(english / italiano)

Kosovo, chiese ortodosse sempre sotto tiro


0. THE MOST RECENT DESTRUCTIONS (links)

1. Kosovo, chiese ortodosse sotto tiro (Tommaso Di Francesco)

2. NUOVO LIBRO: L'altra guerra del Kosovo. Il patrimonio della cristianità serbo-ortodossa da salvare
- recensione di Ida Dominijanni
- recensione di Loris Campetti
- intervista al vicario del monastero di Decani (2004)

3. FLASHBACK : THE 2004 DESTRUCTIONS

4. LINKS


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THE MOST RECENT DESTRUCTIONS (links):

Serb church vandalized in Kosovo
BBC Monitoring Europe (Political) - April 16, 2006

Kosovo church demolished
B92 (Serbia and Montenegro) - May 12, 2006

ANOTHER SERBIAN CHURCH DESECRATED IN KOSOVO
FoNet - May 13, 2006

SERBIAN CHURCH DEMOLISHED IN KOSOVO
Beta - June 20, 2006

Serbian church in northern Kosovo attacked again 

WHC puts Medieval Monuments in Kosovo in danger list
Xinhua - July 17, 2006


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il manifesto
27 Giugno 2006

Kosovo, chiese ortodosse sotto tiro

Nel mirino Monasteri profanati, cimiteri distrutti, simboli abbattuti. Tornano nel mirino i serbi. Gli albanesi di Pristina aspettano la promessa indipendenza. Tutta la leadership di Belgrado dice no e sì ad una larga autonomia. Il premier Kostunica oggi da Blair che, con Bush, lo invita a «non isolarsi». Il premier serbo per la prima volta invitato in Kosovo domani 28 giugno per l' anniversario della Piana dei Merli. L'Italia quasi tace

