Riceviamo e volentieri giriamo il Sommario e l'Editoriale dell'ultimo
numero della rivista L'Ernesto, in uscita in questi giorni

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L'ERNESTO
RIVISTA COMUNISTA

E’ USCITO L’ULTIMO NUMERO

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SOMMARIO

Congresso PRC, governo e identità comunista                    
F. Giannini

Il 21 gennaio 1921 e il nostro presente
A. Catone

Liberi di votare come vuole Bush   
G. Lannutti    

L’economia della “guerra infinita” 
V. Giacchè                

Le guerre non finiscono con le elezioni    
S. Cararo                  

Le forze armate e la Costituzione   
G. Pesciaioli  

Sulla questione delle primarie       
E. Melchionda          

Pericolo a destra, debolezza a sinistra    
P. Sansonetti 

Cosa sta accadendo a sinistra  
P. Di Siena    

Il Congresso DS: un’occasione mancata? 
F. Crucianelli

Sulla sinistra d’alternativa 
G. Pegolo

Livorno 21 gennaio: i comunisti      
B. Bracci Torsi

Donne nella Resistenza      
N. Brambilla Pesce  

La piattaforma unitaria dei metalmeccanici   
M. Zipponi

Salari, diritti e precarietà    
P. Arrigoni

Da Porto Alegre     
P. Bernocchi

Noticias de Venezuela     
L. Castellina

Argentina: progressi del governo Kirchner
L.Parenti

Russia, Cina, India: un nuovo “asse”?    
M. Gemma e S. Ricaldone

Kosovo: il fuoco sotto la cenere     
M. Cataldo

Guerra civile in Costa d’Avorio        
A. Nzinande

Marx: per una filosofia della soggettività     
N. Tertullian

Cinema e Resistenza: intervista a M. Pozzi  
a cura di G. Livio e A. Petrini

“Un mondo di pace è possibile”
libro di Nella Ginatempo - Recensione di Raniero La Valle

***
 
L’EDITORIALE:

Congresso PRC, governo e identità comunista

di Fosco Giannini

(direttore de L’ernesto)

Siamo un paese in guerra, se mai qualcuno lo avesse dimenticato; siamo
di fronte ad una violazione grave dell’articolo 11 della Costituzione,
e il governo Berlusconi – dopo il voto in Iraq – decide l’invio a
Nassirya degli elicotteri d’attacco “Mangusta”, chiedendo all’Unione
europea che l’aumento delle spese militari non sia conteggiato nel
Patto di Stabilità. Il “nostro” è un esercito dioccupazione, al seguito
di una delle più feroci aggressioni di tutto il secondo dopoguerra. Le
truppe italiane sono in Iraq al servizio di un’invasione imperialista –
non imperiale, poiché su questa guerra vi sono state e permangono
contraddizioni profonde tra gli stati imperialisti – sfacciatamente
volta (ora che ogni alibi è caduto e anche gli ultimi osservatori
americani in cerca diarmi di distruzione di massa irachene si sono
desolatamente ritirati) al controllo del petrolio, al dominio
geopolitico dell’area, all’accumulazione di forze belliche per
rilanciare altre guerre in quella zona e guerre strategiche in altre
lontane aree.

Le elezioni in Iraq, prive diogni legittimazione democratica, non
mutano di un nulla il ruolo aggressivo e colonialista del governo
italiano. Relativamente alla supposta validità democratica delle
elezioni irachene, ha affermato, su l’Unità del 2 febbraio, Giulietto
Chiesa (europarlamentare, uno dei pochi testimoni diretti delle
elezioni in Iraq ) : “ E’ una sciocchezza clamorosa, tutta
propagandistica, che era del resto largamente prevedibile alla luce di
come era stato preparato il tutto…queste elezioni sono state
organizzate non perché gli iracheni facessero da sé ma perché
l’occupazione militare americana, britannica e italiana venisse
legittimata da un voto popolare”.

Peraltro, in risposta a ciò che si è detto anche a sinistra e cioè che
le elezioni irachene non sarebbero state una farsa ma avrebbero aperto
uno spiraglio tra guerra e terrorismo, valgono come risposta le parole
di Luciana Castellina ( il Manifesto, venerdì 4 febbraio) : “ La
difficoltà della fase che si apre è grande. E bisogna tener conto che
se in qualche modo si legittima Allawi si potrebbe finire per dover
accettare la sua richiesta: che americani e alleati restino accampati
nel Paese, a salvaguardia dei pozzi”.

