Le ambiguita' del "Manifesto"
Riportiamo di seguito due articoli di Tommaso Di Francesco apparsi
nelle scorse settimane sul quotidiano "Il Manifesto".
Tommaso Di Francesco e' tra i pochissimi giornalisti italiani a seguire
le questioni jugoslave con una certa continuita' e competenza. In
questi articoli egli pone di fronte all'opinione pubblica l'attualita'
e l'urgenza della questione del Kosovo e della Jugoslavia in generale,
in un contesto in cui viceversa dominano la censura militare ed una
irresponsabile disattenzione della classe politica. Di Francesco fa
anche notare come la gravita' della situazione attuale derivi in larga
misura dalle scelte criminali del governo D'Alema (benche' tuttora
molti esponenti del centrosinistra rivendichino una impossibile
legittimita' per la loro "guerra umanitaria" del 1999... e magari anche
per la prossima).
Tuttavia, Di Francesco mescola informazione e disinformazione. E
vorremmo capire il perche'.
Egli continua a parlare di "contropulizia etnica" per l'attuale regime
di apartheid e violenza instaurato in Kosovo, dando ad intendere che si
dovrebbe credere alla grande menzogna della "pulizia etnica serba" -
menzogna usata proprio dalla NATO e da quel centrosinistra per
giustificare la aggressione del 1999 e le vergogne attuali. Egli scrive
senza alcuna ombra di ironia che:
<<la Serbia "si `limitava' a trucidare la propria popolazione di etnia
albanese>>
pur sapendo benissimo che non esisteva alcuna politica di
discriminazione, tanto meno di sterminio, nella Serbia di Milosevic.
Tanto e' vero che a Belgrado hanno sempre abitato ed abitano centinaia
di migliaia di albanofoni. Tanto e' vero che molti albanesi-kosovari
erano iscritti al Partito Socialista della Serbia, finche' non sono
stati ammazzati dall'UCK - oppure sono dovuti scappare dopo il giugno
1999. Tanto e' vero che le bugie sullo "sterminio" e sulle "fosse
comuni" non sono nemmeno parte dei capi di imputazione del "Tribunale
dell'Aia" - ed e' tutto dire!!!
Perche' allora Tommaso di Francesco mente? Forse tutto questo e'
semplicemente il prezzo che Di Francesco deve pagare per potere
scrivere di certi argomenti su di un quotidiano nazionale... E
tuttavia: chi obbliga Di Francesco a darcela a bere su Carla Del Ponte
che "racconta di vivere letteralmente barricata dentro il Tribunale"
(la tapina!) ? E perche' Di Francesco definisce "moderato" l'agente
sorosiano Veton Surroi ? E perche' finge di stupirsi sulla designazione
del terrorista Haradinaj a "premier del Kosovo" ? Ed e' veramente
convinto che questa designazione sia avvenuta "nello stupore della
comunità internazionale" [SIC] ? Strano, perche' e' lui stesso a
scrivere che "l'amministratore Unmik Jessen Petersen ha respinto ogni
richiesta [di rimozione di Haradinaj dall'incarico], dichiarando che la
destituzione «non sarebbe democratica»", ed anche che "in queste ore
l'amministrazione Bush si mostra disposta ad appoggiare Ramush
Haradinaj".
Ma, di grazia, non e' tutto questo perfettamente in linea con la
politica anti-jugoslava di USA ed UE da 15 anni a questa parte? Puo' Di
Francesco non sapere che e' dimostrato, ad esempio, il coinvolgimento
dei servizi segreti militari tedeschi nei pogrom antiserbi dello scorso
marzo (vedi la documentazione passata su JUGOINFO negli scorsi due
mesi)? E perche' non ne parla? E perche' non dice niente di quello che
avviene e che viene detto dentro l'aula del "tribunale ad hoc"
dell'Aia, proprio in questi mesi in cui e' in atto la fase della difesa
di Milosevic?
Forse dovremo aspettare la "dichiarazione di indipendenza" del Kosovo,
preannunciata per quest'anno, e dunque la guerra prossima ventura,
prima di vedere sciogliersi alcune persistenti ambiguita' del
"Manifesto" sulla questione jugoslava.
E' un vero peccato.