Tommaso Di Francesco

La chiesa di Sant'Andrea profanata a Podujevo, più di trenta tombe ortodosse devastate a Staro Gracko, cimiteri dissacrati, enormi croci divelte dalle cupole dell'antica chiesa della Santa Vergine a Obilic (a fine maggio hanno tentato perfino di uccidere un prete della diocesi di Pristina), un contadino serbo, Dragan Popovic, ucciso il 20 giugno a Klina: è il Kosovo pacificato dall'amministrazione Onu e dall'occupazione militare Nato. Morti e devastazioni che vanno ad aggiungersi a quelli dei pogrom del marzo 2004, ma in Kosovo - dall'ingresso delle truppe della Nato secondo la pace di Kumanovo del giugno 1999 dopo 78 giorni di bombardamenti «umanitari» della Nato su tutta l'ex Jugoslavia - è sempre stato «marzo», con lo scatenamento di una feroce contropulizia etnica: 1300 serbi, rom e albanesi moderati uccisi, altrettanti desaparecidos, 150 chiese e monasteri ortodossi rasi al suolo o incendiati, 200.000 serbi fuggiti nel terrore e altrettanti rom. E proprio in queste ore la minoranza cristiano ortodossa della provincia ancora formalmente serba e che sciaguratamente l'amministrazione Onu ha avviato verso l'indipendenza, torna sotto tiro. Il vescovo di Pristina, Artemije ha condannato la profanazione dei luoghi di culto di questi giorni accusando: «Siamo preoccupati, la comunità internazionale dovrebbe proteggere le zone attorno ai luoghi santi». L' escalation di violenze che da un mese si è riscatenata contro i serbi è stata oggetto di un preciso rapporto in Vaticano presentato dall'ambasciatore serbo alla Santa sede, Darko Tanaskovic. La «situazione della libertà religiosa in Kosovo resta davvero intollerabile e non rispondente agli standard internazionali» afferma Joseph Grieboski, presidente e fondatore dell'Institute on Religion and Public Policy - organizzazione americana indipendente.
Significativo il fatto che invece la diplomazia laica sia sul baratro, in silenzio o in procinto di acconsentire a quell'indipendenza che gli Stati uniti hanno di fatto avviato con una guerra che i governi europei della Nato motivavano invece come necessità «umanitaria». George W. Bush arrivando al vertice di Vienna la scorsa settimana ha promesso di incontrare il premier serbo Vojslav Kostunica e incoraggiarlo a dialogare perché «il dialogo tra la Serbia e e coloro che aspirano all'indipendenza del Kosovo deve andare avanti, certo «proteggendo i diritti delle minoranze». Come non è chiaro, visto che questa «indipendenza» che priverebbe la Serbia semplicente dei luoghi della sua cultura fondativa, è stata perseguita con la contropulizia etnica, sotto gli occhi della Nato. Più sbrigativo Tony Blair che, scriveva ieri il Financial Times, dirà a Vojslav Kostunica che incontrerà oggi, che deve riconoscere la «differente visione» dell'indipendenza, pena «l'isolamento». Ma che la situazione resta drammatica e di difficile soluzione, lo si capisce dai difficili movimenti dell'inviato dell'Onu Martti Ahtisaari dal quale trapela la notizia di un vertice estivo, già il 21 luglio, tra serbo e albanesi kosovari, ma anche la convinzione che i colloqui «continueranno anche nel 2007». In Serbia il premier Kostunica e il presidente Boris Tadic, pur rappresentando realtà politiche diverse della leadership di Belgrado, insistono a dire no ad ogni pressione sull'indipendenza pronti invece a riconoscere una profonda autonomia del Kosovo. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu, maleinformato per il ruolo nefasto dell'amministratore Soren Jessen Petersen che ha improvvisamente lasciato l'incarico prima della fine del suo mandato, si è già riunito la scorsa settimana sul Kosovo e resta preoccupato. L'Onu ha per la prima volta autorizzato Kostunica a venire in Kosovo domani 28 giugno (festa di Vidovdan) nel 617mo anniversario della battaglia della Piana dei Merli, storica sconfitta dei serbi nel 1389.
In Italia di Kosovo si preferisce non parlare. Solo l'ex generale Mini che comandava la Kfor, ripete che lì la realtà tornerà esplosiva. E fa capolino nel difficile clima afghano con l'Udc che si dice pronta a votare con la maggioranza «come con il Kosovo» all'epoca di D'Alema premier. E D'Alema? Non ha ancora riaperto il dossier Kosovo, tuttavia, ricevendo l'inviato Martti Ahtisaari ha insistito per una soluzione negoziale che «garantisca un Kosovo multietnico» procedendo «con equilibrio e senza accelerazioni artificiali».


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il manifesto
18 Luglio 2006
Politica o quasi