Al di là della retorica della libertà portata dall’esterno con la quale
Bush e Berlusconi le hanno subito commentate, ciò che rimane è la dura
realtà delle cose: si è votato in un paese in guerra e sotto il dominio
militare degli eserciti occupanti; il presidente Ghazi al Yawar ha
(simbolicamente) votato non sul suolo iracheno ma all’interno
dell’ambasciata americana; ha partecipato al voto il 57% dei cittadini
iscritti alle liste elettorali e, seppure difficilmente quantificabile,
appare molto vasta l’area dei non iscritti. Ciò che si sa è che nelle
regioni centrali irachene, le più popolose, molto bassa – come peraltro
a Baghdad e specificatamente in tutti i suoi quartieri popolari – è
stata l’affluenza; che a Mosul e Baquba gli uffici elettorali sono
andati deserti; che a Samarra solo 1.400 dei 200.000 abitanti sono
andati a votare, e che tutto ciò ha fatto dire a Salim Lone
(collaboratore dell’ex rappresentante speciale dell’Onu in Iraq, Sergio
Vieira de Mello) che “se queste elezioni si fossero tenute, con queste
modalità, nello Zimbabwe o in Siria, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna
non avrebbero indugiato nel denunciarle”. E certo non depone a favore
di un processo di democratizzazione e autonomia irachena il quadro
politico e sociale entro il quale le elezioni si sono tenute: un quadro
pianificato dagli USA e dalla “banda dei sei” fedeli esecutori dei
disegni di Washington (da Iyad Allawi ad Ahmed Chalabi) e segnato dalla
rottura con tutte le forze della Resistenza e con i settori politici,
religiosi ed etnici contrari all’occupazione; dalla rottura con le
forze sunnite (che non hanno partecipato al voto) e dal conseguente
tentativo di “balcanizzazione” e “de-arabizzazione” irachena, con
l’obiettivo di un Iraq finalmente sottomesso e filo occidentale.

Truppe italiane e Resistenza irachena

I soldati italiani a Nassirya non edificano scuole: combattono. Per
appoggiare l’attacco delle truppe portoghesi contro gli uomini di Al
Sadr ha perso la vita, in questo fine gennaio, il maresciallo Simone
Cola. Per le guerre dei padroni soffrono, come è sempre stato, i popoli
e le famiglie, e i giovani divengono carne da macello.

I nostri soldati sono oggi coinvolti in quell’assassinio di massa
anglo-americano che dura, ininterrottamente, da quasi un quindicennio,
ha distrutto un intero e incolpevole paese, ha massacrato un popolo, ha
provocato la morte (ricordarlo non basta mai) di oltre mezzo milione di
bambini con un embargo voluto dagli USA e che si è allargato anche alle
medicine più elementari. Partecipi, queste “nostre truppe umanitarie”,
della repressione – giunta all’inaudita ferocia americana di Falluja –
contro la Resistenza irachena, una Resistenza di popolo e di massa che
oggi lotta anche per ogni altro paese e popolo – a cominciare da quelli
di Cuba, del Venezuela e dell’Iran – minacciati nella loro indipendenza
e autodeterminazione dall’imperialismo americano. Una Resistenza
irachena che meriterebbe ben più – specie da parte dei comunisti – di
un’algida vivisezione volta a rilasciarle o meno la stessa patente di
Resistenza. Per il modo in cui si oppone, da sola, al più grande
esercito del pianeta e ai suoi alleati, per ciò che fa per il proprio
popolo e per la fiducia che infonde a tutte le lotte antimperialiste e
di liberazione, essa meriterebbe una ben più vasta solidarietà e non la
fredda e indagatrice attenzione che anche in settori della sinistra le
si riserva.

Ciò che certo non merita sono le parole che Fassino ha pronunciato al
Congresso nazionale dei DS : “ I resistenti sono solo coloro che in
Iraq hanno votato”.