(a cura di Italo Slavo)
---
1. Se Fassino rivendica la guerra (13/01/2005)
2. Vulcano Kosovo, rumori di eruzione (19/12/2004)
=== 1 ===
Dibattito a sinistra:
Se Fassino rivendica la guerra
di Tommaso di Francesco
su Il Manifesto del 13/01/2005
Era stato nientemeno che il neocon nostrano Angelo Panebianco ad
affrontare sul Corriere della Sera l'argomento pelosissimo: come
affronterà il centrosinistra eventuali crisi internazionali che
comportino anche l'impiego di soldati italiani? Ce n'era di che
interrogarsi, a sinistra, visto che l'articolo suddetto paventava nel
titolo la «variabile Bertinotti». Naturalmente non è accaduto nulla di
tutto questo. Anzi è accaduto il contrario. Cioè che l'occasione è
stata colta da due protagonisti del centrosinistra come Fassino e
Minniti, per rivendicare la guerra insieme al buon diritto di saperla
fare. Ha cominciato proprio Fassino che, sempre sul Corriere, dopo aver
ricordato tutte le missioni militari decise con e dal centrosinistra,
ha richiamato la vicenda della «guerra umanitaria» del 1999: «Ogni
volta lo abbiamo fatto sulla base di decisioni assunte dall'Onu o da
istituzioni multilaterali equivalenti quali la Nato per il Kosovo».
Davvero uno sproposito. Dall'intervento infatti apprendiamo che
l'Alleanza atlantica nel giugno del 1999 - era ancora un Patto militare
di difesa dell'Europa occidentale e non c'era stata la riforma
«aggressiva» di Washington di fine anno - era un organismo
«equivalente» alle Nazioni unite. Non è finita, perché per Fassino «ciò
è avvenuto in coerenza con l'articolo 11 della Costituzione italiana
che rifiuta il ricorso alla guerra come strumento di risoluzione dei
conflitti, ma al tempo stesso autorizza la messa a disposizione di
soldati italiani per azioni di pace e di stabilizzazione». Va da sé che
per Fassino costituiscono «azione di pace» 78 giorni di bombardamenti
indiscriminati sulla ex Jugoslavia, con tonnelle e tonnellate di bombe
sulle principali città, con la devastazione delle infrastrutture fino
agli ospedali, l'uccisione di 1.500 civili, migliaia e migliaia di
feriti (vedere i rapporti di Amnesty International per credere). E che
non hanno certo «stabilizzato» il Kosovo dove si è scatenata una
criminale quanto nascosta contropulizia etnica a danno delle nuove
minoranze sotto gli occhi della Nato, con migliaia di nuovi omicidi e
distruzioni.
Ma gli spropositi non sono finiti. Perché Fassino ricorda che è in
corso una riforma dell'Onu, ci sono le proposte dei Saggi proprio sul
ricorso all'uso della forza, per evitare che sia illegale, proprio come
quella in Iraq. Un ricorso «estremo», dicono i Saggi, dopo aver
esperito «ogni possibilità alternativa». E Fassino non può dimenticare
- non lo dimentica certo l'ex ministro degli esteri Dini - che c'era in
Kosovo una missione dell'Osce che avrebbe potuto continuare il suo
ruolo e che invece venne fatta fallire a bella posta, e che a
Rambouillet la diplomazia occidentale segnò una delle sue pagine
peggiori.
Fin qui, quanto a dichiarazioni, davvero poteva bastare. Invece, apriti
cielo. Perché il vice-capogruppo di Forza Italia alla Camera,
l'ineffabile Isabella Bertolini ha attaccato, ricordando che no, non fu
la sola sinistra al governo a decidere sul Kosovo, perché «la decisione
ebbe il voto di Forza Italia, An e Lega». «Mente sapendo di mentire»,
ha rilanciato Marco Minniti perché «la mozione Mussi, presentata il 26
marzo 1999 venne approvata dalla sola maggioranza che sosteneva il
governo D'Alema». Le rivendicazioni sono durate per tre giorni.
Un'ideologia viva e vegeta.
Ricordiamo soltanto due problemi. Il primo. E' il 2005, l'anno della
verifica degli accordi di «pace» del 1999 che, possiamo anticipare
senza sbagliare, confermeranno il protettorato militare eterno, non la
stabilizzazione, o la restituzione della provincia kosovara a Belgrado,
la pacificazione etnica, o tantomeno la democrazia. Il secondo. Le
parole di Robert Kagan, il teorico dei neocon doc, scritte nel suo
saggio: «Il diritto di fare la guerra». Parole inequivocabili che
spiegano, a chi si barcamena tra guerre buone, umanitarie e di sinistra
e guerre cattive di destra, quanto sia stato decisiva e anticipatrice
per la guerra illegale in Iraq proprio la guerra contro l'ex
Jugoslavia. «La guerra in Kosovo fu illegale, e non solo perché
condotta senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. La
Serbia era uno stato sovrano che non aveva compiuto alcuna aggressione
verso un altro stato, ma si `limitava' a trucidare la propria
popolazione di etnia albanese. L'intervento ha quindi violato il
principio cardine della Carta delle Nazioni unite: l'uguaglianza
inviolabile e sovrana di tutte le nazioni... Quella guerra ha lasciato
l'amministrazione della giustizia internazionale nelle mani di un
numero relativamente ristretto di potenti nazioni dell'Occidente. Senza
regole. E nel 1999 gli americani non si fecero sfuggire l'occasione di
una guerra senza l'autorizzazione dell'Onu».
