos-Sibneft”, il 25 ottobre 2003, ugualmente per frode
fiscale. Sono divenute acide con l’arresto in Qatar, nel febbraio 2004,
di tre agenti dei servizi segreti russi, denunciati dalla CIA per
essere venuti ad assassinare Zelimkhan Yandarbiyed, considerato il
mandante della presa degli ostaggi al teatro di Mosca. Sono entrati in
una fase di scontro, nel mese di settembre, dopo la dichiarazione di
Vladimir V. Putin che attribuiva la cattura degli ostaggi di Beslan ai
servizi segreti anglo-sassoni.
Il Cremlino si è poi impegnato in una politica di riappropriazione
delle ricchezze nazionali, privatizzate sotto Boris Eltsin a vantaggio
di un pugno di sodali, liquidando uno ad uno gli “oligarchi”. Questo
processo, che viene vissuto dal popolo russo come il recupero dei beni
collettivi rubati, è analizzato negli Stati Uniti alla stregua di una
nazionalizzazione mascherata, di un ritorno strisciante al
collettivismo statalista. Esso ha toccato gli investimenti di Wall
Street, in particolare in seguito all’arresto di Khodorkovskij. Egli in
effetti era vicino alla famiglia Bush, fino a diventare consigliere
della loro società di investimenti, il gruppo “Carlyle”.
Per il FSB (l’ex KGB), sebbene tali elementi non figurino negli atti
giudiziari, Mikhail Khodorkovskij non era solo un uomo d’affari, ma
anche un traditore. In combutta con Henry Kisinger e George Soros,
avrebbe preparato il rovesciamento di Vladimir Putin e la decisione del
suo arresto sarebbe stata presa all’ultimo momento per impedire un
colpo di stato.
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 esiste un accordo non scritto
tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che li
autorizza ad assassinare all’estero i capi terroristi, senza che ciò
possa creare incidenti diplomatici. In tal modo, la CIA ha potuto
liquidare nello Yemen uomini sospettati di appartenere ad
un’organizzazione terrorista internazionale, lanciando un missile
“Predator”, senza sollevare proteste. Allo stesso modo il FSB ha
ritenuto di potere assassinare in Qatar Yandarbiyed per vendicare le
129 vittime della cattura degli ostaggi al teatro di Mosca nell’ottobre
2002. Ma gli agenti del FSB sono stati denunciati dalla CIA alle
autorità del Qatar e bloccati all’aeroporto di Doha mentre si
accingevano a lasciare il paese. Incarcerati, sono in attesa di
processo e rischiano la pena di morte. Per il Cremlino è stata la prova
definitiva che la “guerra mondiale al terrorismo” non è che un
artificio retorico privo di senso, utilizzato dalla Casa Bianca per
avere la possibilità di passare oltre il diritto internazionale”.
Poi c’è stata la tragedia di Beslan, che ha rappresentato il momento di
massima tensione nei rapporti russo-americani, come abbiamo avuto modo
di analizzare in un nostro precedente articolo(6). In quell’occasione
la risposta di Vladimir Putin è stata durissima: nel corso di un
incontro con i giornalisti stranieri ha inchiodato alle loro
responsabilità, chiamandoli esplicitamente in causa, quegli ambienti
occidentali che “vogliono indebolire la Russia esattamente come i
Romani volevano distruggere Cartagine”(7).
E’ ancora “reseau voltaire.net”(8)a rilevare come la clamorosa presa di
posizione contro il corso politico di Putin si manifesti proprio nel
momento di maggiore difficoltà per gli USA ad esercitare uno stabile
controllo sulle risorse petrolifere del pianeta, dovuto in particolare
ad importanti fenomeni di resistenza di popoli e stati, registrabili in
alcune aree “calde”, strategiche dal punto di vista
dell’approvvigionamento energetico. E’ sempre più evidente che la
poderosa armata americana non riesce ad avere la meglio dell’eroica
Resistenza irachena e a stabilizzare il controllo delle aree di
produzione del paese. In Venezuela, altro grande produttore di
petrolio, le azioni di destabilizzazione, messe in atto
dall’amministrazione Bush, hanno avuto come effetto solo quello di
rafforzare la Rivoluzione “bolivariana” e il prestigio popolare del suo
leader Hugo Chavez. Gli Stati Uniti sono stati costretti in tal modo a
rinunciare, almeno in parte significativa, a diversificare le loro
fonti di approvvigionamento. Si presenta, inevitabile, la necessità di
alzare il tiro direttamente sugli obiettivi principali della
competizione: i tre maggiori produttori del mondo, vale a dire l’Arabia
Saudita, l’Iran e, naturalmente, la Russia, con la sua insopportabile
richiesta di porre delle regole alla penetrazione delle multinazionali
nel suo sterminato territorio.