Dopo la Jugoslavia e l’Afghanistan, ora l’Iraq: mentre la politica
italiana svela, sempre più coerentemente, il suo carattere
neoimperialista, il movimento per la pace, dopo le grandi lotte, oggi è
in evidente difficoltà. Mentre Bush, sostenuto dal keynesismo di guerra
e dalla “teologia della restaurazione”, minaccia l’intero pianeta;
mentre prosegue, in modo tanto pericoloso quanto censurato o
sottovalutato, il processo di riarmo nucleare su scala mondiale; mentre
lo stesso Ted Kennedy, a poche ore dal voto in Iraq, parla di “pericolo
Vietnam” e chiede che gli USA lascino il territorio iracheno, le poche
bandiere arcobaleno rimaste alle finestre italiane sembrano scucirsi e
sbiancarsi.Non è possibile non partire da qui, da questa fase di
debolezza del movimento per la pace, dallo scarso, insufficiente
impegno delle forze di centrosinistra e di sinistra nella lotta contro
la guerra, dalla mancata popolarizzazione della parola d’ordine “ritiro
immediato delle truppe italiane dall’Iraq”, per affrontare la questione
del centrosinistra, della politica delle alleanze, del dopo (se vi
sarà) Berlusconi.

La destra al governo

La destra che ci governa costituisce il più pericoloso quadro politico
e sociale della storia post-fascista: dalle leggi da repubblica delle
banane a favore della famiglia Berlusconi, all’attacco alla
Costituzione, alla magistratura e alle istituzioni democratiche,
passando per la servile subordinazione alle politiche imperialiste
degli USA e della Nato ed alla distruzione dello Stato sociale e dei
diritti dei lavoratori, questa destra ha proposto e praticato un
liberismo selvaggio venato di populismo che mai s’era visto nell’era
democristiana. Il vero e proprio “orrore sociale” insito nella Legge 30
è, di per sé, paradigmatico di tale politica. Come le ultime
affermazioni di Berlusconi circa l’eventuale vittoria delle sinistre
(“portatrici di miseria, terrore e morte”) sono emblematiche dello
spregiudicato e cinico azzardo populista che segna la tattica politica
e mediatica del capo del governo.

Sul piano sociale la situazione non è certo migliore. La
precarizzazione dilaga sino a divenire un male sociale assoluto, sotto
il cui carico si piegano le giovani generazioni. I salari e gli
stipendi sono così bassi che milioni di famiglie italiane non giungono
più alla quarta settimana. Si restringono i consumi, aumentano le
difficoltà nel far fronte alle scadenze e ai problemi più correnti:
pagare le bollette, una prestazione sanitaria, l’affitto o il mutuo per
la casa. I casi di “bancomat” ritirati dalle banche ai lavoratori che
vanno “in rosso” e non riescono più a rientrare nel fido si vanno
moltiplicando (dati Confindustria) in tante regioni d’Italia. Aumentano
di giorno in giorno da parte dei lavoratori dipendenti le richieste di
piccoli mutui (con alti tassi) a banche o a finanziarie private. Si
allarga l’area della povertà su scala nazionale, mentre nel Meridione –
di fronte all’acuirsi delle contraddizioni sociali e al non casuale
rafforzamento in questa fase del dominio mafioso – l’unica proposta che
si avanza è la costruzione (da Mani sulla città) del Ponte sullo
Stretto.

In questo contesto, raccogliere e saper interpretare quel sentimento
popolare che chiede di battere le destre e di cacciare Berlusconi è,
per i comunisti, prioritario.

Saremmo aristocratici e massimalisti, non comunisti, se non fossimo in
grado di ascoltare questo vero e proprio grido di dolore sociale. I
compagni e le compagne già “emendatari” al V Congresso, e che oggi si
ritrovano nel documento Essere comunisti, avevano già in quel Congresso
posto la questione di battere le destre con un nuovo ciclo di lotte
sociali e popolari, volte a cambiare i rapporti di forza sociali sulla
cui base costruire alleanze politiche e di movimento con obiettivi
avanzati. Finendo. per queste loro posizioni e per essersi posti il
problema di battere le destre, con l’essere definiti “l’ala moderata
del partito”, gli “alleantisti”, i “frontisti” e persino “il piombo
nelle ali”. Ci piacerebbe sapere, su questo metro di misura, come
dovrebbe essere definita, oggi, la linea di maggioranza del Prc.