=== 2 ===
Internazionale:
Vulcano Kosovo, rumori di eruzione
di Tommaso Di Francesco
su Il Manifesto del 19/12/2004
Carla Del Ponte dall'Aja ci parla di Haradinaj, capo militare dell'Uck,
interrogato dal Tribunale internazionale per i crimini di guerra negli
stessi giorni in cui è diventato primo ministro in Kosovo, grazie a un
accordo «di scambio» col leader moderato Rugova. Un'operazione che sta
riaccendendo la polveriera balcanica
Le notizie che, in queste ore e per tutto il mese di dicembre, si sono
rincorse dal Kosovo - cadute impietosamente nel silenzio di tutta la
stampa italiana attenta alle ceneri del fallimento della guerra
preventiva in Iraq - preannunciano una prossima esplosione del
«vulcano» Kosovo. Il leader militare delle milizie dell'ex Uck, Ramush
Haradinaj è diventato primo ministro negli stessi giorni in cui era
interrogato all'Aja; Belgrado ha chiesto alle Nazioni unite e
all'amministrazione Unmik della regione di destituirlo «immediatamente»
altrimenti saltano i negoziati del 2005; la Nato, preoccupata, ha
avvisato che «se incriminato deve dimettersi»; Carla Del Ponte,
procuratore del Tribunale dell'Aja - dove l'abbiamo raggiunto
telefonicamente - ha già annunciato un provvedimento d'accusa contro
leader albanesi del Kosovo; dulcis in fundo, la Chiesa ortodossa serba,
di fronte al definitivo rifiuto dello stesso Tribunale dell'Aja di
processare i leader della Nato per i bombardamenti indiscriminati
contro i civili nel 1999 - «perché non ha competenza sul caso non
essendo la Federazione jugoslava al momento della denuncia ancora
membro dell'Onu» -, rilancia denunciando al Tribunale di Strasburgo
l'Alleanza atlantica per la sua inadempienza nella vigilanza dei
monasteri devastati in terra kosovara in questi 5 anni dopo la guerra.
Siamo sul crinale del 2005, l'anno della verifica degli accordi di pace
di Kumanovo del giugno 1999 che posero fine alla campagna di
bombardamenti «umanitari» della Nato, che per 78 giorni devastarono
l'allora Federazione jugoslava con migliaia di vittime civili e tanti,
irraccontabili, effetti collaterali. Il risultato è stato un
protettorato militare, consegnato dall'esercito di Belgrado alle truppe
atlantiche, con l'obbligo di salvaguardare la minoranza serba. E' stata
una litania di stragi e disastri: 1300 serbi rom e albanesi moderati
uccisi, altrettanti desaparecidos, si è avviata una contropulizia
etnica sotto gli occhi «vigili» della Nato che ha portato alla fuga
200.000 serbi e alla distruzione di 150 chiese e monasteri ortodossi.
Un protettorato Nato amministrato dall'Onu che, con i suoi
amministratori, ha di fatto avviato la regione - secondo quegli accordi
di pace ancora parte integrante della Serbia - verso una deflagrante
indipendenza.
Questi i fatti, fino all'esplosione dei pogrom di marzo e poi alle
elezioni etniche ma avallate dalla comunità internazionale, dove non
hanno votato per protesta i pochi serbi rimasti e dove i
kosovaro-albanesi che sono andati alle urne sono stati meno della metà
degli aventi diritto. Ha vinto, ma senza la maggioranza, l'Ldk di
Ibrahim Rugova che, per governare e per scambio di favori politici, si
è alleato con il settore peggiore dello schieramento albanese, vale a
dire Ramush Haradinaj, leader militare dell'Uck e responsabile di
efferati crimini contro civili serbi addirittura prima della guerra
«umanitaria» della Nato. Haradinaj alla fine, nello sconcerto generale
in Kosovo e nello stupore della comunità internazionale, è diventato
all'inizio di dicembre primo ministro.
