Oscurantismo tibetano

(Proseguiamo la rassegna di contributi sul tema dei secessionismi anticinesi. Molti altri articoli sul tema sono raccolti alla pagina:

1) Mi dispiace, ma non mi commuovo per il Dalai Lama! (di Massimiliano Ay)
2) Il Dalai Lama: "Dico no all’omosessualità. E Bush mi piace"(2006)


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www.resistenze.org - popoli resistenti - cina - 22-03-08 - n. 220

Mi dispiace, ma non mi commuovo per il Dalai Lama!

 

di Massimiliano Ay

 

Un treno veloce collegherà a breve il Tibet al resto della Cina: l’arrivo della piena modernità agita chi coltiva progetti restauratori per quella regione del mondo in cui da cinquant’anni anche le donne finalmente vanno a scuola. C’è da constatare come a volte i fumi di certi incensi siano volti, più che alla purificazione dello spirito, all’annebbiamento della comprensione degli avvenimenti. Certo si è sempre contro violenza e repressione, ma che cosa è successo in Tibet? Gruppi di nazionalisti tibetani hanno assaltato non i luoghi del potere politico, ma i negozi dei commercianti cinesi. Morti e feriti si sono verificati tra tibetani e cinesi. Può tutto questo essere ricondotto alla solita tesi dei cattivi cinesi e dei poveri monaci? Credo di no! Siamo tutti d’accordo nel chiedere al governo cinese moderazione nella gestione dell’emergenza, ma l’isteria del “Free Tibet” spopola sui media occidentali facendo passare informazioni palesemente distorte per abituare l’opinione pubblica a vedere nella Cina il futuro nemico dell’Occidente: prima c’erano i sovietici, ora gli integralisti islamici, fra un po’ i cinesi, che oltre a dirsi comunisti sono anche dannatamente capaci sul fronte economico, ponendo seri problemi al dominio nordamericano. La Sinistra occidentale, come spesso accade, ormai del tutto disarmata da quel metodo scientifico di analisi che è il marxismo, si lascia prendere da facili emozioni pseudo-umanitarie e si scaglia senza riflettere contro il bastione cinese che non si arrende al mondo unipolare. La storia della “repressione” è però un’altra e va raccontata anche se è impopolare.

 

Riabilitare i nazi... 

La storia di quella terra la conosciamo in parte grazie al film “Sette anni in Tibet”. Un film di parte, basato sul libro di un certo Heinrich Harrer, un nazista austriaco che durante la seconda guerra era in amicizia con l’artistocrazia tibetana: il colonialismo hitleriano infatti in quel periodo era in competizione con quello inglese. Un film incentrato sul racconto di un nazista che viene sdoganato e lodato nella sale cinematografiche e nelle scuole dei nostri paesi democratici: che grande esempio di civiltà!

 

Il santone 

E in tutta questa storia campeggia una figura spirituale amata da tutti gli occidentali in cerca di una identità “alternativa”: il Dalai Lama, che vive di un vitalizio finanziario gentilmente concessogli dal governo di Washington. Il suo metodo viene definito gandhiano, nonviolento e pacifista. Strani aggettivi per uno che sosteneva i bombardamenti della NATO contro la Jugoslavia! Ma al di là di ciò, questo signore è ben strano, è contro l’aborto e denuncia i gay, è nostalgico di un sistema dove vigeva la schiavitù, dove non si consideravano le donne quali esseri umani ma le si facevano dormire con gli animali, dove si gestiva una società autoritaria e teocratica basata sulle caste, dove le scuole non esistevano così come gli ospedali, e dove i figli dei contadini erano registrati come oggetti appartenenti al monaco di turno. Non è neppure necessario definirsi maoisiti per capire che i contadini tibetani hanno sostenuto l’Armata Rossa nel 1950, accogliendo con soddisfazione la ridistribuzione delle terre e l’abolizione della società feudale, piuttosto che il Dalai Lama che vive(va) a spese degli altri. Le riforme di Mao hanno portato all’innalzamento dell’età media della popolazione, alla costruzione di una rete viaria e di una rete educativa primaria e professionale in cui la lingua d’insegamento è il tibetano. Perché non si dice cosa era il Tibet prima della Rivoluzione? Da quando dei democratici – ancorché non comunisti – si mettono a difendere una società autocratica come quella lamaista? Perché non si dice che il Dalai Lama fu costretto ad andarsene anche a seguito di una rivolta popolare contro la schiavitù?

 

L’invasione fu davvero invasione? 