Il cambiamento di linea

Quel che poi è accaduto è, politicamente, perlomeno inconsueto. La
linea politica nazionale del Prc è, appunto, radicalmente cambiata. E
senza la necessaria discussione interna, un problema di democrazia che
si è aggiunto ad altri e che certo non ha contribuito a risolvere il
problema della scarsa partecipazione degli iscritti e dei militanti
alla formulazione della linea e alle decisioni da prendere.

La nuova linea politica assume, innanzitutto e giustamente, l’obiettivo
di costruire un’alternativa al governo Berlusconi-Fini. Ma tale linea,
eludendo i decisivi passaggi politici e sociali intermedi che
dovrebbero portare ad un governo dialternativa (conquista di un
programma avanzato, lotte di massa volte al cambiamento dei rapporti di
forza sociali), corre il rischio di esaurirsi in un’unica scelta:
l’ingresso del Prc nel governo di centrosinistra.

Tale ipotesi – non più nascosta ed anzi palesemente manifestata su
tutta la stampa italiana – viene sostenuta da parte della maggioranza
del Prc con due fondamentali argomentazioni. In primo luogo: in questi
anni il movimento dei movimenti avrebbe talmente spostato a sinistra
l’asse politico e sociale generale e fatto esplodere nella sinistra
moderata così tante e positive contraddizioni, da permetterci appunto
l’entrata in un governo di centro-sinistra. Secondo, l’obiettivo dei
punti programmatici irrinunciabili non sarebbe più prioritario (e
dunque si potrebbe andare al governo anche senza di essi) in virtù del
fatto che sarebbe poi compito del movimento spostare a sinistra l’asse
generale del governo.

Riconosciamo il grande ruolo svolto in questi anni dal movimento dei
movimenti, da Genova alle lotte della FIOM, passando per le grandi
iniziative del movimento per la pace. Tuttavia, avremmo poco senso
della realtà se oggi non vedessimo che la fase – internazionale e
nazionale – è tuttora segnata da un’egemonia dettata dall’ala
guerrafondaia e iperliberista dell’imperialismo. Si tratta di
un’egemonia che ancora non trova – dopo la scomparsa dell’URSS e pur di
fronte a già significative contraddizioni interimperialistiche e
l’emergere di nuove grandi aree non subordinate e anzi già antagoniste
agli USA – soggetti statuali e sociali in grado di esprimere quella
forza di contrappeso agli USA che prioritariamente servirebbe per una
nuova correlazione di forze a livello internazionale a favore dei
popoli, del movimento operaio mondiale e della pace. Il movimento dei
movimenti ha fatto e messo in campo molto, ma ciò non è bastato, in
Italia e in Europa, ad incrinare significativamente il dominio
capitalista. Dov’è, dunque, questo spostamento generale a sinistra che
oggi ci dovrebbe indurre – anche senza punti programmatici chiari – ad
entrare in un governo di centro-sinistra?

L’egemonia capitalista

Se ci atteniamo alla dura realtà dei fatti, la situazione
internazionale (seppur modificata in senso positivo rispetto ai primi
anni ’90 da significative vittorie, resistenze e crescite politiche,
economiche e militari antagoniste all’imperialismo che hanno preso
corpo in aree extraeuropee del mondo, a partire dal Venezuela di Hugo
Chavez) è ancora segnata dall’egemonia americana: Bush vince di nuovo
negli Stati Uniti, e nel suo giuramento per l’insediamento afferma che
tutte le “tirannie”, a cominciare da quella dell’ Iran, sono già sotto
l’attenzione militare USA. In occasione del giuramento, Bob Woodward da
Washington ha osservato: “Per il vice presidente Dick Cheney la
presidenza ha finalmente recuperato il suo pieno potere, che era stato
menomato sulla scia della guerra del Vietnam e del Watergate”.

Contro questa pulsione bellica, né negli USA né in Europa né in Italia
sembra oggi potersi opporre un movimento contro la guerra all’altezza
del pericolo. Specie in Italia, particolarmente astratta sembra essere
l’iniziativa politica del centrosinistra e della sinistra, che sembrano
molto più dediti ad una discussione sul loro nome (Ulivo? Fed? Gad?)
che alla messa in campo di un movimento per la pace avente come prima
parola d’ordine il “ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq” e
alla definizione di punti programmatici per l’alternativa.

La stessa prima reazione del centro sinistra alle elezioni irachene –
caratterizzata dalla piena legittimazione di esse da parte di Rutelli,
Fassino e dalla generica, ambigua richiesta di sostituzione delle
truppe di occupazione con truppe multinazionali (di quali paesi, con
quali obiettivi?) – non depone certo a favore di una linea politica che
rilanci le parole d’ordine più urgenti: “l’Iraq agli iracheni” e
“ritiro immediato delle truppe italiane dall’ Iraq”.

Proprio il centro sinistra italiano non sembra davvero essere stato
positivamente influenzato dai movimenti. Il Congresso dei DS ha visto
la netta vittoria della sua ala liberal (Fassino, all’80%); gli unici
riferimenti programmatici concretamente apparsi sono, sinora, un
pamphlet di Romano Prodi (Europa: il sogno, le scelte) in cui si
rivendica la giustezza dell’intervento contro la Jugoslavia e si
ribadisce l’immodificabilità della stretta alleanza transatlantica con
gli USA e con la NATO; il documento Amato per le liste “uniti
nell’Ulivo” (dove si rilanciano le tradizionali tesi liberiste e
privatizzatrici dell’ex testa d’uovo di Bettino Craxi); i 14 punti
programmatici di Rutelli, tra i quali spuntano “l’amicizia con gli
USA”, “uno Stato sociale rinnovato che assegni un ruolo centrale alla
famiglia”, la valorizzazione della scuola privata, la centralità della
concorrenza, e dai quali non emerge nessuna parola sulla guerra in Iraq
e sul ritiro delle truppe italiane, sulla necessità di abrogare le
leggi vergogna di Berlusconi e sulla questione sociale. In verità i 14
punti di Rutelli sono una riproposizione secca delle politiche del
centro-sinistra degli anni ‘90, di un’impianto allaTony Blair che non
per niente ha attirato l’attenzione del centro-destra, che non ha
indugiato (specie dopo “la condanna” da parte di Rutelli anche della
socialdemocrazia) a chiedere al leader della Margherita, per bocca
dello stesso Berlusconi, di cambiare Polo.

Tanto lunga quanto preoccupante sarebbe poi la lista delle posizioni
pubbliche assunte, solo negli ultimi tempi, dall’Ulivo. Scrive ad
esempio Fassino sul Corriere della Sera del 10 gennaio, in un articolo
che spiega la politica estera della GAD: “Il centro-sinistra ha già
dimostrato di saper assumere la difficile responsabilità di intervenire
con soldati italiani in crisi internazionali. Ricordo che tra il ’96 e
il 2001 oltre 10 mila soldati italiani sono stati inviati in Bosnia,
Albania, Croazia, Macedonia, Kosovo, Timor Est e Medio Oriente. E nel
2001 e 2002 abbiamo condiviso la partecipazione italiana all’intervento
della coalizione contro il terrorismo in Afghanistan… A questo stesso
atteggiamento ispireremo la nostra condotta anche in futuro,
sottoponendo al parlamento decisioni impegnative e difficili; anche
quando non fossero popolari, ma corrispondessero in ogni caso agli
interessi di sicurezza, stabilità e libertà del nostro Paese, dell’
Europa e del mondo… Le relazioni tra Europa e America: noi muoviamo
dalla convinzione che il rapporto transatlantico sia oggi essenziale
non meno di quanto lo sia stato nell’era bipolare…”

“Interessante” è anche l’intervista rilasciata da D’Alema il 7 dicembre
scorso al Corriere della Sera sulla questione della legge elettorale.
D’Alema è molto chiaro: “Ora occorre cambiare la legge elettorale.
Serve molto più maggioritario. Per le politiche eliminerei la quota
proporzionale del 25% e introdurrei il doppio turno…” La lista potrebbe
oltremodo allungarsi. Ricordiamo solo le posizioni assunte dal diessino
Rossi sul taglio delle pensioni, volte nell’essenza a comprenderne i
motivi, o la sacralizzazione, da parte di Prodi, del Patto di
Stabilità, vero e proprio cavallo d Troia, così com’è, diogni politica
liberista e diretta all’abbattimento dello Stato sociale (col rischio
di lasciare che sia la destra populista l’unica forza a mettere in
discussione, raccogliendone consenso elettorale, i meccanismi
antisociali del Patto di Stabilità).