«Rugova ci ha stupiti», ci dice al telefono il procuratore del
Tribunale dell'Aja Carla Del Ponte, «non dico altro, non parlo di
politica, ma lo stupore è stato forte». Parla dell'inaspettata elezione
a Pristina come premier di Haradinaj, proprio nei giorni del suo
interrogatorio al Tribunale penale internazionale - che Haradinaj ha
minimizzato: «è stata un'intervista» -; e soprattutto nei giorni in cui
la Del Ponte ha autorizzato l'arresto e il trasferimento al tribunale
di tre luogotenenti dell'Uck che erano alle dipendenze dello stesso
Haradinaj: il processo contro di loro si è aperto il 15 novembre, i tre
sono accusati di «uccisioni, trattamenti crudeli, atti disumani»
commessi nel 1998 e nel 1999 contro civili serbi e albanesi moderati,
detenuti nel campo di concentramento aperto dalle milizie dell'Uck
nella località di Lapushnik. Carla Del Ponte racconta di vivere
letteralmente barricata dentro il Tribunale, dove oggi si svolgerà una
protesta di estremisti kosovaro albanesi, e ci conferma: «pronti, a
fine anno, tra pochi giorni, 6 o 7 capi d'accusa contro la leadership
dell'ex Uck». Quanto al timore che la nomina a premier possa essere
stata fatta proprio per impedire l'iniziativa penale del Tribunale
internazionale, Del Ponte risponde: «Il fatto che si tratti di un
premier non costituisce assolutamente per noi motivo di impunità».
La protesta per questo atteggiamento di Rugova e la nomina di Haradinaj
è partita subito dai banchi del «parlamento» kosovaro, dal moderato
Veton Surroi che ha stigmatizzato l'«operazione di scambio»,
denunciando che una tale coalizione «prepara solo nuove crisi di
governo, non sarà in grado di gestire le sfide del negoziato del 2005».
Naturalmente le proteste più forti sono venute da Belgrado dove il
premier serbo Vojslav Kostunica ha definito la nomina di Haradinaj «una
provocazione» chiedendo subito all'Aministrazione Onu-Unmik della
regione di destituire Haradinaj e ricordando il doppio standard della
Bosnia dove il plenipotenziario della comunità internazionale, Paddy
Ashdown, ha ripetutamente destituito ministri, premier, funzionari solo
sospettati di legami con criminali di guerra. Il ministro serbo della
giustizia Zoran Stojkovic ha annunciato che nel prossimo anno di
negoziati, se Haradinaj si presenterà a Belgrado «sarà arrestato».
L'unico disponibile a incontrare comunque Haradinaj è stato il
presidente della Serbia-Montenegro, il montenegrino Svetozar Marovic,
che ha suscitato la rivolta dell'opinione pubblica serba, a
dimostrazione di come questa vicenda riapra inaspettatamente anche lo
scontro mai sopito sul ruolo «secessionista» del Montenegro.
Ma la stessa comunità internazionale in settimana si è dichiarata
preoccupata. Ha cominciato l'Alto rappresentante per la politica estera
e la sicurezza dell'Unione europea, Javier Solana: «Potrebbe non essere
opportuno che il garante degli standard richiesti dalla comunità
internazionale per il Kosovo diventi qualcuno che magari comparirà
davanti al tribunale dell'Aja». Poi è stata la volta addirittura del
segretario della Nato Jaap de Hoop Scheffer che ha affermato che il
premier Haradinaj, se fosse incriminato, dovrebbe dimettersi perché
«c'è assoluta esigenza per lui e per il suo seguito di comportarsi
responsabilmente». Perfino il neo-ministro degli esteri italiano
Gianfranco Fini ha espresso su questo «diffuse preoccupazioni».
Eppure, nonostante tutti questi diffusi e motivati timori per una
vicenda che nell'area potrebbe reinnescare la guerra - come ha
dimostrato l'anno e mezzo di guerra civile in Macedonia, dopo il Kosovo
e come dimostrano i tanti, troppi ritrovamenti di armi fatti anche dai
militari italiani impegnati in questo e nello sminare dalle cluster
bomb il territorio che «noi» abbiamo bombardato - l'amministratore
Unmik Jessen Petersen ha respinto ogni richiesta, dichiarando che la
destituzione «non sarebbe democratica». Mentre arrivano troppe,
allarmanti conferme sulla ricostituzione di una nuova formazione
paramilitare kosovaro albanese.
E' il vulcano Kosovo. Può riesplodere a giorni, ma anche a ore. E le
parti potrebbero invertirsi, dato anche il diffuso malcontento contro
le promesse di indipendenza che gli europei della Nato non mantengono,
a fronte invece del fortissimo quanto destabilizzante legame
«culturale» e politico con l'Amministrazione Usa. Washington, prima con
Bill Clinton ora con George W. Bush è già impegnata per l'indipendenza
del Kosovo - uno stato zona-franca per ogni traffico malavitoso e sotto
tutela degli Stati uniti che presso Urosevac hanno allestito Camp
Bondsteel, la più grande base militare di tutto il sud est europeo. E
in queste ore l'amministrazione Bush si mostra disposta ad appoggiare
Ramush Haradinaj solo perché è il più ricattabile e quindi più
condizionabile. Ai margini del vulcano.
