il manifesto
23 Settembre 2006

Kosovo
D'Alema: «Siamo a favore dell'indipendenza»
«In Kosovo la spinta è verso un processo graduale di indipendenza ma
devono essere adottate una serie di misure tali da evitare
lacerazioni e instabilità. Questa è la tesi che sosterrò stasera
nella riunione del G8 dove sarò relatore proprio sulla questione dei
Balcani e del Kosovo». Lo ha detto il ministro degli Esteri Massimo
D'Alema parlando con i giornalisti a margine dei lavori
dell'Assemblea generale dell'Onu a New York.


il manifesto
24 Settembre 2006

Balcani, i troppi non-detto di Massimo D'Alema

Tommaso Di Francesco

Ai margini dell'Assemblea generale dell'Onu, il ministro degli esteri
italiano Massimo D'Alema ha parlato di Kosovo, rompendo un silenzio
che durava da troppo tempo. A fronte di una comunità internazionale
erede della guerra «umanitaria» del 1999 - Usa, amministrazione Onu e
Nato in testa - che ora vuole a tutti i costi l'indipendenza del
Kosovo entro la fine dell'anno, D'Alema ha confermato la sciagurata
scelta dell'indipendenza, ma ha proposto un «approccio regionale» che
tenga conto del pericolo che una forzatura improvvisa
sull'indipendenza provocherebbe nell'area balcanica in particolare in
Bosnia (e, aggiungiamo noi in Macedonia) ma soprattutto senza un
«atteggiamento discriminatorio verso la Serbia, il cui isolamento
porterebbe rischi in altri paesi dove ci sono minoranze serbe»,
auspicando una «integrazione dei Balcani occidentali nell'Unione
europea e nella Nato» e concludendo in favore di un «processo verso
l'indipendenza graduale» del Kosovo.
Ci troviamo di fronte a un atteggiamento ambiguo, un immobilismo
sull'orlo di un precipizio, che dice e non dice, e soprattutto
rimanda a una gradualità quello che è proprio impossibile realizzare,
non solo immediatamente, pena «nuovi elementi di conflittualità», ma
concretamente e nel futuro, pena una nuova guerra - «umanitaria»,
s'intende. Il fatto è che la conflittualità non è un rischio, c'è già
nei Balcani. Intorno alle enclave dei pochi serbi rimasti in Kosovo
soffia la minaccia di una rivolta che viene annunciata perfino
dall'alto delle istituzioni etniche - solo kosovaro-albanesi - come
ha fatto in questi giorni il presidente del 'parlamento' Kol Berisha,
rivolto all'Occidente, alle famiglie serbe asserragliate in pochi
bantustan protetti, e ai contingenti della Kfor-Nato, compresi quelli
italiani di Djacovica che ben ricordano la rivolta, le stragi e la
caccia al serbo del marzo 2004.
E nella sempre più fragile Bosnia Erzegovina a una settimana da
incerte elezioni, come in Macedonia dove i partiti albanesi
«aspettano» solo lo status di un Kosovo indipendente per decidere se
restare al governo con gli slavomacedoni che hanno vinto le elezioni
o attivare quella Grande Albania nata come ideologia proprio a
Tetovo. Dunque, forse varrebbe di più essere chiari, perché ai
Balcani non servono né la fumosità né il fallimento di una nuova
Bicamerale.
Perché D'Alema non dice che in Kosovo non c'è alcuna condizione per
l'indipendenza, alcuno standard democratico o garanzia dei diritti
delle minoranze richiesti? Perché non racconta quel che è accaduto in
questi sei anni di Amministrazione Onu e occupazione militare Kfor-
Nato e non spiega che cosa rischia di accadere nelle settimane che ci
separano dalla fine dell'anno? E non trae qualche conclusione sui
risultati della guerra del 1999 che lo hanno visto protagonista?
Allora, a conclusione di 78 giorni di bombardamenti «umanitari» su
tutta l'ex Jugoslavia, Kosovo compreso, e con troppi «effetti
collaterali» (delitti deliberati, scrisse Amnesty in un rapporto dal
titolo eguale a quello sulla recente guerra del Libano) i profughi
albanesi, fuggiti come poi ammesso dalla stessa magistratura e media
di Pristina in gran parte per il timore dei bombardamenti e di quel
che sarebbe accaduto a seguito della scelta di guerra occidentale,
sono tutti tornati a casa. E' però cominciata nel terrore la nuova
pulizia etnica dei miliziani dell'alleato Uck, ex Uck, e delle
popolazioni albanesi, contro serbi, rom, goranji, ebrei. Sotto gli
occhi 'vigili' della Nato e dell'Unmik si è consumato un crimine nel
silenzio del mondo: dall'ingresso delle truppe Nato a oggi, 200.000
serbi sono fuggiti e altrettanti rom, 1194 serbi e 593 membri di
altre minoranze sono stati uccisi, 1300 persone - tra cui albanesi
considerati moderati - sono desaparecidos, 1400 le persone invalidate
per avere subito aggressioni. Eppure negli accordi di Kumanovo il
ritiro delle truppe di Belgrado era condizionato alla protezione
delle minoranze, e a patto che dopo sei anni, alla fine
dell'Amministrazione Unmik, la regione sarebbe tornata sotto
amministrazione serba.
Resta sospesa una domanda: quella guerra, motivata allora da D'Alema
«per salvare i profughi e fermare la pulizia etnica di Milosevic»,
non aveva invece lo scopo di separare con un'avventura bellica un
territorio costitutivo dell'integrità territoriale e dell'identità di
un popolo e di un paese, la Serbia? A questa intenzione sciagurata fa
pensare ora la soluzione dell'indipendenza. Ed è bene riconoscerlo.
Perché sarebbe davvero un precedente, tornerebbe «utile» dal Medio
Oriente al Kurdistan turco, fino al Caucaso e non solo.
Ma non è necessario andare così lontano, visto che sempre nei Balcani
a poche centinaia di chilometri dal Kosovo, nella Bosnia Erzegovina
(suddivisa in due entità statali, Federazione croato-musulmana e
Repubblica Srpska dagli accordi di Dayton del '95) la comunità
internazionale sta avviando di fatto la cancellazione dell'entità
serba, perché ci deve essere una sola Bosnia Erzegovina, sostiene
l'attuale Alto commissario tedesco Swarz -Shilling, esattamente come
il precedente Paddy Ashdown. Non parliamo nemmeno delle tensioni
della croata Erzegovina a staccarsi. Ma ora i serbi cominciano a
rispondere e chiedono l'indipendenza con il leader Milorad Dodik, il
meno nazionalista che ci sia mai stato in quella terra martoriata,
apprezzato per la sua moderazione perfino dal Tribunale dell'Aja e
perdipiù nemico giurato del ricercato Radovan Karadzic. E' il segno
che i serbi non ne possono più di essere «brutti, sporchi e cattivi»,
considerati troppo spesso come unici responsabili della mattanza
balcanica di questi anni. E soprattutto, se D'Alema avverte davvero
il pericolo che può venire dal continuo «isolamento della Serbia»,
com'è possibile accettare due pesi e due misure: favorire, magari in
modo graduale, un' indipendenza etnica in Kosovo e negarla ai serbi
in Bosnia?
Se D'Alema rispondesse a queste domande saremmo tutti più consapevoli
non solo del ruolo del nuovo governo di centrosinistra in politica
estera, ma dell'intero destino del sud-est europeo.