La ciliegina acida su questa torta di un centro-sinistra, già di per sé
non particolarmente invitante, è rappresentata dall’odierno tentativo
della GAD di allargare l’alleanza ai radicali di Marco Pannella. Non si
può non ricordare come il partito radicale sia stato, in questi anni,
sempre al fianco di Bush e delle politiche guerrafondaie americane,
come non si può non ricordare che, sul piano economico, si è
caratterizzato per una scelta ferocemente liberista e antioperaia, sino
alla promozione e all’organizzazione – con l’aiuto economico della
Confindustria – di un referendum per l’abolizione dell’articolo 18.

La questione programmatica

Il primo argomento assunto dalla maggioranza del Prc per l’entrata al
governo (“vi è stata una svolta a sinistra”, “è cambiato il vento”)
appare, dunque, particolarmente fragile. Come altrettanto fragile
appare il secondo (“entriamo, poi il movimento sposterà l’asse a
sinistra”). Dov’è il movimento contro la guerra, ora? Con quali lotte
di massa si è risposto al taglio delle pensioni, alla Legge 30, a tutta
la politica antipopolare del governo Berlusconi? Perché dovremmo
illuderci che improvvisamente, rispetto al centro sinistra, si potrà
alzare un imponente movimento di lotta che sposti l’asse
Rutelli-Mastella-Fassino a sinistra? Perché domani sì e ora no?

È per tutte queste ragioni che abbiamo posto, ostinatamente, la
questione del programma.

Rifondazione comunista avrebbe dovuto porre da tempo, al tavolo
programmatico dell’Ulivo e con l’Ulivo nelle piazze, la questione dei
punti programmatici ineludibili per la costruzione di un governo di
alternativa. Punti che non possono essere che questi: un no a ogni
guerra, anche se “coperta” dall’ ONU; ritiro immediato delle truppe
italiane dall’Iraq; cancellazione di tutte le leggi vergogna di
Berlusconi; abrogazione della Legge 30, della Bossi-Fini e della
riforma Moratti; una legge per la reintroduzione di un meccanismo di
scala mobile come parte della risoluzione della questione delle
questioni, quella salariale; la legge sulla rappresentanza sindacale
nei luoghi di lavoro; uno stop ai processi di privatizzazione e il
rilancio dello Stato sociale; una nuova legge fiscale.

E’ciò che necessita, per segnare una svolta, rispetto alla distruzione
dello stato sociale, al vero e proprio saccheggio subito da stipendi e
salari negli ultimi quindici anni e al picco altissimo (il più alto
nella storia della Repubblica) raggiunto in questo stesso quindicennio
dai profitti dei gruppi capitalistici.

Quando nei Congressi di Circolo che si stanno tenendo per questo nostro
VI Congresso critichiamo l’assenza di un programma per l’alternativa, i
compagni che fanno riferimento alla prima mozione ci rispondono che
nelle 15 Tesi i punti programmatici ci sono. Ma il punto è –
rispondiamo – che alcuni di essi sono sì elencati, ma che a tale elenco
non seguono i due argomenti politici decisivi. Primo, che le nostre
proposte non debbono rimanere petizioni di principio (una sorta di
nostri lustrini), ma debbono essere assunte come punti programmatici
dalla coalizione. Secondo, che se esse non fossero assunte, il Prc non
avrebbe alcun argomento razionale per entrare nel governo.

Il programma non è un feticcio. Esso è indispensabile (oltre,
ovviamente, per ciò che rappresenta in sé, ossia una politica per gli
interessi popolari) per altre tre questioni fondamentali.

Primo, la lotta da parte del nostro Partito per il programma avanzato
trasformerebbe (parafrasando il Lenin che si batte contro le posizioni
antiparlamentariste) il tavolo programmatico del centro-sinistra in una
“cassa di risonanza della lotta di classe”, rafforzando
conseguentemente i rapporti di massa del nostro Partito. In altre
parole, i lavoratori capirebbero per cosa ci stiamo battendo; poiché
così, in questo lungo ping-pong sul nome nuovo dell’Ulivo o sulla
storia infinita delle primarie, il popolo di sinistra sta dimenticando
per che cosa si dovrebbe andare al governo.