Riportiamo di seguito due articoli di Tommaso Di Francesco apparsi
nelle scorse settimane sul quotidiano "Il Manifesto".
Tommaso Di Francesco e' tra i pochissimi giornalisti italiani a seguire
le questioni jugoslave con una certa continuita' e competenza. In
questi articoli egli pone di fronte all'opinione pubblica l'attualita'
e l'urgenza della questione del Kosovo e della Jugoslavia in generale,
in un contesto in cui viceversa dominano la censura militare ed una
irresponsabile disattenzione della classe politica. Di Francesco fa
anche notare come la gravita' della situazione attuale derivi in larga
misura dalle scelte criminali del governo D'Alema (benche' tuttora
molti esponenti del centrosinistra rivendichino una impossibile
legittimita' per la loro "guerra umanitaria" del 1999... e magari anche
per la prossima).
Tuttavia, Di Francesco mescola informazione e disinformazione. E
vorremmo capire il perche'.
Egli continua a parlare di "contropulizia etnica" per l'attuale regime
di apartheid e violenza instaurato in Kosovo, dando ad intendere che si
dovrebbe credere alla grande menzogna della "pulizia etnica serba" -
menzogna usata proprio dalla NATO e da quel centrosinistra per
giustificare la aggressione del 1999 e le vergogne attuali. Egli scrive
senza alcuna ombra di ironia che:
<<la Serbia "si `limitava' a trucidare la propria popolazione di etnia
albanese>>
pur sapendo benissimo che non esisteva alcuna politica di
discriminazione, tanto meno di sterminio, nella Serbia di Milosevic.
Tanto e' vero che a Belgrado hanno sempre abitato ed abitano centinaia
di migliaia di albanofoni. Tanto e' vero che molti albanesi-kosovari
erano iscritti al Partito Socialista della Serbia, finche' non sono
stati ammazzati dall'UCK - oppure sono dovuti scappare dopo il giugno
1999. Tanto e' vero che le bugie sullo "sterminio" e sulle "fosse
comuni" non sono nemmeno parte dei capi di imputazione del "Tribunale
dell'Aia" - ed e' tutto dire!!!
Perche' allora Tommaso di Francesco mente? Forse tutto questo e'
semplicemente il prezzo che Di Francesco deve pagare per potere
scrivere di certi argomenti su di un quotidiano nazionale... E
tuttavia: chi obbliga Di Francesco a darcela a bere su Carla Del Ponte
che "racconta di vivere letteralmente barricata dentro il Tribunale"
(la tapina!) ? E perche' Di Francesco definisce "moderato" l'agente
sorosiano Veton Surroi ? E perche' finge di stupirsi sulla designazione
del terrorista Haradinaj a "premier del Kosovo" ? Ed e' veramente
convinto che questa designazione sia avvenuta "nello stupore della
comunità internazionale" [SIC] ? Strano, perche' e' lui stesso a
scrivere che "l'amministratore Unmik Jessen Petersen ha respinto ogni
richiesta [di rimozione di Haradinaj dall'incarico], dichiarando che la
destituzione «non sarebbe democratica»", ed anche che "in queste ore
l'amministrazione Bush si mostra disposta ad appoggiare Ramush
Haradinaj".
Ma, di grazia, non e' tutto questo perfettamente in linea con la
politica anti-jugoslava di USA ed UE da 15 anni a questa parte? Puo' Di
Francesco non sapere che e' dimostrato, ad esempio, il coinvolgimento
dei servizi segreti militari tedeschi nei pogrom antiserbi dello scorso
marzo (vedi la documentazione passata su JUGOINFO negli scorsi due
mesi)? E perche' non ne parla? E perche' non dice niente di quello che
avviene e che viene detto dentro l'aula del "tribunale ad hoc"
dell'Aia, proprio in questi mesi in cui e' in atto la fase della difesa
di Milosevic?
Forse dovremo aspettare la "dichiarazione di indipendenza" del Kosovo,
preannunciata per quest'anno, e dunque la guerra prossima ventura,
prima di vedere sciogliersi alcune persistenti ambiguita' del
"Manifesto" sulla questione jugoslava.
E' un vero peccato.