Kosovo, morte e resurrezione

Ida Dominijanni

Diventata forma fisologica della politica agonizzante d'inizio millennio, la guerra non dà tregua: l'una si sussegue all'altra senza soluzione di continuità. E il fuoco dei media sull'ultima rimuove, ogni volta, il portato e i residui di quella precedente. Mi fa un certo effetto, devo confessarlo, trovarmi sul tavolo, mentre la tv trasmette le immagini di Beirut in fiamme, un volume a più voci recentemente curato da Luana Zanella, L'altra guerra del Kosovo. Il patrimonio della cristianità serbo-ortodossa da salvare (Casadeilibri): lo guardo e mi sembra fuori fuoco e fuori contesto. La verità è che anch'io, come tutti, ho già dimenticato: da quando brucia il Medioriente chi si ricorda più del Kosovo, se non quei pochi - tra cui gli autori del libro in questione - che ostinatamente continuano a monitorare quello che accade nella sventurata regione dei Balcani? Dall'ultima guerra del '900, quando ancora non c'era stato l'11 settembre, la preemptive war non era stata inventata e il terrorismo islamico covava sottotraccia, sembra passato davvero un secolo. E sì che quanto al crescere della febbre identitaria e del conflitto etnico-religioso gli eventi della ex Jugoslavia avevano già annunciato tutto quello che c'era da annunciare.
E' contro questo oblìo che il libro nasce ed è in particolare alla politica italiana e europea, le meno autorizzate a dimenticare, che si rivolge. Deputata Verde pacifista, nel '99 contraria all'«intervento umanitario» del governo D'Alema, Zanella ha visitato le terre martoriate dell'ex Jugoslavia più volte, in guerra e dopo, e qui in specie racconta la sua visita in Kosovo del dicembre 2004, quando era diventato evidente il rovesciamento intervenuto in quella regione, dalla catastrofe umanitaria della comunità albanese perseguitata e «ripulita» da Milosevic che aveva legittimato la guerra a quella della comunità serba e di altre minoranze non albanesi - rom, bosgnacchi, goranci, ashkali - perseguitate dall'Uck e dalle bande criminali nella dimenticanza dei media e della politica. In questo contesto la rivisitazione del patrimonio artistico serbo-ortodosso che il libro propone - e che fa seguito alla campagna per la sua salvezza lanciata qualche anno fa da un appello di Massimo Cacciari - acquista un evidente senso politico. Come scrive Zanella, «non si tratta di difendere unicamente la cristianità serba, ma la possibilità stessa della convivenza fra popoli e culture differenti». La tradizione di tolleranza religiosa del Kosovo è infatti messa in forse non solo dagli eventi politici e militari, ma anche dalla perdita delle tradizioni locali, e quella «terra sacra» ad alta densità simbolica carica di monasteri, chiese, dipinti rischia di diventare un crocevia di traffici d'ogni sorta, potenziale base nel cuore dell'Europa per il terrorismo fondamentalista.
Del patrimonio artistico kosovaro, davvero «simbolico» dell'interculturalità perché esso stesso ponte fra culture diverse, scrivono Rosa D'Amico, Valentino Pace, Alessandro Bianchi. Andrea Catone, Daniele Senzanonna, Renato D'Antiga mettono a fuoco alcuni passaggi della storia del Kosovo dal medioevo in poi, Tommaso Di Francesco alcuni momenti della cronaca recente. Cacciari, nella prefazione, insiste sul filo che lega, o dovrebbe, la percezione della tragedia politica e della posta in gioco culturale e spirituale: è questo secondo versante che «aiuta a capire la 'profondità' delle recenti tragedie, e come la loro radice debba essere cercata indietro nel tempo, negli strati che potevano apparire sommersi dell'anima di quei popoli». Nessuno sconto è possibile e nessuna rimozione consentita: «anche in questo caso è necessario guardare in faccia tutto l'inferno della storia», tanto più anzi in questo caso, emblematico di come le umane vicende procedano per salti imprevisti, a onta dei nostri calcoli razionali. Può accadere, nella ex Jugoslavia è accaduto, che la guerra civile scoppi efferata fra vicini di casa che fino al giorno prima avevano fatto festa assieme e si erano riconosciute nelle stesse icone artistiche. Ma può accadere anche il contrario, che quelle icone ridiventino segni e tramite di ospitalità reciproca. «I monasteri e le chiese del Kosovo rappresentano nei loro grandi cicli di affreschi questa capacità di resurrezione, la volontà di non arrendersi al destino della inimicizia e della morte».

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il manifesto
19 Maggio 2006

Un popolo in fuga, una cultura nel mirino

Infelice Kosovo troppo lontano dall'Europa

Il dimenticato patrimonio della cristianità serbo ortodossa, una storia di violenza, invisibile a chi pretende un'identità religiosa per il Vecchio continente