Secondo, la definizione di un programma avanzato e la sua
popolarizzazione diverrebbero lo strumento decisivo per la
trasformazione di quel sentimento popolare contro Berlusconi, che già
esiste, in una passione popolare per l’alternativa. Finalmente si
darebbe un senso al “dopo Berlusconi”, e il programma (una bandiera
issata nella testa della gente) sarebbe l’elemento mobilitante e la
base più sicura per la vittoria contro le destre, sinora molto incerta.

Terza questione.

La conquista del programma metterebbe il nostro Partito nelle
condizioni tattiche e politiche più favorevoli: un nostro ingresso nel
governo per respingere ogni guerra, per non essere subordinati
all’imperialismo USA e alla NATO, per politiche popolari, sarebbe
condivisa dal popolo di sinistra e dal movimento operaio. Nello stesso
modo, qualora il programma fosse tradito e si rendesse inevitabile
l’uscita dal governo da parte dei comunisti, la cosa sarebbe compresa e
condivisa dalle masse popolari.

Il contrario sarebbe un dramma. Se entrassimo, come sembra sia disposta
a fare la maggioranza del nostro Partito, in un esecutivo privo di
punti di riferimento programmatici chiari, l’eventuale uscita dal
governo da parte dei comunisti (rispetto alla più che prevedibile
politica moderata di un centro-sinistra liberato persino da un impegno
su punti di programma) sarebbe ben più difficilmente compresa dai
lavoratori e dal popolo di sinistra. Per la seconda volta in pochi anni
si correrebbe il rischio di farci percepire, dal nostro elettorato e
ben oltre, come la forza che di nuovo favorirebbe il ritorno delle
destre. Il rischio di un nostro crollo sarebbe alto.

Vi è inoltre un ulteriore punto legato all’esigenza del programma e
dell’alternativa: se anche questa volta il governo del centro sinistra
non mantenesse le aspettative della sua base sociale, si consumerebbe
ancor più quel rapporto di fiducia che, sinora, ha premiato la sinistra
forse oltre i suoi meriti, e si potrebbero creare le basi per una
vittoria delle destre di lungo periodo.

In sintesi, occorre battersi per un programma avanzato. Se non si
coglierà questoobiettivo, non si potrà entrare nel governo.

 “Linea” e identità

Giudichiamo la linea che sulla questione del governo ha assunto la
maggioranza sbagliata, e siamo preoccupati perché forse vi è un nesso
tra tale linea e le diverse mutazioni teoriche e politiche assunte dal
nostro Partito. Queste non sono poche, né di piccola entità. Si va
dalla cancellazione della categoria di “imperialismo” (avvenuta già
nello scorso Congresso) alla discutibilissima assunzione in toto della
concezione della nonviolenza (attraverso la quale si rischia di
rinunciare, politicamente e teoricamente, alla stessa emancipazione
delle classi subordinate); si va dalle sbagliate posizioni assunte
rispetto alla lotta di Liberazione (“la Resistenza angelizzata”)al
freddo rapporto rispetto alla resistenza irachena; dalla netta presa di
distanza dall’intero movimento comunista del‘900 (cosa ben diversa
dalla necessaria analisi critica), al giudizio liquidatorio espresso su
Lenin, Togliatti e gli altri dirigenti ed intellettuali del movimento
comunista (“morti, non solo fisicamente”); dal mancato pieno sostegno
al popolo e al Partito comunista cubano (mai come oggi minacciati dagli
USA) all’incongrua simpatia verso “Bad Godesberg”, la città tedesca ove
nel 1958 la socialdemocrazia tedesca tenne il Congresso in cui
affermava la propria rinuncia all’apporto teorico marxista; dalla
rinuncia alla concezione gramsciana del Partito comunista quale
“intellettuale collettivo”, alla stessa, strana concezione (non
propriamente unitaria) secondo cui in un partito comunista si potrebbe
governare anche col solo 51%.

In un recente articolo de Il Riformista (giornale vicino a D’Alema) si
affermava senza indugi che “la nuova Rifondazione depurata
culturalmente è il capitale più importante che Bertinotti porta in dote
al centro-sinistra”.

È del tutto evidente che “depurata”, per Il Riformista, significa
“decomunistizzata”.

In questo VI Congresso ci battiamo anche per questo: perché le
illusioni de “Il Riformista” restino tali, per il rafforzamento di un
Partito comunista rifondato, radicato nella società e nei luoghi di
lavoro, democratico, unitario e dal carattere di massa.