(a cura di Italo Slavo)
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1. Se Fassino rivendica la guerra (13/01/2005)
2. Vulcano Kosovo, rumori di eruzione (19/12/2004)
=== 1 ===
Dibattito a sinistra:
Se Fassino rivendica la guerra
di Tommaso di Francesco
su Il Manifesto del 13/01/2005
Era stato nientemeno che il neocon nostrano Angelo Panebianco ad
affrontare sul Corriere della Sera l'argomento pelosissimo: come
affronterà il centrosinistra eventuali crisi internazionali che
comportino anche l'impiego di soldati italiani? Ce n'era di che
interrogarsi, a sinistra, visto che l'articolo suddetto paventava nel
titolo la «variabile Bertinotti». Naturalmente non è accaduto nulla di
tutto questo. Anzi è accaduto il contrario. Cioè che l'occasione è
stata colta da due protagonisti del centrosinistra come Fassino e
Minniti, per rivendicare la guerra insieme al buon diritto di saperla
fare. Ha cominciato proprio Fassino che, sempre sul Corriere, dopo aver
ricordato tutte le missioni militari decise con e dal centrosinistra,
ha richiamato la vicenda della «guerra umanitaria» del 1999: «Ogni
volta lo abbiamo fatto sulla base di decisioni assunte dall'Onu o da
istituzioni multilaterali equivalenti quali la Nato per il Kosovo».
Davvero uno sproposito. Dall'intervento infatti apprendiamo che
l'Alleanza atlantica nel giugno del 1999 - era ancora un Patto militare
di difesa dell'Europa occidentale e non c'era stata la riforma
«aggressiva» di Washington di fine anno - era un organismo
«equivalente» alle Nazioni unite. Non è finita, perché per Fassino «ciò
è avvenuto in coerenza con l'articolo 11 della Costituzione italiana
che rifiuta il ricorso alla guerra come strumento di risoluzione dei
conflitti, ma al tempo stesso autorizza la messa a disposizione di
soldati italiani per azioni di pace e di stabilizzazione». Va da sé che
per Fassino costituiscono «azione di pace» 78 giorni di bombardamenti
indiscriminati sulla ex Jugoslavia, con tonnelle e tonnellate di bombe
sulle principali città, con la devastazione delle infrastrutture fino
agli ospedali, l'uccisione di 1.500 civili, migliaia e migliaia di
feriti (vedere i rapporti di Amnesty International per credere). E che
non hanno certo «stabilizzato» il Kosovo dove si è scatenata una
criminale quanto nascosta contropulizia etnica a danno delle nuove
minoranze sotto gli occhi della Nato, con migliaia di nuovi omicidi e
distruzioni.
Ma gli spropositi non sono finiti. Perché Fassino ricorda che è in
corso una riforma dell'Onu, ci sono le proposte dei Saggi proprio sul
ricorso all'uso della forza, per evitare che sia illegale, proprio come
quella in Iraq. Un ricorso «estremo», dicono i Saggi, dopo aver
esperito «ogni possibilità alternativa». E Fassino non può dimenticare
- non lo dimentica certo l'ex ministro degli esteri Dini - che c'era in
Kosovo una missione dell'Osce che avrebbe potuto continuare il suo
ruolo e che invece venne fatta fallire a bella posta, e che a
Rambouillet la diplomazia occidentale segnò una delle sue pagine
peggiori.
Fin qui, quanto a dichiarazioni, davvero poteva bastare. Invece, apriti
cielo. Perché il vice-capogruppo di Forza Italia alla Camera,
l'ineffabile Isabella Bertolini ha attaccato, ricordando che no, non fu
la sola sinistra al governo a decidere sul Kosovo, perché «la decisione
ebbe il voto di Forza Italia, An e Lega». «Mente sapendo di mentire»,
ha rilanciato Marco Minniti perché «la mozione Mussi, presentata il 26
marzo 1999 venne approvata dalla sola maggioranza che sosteneva il
governo D'Alema». Le rivendicazioni sono durate per tre giorni.
Un'ideologia viva e vegeta.
Ricordiamo soltanto due problemi. Il primo. E' il 2005, l'anno della
verifica degli accordi di «pace» del 1999 che, possiamo anticipare
senza sbagliare, confermeranno il protettorato militare eterno, non la
stabilizzazione, o la restituzione della provincia kosovara a Belgrado,
la pacificazione etnica, o tantomeno la democrazia. Il secondo. Le
parole di Robert Kagan, il teorico dei neocon doc, scritte nel suo
saggio: «Il diritto di fare la guerra». Parole inequivocabili che
spiegano, a chi si barcamena tra guerre buone, umanitarie e di sinistra
e guerre cattive di destra, quanto sia stato decisiva e anticipatrice
per la guerra illegale in Iraq proprio la guerra contro l'ex
Jugoslavia. «La guerra in Kosovo fu illegale, e non solo perché
condotta senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. La
Serbia era uno stato sovrano che non aveva compiuto alcuna aggressione
verso un altro stato, ma si `limitava' a trucidare la propria
popolazione di etnia albanese. L'intervento ha quindi violato il
principio cardine della Carta delle Nazioni unite: l'uguaglianza
inviolabile e sovrana di tutte le nazioni... Quella guerra ha lasciato
l'amministrazione della giustizia internazionale nelle mani di un
numero relativamente ristretto di potenti nazioni dell'Occidente. Senza
regole. E nel 1999 gli americani non si fecero sfuggire l'occasione di
una guerra senza l'autorizzazione dell'Onu».
