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Inganno storico, ovvero la storia di un inganno

 

Aleksandar Vuksanovic

 

10 marzo 2007

 

Non appena è stata resa nota la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che discolpava la Serbia (vedremo se definitivamente) dall’accusa di genocidio presumibilmente commesso durante la guerra civile bosniaca, sono subito apparsi articoli, anche in “Rebelion”, che senza rigore e con poca conoscenza dei fatti, tentano di gettare luce sui punti più oscuri della tragedia balcanica. In maggioranza, certamente essi mantengono una linea che non mi sembra errata. Accusano (e anch’io sottoscrivo tale accusa) l’aggressivo paternalismo occidentale con il proprio profilo politico, economico, culturale e naturalmente militare.

 

Ciononostante, nelle affermazioni che fanno riferimento alla Jugoslavia, o, in questo caso, alla Bosnia, si è soliti ripetere accuse (fino alla sazietà) che io considero molto discutibili.

 

In breve:

 

1. Io non credo che ci sia stata un’aggressione serba in Bosnia, ma che piuttosto ci siamo trovati di fronte ad una tipica guerra civile. Serbi (e croati) non sono venuti ad aggredire un paese straniero, dal momento che da secoli vivono in Bosnia. Nel caso dei serbi, è arcinoto che prima della guerra, rappresentando la popolazione maggioritaria nelle campagne, possedevano circa il 60% del suolo bosniaco. Questa guerra civile è stata estremamente crudele, perché vi partecipavano tre fazioni, che hanno creato un conflitto che, letteralmente, è stato di tutti contro tutti. A seconda della zona e degli interessi locali, possiamo distinguere tutte le possibili alleanze e inimicizie. Anche se al lettore poco informato sui particolari, potrebbe risultare difficile capire, è certo comunque che in Bosnia hanno lottato anche musulmani contro musulmani, nel nord-est del paese (a Velika, Bihac e Cazin). Serbi contro croati, croati contro musulmani, serbi contro musulmani, serbi e croati alleati contro musulmani, questi a loro volta alleati con i serbi contro i croati, musulmani con croati contro serbi… La confusione di conflitti e lotte di fazione potrebbe risultare comica, se non fosse così tragica. Si è trattato, pertanto, di un’autentica guerra civile, e non di “un’aggressione serba”, come hanno ripetuto i media, ignorando intenzionalmente che i serbi vivevano in Bosnia da molti secoli, e che perciò non erano aggressori esterni.

 

2. Il numero dei morti, indubbiamente elevatissimo, è oggetto di stime molto discordanti. Si è soliti parlare di 250 mila. Il dolore di tutte le vittime civili, qualsiasi sia stata la loro nazionalità, è anche il mio e non posso ignorarlo. Sono anche sostenitore della massima severità penale nei confronti dei colpevoli. Ma allo stesso tempo, devo dire anche che, alla stessa stregua del Kosovo, il numero di corpi che si sono ritrovati è estremamente inferiore e che, come ho già detto molte volte, non esiste un censimento della popolazione. In Bosnia non ci sono combattimenti dalla metà dell’anno 1995. Dalla fine di quello stesso anno il controllo politico, militare e, se si vuole, poliziesco, lo esercita “la comunità internazionale”. D’altro canto, la Bosnia è un paese piccolo, con circa 4 milioni di abitanti. Tutto ciò lo menziono perché nutro dubbi molto seri sul fatto che sia stato impossibile organizzare un censimento. Non lo si è fatto perché continui il balletto delle cifre e perché le vittime siano usate da ciascuno a proprio uso e consumo; una vergogna per tutti noi che ci consideriamo mediamente civilizzati e che desideriamo conoscere la verità sui morti.