Si dice comunemente che la Cina maoista invase il Tibet. E giù tutti a gridare che anche i comunisti sono dei colonialisti. A dire il vero, però, il Tibet è da quasi mille anni una provincia cinese: solo dopo il 1949, anno della costituzione della Cina rivoluzionaria, gli Stati occidentali, USA in testa, iniziarono a interessarsene (in funzione anti-Pechino), creando in seguito degli eserciti controrivoluzionari. Come diceva bene il 9 gennaio 2000 sul quotidiano “Il Manifesto” Enrica Collotti Pischel: “Non ha alcun senso dire che la Cina conquistò il Tibet (...); nel 1950 le forze di Mao completarono in Tibet il controllo sul territorio cinese; nel 1951 fu raggiunto un accordo con il Dalai Lama per la concessione di un regime di autonomia. Verso il 1957, nel pieno dell'assedio statunitense alla Cina, i servizi segreti inglesi e americani fomentarono una rivolta dei gruppi di tibetani (...); i cinesi repressero certamente la rivolta con pugno di ferro: nelle circostanze internazionali nelle quali si trovavano e nel loro contesto etnico non era razionale pensare che si comportassero diversamente. (...) Sullo sfondo della rivolta, il Dalai Lama dichiarò decaduto l'accordo per il regime autonomo e fuggì con la maggioranza della classe dirigente tibetana in India, dove costituì un proprio governo in esilio e il proprio centro di propaganda. (...) Recentemente la CIA (...) ha ammesso di aver finanziato tutta l'operazione della rivolta tibetana.” Ma allora, la Cina popolare cosa ha fatto di tanto “riprovevole”? Non solo ha portato diritti sociali ai contadini tibetani che prima erano schiavi del Dalai Lama, ma ha concesso al Tibet uno statuto di autonomia che garantisce la loro lingua, la loro cultura e la loro religione.

 

Una strategia imperialista 

Usciamo dal discorso buonista cui siamo abituati: sappiamo che il “dividi et impera” è una strategia tipica dell’imperialismo, utilizzata spesso dagli USA, i quali stretti da recessione e declino, operano per frantumarne l’unità della Cina e fomentare guerre civili etniche con gruppi terroristici appositamente addestrati e una asfissiante propaganda unita a qualche messaggio religioso. Si alimentano quindi i nazionalismi e gli integralismi religiosi non solo in Tibet, ma anche nello Xingian (provincia cinese a maggioranza turca): questa strategia l’abbiamo già vista applicata nella ex-URSS e nella ex-Jugoslavia, paesi che per quanto criticabili sotto determinati aspetti, erano sovrani e favorivano un mondo multipolare. Eppure, nonostante questi fatti, tutto viene confuso con quello che è diventato un dogma: il “diritto all’autodeterminazione dei popoli” che nel caso concreto è orchestrato all’estero! Per dei comunisti vale il metodo marxiano di analisi dello stato di cose presenti. Non vedere come certi princìpi, nell’evoluzione della realtà, possano diventare strumenti reazionari, significa abbandonare di colpo ogni base filosofica materialista-dialettica.

 

Massimiliano Ay
Membro del Comitato Centrale del Partito Svizzero del Lavoro / Partito Comunista del Ticino


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ESTERI

IL MATRIMONIO È UNA DELLE VIE ALLA FELICITA’

Il Dalai Lama: dico no all’omosessualità. 
Il sesso è procreazione

«Uccidere Bin Laden significa creare altro odio. Guerra sbagliata in Iraq, però Bush mi piace»

3/4/2006 

A Dharamsala, vecchio avamposto britannico nel Nord dell’India, migliaia di tibetani esiliati cercano rifugio presso il loro leader, il Dalai Lama. Qui arrivano anche centinaia di occidentali, con la loro guida Lonely Planet, per dare un’occhiata al guru. Un’ereditiera australiana sovrappeso di nome Heidi Gudrun si lamenta: «Per quindici anni ho cercato di perdere peso. Ho perso due mariti, mi hanno cucito lo stomaco. Il Dalai Lama è la mia ultima speranza». Il destino peculiare del Dalai Lama è di fare da guru tanto per le ereditiere australiane sovrappeso quanto per dieci milioni di buddhisti tibetani perseguitati. Il suo status di divinità risale all’età di due anni: i monaci che lo trovarono a giocare in una fattoria nel Nord Est del Tibet lo portarono nella capitale Lhasa, dove fu riconosciuto come reincarnazione del Buddha dopo aver individuato la tazza per bere e la dentiera del precedente Dalai Lama nel palazzo di Potala.

Pur essendo vissuto da monaco per tutta la vita, il Dalai Lama vede nel matrimonio una delle vie maestre per la felicità. «Troppe persone in Occidente hanno rinunciato al matrimonio - dice -. Non si rendono conto che si tratta di sviluppare reciproca ammirazione, profondo rispetto, fiducia, e consapevolezza dei bisogni di un altro essere umano. Le relazioni che vanno e vengono con facilità rendono più liberi ma meno appagati».