=== 2 ===
Internazionale:
Vulcano Kosovo, rumori di eruzione
di Tommaso Di Francesco
su Il Manifesto del 19/12/2004
Carla Del Ponte dall'Aja ci parla di Haradinaj, capo militare dell'Uck,
interrogato dal Tribunale internazionale per i crimini di guerra negli
stessi giorni in cui è diventato primo ministro in Kosovo, grazie a un
accordo «di scambio» col leader moderato Rugova. Un'operazione che sta
riaccendendo la polveriera balcanica
Le notizie che, in queste ore e per tutto il mese di dicembre, si sono
rincorse dal Kosovo - cadute impietosamente nel silenzio di tutta la
stampa italiana attenta alle ceneri del fallimento della guerra
preventiva in Iraq - preannunciano una prossima esplosione del
«vulcano» Kosovo. Il leader militare delle milizie dell'ex Uck, Ramush
Haradinaj è diventato primo ministro negli stessi giorni in cui era
interrogato all'Aja; Belgrado ha chiesto alle Nazioni unite e
all'amministrazione Unmik della regione di destituirlo «immediatamente»
altrimenti saltano i negoziati del 2005; la Nato, preoccupata, ha
avvisato che «se incriminato deve dimettersi»; Carla Del Ponte,
procuratore del Tribunale dell'Aja - dove l'abbiamo raggiunto
telefonicamente - ha già annunciato un provvedimento d'accusa contro
leader albanesi del Kosovo; dulcis in fundo, la Chiesa ortodossa serba,
di fronte al definitivo rifiuto dello stesso Tribunale dell'Aja di
processare i leader della Nato per i bombardamenti indiscriminati
contro i civili nel 1999 - «perché non ha competenza sul caso non
essendo la Federazione jugoslava al momento della denuncia ancora
membro dell'Onu» -, rilancia denunciando al Tribunale di Strasburgo
l'Alleanza atlantica per la sua inadempienza nella vigilanza dei
monasteri devastati in terra kosovara in questi 5 anni dopo la guerra.
Siamo sul crinale del 2005, l'anno della verifica degli accordi di pace
di Kumanovo del giugno 1999 che posero fine alla campagna di
bombardamenti «umanitari» della Nato, che per 78 giorni devastarono
l'allora Federazione jugoslava con migliaia di vittime civili e tanti,
irraccontabili, effetti collaterali. Il risultato è stato un
protettorato militare, consegnato dall'esercito di Belgrado alle truppe
atlantiche, con l'obbligo di salvaguardare la minoranza serba. E' stata
una litania di stragi e disastri: 1300 serbi rom e albanesi moderati
uccisi, altrettanti desaparecidos, si è avviata una contropulizia
etnica sotto gli occhi «vigili» della Nato che ha portato alla fuga
200.000 serbi e alla distruzione di 150 chiese e monasteri ortodossi.
Un protettorato Nato amministrato dall'Onu che, con i suoi
amministratori, ha di fatto avviato la regione - secondo quegli accordi
di pace ancora parte integrante della Serbia - verso una deflagrante
indipendenza.
Questi i fatti, fino all'esplosione dei pogrom di marzo e poi alle
elezioni etniche ma avallate dalla comunità internazionale, dove non
hanno votato per protesta i pochi serbi rimasti e dove i
kosovaro-albanesi che sono andati alle urne sono stati meno della metà
degli aventi diritto. Ha vinto, ma senza la maggioranza, l'Ldk di
Ibrahim Rugova che, per governare e per scambio di favori politici, si
è alleato con il settore peggiore dello schieramento albanese, vale a
dire Ramush Haradinaj, leader militare dell'Uck e responsabile di
efferati crimini contro civili serbi addirittura prima della guerra
«umanitaria» della Nato. Haradinaj alla fine, nello sconcerto generale
in Kosovo e nello stupore della comunità internazionale, è diventato
all'inizio di dicembre primo ministro.