Settimana d'attentati

Feriti 4 serbi profughi-rientrati

S è concluso lunedì scorso con un fallimento il vertice di Vienna tra
serbi e kosovaro-albanesi sullo status definitivo della provincia
ancora formalmente serba e che la maggioranza albanese vuole
indipendente. E la violenza 'etnica' contro le minoranze serbe e rom
e contro i moderati albanesi è ripresa alla grande. E' stata una
settimana di fuoco. Venerdì 15 una violenta esplosione ha fatto
saltare l'auto del ministro degli interni Fatmir Rexhepi a Gnjilane,
forse in relazione all'annuncio di arresti di kosovaro-albanesi
responsabili degli eccidi e delle devastazioni del marzo 2004 - e
ieri alla fine ci sono stati sette arresti, più volte sollecitati
dalla polizia internazionale. Domenica 17 sempre a Gnjilane un altro
attentato ha danneggiato quattro automobili di esponenti politici.
Martedì 19 una bomba è stata lanciata nell'appartamento di Milorad
Pavlovic, ferito con altre tre donne della sua famiglia; il fatto è
particolarmente grave perché la famiglia faceva parte di un piccolo
gruppo di rifugiati serbi da poco rientrati e «protetti» dalla Nato.
Il 19 giugno a Klina in circostanze analoghe era stato ucciso il
contadino rifugiato-rientrato Dragan Popovic.