Una nuova diversa strategia, di conseguenza, potrebbe caratterizzare il
secondo mandato di Bush. Il complesso militare-industriale e le
multinazionali del petrolio cercano di ridefinire gli obiettivi,
creando, allo scopo, nuove “squadre”.
La pressione propagandistica del potente fronte delle “personalità” del
blocco atlantico risponde pienamente allo scopo.
(1) Gran parte delle informazioni contenute in questo articolo sono
reperibili nel lungo e dettagliatissimo contributo apparso il 4 ottobre
2004 nel sito francese di analisi internazionali “reseau voltaire.net”.
http://www.reseauvoltaire.net/%c2%a0
(2) “L’idillio dell’America con Putin è finito”. Intervista a Zbignew
Brzezinski. “Novaja Gazeta”, n. 76, 14 ottobre 2004. ,
http://2004.novayagazeta.ru/nomer/2004/76n/n76n-s10.shtml
(3) La versione italiana della “Lettera aperta ai Capi di Stato e di
governo dell’Unione europea e della NATO” è apparsa il 30 settembre in
“Il Foglio”.
(4) L’artefice della cosiddetta “rivoluzione di velluto” cecoslovacca
del 1989 è uno degli alfieri dell’atlantismo. Il suo servilismo nei
confronti degli Stati Uniti è giunto fino al punto di spingerlo a
proporre una modifica della legge elettorale della Repubblica Ceca, per
permettere all’ex segretario di stato USA Madeleine Albright di
succedergli nella carica di capo dello stato. Fortunatamente la
proposta è apparsa balzana persino alla stessa donna politica
americana, di cui non si può mettere certo in discussione la provata
fede anticomunista. Nel luglio 2004, su suo suggerimento, il governo
ceco ha creato addirittura un “dipartimento per i paesi totalitari” in
seno al ministero degli esteri. Insieme all’ex premier spagnolo José
Maria Aznar, Vaclav Havel si è distinto per il feroce accanimento nei
confronti di Cuba, fino ad organizzare lo scorso settembre, nelle sale
del Senato ceco, una conferenza internazionale “per la democrazia a
Cuba”, con il compito esplicito di appoggiare l’attività
controrivoluzionaria e terroristica nell’ “Isola della libertà”.
(5) Ennio Caretto, “Appello a Europa e NATO: Putin resti democratico”,
“Corriere della Sera”, 29 settembre 2004
(6) Mauro Gemma, “Russia: dopo la tragedia di Beslan”, “L’Ernesto”,
n.4/2004.
(7) “Le Monde”, 8 settembre 2004
(8) “Le dispositif Woolsey”, www.reseauvoltaire.net , 4 ottobre 2004
=== 4.2 ===
<< Sembra che l'Europa non abbia alternative alla subalternità
atlantica: "...alzi la mano chi pensa che convenga coltivare, in
alternativa agli Stati Uniti, matrimoni di convenienza con Pechino o
Mosca...", fino al punto di richiamarsi alle comune radici "liberali"
per difendersi dai paesi emergenti: "il vecchio Occidente non ha più
molto tempo a disposizione (il suo potere relativo diminuirà
rapidamente) per influenzare le regole del futuro sistema
internazionale". Così pensa la giornalista de La Stampa, insieme a
tanta parte della classe politica italiana... >>
(S. Franchi)
BUSH E IL NEW-DEAL TRANSATLANTICO
Ultima chiamata per l’UE
Di Marta Dassu, da La Stampa del 24/11/2004
Vista dall'America di Bush 2, l'Europa non è più irrilevante. Per
convinzione (dubbia) o per necessità (probabile), il presidente
americano meno amato dagli europei intende ritrovare l'Europa.
Nonostante l'Iraq.
Vista dai think-tanks americani, l'Europa ha due capitali: Londra e
Bruxelles. Bush padre guardava a Berlino quando lanciò, senza successo,
la sua visione di un nuovo ordine mondiale successivo alla guerra
fredda; anche Kerry avrebbe probabilmente guardato lì. Bush 2 scommette
invece su un'Unione «anglo-atlantica», con Londra ancorata al suo
interno. Secondo gli analisti di Washington, quel che Bush proporrà,
nel suo tour europeo a febbraio, è un rilancio politico della Nato o
una sorta di nuovo patto Stati Uniti-Ue. Quali che siano le formule
Bush 2 cambierà almeno il tono e lo stile, con quei «pappamolla» degli
europei (definizione «neocon»); butterà simbolicamente alle ortiche -
con la tappa a Bruxelles - la teoria che agli Stati Uniti convenga
disaggregare, invece che unire, il Vecchio Continente; e cercherà così
di offrire una sponda agli «euro-atlantisti». Ci riuscirà? E quanto
conviene agli europei stessi che la superpotenza solitaria cerchi di
nuovo la loro compagnia? Bush 2 potrebbe anche rtiuscire, ma a due
condizioni. La prima è che qualcosa si sblocchi, in Iraq e nel Medio
Oriente allargato, con il recupero di almeno qualche grano di realismo
da parte americana.