 

L’espressione “campi di concentramento” è ormai abusata e fa parte della strategia che si propone di demonizzare noi serbi, paragonandoci ai nazisti. Non dico che non sono esistiti, semmai il contrario, ma sarebbe più serio chiamarli campi di detenzione. Ad esempio, Emilio de Diego (professore della UCM, della Scuola Diplomatica e membro di FAES!) nei suoi libri afferma che i serbi avevano lo stesso numero di simili campi (certamente nefasti) dei croati. Di questi ultimi non si è mai sentito pronunciare una sola parola. E ci sono anche stati campi comuni croato-musulmani e campi musulmani. Ripeto, i campi sono un fatto ripugnante e intollerabile, ma hanno forse diritto i musulmani bosniaci di denunciare qualcosa che anch’essi hanno commesso in ugual misura, con l’unica differenza che ciò non è arrivato alla stampa? E l’hanno fatto dopo aver diviso violentemente un paese internazionalmente riconosciuto come la Jugoslavia, per reclamare quel diritto all’autodeterminazione che ora negano alla Repubblica Srpska e ai croati di Herzeg Bosna. Ho citato in questa occasione Emilio de Diego in primo luogo per i suoi ottimi lavori sui Balcani, ma anche perché non è certo sospettabile di simpatie per i serbi. Ci sono altri testi che spiegano ancora meglio questa situazione. A partire dall’eccellente analisi “L’illusione jugoslava” di Josep Palau, questi libri sono purtroppo stati messi all’indice in quanto “filo-serbi”.

 

Sarebbe opportuno dire che ci sono momenti della guerra di Bosnia, la cui strumentalizzazione da parte dei media non ha alcuna relazione con quanto è successo realmente. E’ il caso della fotografia tristemente famosa dei musulmani detenuti in quello che fu definito un “campo di concentramento” dei serbi. Con il passare del tempo, il montaggio realizzato è stato abbondantemente screditato, ma come accade quasi sempre, la verità si è saputa tardi ed è stata ignorata dagli stessi media che si erano dilettati con la montatura. Direi che con moltissimo ritardo e quasi senza alcun effetto nel panorama dell’informazione, era apparso l’articolo pubblicato in El Pais del 17 agosto 1997 dal titolo “Una foto con due versioni”, di Phillip Knightley; o l’articolo del proibito Egin dal titolo “La falsa conquista del campo di Trnopolje”, apparso il 6 aprile 1997. A proposito del campo di Trnopolje, esiste un curioso documentario intitolato “The picture that fooled the world” (facilmente reperibile in internet, della durata di appena mezz’ora), molto raccomandabile per tutti coloro che vogliono vedere il lavoro sporco dei mezzi di comunicazione in tutto il suo splendore.

 

Disgraziatamente, ho la sensazione che la maggioranza di coloro che parlano spagnolo, mi azzarderei a dire persino la maggioranza di coloro che si autodefiniscono di sinistra, considerano quei testi che senza alcun criterio rovesciano insulti e calunnie sui serbi, come completamente corretti, e ne salutano l’apparizione. Ma, se vogliamo essere imparziali e conseguenti, se la sinistra spagnola realmente “combatte il Neoliberalismo da una posizione anticapitalista e antimperialista”, come proclamano alcuni portavoce dell’istrionismo antiserbo nelle loro pagine, mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse perché, ad esempio, durante le manifestazioni, quando si chiede il ritiro delle truppe della NATO dall’Iraq, dal Libano, dall’Afghanistan, non si chieda allo stesso tempo il ritiro della NATO dal Kosovo e dalla Repubblica Serba di Bosnia? Persino loro, i “sinistri” europei, in nome del diritto dei popoli balcanici a formare propri stati nazionali, preferiscono chiudere gli occhi per non riconoscere che noi serbi dovremmo godere dello stesso diritto. Dicono di difendere l’autodeterminazione, ma, al contrario, dimenticano che nella Bosnia così vezzeggiata, la metà dei suoi cittadini (serbi e croati di Bosnia) vogliono vivere in un proprio paese. Dimenticano che la Serbia è l’unico paese nato dalle ceneri dell’ex Jugoslavia etnicamente mista, dal quale nessuno è stato espulso per ragioni etniche o religiose. Senza andare più lontano, nella stessa Belgrado vivono varie decine di migliaia di albanesi. Quanti serbi vivono a Sarajevo, Pristina o Zagabria? Dimenticano anche di non aver fatto nulla per esigere il ritorno in condizioni di sicurezza dei serbi cacciati dalle loro case in Croazia e, soprattutto, nel Kosovo, che entrambe assommano più di mezzo milione di persone abbandonate in tutto il mondo.

 

Non dimenticano unicamente, ripetendole instancabilmente, le grida di guerra contro i serbi, che possiamo leggere in quegli stessi media capitalisti e imperialisti che sostengono di continuare a combattere.

 

Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare