La Nuova Alabarda a caccia di... bufale

1) LA STRAGE DI VERGAROLLA

2) IL CASO DEI CARABINIERI DI MALGA BALA

3) PRESUNTO RINVENIMENTO DI INFOIBATI PRESSO REDIPUGLIA NEL 1998!


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LA STRAGE DI VERGAROLLA

Sul quotidiano triestino “Il Piccolo” del 17/8/06 è apparso un articolo dello storico Raoul Pupo sulla strage della spiaggia di Vergarolla presso Pola, strage che avrebbe, secondo il titolo dell’articolo, scatenato l’Esodo dall’Istria. Sempre nel titolo, leggiamo che “le responsabilità” della strage non furono mai chiarite, ma “l’effetto è assolutamente chiaro”, cioè, secondo quanto si legge, questa strage avrebbe terrorizzato la popolazione italiana e sarebbe stata una delle cause scatenanti dell’esodo degli italiani. A parte che non si capisce come un evento del genere possa avere terrorizzato esclusivamente la popolazione italiana (forse i croati non andavano al mare e non avevano paura delle bombe?), vorremmo fare ora un po’ di chiarezza sui fatti che vengono così leggermente passati sulla stampa come “operazioni di pressione anti-italiana”. 
La vicenda di Vergarolla è in realtà abbastanza semplice.
Il 18 agosto 1946, a Pola, che all’epoca si trovava sotto amministrazione anglo-americana, il circolo canottieri Pietas Julia aveva organizzato una festa sportiva che prevedeva anche gare di canottaggio nei pressi della spiaggia di Vergarolla, zona molto frequentata per i bagni Oltre alle gare erano previsti anche chioschi gastronomici perché si trattava a tutti gli effetti di una festa popolare. 
Sulla spiaggia però gli alleati avevano ammassato anche moltissime bombe e mine raccolte dal mare nel corso della bonifica del porto, lasciate lì senza controllo in attesa di essere rese del tutto inoffensive.
Ad un certo punto un’esplosione interruppe in tragedia la festa: le mine erano esplose, lasciando a terra molte vittime, almeno 87 morti e decine di feriti. Naturalmente la città fu fortemente scossa da un fatto così tremendo.
All’epoca furono successivamente aperte delle inchieste che però non riuscirono a venir a capo dei motivi reali del fatto. Ogni ipotesi rimase senza prove che potessero portare a scoprire chi o cosa avesse fatto esplodere quelle mine. Ed oggi, a 60 anni di distanza, non avrebbe neppure senso riaprire un’inchiesta, a meno che qualcuno confessi di avere compiuto quell’attentato, se attentato fu, cosa che, bisogna dirlo proprio a causa della propaganda che viene fatta oggidì sull’episodio, non è stata assolutamente accertata, perché l’esplosione potrebbe benissimo essere stata causata da fattori accidentali. Ricordiamo che una grossa quantità di esplosivo era stata abbandonata senza controllo su una spiaggia dove poi era stata autorizzata una sagra, con accensione di fuochi per cucinare, in una torrida giornata di agosto. 
I primi responsabili della tragedia andrebbero quindi ricercati in coloro che abbandonarono l’esplosivo a quel modo, ed in coloro che autorizzarono una festa popolare proprio in prossimità di ordigni che potevano esplodere da un momento all’altro. Non c’era bisogno di un attentato per arrivare alla tragedia. 
Nonostante non si sia mai trovato un colpevole, l’“eccidio” venne utilizzato da subito dalla propaganda nazionalista italiana. Per molti la strage era frutto della volontà di colpire gli italiani che stavano, a loro dire, con quella manifestazione sportiva dimostrando l’attaccamento alla “patria” e la contrarietà alla cessione alla Jugoslavia della città. Naturalmente i propagandisti danno per scontato che a quella festa estiva, organizzata nel caldo agosto della prima estate di pace dopo tanti anni, avrebbero preso parte solo coloro che volevano fare dimostrazione di “italianità”, come se, appunto, la popolazione croata di Pola non usasse fare i bagni.
E del resto, quale interesse poteva avere lo stato jugoslavo a creare terrore mediante una strage del genere?
Gli jugoslavi erano all’epoca impegnati a Parigi a dimostrare, con elementi di prova, i crimini commessi durante l’occupazione nazifascista delle loro terre, le stragi, le distruzioni sofferte: avrebbero sicuramente avuto moltissimo da perdere se, per ipotesi, fosse stata scoperta una loro responsabilità in un’azione abietta come una strage di civili. Avrebbe potuto allora essere opera di una “scheggia impazzita”? Non lo si può a priori escludere, però comunque non ne vediamo il senso, dato che, nonostante la vulgata corrente parli di “pulizia etnica” commessa dagli jugoslavi contro la comunità italiana, vi sono prove certe che invece lo stato jugoslavo aveva interesse a tutelare quella comunità, come è dimostrato dalle leggi di tutela che furono successivamente emanate. 
Chi invece avrebbe potuto compiere un simile attentato, magari con la creazione di prove false (che comunque non vennero trovate) erano i gruppi nazionalisti italiani, cui lo stato dava un notevole appoggio e che, da loro stessa dichiarazione, organizzavano “atti di sabotaggio” nei territori ex italiani. Ma diciamo subito che neppure di questa possibilità esiste alcuna prova.
A parer nostro la responsabilità della strage di Vergarolla va attribuita semplicemente a coloro che permisero di organizzare una festa vicino ad un deposito di esplosivi. Ma ci pare fuori luogo insistere, in assenza di qualsivoglia prova che dimostri la responsabilità jugoslava in quella tragedia, sul fatto che tale strage causò la fuga degli italiani da Pola. Storicamente furono ben altri i motivi che portarono gli italiani ad andare via da Pola, e non ci dilunghiamo qui ora, dato che esistono studi seri ed approfonditi su questo. Solo, ci piacerebbe che gli storici lasciassero perdere la propaganda e la smettessero di considerare il “si sa”, il “si dice” come fonti storiche.