La Conferenza di Sharm el-Sheikh ci dirà fino a che punto Bush 2 sia
deciso a coinvolgere l'Iran nel tentativo di chiudere il fronte
iracheno. Se così non sarà - e se la linea del rifiuto su Teheran
spazzerà via anche l'accordo provvisorio degli UE-3 (Francia, Germania
e Gran Bretagna) sulla questione nucleare - l'Iran finirà per dividere
Stati Uniti ed Europa come e più dell'Iraq. Dobbiamo esserne
consapevoli, sia noi che gli americani: il rapporto transatlantico è
diventato ormai «ostaggio» dell'intera vicenda mediorientale. Senza un
accordo su questo fronte -dal Golfo fino a Gerusalemme - un new deal
transatlantico non si avrà.
La seconda condizione è che Londra rimanga effettivamente ancorata
all'Unione europea. Tendiamo quasi a rimuovere il problema, ma se il
referendum sul Trattato costituzionale verrà bocciato dagli inglesi,
nel 2006, la disaggregazione dell' Europa diventerà uno scenario
realistico, non perché impostoci dal di fuori ma perché inflittoci dal
di dentro. Il cuore continentale dell'Unione può anche sognare che
liberarsi di Londra sia il modo per tornare ad esistere, come Europa.
Ma così non sarebbe: la storia degli ultimi due anni ha già dimostrato
che la teoria della «piccola Europa» non ha, nell'Unione allargata,
credibilità sufficiente.
Cosa allora conviene, dal punto di vista europeo? Conviene lasciarsi
alle spalle le finte lotte di prestigio (né Parigi né Londra hanno in
realtà esercitato nessuna vera influenza su Bush 1), prendendo atto di
una scomoda verità: un'Europa divisa sul rapporto con l'America avrà
sempre poca voce in capitolo. Conviene anche rinunciare all'utilizzo di
Bush come alibi (le elezioni ci sono state, l'America è quella che ha
votato), per guardare in faccia il punto essenziale: europeismo e
atlantismo sono ancora compatibili? Dall'Iraq in poi, una parte dei
governi e larga parte dell'opinione pubblica europea hanno teso a
rispondere di no. Se cerchiamo di riflettere in modo più freddo,
dovrebbe essere chiaro che, per quanto le società europee possano
sentirsi diverse da quella americana, l'Europa non ha alternative
miglióri al rapporto preferenziale con gli Stati Uniti. Un Churchill di
oggi, se ci fosse, direbbe che è il rapporto peggiore - eccetto tutti
gli altri.
E nel disordine anarchico che ancora prevale, l'Europa non ha certo la
forza di giocare in proprio: alzi la mano chi pensa che convenga
coltivare, in alternativa agli Stati Uniti, matrimoni di convenienza
con Pechino o Mosca. Fra Stati Uniti ed Europa esistono conflitti
importanti, economici e politici: gestirli in modo cooperativo è una
priorità, essendo consci, come scrive Tim Garton Ash nel suo ultimo
libro (Free World), che il vecchio Occidente non ha più molto tempo a
disposizione (il suo potere relativo diminuirà rapidamente) per
influenzare le regole del futuro sistema internazionale. Questo è il
nostro interesse di fondo. Per il resto, il dibattito sull'America è
soprattutto un surrogato; o meglio la spia delle nostre difficoltà a
definire in positivo una identità politica europea condivisa. Sperare
che l'America ci serva, in negativo, da federatore esterno, che faccia
l'Europa al posto nostro e contro di sé, è chiedere troppo.