Loris Campetti

Come dimenticare il tormentone sulle «radici cristiano-giudaiche» dell'Europa? Difficile riuscirci, tanto più che proprio quando si pensa che si sia finalmente inabissato, eccolo carsicamente riemergere, agitato in forma individuale o collettiva da una folta schiera di «fedeli» alla Chiesa di Roma - quel «giudaico» aggiunto a cristiano serve solo a salvare la coscienza europea, come se bastasse una mano di sapone a ripulirla dai crimini della Shoah. Il tormentone dunque non ha una fine, ma un fine sì che ce l'ha ed è quello di mettere un doc, un marchio d'origine sul Vecchio continente, da parte di chi si sente «assediato» da religioni e culture «altre». Bisognerebbe organizzare un viaggio collettivo per portare in processione a Pristina e nei centri della martoriata regione kosovara questa schiera di «europei doc»: potrebbero così prendere atto dello scempio fatto della memoria e dell'arte della cristianità dagli «infedeli» albanesi - quelli la cui identità europea verrebbe negata dal marchio d'origine - nel corso dei secoli, con un'accelerazione eccezionale dal 1999 quando le bombe umanitarie fecero strage di serbi, zingari, profughi, albanesi di passaggio e, naturalmente, di strutture, infrastrutture, fabbriche, abitazioni, ma anche monasteri e opere d'arte.
Il popolo serbo, tutore di una memoria collettiva, non ha potuto usufruire della «guerra di religione» dichiarata al mondo islamico e consacrata due anni più tardi, l'11 settembre del 2001. Né i serbi hanno potuto avvalersene successivamente: ormai il processo di deserbizzazione in Kosovo era andato troppo avanti, era diventato troppo difficile fermarlo per un'Europa che aveva ormai rimosso le conseguenze delle sue scelte belliche, ancorché umanitarie. Oggi l'Europa sa soltanto ripetere che la Serbia resterà fuori dalla comunità e non sarà ammessa a iscriversi nell'elenco dei candidati, almeno finché non avrà consegnato al tribunale dell'Aia i suoi criminali. Del Kosovo, poi, meglio non occuparsene, finché il problema non sarà risolto alla radice, cioè con l'espulsione dell'ultimo serbo rimasto a Kosovska Mitrovica. Finché nell'immaginario collettivo europeo sarà ben consolidata l'idea che nella distruzione sanguinosa dell'ex Jugoslavia c'è stato un unico responsabile - il governo di Milosevic, e in fondo l'intero popolo serbo, «l'etnia» serba. E nell'immaginario collettivo serbo trionferà l'idea che tutto il mondo gli è nemico, come ai tempi della sconfitta di Kosovo Polje.
La storia dei serbi nel Kosovo, intrecciata di vicende umane e patrimoni dell'arte e dello spirito, si racconta nel libro L'altra guerra del Kosovo. Il patrimonio della cristianità serbo-ortodossa da salvare, a cura di Luana Zanella, Casadeilibri, Padova 2006, euro 21. Contiene testi, oltre che di Zanella, del presidente dell'associazione «Most za Beograd-Un ponte per Belgrado» Andrea Catone, di Rosa D'Amico della Soprintendenza per il patrimonio artistico ed etnografico di Bologna, di Renato D'Antiga che svolge attività teologica presso la Metropoli ortodossa d'Italia, del giornalista del manifesto Tommaso Di Francesco, di Valentino Pace, docente di Storia dell'Arte medievale e bizantina e di Daniele Senzanonna, autore di una tesi sul Kosovo.
La storia ricostruita ne «L'altra guerra del Kosovo» ci dice che oggi sta andando a distruzione un patrimonio artistico che aveva resistito nei secoli, nell'indifferenza proprio di chi vorrebbe farsi paladino delle radici cristiane dell'Europa. Al punto di dimenticare, nelle più significative manifestazioni dedicate all'arte bizantina, l'importanza di quel pezzo di storia, già sepolta prima ancora di morire.
Il libro si chiude con la storia terribile dei nostri giorni che vede i nostri ottimi soldati piantonare, per l'eternità, una chiesa, una torre, un cippo, nella consapevolezza che, appena volteranno le spalle, una bomba, un incendio, una picconata, staccherà per sempre un volto d'angelo, la compassione di Cristo, la speranza della Resurrezione. E' proprio a quest'ultima che si appella Massimo Cacciari, nella prefazione al libro, riferendosi alla bellezza dell'Anastasis, alla necessità da parte dell'Europa di considerare Studenica, Mileseva, Sopocani, Pec, Gracanica, Decani e le altre, come parte della sua memoria e del suo attuale patrimonio culturale.
Il popolo serbo, secondo le prime informazioni fornite dall'imperatore Costantino VII Porfirogenito, nel suo De Administrazione Imperio, è originario della Serbia Bianca, territorio della Lusazia, posto a nord e a nord ovest dell'attuale Boemia. Guidati dai loro condottieri chiamati zupani, i serbi scendono in Illiria, abbandonano la loro struttura sociale di carattere tribale e, guardando a Costantinopoli, adottano un regime monarchico. Dal VI secolo cominciano a popolare il Kosovo, ne prendono il pieno possesso e costringono le popolazioni indigene (greci, romani, dardani, valacchi, zingari, aromaniani, illiri e traci) a spostarsi sulle coste o all'interno, sulle montagne. La regione entra così a far parte dei vasti possedimenti governati dalla potente dinastia dei Nemanija che regna per due secoli (1166-1371) e fa del Kosovo il centro della cultura e dalla religione.
La conversione al cristianesimo ortodosso era già cominciata intorno al IX secolo ma con lo zupan Stefano Nemanija i movimenti spirituali legati alla vita monastica, nati nelle grotte impervie del sud, prendono a diffondersi in tutto il territorio, assecondati da una politica di grande attenzione alla cultura e alle espressioni spirituali del mondo bizantino ma anche dell'altra sponda dell'Adriatico.
I membri delle famiglie reali, spesso esponenti della chiesa nazionale, moltiplicano le costruzioni di monasteri che gravitano su ampi territori, creando un tessuto unitario, rafforzato dalla profonda religiosità dei regnanti che spesso, dopo aver abdicato, concludono la loro vita terrena ritirandosi dal mondo, assumendo le vesti di umili monaci. Nascono Studenica, Mileseva, Sopocani, Pec, Gracanica, Decani, solo per ricordare le più famose. Pittori, scalpellini, costruttori, architetti, mettono in cantiere decorazioni scolpite su marmo bianco, affreschi che raccontino, a tutta volta, l'intera storia degli apostoli, la pazienza dell'Annunciata che fila, la lattea solitudine della chiesa dell'Ascensione. Grazie allo sfruttamento delle miniere di argento e di piombo e al ricco commercio dalmata, l'architettura e le arti figurative trasformano il Kosovo nella gemma dei Balcani.
Poi, il 15 giugno del calendario giuliano, il 28 di quello gregoriano, del 1389, a Kosovo Polije, la Piana dei merli, l'esercito ottomano forte di 30.000 uomini sconfigge quello di Lazar, principe serbo al comando di un'armata grande la metà. L'intera nobiltà, fanti e cavalieri, difendono quella lontana propaggine della cristianità fino a soccombere. La Serbia e il Kosovo con lei, entrano così sotto la dominazione turca che durerà quattro secoli. Ben di più durerà, nell'immaginario collettivo serbo, il segno lasciato dalla sconfitta subita a Kosovo Polije che paradossalmente diventa un simbolo identitario tuttora vivo dal confine con l'Ungheria, cioè dalla Vojvodina, fino al cuore dello sventurato Kosovo. Un simbolo identitario - e il paradosso sta nell'autorappresentazione di un popolo in un luogo e in una vicenda che rimandano a una sconfitta - riscontrabile anche nei serbi della (sempre più numerosa) diaspora nei paesi europei, negli Stati uniti, nel Canada.
La religiosità dei serbi diventa a questo punto il fulcro della resistenza. La fede nella resurrezione non è solo un fatto simbolico ma si incarna in una opposizione capace di attraversare i secoli. Gli ottomani requisiscono le chiese e i monasteri più belli per trasformarli in moschee mentre cristiani ed ebrei entrano in una sorta di clandestinità. Tuttavia, mentre gli albanesi e gli slavi di Bosnia cadono nell'apostasia, i cristiani del Kosovo resteranno tali (97% della popolazione) fino al sedicesimo secolo, accompagnati da tutti quegli angeli e pie donne, evangelisti e vescovi, vergini e santi che dall'alto delle volte di chiese e monasteri sperduti, li invitano a credere ma anche a resistere.
Venezia, l'Austria, poi la Russia, minacciate a loro volta dagli ottomani promettono, nei secoli, larghi appoggi ai serbi che, tuttavia, rimangono quasi sempre soli, schiacciati contro l'invasore, e si fanno uccidere. Intanto gli albanesi, in gran parte islamizzati, combattono al fianco degli ottomani e nel 1690 comincia la Grande migrazione che dà inizio al cambiamento della composizione etnica del Kosovo e che continuerà nel 1737 con la guerra austro-russa contro i turchi. Man mano che i serbi vengono spinti fuori dalla regione, gli albanesi scendono dalle montagne e si appropriano delle aree coltivate, grazie alla protezione dei turchi che li tengono legati a sé anche da una ricorrente politica di esenzione dalle tasse.
Due secoli e mezzo più tardi i serbi sono ancora in fuga dal Kosovo e i loro monasteri restano un target per chi pretende per quei martoriati territori europei un'identità diversa da quella cristiano-giudaica. Due rivendicazioni identitarie che uccidono arte, cultura, popoli. Popoli europei.


intervista

Se anche l'arte diventa nemica

tommaso di francesco

Pubblichiamo uno stralcio di un'intervista di Tommaso Di Francesco al vicario del monastero di Decani, apparsa sul manifesto del 23 ottobre 2004 e ripubblicata nel libro «L'altra guerra del Kosovo». Sono passati 18 mesi, Rugova è morto e la situazione per i serbi è addirittura peggiorata.


In occasione delle elezioni di oggi abbiamo incontrato a Decani, sede di uno dei più importanti monasteri ortodossi del Kosovo, fortunatamente non ancora devastato, padre Sava, vicario del monastero e tra i rappresentanti più noti della chiesa ortodossa nei Balcani. E' un gigante dalla barba bionda, ha 39 anni, è nato a Dubrovnik e ha vissuto per molto tempo in Erzegovina. Ora vive asserragliato nel monastero di Decani, guardato a vista dai paracadutisti italiani, dove prosegue la sua coraggiosa «testimonianza religiosa nell'arcipelago Kosovo», nonostante le violenze perpetuate dagli estremisti albanesi.

D: Come vivono i serbi in Kosovo, c'è un futuro per loro? E il lavoro, diritti?

R: Sono un popolo esposto alla distruzione, sia fisica, che spirituale. Insomma, a rischio estinzione. La nostra tragedia continuerà finché la comunità internazionale tollererà la violenza etnica e la costruzione di una società albanese monoetnica. L'amministrazione dell'Onu- Unmik negli ultimi cinque anni non ha creato alcuna prospettiva per la sopravvivenza - non dico nemmeno esistenza - dei serbi.

D: Il leader moderato e «presidente» Ibrahim Rugova vuole l'indipendenza: due settimane fa ha chiesto apertamente agli Stati uniti e all'Unione europea di riconoscere il Kosovo indipendente. Che cosa pensa di questo?

R: La visione del signor Rugova è limitata alla sola richiesta di un Kosovo indipendente. Però, nella vita quotidiana, Rugova, come il resto dei leader kosovaro-albanesi non ha una visione della società nella quale tutti i cittadini, senza badare alla loro nazionalità siano liberi ed uguali. E' deplorevole che i sindaci appartenenti al partito di Rugova (la Lega democratica, Ldk ndr), nella parte occidentale del Kosovo - a Klina, Pec, Prizren - siano i principali oppositori del ritorno dei serbi. Questo prova che, quando si tratta dei serbi, non c'e alcuna differenza tra il partito di Rugova e quelli dell'Uck.

D: Quali sono stati i risultati della «guerra umanitaria», alla luce delle violenze, della nuova pulizia etnica subita dai serbi dal giugno 1999, data d'ingresso della Nato, e alla luce delle violenze contro la popolazione serba e i monasteri del marzo scorso?