settembre 2006


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IL CASO DEI CARABINIERI DI MALGA BALA

Nell’ambito dei vari “crimini” attribuiti ai partigiani c’è anche la vicenda dell’eccidio di 12 carabinieri a Malga Bala, avvenuto nel marzo del 1944. I carabinieri, comandati dal vice brigadiere Dino Perpignano, erano di stanza al presidio di difesa della centrale idroelettrica di Bretto. Lo pseudostorico Marco Pirina, riprendendo quanto scritto da Antonio Russo in una sua pubblicazione del 1993 (“Alle porte dell’inferno”), così descrive la vicenda.
“Il 23 marzo era l’anniversario della fondazione dei fasci di combattimento, una festa odiata dai partigiani operanti nella zona di Plezzo (festa amata invece dai partigiani di altre zone? n.d.r.). Si decise di colpire gli italiani. Per l’occasione si radunarono Fran Ursig “Josko”, il capo supremo della Brg. Partigiana dell’alto Isonzo, Ivan Likar “Socian”, Silvio Giafrate, Fran Della Bianca, Anton Mlecuz (riportiamo i nomi con la grafia errata così come appaiono, n.d.r.) ed altri, in totale 21 uomini. Questi studiarono un piano approfittando delle abitudini del Comandante Perpignano e quando questi ed il Franzan (un altro carabiniere del presidio, n.d.r.) tornavano assieme ad una ragazza li circondarono e li fecero prigionieri. In gruppo si avvicinarono con il Perpignano alla caserma, si fecero aprire (...) catturarono tutti i carabinieri (...) saccheggiata la caserma e costretti i carabinieri a caricarsi vettovaglie e vari sacchi di ogni ben di Dio, dopo aver sistemato due cariche sotto le turbine, si avviarono verso il monte (...)”. Il giorno dopo “si decise la loro eliminazione, ma questa secondo tutti doveva essere particolarmente crudele” e qui Pirina (sempre citando Russo) si lancia nella descrizione della preparazione di un “pastone miscelato con soda caustica e sale nero”, sul quale “i carabinieri si avventarono” e “dopo aver mangiato” le “urla e le implorazioni furono tremende”. Come se ciò non bastasse, all’alba del giorno dopo, “furono fatti marciare per ore sino alla Malga Bala, dove furono di nuovo rinchiusi” ed a questo punto partono le descrizioni delle sevizie con cui i “partigiani” avrebbero ucciso i carabinieri: a Perpignano “venne conficcato un legno ad uncino nel nervo posteriore dietro il calcagno ed issato a testa in giù legato ad una trave, poi furono accapprettati tutti gli altri e a quel punto i partigiani cominciarono a colpire tutti con i picconi. A qualcuno vennero asportati i genitali e conficcati in bocca, a qualcuno aperto a picconate il cuore o frantumati gli occhi (...) alla fine legati i corpi dei malcapitati con del fil di ferro li trascinavano sotto un grosso masso tra la neve (...)”.
Come al solito, quando ci troviamo di fronte a certe descrizioni così particolareggiate di efferate torture, il primo interrogativo che ci poniamo è questo: chi sarebbe il testimone che assistette a tutto questo in modo da poterlo raccontare? Se leggiamo il testo di Russo che Pirina ha riassunto, troviamo anche riportati un paio di articoli dell’epoca: ad esempio Il “Gazzettino” di Padova così scriveva il 7 aprile 1944.
“Macabra scoperta in una grotta di dodici vittime del dovere (...) in questi giorni dei camerati in armi, in una grotta fra Cave del Predil e Bretto di Mezzo hanno fatto una triste e macabra scoperta. In detta caverna infatti essi hanno rinvenuto, accatastati l’uno sull’altro, i cadaveri di dodici militi della polizia repubblicana, morti nell’adempimento del loro dovere. Le vittime sono state identificate per quelle del vicebrigadiere Nino (sic) Perpignano e dei militi (segue l’elenco dei nomi, n.d.r.). Ai poveri scomparsi sono state tributate imponenti esequie”.
Dunque al momento della scoperta dei corpi di Perpignano e dei suoi uomini, la stampa non parlò di sevizie cui essi sarebbero stati sottoposti. È vero che Russo cita anche un altro articolo (senza specificare da dove l’abbia tratto) che parla di “vittime denudate poi uccise bestialmente a colpi di piccone”, ma il resto dei particolari descritti da Russo e ripresi da Pirina non compaiono. Russo accenna al fatto che “tanti” gli avrebbero “confessato tra le lacrime” che era giunto il momento “di far 
sapere a tutti la verità su Bala”, ma il nome di questi “testimoni” non viene fatto. Chi dunque sapeva tutti questi particolari sulla fine dei carabinieri, e quando li avrebbe resi noti?
Un altro particolare interessante è che il Gazzettino parla di “militi della polizia repubblicana”, non di Carabinieri. In effetti, leggendo attentamente il testo di Russo (brani che Pirina non riporta, detto per inciso), si apprende che “il responsabile della produzione mineraria, Otto Hempel, ingegnere militarizzato tedesco (...) verso la metà di gennaio di quel ’44 chiede e ottiene dal comando generale SS di Camporosso l’autorizzazione a istituire un raggruppamento di carabinieri a difesa stabile della centrale idroelettrica di Bretto di Sotto”. Bisogna spiegare che la centrale idroelettrica di Bretto serviva soprattutto per far funzionare la miniera di Cave del Predil, dalla quale si estraeva piombo, elemento fondamentale per l’approvvigionamento dell’esercito germanico.
Prosegue Russo “viene così deciso di chiudere per sempre la caserma dei carabinieri di Bretto di Mezzo (...) e viene istituito il distaccamento di 16 militari più un sottufficiale (...)” che “il 28 gennaio 1944 prendono servizio presso la nuova casermetta, secondo le direttive del comando tedesco”. Quindi il gruppo di carabinieri agli ordini di Perpignano stava, sostanzialmente, agli ordini dei nazisti a fare la guardia ad un obiettivo militare strategico.
Detto questo si può comprendere come l’attacco dei partigiani alla centrale di Bretto non sia stato determinato dall’“odio” per la ricorrenza dei fasci di combattimento, come pretendono Russo e Pirina, quanto per compiere un’importante azione di sabotaggio contro l’occupatore nazista. 
A questo punto prendiamo in mano un altro testo, quello di Franc Črnugelj (“Na zahodnih mejah 1944”, curiosamente pubblicato anch’esso nel 1993, come il libro di Russo, non tradotto in italiano), che spiega cosa accadde a Cave del Predil il 23 marzo del 1944. 
Il gruppo coordinato da Jožko (Franc Ursič, che non era “capo supremo”, qualifica che non esisteva nell’esercito di liberazione popolare, ma comandante di distaccamento), dopo avere sorvegliato per alcuni giorni i movimenti di Perpignano, lo catturarono in una casa dove si era recato a mangiare, lo portarono fino alla centrale, dove, effettivamente, si servirono di lui per farsi aprire con la parola d’ordine, sabotarono la centrale elettrica, prelevarono armi e munizioni e si diedero alla ritirata verso i monti, portando con sé i prigionieri.
Ma nel frattempo i nazisti non erano stati certo a non fare nulla, come pretenderebbe invece Russo (che ha il coraggio di scrivere che “i partigiani, conoscendo bene le abitudini dei tedeschi i quali non amavano muoversi di notte, non si preoccupavano minimamente”): avvisati telefonicamente, si diedero all’inseguimento degli attentatori: quando i tedeschi furono in vista, i carabinieri prigionieri cercarono di darsi alla fuga ed a quel punto iniziarono le sparatorie: i nazisti contro i partigiani, i partigiani contro i prigionieri in fuga e contro i nazisti. Così scrive Črnugelj “i tedeschi spararono contro la colonna partigiana, nella quale si trovavano anche i prigionieri”. 
A parere nostro, questa versione dei fatti è molto più credibile di quella diffusa da Russo e Pirina, innanzitutto perché bisogna considerare che l’esercito partigiano non faceva la guerra perché i suoi uomini si divertivano a martirizzare i nemici, ma perché volevano sconfiggere il nazifascismo. Era quindi loro interesse compiere atti di sabotaggio contro il nemico (come l’attentato alla centrale idroelettrica per bloccare la produzione della miniera di Cave del Predil), ed una volta compiuta l’azione, non è minimamente credibile che essi si siano trattenuti per due giorni nei paraggi a rischio di farsi catturare dai nazisti, solo per dare sfogo a degli istinti sadici e torturare fino alla morte i dodici prigionieri. In zona di combattimento, nessuna formazione guerrigliera con un minimo di buon senso e di istinto di sopravvivenza si trattiene con dei prigionieri a portata di mano del nemico: credere una cosa del genere vuol dire non avere la più pallida idea di cosa significhi combattere la guerra di guerriglia, cioè colpire il nemico con azioni rapide e repentine e ritirarsi prima possibile in zona sicura.
Abbiamo quindi due versioni dei fatti, una (a parer nostro, logicamente) credibile ed una no. Di fronte a queste contraddizioni, chiediamo pubblicamente ai ricercatori storici, ma anche alla stessa Arma dei Carabinieri, che nel proprio sito avalla la versione dei fatti di Russo, di voler analizzare la vicenda a fondo prima di decidere che la versione di Russo è quella veritiera, e di voler quindi sospendere, nel ricordo dei dodici caduti, ogni riferimento a circostanze non dimostrate storicamente che rischiano di conseguenza a dare luogo a strumentalizzazioni di parte.

Febbraio 2007


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PRESUNTO RINVENIMENTO DI INFOIBATI PRESSO REDIPUGLIA NEL 1998!

In uno dei vari forum di Indymedia dedicato alle foibe è apparso, datato 3 maggio 2004, il seguente messaggio che riproduciamo integralmente (e con tutti gli errori di battitura, sorry), a firma “Luca de Biasio”.

per quello sopra: sono speleologo e lavoro per il comune di gorizia:quando capita che alcuni cavi o alcune tubature scoppiano nelle cavita\'carsiche ci inviano a riparare il tutto.
Vista la nosta conoscenza degli anfratti carsici e dei suoi pericoli siamo stati piu\'volte mandati ad assistere truppe di soccorso alpino dei carabinieri quando veniva richiesto il loro intervento nei casi di \"rinvenimenti di cadaveri\". 
il 17 maggio 1998 ci siamo calati con i carabinieri in un anfratto a 8 km dalla strada che conduce a Redipuglia:un cane di un cacciatore era spuntato da un anfratto riportando una tibia umana invece che il fagiano appena ucciso dal suo padrone. 
in seguito ad una piu\'approfonita esplorazione degli anfratti attigui scoprimmo nelle seguenti 16 ore una cava foibica contenente 11 militari italiani,alcuni con insegne della RSI ma anche sanitari e un cappellano militare(questo fu\'il rapporto del comando dei carabinieri):la quasi totalita dei militari morti riportava le mani torte dietro la schiena e legate tramite filo spinato alle mani di un altro militare messo nella stessa posizione.Stessa metodolgoia era stata usata per legare le teste dei militari le une alle altre.
Ora essendo io un antifascista, da sempre di sinistra con genitori di sinistra posso solo dire che tale rinvenimento ha scioccato me ed i miei collaboratori. 
Senza voler fare revisionismo alcuno mi preme far sapere al signore sopra che affermare che tutto cio\'sia solo\"una fregnaccia antibolscevica di pavolini\"sia come privarsi di una qualsiasi connotazione umana,cosa che infatti in un elemento che afferma cose del genere non puo\'che essere latente. 
per concludere:se solo potessi a questo signore vorrei far vedere lo strazio impresso dalla calce carsica sulle facce mummificate dei torturati e far odorare il disgustoso odore di \"arancia in putrefazione\"che emanavano quei corpi. 
chi vuole puo\'verificare il tutto negli atti depositati presso la caserma dei carabinieri di gorizia. 
Luca de Biasio - Ente Monitoriaggio Cave e Anfratti Carsici