=== 4.3 ===
L'ANNUNCIO DEL CAPO DEL CREMLINO SUI NUOVI MISSILI NUCLEARI E' UN
AVVERTIMENTO: CAMBIANO GLI EQUILIBRI STRATEGICI
Torna la superpotenza russa, e non è un bluff
Di Giulietto Chiesa, da La Stampa del 24/11/2004
ALLA vigilia di una serie di importanti summit internazionali, in cui
incontrerà - tra gli altri - i massimi dirigenti degli Stati Uniti,
della Cina e dell'Unione europea, Vladimir Putin ha annunciato che la
Russia sarà presto in condizione di disporre operativamente di nuovi
sistemi di armi strategiche nucleari «che le altre potenze non hanno e
non potranno avere». Sebbene la dichiarazione - fatta di fronte agli
Alti comandi delle Forze armate russe - contenesse un riferimento alla
necessità di rafforzare le difese del Paese contro il terrorismo
internazionale, è del tutto evidente che (poiché quest'ultimo non si
combatte con testate nucleari multiple e missili intercontinentali
capaci di portare bombe atomiche per 4,4 tonnellate a missile), il
Cremlino ha inteso comunicare alle altre potenze nucleari, tutte
nessuna esclusa, l'avvenuta sostanziale modificazione degli equilibri
strategici. Si tratta di una dichiarazione di enorme importanza. In
primo luogo Putin conferma che la Russia, in questi ultimi quattro anni
successivi all'uscita unilaterale degli Stati Uniti dall'accordo
Usa-Urss (Abm -Antimissile balistico) del 1972, ha rivoluzionato il
proprio sistema nucleare strategico. Washington viene informata che il
suo Scudo spaziale, ancora in costruzione e che prevede una spesa
complessiva superiore ai 120 miliardi di dollari, è già perforabile,
quindi inutile. II presidente russo non indica nessuna delle potenziali
minacce, ma è del tutto chiaro che gli Stati Uniti entrano nel novero
dei bersagli: «Se ignorassimo alcune componenti della nostra difesa,
come ad esempio lo Scudo nucleare e missilistico, ecco che altre
minacce potrebbero crescere». Ma l'avvertimento è a 360 gradi. Anche la
Cina fa parte del club. Mosca riafferma il proprio ruolo di potenza
mondiale in perfetta solitudine: non promuove alleanze, semplicemente
dice che, con le sue forze tecnologiche e scientifiche, ha risalito la
china dello svantaggio. E' dunque terminata l'era della cooperazione
con una Russia considerata dall'Occidente come un partner importante ma
minore. Adesso si dovrà discutere alla pari. Bush ha ricevuto appoggio
e congratulazioni da Putin, ma il suo secondo mandato comincia in
condizioni strategiche opposte a quelle con cui cominciò il primo. La
seconda questione riguarda la veridicità della dichiarazione di Putin.
E' un bluff? E' una cosa seria? Le prime reazioni in Occidente e in
Oriente sono state caute, ma nessuno sembra incline a ritenere che
Putin stia giocando una partita a poker senza avere il poker. Del resto
sono stati numerosi i segnali che Mosca ha sviluppato nuovi sistemi
d'arma negli ultimi tempi. In particolare nel settore dei missili di
crociera ipersonici. Le parole di Putin, associate ad alcune
indiscrezioni anonime fatte filtrare nei mesi scorsi dai vertici
militari russi, fanno emergere l'ipotesi che il sistema di testate
multiple sia stato integrato con i sistemi di guida dei missili di
crociera, rendendo le singole testate non intercettabili proprio perché
non più balistiche. Del resto Mosca ha già messo in vendita, per
acquirenti privilegiati, tra cui l'Iran, un sistema missilistico di
crociera che, a detta degli esperti, non ha al momento alcun antidoto
efficace su teatri di guerra anche molto vasti. II missile si chiama
3M82, detto Moskit (secondo la definizione Nato: SS-N-22 Sunburn), ha
un raggio d'azione di 100 miglia, oltre il doppio dei micidiali Exocet
di fabbricazione francese che affondarono due navi britanniche nella
guerra delle Falkland e che spezzarono in due la USS Stark nel 1987,
durante la guerra Iran-Irak, uccidendo 37 marinai americani. Ma
MoskitSunburn è molto di più: viaggia a una velocità di mach 2,1, cioè
due volte e oltre quella del suono; può trasportare un carico nucleare
di 200 chiloton, ovvero una testata convenzionale di circa 400 chili;
ha un sistema di guida che gli permette bruschi e improvvisi mutamenti
di rotta (ecco la novità che potrebbe riguardare le testate multiple
dei missili balistici intercontinentali); infine, essendo tremendamente
più veloce dei normali missili di crociera e avendo un massa di tre o
quattro volte superiore, può colpire il bersaglio con un'energia
cinetica tanto potente da poter affondare anche navi di grande e
grandissimo tonnellaggio. Nemmeno gli Stati Uniti hanno sistemi
difensivi per neutralizzare quest'arma, che non può essere fermata né
dal sistema radar Aegis, né dal sistema di fuoco Phalanx, ad esso
collegato, che spara 3000 proiettili al minuto sul bersaglio
identificato dal radar. In queste condizioni una nave da guerra diventa
una bara. Putin non sta bluffando e bisogna prenderlo sul serio.