R: La cosidetta «guerra umanitaria» dell'Alleanza atlantica - 78 giorni di bombardamenti successivi su tutta la Jugoslavia, Kosovo compreso - ha portato a una nuova catastrofe umanitaria e ha scatenato le violenze contro i serbi e le altre minoranze, come i rom e i goranji. La missione dell'Onu, Unmik, è la missione più fallimentare della storia delle Nazioni unite. Negli ultimi cinque anni sono stati cacciati 250mila serbi, rom e altre minoranze; sono state distrutte 140 chiese e monasteri serbo-ortodossi; sono stati uccisi, o desaparecidos, circa duemila serbi; e gli altri vivono nelle loro enclave, dietro il filo spinato e circondati da soldati e mezzi militari. Mentre i disordini di marzo, che hanno portato alla cacciata di seimila serbi, e la distruzione di 35 chiese - hanno mostrato che la Nato, che si era impegnata per la sicurezza del Kosovo con la pace di Kumanovo, è invece una tigre di carta. Certo, i soldati italiani ora ci proteggono e senza di loro non esisterebbero nemmeno le enclave serbe. Ma è un paradosso: noi eravamo i nemici che andavano bombardati. Ora ci salvano, ma quei bombardamenti hanno autorizzato le attuali impunità contro di noi. Per impedire una completa catastrofe, bisogna cambiare completamente la strategia internazionale, e non attribuire ulteriori legittimità e competenze alle autorità monoetniche kosovaro-albanesi. Il contrario esatto dell'obiettivo di queste che la comunità internazionale si ostina a chiamare «elezioni».


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FLASHBACK : THE 2004 DESTRUCTIONS

Tanjug - March 20, 2004

Appeal to UNESCO to defend cultural heritage in Kosovo

18:31 BELGRADE, March 20 (Tanjug) - Reacting to the
destruction of Serbian Orthodox churches, monasteries
and convents in Kosovo-Metohija, Serbia-Montenegro
President Svetozar Marovic on Saturday called on
UNESCO Director-General Koichiro Matsuura to condemn
these acts and invite the international community to
urge defence of the cultural heritage threatened by
destruction.
In a letter to the UNESCO director-general, Marovic
appealed that UNESCO mission assess the damage made in
the latest wave of destruction as soon as the
situation in Kosovo stabilised and propose measures
for reconstruction and constant protection.

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Tanjug - March 23, 2004

UNESCO strongly condemns attacks at Serbian cultural
heritage in Kosovo

12:01 PARIS , March 23 (Tanjug) - UNESCO Director
General Koichiro Matsuura on Monday strongly condemned
the latest attacks at the Serbian cultural heritage,
saying that they were aimed at erasing the memory and
cultural identity of a nation.
Serbia-Montenegro Ambassador to UNESCO Dragoljub
Najman told Tanjug in Paris that Matsuura was reacting
to the destruction of Serbian Orthodox monasteries,
convents and churches under the attack of ethnic
Albanian extremists in Kosovo in the past few days and
to a letter Serbia-Montenegro President Svetozar
Marovic had sent him on this occasion.

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Serbia Info - March 28, 2004

35 Orthodox churches, monasteries destroyed or damaged

Belgrade, March 27, 2004 - The Diocese of
Raska-Prizren has released an updated list of 35
Serbian Orthodox churches and monasteries that were
destroyed or severely damaged in last week’s outbreak
of violence in Kosovo-Metohija.


Prizren (All Prizren churches were destroyed on March
17 and March 18)

Holy Virgin of Lyevish (14th century) burned inside

Church of Christ the Savior (14th century) burned

Cathedral of St. George (1856) burned and mined

Church of St. Nicholas (Tutic's church, 14th century)
burned

Church of St. Nicholas (Runovic's church, 16th
century) burned inside

Church of St. Kyriake (14th century, reconstructed
later) burned, Potkaljaja quarter

Church of St. Panteleimon (14th century, reconstructed
later) burned, Potkaljaja quarter

Church of St. Cosmas and Damian (14th century,
reconstructed) burned, Potkaljaja quarter