Ora, se nel maggio del 1998, quando era ben viva la campagna mediatica sui “processi agli infoibatori” e sui “crimini dei titini”, ci fosse stato effettivamente un recupero di tale genere da una “foiba” presso Redipuglia, si presume che la stampa ne avrebbe dato largo spazio (cosa che non è avvenuta). Inoltre, da quel poco di patologia che conosciamo, non ci risulta che un corpo “mummificato” possa odorare di “arancia in putrefazione”, dato oltretutto che a più di quarant’anni di distanza la putrefazione di un corpo è ben conclusa.
Dopo avere fatto alcune ricerche minimali (Internet e guide telefoniche...) e non avendo trovato traccia di alcun “Ente monitoraggio Cave e Anfratti Carsici”, abbiamo cercato Luca De Biasio per chiedergli chiarimenti, ma neppure qui abbiamo avuto fortuna: non conoscendo la residenza di questo signore non abbiamo potuto che andare a tentativi nell’Info 412, perché in un vecchio CD Rom con gli elenchi telefonici di tutta Italia del 1997, non abbiamo trovato alcuna utenza telefonica a nome Luca de Biasio.
In Internet abbiamo trovato un Luca de Biasio rappresentante dei Radicali friulani, ma senza altri dati che ci permettessero di contattarlo per chiedergli se è l’autore della missiva o no (qualora ci leggesse, gli saremmo grati se ci rispondesse, anche se solo per dirci che non ha nulla a che fare con la lettera sopra riportata). Quindi, vista l’impossibilità di raggiungere la fonte della notizia, abbiamo seguito un’altra strada e chiesto conferma, come indicato da de Biasio, ai Carabinieri di Gorizia.
Ecco il testo della lettera inviata nel novembre 2006.

Ho trovato nel sito di Indymedia una lettera firmata da un sedicente Luca De Biasio (nominativo che non ho trovato negli elenchi telefonici della regione), che sostiene di rappresentare un “Ente monitoraggio cave e anfratti carsici” (del quale neppure ho trovato recapiti o tracce), il quale De Biasio racconta un fatto riguardante il ritrovamento di corpi di militari della RSI che sarebbe avvenuto il 17 maggio 1998. Dato che non ricordo di avere letto a suo tempo una notizia del genere sulla stampa ed inoltre la ricostruzione del De Biasio non mi convince (egli parla di < disgustoso odore di “arancia in putrefazione” che emanavano quei corpi > che precedentemente ha definito “mummificati”, ma, da quanto mi consta, quando un corpo è in stato di mummificazione non emana più odore di putrefazione), e considerando che ha concluso la propria lettera (che allego alla presente) con le seguenti parole:
< chi vuole può verificare il tutto negli atti depositati presso la caserma dei carabinieri di Gorizia >,
chiedo cortesemente di avere conferma o smentita di quanto asserito dal sedicente signor De Biasio.

Questa la risposta che è pervenuta dal Comando dei Carabinieri di Gorizia.

in relazione alla Sua pregressa corrispondenza elettronica ed ordinaria, facente riferimento ad un presunto recupero di salme di militari italiani in un anfratto carsico asseritamente avvenuto nel 1998, Le comunico che la disamina degli archivi documentali, custoditi sia presso questo Comando che presso le unità organizzative dipendenti, non ha fornito alcun riscontro.
Il Comandante Provinciale dei Carabinieri di Gorizia

A questo punto possiamo trarre alcune conclusioni. Che il signor Luca de Biasio (ammesso che questo sia il suo vero nome) ha raccontato una quantità di fandonie, ma non solo: che nel suo sparare frottole a raffica si è permesso, per avvalorare le proprie bugie, di coinvolgere addirittura l’Arma dei Carabinieri quali garanti delle sue invenzioni, fatto questo che ci sembra particolarmente grave. Molto facile diffondere notizie false a questo modo, contando sul fatto che la maggior parte dei lettori dei forum di Indymedia non avrebbero cercato veramente conferma dai Carabinieri di Gorizia; abbiamo così visto come sia possibile, con scarsa fatica, creare ulteriori “leggende metropolitane” su un argomento, come quello delle “foibe”, che ha visto talmente tante invenzioni passate per verità storica che, nonostante gli sforzi di pochi ricercatori volonterosi, continuano a passare per oro colato.
E soprattutto ha tenuto a precisare, come ha fatto il sedicente de Biasio, di essere “di sinistra e con genitori di sinistra”, frase che è diventata una di quelle più in voga nei blog sulla questione delle foibe, evidentemente per mettere le mani avanti sulle castronerie che sta per dire in materia. 

Febbraio 2007