=== 4.4 ===
LA STAMPA, 24/11/2004
L’EX CONSIGLIERE PER LA SICUREZZA NAZIONALE ED ESPERTO DELL’EUROPA
ORIENTALE
«L’obiettivo di Mosca: ricostituire una piccola Urss»
Brzezinski: ci sono nostalgici al potere che vogliono una unione di
popoli slavi
corrispondente da NEW YORK - C’E’ lo zampino di Vladimir Putin nel
tentativo delle vecchie élite ucraine di impedire l'affermarsi della
democrazia». Così Zbignew Brzezinski, già consigliere per la Sicurezza
nazionale del presidente Carter e profondo conoscitore dell'Europa
orientale, legge quanto sta avvenendo a Kiev.
Quale è l'origine della crisi politica in atto in Ucraina?
«E' nella volontà delle ex élite politiche locali e della leadership
del Cremlino di impedire all'Ucraina di avvicinarsi all'Unione europea
con il fine di mantenerla vicina a Mosca, stretta alla Russia».
Che cosa accomuna i vecchi poteri locali a Mosca?
«L'obiettivo strategico che si cela dietro questo disegno politico è di
fare dell'Ucraina una nuova Bielorussia».
Perché il presidente russo Vladimir Putin vuole questo?
«Perché lui e gli ex agenti del Kgb come lui che lo circondano nelle
stanze del Cremlino condividono idee nostalgiche, sognano di realizzare
nel prossimo futuro una nuova versione dell'Unione Sovietica, creata
attorno a un'unione di popolo slavi come quelli della Bielorussia e
dell'Ucraina».
L'Unione europea ha reagito al braccio di ferro in atto a Kiev
lanciando segnali di apertura verso il leader l'opposizione. Non crede
che anche questa possa essere considerata un'intromissione negli affari
interni dell'Ucraina?
«L'Unione europea ha interesse a veder emergere in Ucraina la
democrazia e a denunciare le manipolazioni elettorali che sono
avvenute. I brogli alle urne sono incompatibili con una democrazia
europea. Oggi l'Europa non può accettare che un risultato elettorale
venga manomesso».
Lei crede dunque che sia stato davvero Viktor Yushenko a vincere la
tornata elettorale?
«Se teniamo presente i dati che sono stati raccolti dalle opposizioni,
ciò che hanno visto e raccontato i pochi osservatori internazionali
presenti sul posto e anche i dati contraffatti che ci sono stati
forniti dal governo, non credo proprio che rimangano dubbi sul fatto
che l'opposizione abbia prevalso e che è in atto un tentativo di
privare Viktor Yushenko della vittoria legittimamente ottenuta alle
urne».
L'amministrazione Bush considera Vladimir Putin un alleato ma ha fatto
trapelare negli ultimi giorni una crescente attenzione politica nei
confronti di Viktor Yushenko. Quali conclusioni dovrebbe trarre, a suo
avviso, la Casa Bianca da quanto sta avvenendo a Kiev?
«Questa Amministrazione dovrebbe essere seriamente preoccupata per la
sorte della democrazia e dell'Ucraina. Ciò che sta avvenendo a Kiev
avrà ripercussioni nella Federazione russa. Non ci troviamo di fronte a
un evento di importanza secondaria. Una vittoria della democrazia a
Kiev rafforzerebbe chi a Mosca si batte e vuole la democrazia. Una
sconfitta della democrazia a Kiev invece darebbe forza a chi a Mosca
persegue disegni nostalgici ed è animato da propositi illiberali e
dispotici».
Come dovrebbe allora reagire la comunità internazionale di fronte allo
scontro fra Yanukovic e Yushenko?
«La posta in palio in Ucraina è davvero molto alta. Per l'Europa, per
gli Stati Uniti, per chiunque ha a cuore la democrazia. Ciò che io
credo è che l'Unione europea e gli Stati Uniti dovrebbero agire assieme
e in tempi molto ravvicinati».
In quale maniera, per fare che cosa?
«Per chiedere formalmente all'ex presidente Leonid Kuchma o alla Rada
Suprema, il Parlamento ucraino, di indire al più presto nuove elezioni
politiche con la garanzia che avvengano sotto un monitoraggio
internazionale tale da impedire il ripetersi dei brogli che sono
avvenuti in questa occasione».