Church of St. Kyriake, Zivinjane, near Prizren, mined
(UNMIK/KFOR Report: March 19 - Explosion completely
destroys old Orthodox Church near Zivinjane village)

Holy Archangels Monastery (14th century), burned

Serbian Orthodox Seminary of Sts. Cyrillus of
Methodius (UNMIK/KFOR Report March 17 - Orthodox
Seminary in town centre & 3 Orthodox churches set on
fire)

Bishop's residence in Prizren (now: 1) (UNMIK/KFOR
Report - March 18: Archbishop seat, Archangel
Monastery, an Orthodox Church and Orthodox Seminary
set on fire & destroyed)


Orahovac

Church of St. Kyriake, (1852), Brnjaca, Orahovac 1852
(UNMIK/KFOR Report: March 18 - Orthodox Church set on
fire & destroyed in Brnjaca village)


Djakovica

Church of the Assumption of the Virgin Mary (16-19th
century), burned, along with the parish home, on March
17, razed to the ground during the following days

Cathedral church of the Holy Trinity (two bell-towers
which survived the 1999 mining were razed to the
ground. Kosovo Albanians removed all material from the
site in the following days, UNMIK/KFOR Report March 18
- Rioters remove debris of destroyed Orthodox Church
with trucks & trailers Approx 5,000 K-Albanians
participate.)

Church of St. Lazarus, Piskote, near Djakovica,
reported destroyed (confirmed from an international
source)

Church of St. Elias, near Bistrazin, damaged after the
war and now completely destroyed (confirmed by Bishop
Atanasije Jevtic)


Srbica

Devic Monastery (15th century) burned to the ground,
the tomb of St. Ioanichius of Devic opened and
desecrated. The tomb of the saint was set on fire.
(UNMIK/KFOR Report March 18: 2,000 protestors gather
and move towards Devic Monastery, Five K-Serbian nuns
evacuated from area, Violent protestors set Monastery
on fire)


Pec

Church of St. John the Baptist (Metropolia, along with
the parish home) burned (confirmed from local
international sources in Pec)

Church of Virgin Mary, Belo Polje nr. Pec, burned
again inside and desecrated inside, (confirmed by
Bishop Atanasije Jevtic who visited the site)

Church of St. John the Baptist (Pecka banja), reported
burned (from local international sources)


Urosevac

Cathedral of St. Uros the Emperor, Urosevac,
(UNMIK/KFOR Report: March 17 - 3 hand grenades thrown
at Serbian Orthodox church – church set on fire, first
time), at least 19 KFOR soldiers and policemen wounded
defending the church, destroyed city cemetery
(UNMIK/KFOR Report March 18 1,500 K-Albanians rampage
– burn Orthodox Church & up to 5 K-Serb houses in
townK-Albanian crowd attempts to set Orthodox Church
on fire in K-Serb village of Talinovce Church was set
to fire (1749 hrs) – 5 K-Albanian males arrested)

Nekodim village, Sv. Ilija, destroyed, along with the
cemetery (confirmed by local sources)

Talinovac village, St. Peter and Paul church,
destroyed, along with the cemetery (from the
UNMIK/KFOR Report, see above)

Sovtovic, the cemetery church of the Holy Virgin,
destroyed, along with the cemetery (confirmed by local
sources)


Kamenica

Church in Donja Slapasnica, Kosovska Kamenica (info
from Kamenica) under investigation.
The church in Kamenica was stoned and some windows are
broken


Stimlje

Church of St. Archangel Michael in Stimlje, built in
1920 (UNMIK/KFOR Report: March 18: K-Serbian house &
Orthodox Church set on fire)


Pristina

Church of St. Nicholas (19th cenutry), Pristina town
(UNMIK/KFOR Report: March 18 - Rioters attack Old
Orthodox Church in Taslixhe – gunfire in area Orthodox
priest & 5 K-Serbian families evacuated by KFOR from
Old Orthodox Church SPU officer shot & injured during
attempt to secure Old Orthodox Church Orthodox Church,
UN Habitat office & 3 UNMIK Police vehicles set on
fire) The church burned to the ground, along with the