«Rugova ci ha stupiti», ci dice al telefono il procuratore del
Tribunale dell'Aja Carla Del Ponte, «non dico altro, non parlo di
politica, ma lo stupore è stato forte». Parla dell'inaspettata elezione
a Pristina come premier di Haradinaj, proprio nei giorni del suo
interrogatorio al Tribunale penale internazionale - che Haradinaj ha
minimizzato: «è stata un'intervista» -; e soprattutto nei giorni in cui
la Del Ponte ha autorizzato l'arresto e il trasferimento al tribunale
di tre luogotenenti dell'Uck che erano alle dipendenze dello stesso
Haradinaj: il processo contro di loro si è aperto il 15 novembre, i tre
sono accusati di «uccisioni, trattamenti crudeli, atti disumani»
commessi nel 1998 e nel 1999 contro civili serbi e albanesi moderati,
detenuti nel campo di concentramento aperto dalle milizie dell'Uck
nella località di Lapushnik. Carla Del Ponte racconta di vivere
letteralmente barricata dentro il Tribunale, dove oggi si svolgerà una
protesta di estremisti kosovaro albanesi, e ci conferma: «pronti, a
fine anno, tra pochi giorni, 6 o 7 capi d'accusa contro la leadership
dell'ex Uck». Quanto al timore che la nomina a premier possa essere
stata fatta proprio per impedire l'iniziativa penale del Tribunale
internazionale, Del Ponte risponde: «Il fatto che si tratti di un
premier non costituisce assolutamente per noi motivo di impunità».
La protesta per questo atteggiamento di Rugova e la nomina di Haradinaj
è partita subito dai banchi del «parlamento» kosovaro, dal moderato
Veton Surroi che ha stigmatizzato l'«operazione di scambio»,
denunciando che una tale coalizione «prepara solo nuove crisi di
governo, non sarà in grado di gestire le sfide del negoziato del 2005».
Naturalmente le proteste più forti sono venute da Belgrado dove il
premier serbo Vojslav Kostunica ha definito la nomina di Haradinaj «una
provocazione» chiedendo subito all'Aministrazione Onu-Unmik della
regione di destituire Haradinaj e ricordando il doppio standard della
Bosnia dove il plenipotenziario della comunità internazionale, Paddy
Ashdown, ha ripetutamente destituito ministri, premier, funzionari solo
sospettati di legami con criminali di guerra. Il ministro serbo della
giustizia Zoran Stojkovic ha annunciato che nel prossimo anno di
negoziati, se Haradinaj si presenterà a Belgrado «sarà arrestato».
L'unico disponibile a incontrare comunque Haradinaj è stato il
presidente della Serbia-Montenegro, il montenegrino Svetozar Marovic,
che ha suscitato la rivolta dell'opinione pubblica serba, a
dimostrazione di come questa vicenda riapra inaspettatamente anche lo
scontro mai sopito sul ruolo «secessionista» del Montenegro.
Ma la stessa comunità internazionale in settimana si è dichiarata
preoccupata. Ha cominciato l'Alto rappresentante per la politica estera
e la sicurezza dell'Unione europea, Javier Solana: «Potrebbe non essere
opportuno che il garante degli standard richiesti dalla comunità
internazionale per il Kosovo diventi qualcuno che magari comparirà
davanti al tribunale dell'Aja». Poi è stata la volta addirittura del
segretario della Nato Jaap de Hoop Scheffer che ha affermato che il
premier Haradinaj, se fosse incriminato, dovrebbe dimettersi perché
«c'è assoluta esigenza per lui e per il suo seguito di comportarsi
responsabilmente». Perfino il neo-ministro degli esteri italiano
Gianfranco Fini ha espresso su questo «diffuse preoccupazioni».
Eppure, nonostante tutti questi diffusi e motivati timori per una
vicenda che nell'area potrebbe reinnescare la guerra - come ha
dimostrato l'anno e mezzo di guerra civile in Macedonia, dopo il Kosovo
e come dimostrano i tanti, troppi ritrovamenti di armi fatti anche dai
militari italiani impegnati in questo e nello sminare dalle cluster
bomb il territorio che «noi» abbiamo bombardato - l'amministratore
Unmik Jessen Petersen ha respinto ogni richiesta, dichiarando che la
destituzione «non sarebbe democratica». Mentre arrivano troppe,
allarmanti conferme sulla ricostituzione di una nuova formazione
paramilitare kosovaro albanese.
E' il vulcano Kosovo. Può riesplodere a giorni, ma anche a ore. E le
parti potrebbero invertirsi, dato anche il diffuso malcontento contro
le promesse di indipendenza che gli europei della Nato non mantengono,
a fronte invece del fortissimo quanto destabilizzante legame
«culturale» e politico con l'Amministrazione Usa. Washington, prima con
Bill Clinton ora con George W. Bush è già impegnata per l'indipendenza
del Kosovo - uno stato zona-franca per ogni traffico malavitoso e sotto
tutela degli Stati uniti che presso Urosevac hanno allestito Camp
Bondsteel, la più grande base militare di tutto il sud est europeo. E
in queste ore l'amministrazione Bush si mostra disposta ad appoggiare
Ramush Haradinaj solo perché è il più ricattabile e quindi più
condizionabile. Ai margini del vulcano.