Pur essendo noto per i suoi punti di vista umani e tolleranti, il Dalai Lama è sorprendentemente critico nei confronti dell’omosessualità. È male, dice, per un buddhista. «No assoluto. Senza sfumature. Una coppia gay mi è venuta a trovare, cercando il mio appoggio e la mia benedizione. Ho dovuto spiegar loro i nostri insegnamenti. Una donna mi ha presentato un’altra donna come sua moglie: sconcertante. Al pari dell’uso di certe pratiche sessuali fra marito e moglie. Usare gli altri due buchi è sbagliato». A questo punto il Dalai Lama si volge al suo interprete per assicurarsi di aver utilizzato le parole inglesi corrette per discutere di questa delicata materia. L’interprete annuisce in maniera appena percettibile. 

«Un amico occidentale - riprende il Dalai Lama, infervorandosi - mi ha chiesto che male possa mai venire da due adulti consenzienti che fanno sesso orale, se a loro piace. Ma lo scopo del sesso è la riproduzione, secondo il buddhismo. Gli altri buchi non creano vita. Non posso condonare questo genere di pratiche». Si mette a ridere quando quando cambio argomento e gli parlo dei tentativi occidentali di accedere a una maggiore spiritualità attraverso lo yoga, i massaggi e l’agopuntura. «Queste sono solo attività fisiche - dice -. Per essere più felici bisogna passare meno tempo a pianificare la propria vita, e accettare di più quello che viene».

Il Dalai Lama è stato criticato per essersi troppo concesso alle lusinghe dell’Occidente: frequenta troppo le celebrità, dicono i suoi detrattori, ed è troppo disponibile a farsi fotografare su riviste frivole accanto alla duchessa di York o personaggi del genere. «C’è chi mi trova una brava persona, e c’è chi crede che io sia un ciarlatano: ma sono solo un monaco» dice con un largo sorriso. «Non ho mai chiesto a persone come Richard Gere di venire a trovarmi, ma sarebbe assurdo fermarle. Ci vengono tibetani, indiani, malati di Aids, persone religiose, politici, attori e principesse. Il mio atteggiamento è dare a ognuno un po’ del mio tempo: se posso contribuire in qualche modo alla loro felicità, ne sono felice a mia volta». Molte donne occidentali che si mettono in fila per essere benedette gli dicono di non voler parlare con lui di niente di particolare. «Incontro donne che in passato hanno abortito perché pensavano che un figlio avrebbe rovinato le loro vite. Un bambino sembrava loro insopportabile, ma adesso sono diventate più vecchie e incapaci di concepire. Mi sento così triste per loro». Il Dalai Lama dice loro che hanno bisogno di riscoprire la forza interiore. «L’Occidente oggi è debole, non sa fronteggiare le avversità e ha poca compassione per gli altri. Ma le persone possono trovare la maniera per contrastare le forze negative. Se invece si sovraccaricano di responsabilità riguardo ai loro problemi personali, diventano sempre meno fiduciose». Il Dalai Lama non crede che si debba necessariamente essere religiosi per avere una vita ricca di significato. «Però bisogna avere una morale e puntare a sviluppare le qualità basilari dell’umanità. Io non voglio convertire la gente al buddhismo, tutte le grandi religioni, se interpretate correttamente, hanno lo stesso potenziale di bene»

Tuttavia la religione si è fatta cattiva, ci sono fanatici che predicano l’odio... «Il fondamentalismo è terrificante perché è basato sull’emozione anziché sulla ragione. Impedisce alle persone di pensare da individui e di perseguire il bene del mondo. Questo nuovo terrorismo è stato provocato soprattutto da invidia e frustrazione nei confronti dell’Occidente, che in tv appare così sviluppato e di successo. Alcuni leader fuori dall’Occidente usano la religione per reagire a tutto questo». I terroristi, dice il dalai Lama, vanno trattati umanamente, «altrimenti il problema si aggraverà. Se c’è un Bin Laden oggi, presto ne avremo dieci. Terrificante. Uccidi dieci Bin Laden e l’odio si diffonderà».

Che cosa pensa della guerra in Iraq? «Il metodo è stato violento. La violenza dà risultati imprevedibili, può produrre un’infinità di altri problemi» risponde il Dalai Lama, a cui la religione vieta di uccidere anche solo una zanzara. 

Benché non approvi la guerra in Iraq, il Dalai Lama ammira il presidente Bush. «È un uomo schietto - dice -. Nel nostro primo incontro mi trovai davanti a un vassoio pieno di biscotti. Il Presidente mi offrì immediatamente quelli che gli piacevano di più e da quel momento ci siamo intesi. Nella visita successiva Bush non se la prese quanto io fui perentorio riguardo alla guerra. E nella terza occasione, alla casa Bianca, fui sorpreso dalla sua conoscenza del buddhismo».

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