From:   info @...
Subject: Contributo Rete nazionale Disarmiamoli! al convegno del Patto permanente contro la guerra - 24.5.08
Date: May 25, 2008 9:00:53 PM GMT+02:00

Contributo della Rete nazionale Disarmiamoli! al convegno del Patto permanente contro la guerra - 24 maggio 2008
 
La caduta del governo Prodi ed il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi è una nuova tappa del travagliato processo politico che vede la classe dominante del nostro paese impegnata nel disegnare un assetto istituzionale stabile, in grado cioè di governare la cosiddetta “azienda Italia” nella competizione mercantile internazionale.

 

Nonostante l’eclatante debolezza, in soli 20 mesi l’esecutivo di centro sinistra ha però imposto al paese scelte fondamentali in politica interna ed estera, attraverso la stabilizzazione dell’intero quadro politico nazionale all’interno delle logiche della cosiddetta “governabilità”, della cogestione, tra forze politiche apparentemente alternative.

 

Le conseguenze del conflitto economico e militare determinato ed imposto dalle regole della suddetta competizione in atto sotto gli occhi di tutti.
Esse determinano in ogni paese scelte legate sempre più strettamente al complesso militare – industriale ed alle “proiezioni belliche” oltre confine, alla conquista di risorse strategiche, mercati e commesse per un sistema economico “civile” in piena recessione.

 

Il governo Prodi si è distinto per il vertiginoso adeguamento del “sistema paese” agli imperativi imposti dalle nuove offensive neocoloniali in atto. L’aumento in due anni del 24% nelle spese militari, oltre ad essere l’investimento bellico più cospicuo nella storia repubblicana, sottende un riorientamento strategico dell’economia nazionale.

 

Sotto il segno dei governi dell’ultima decade, con una marcata accentuazione del ruolo del centro sinistra, si è progressivamente composto un mosaico di scelte ed orientamenti atti a adeguare l’“azienda Italia” alle trasformazioni geopolitiche che negli ultimi 20 anni hanno sconvolto gli scenari internazionali.

 

  • Il “Nuovo modello di difesa” italiano e la nascita dell’esercito professionale, figli della complessiva riorganizzazione in senso offensivo delle forze militari statunitensi e N.A.T.O.
  • Le partecipazioni belliche dirette e le operazioni di “Peacekeeping”, che a partire dalla prima guerra del golfo del 1991, passando per il massacro jugoslavo del 1999, l’occupazione dell’Afghanistan nel 2001 e dell’Iraq nel 2003 hanno permesso di rodare ed affinare costantemente il ruolo ed i compiti del complesso militare / civile / industriale italiano nei vari territori occupati.
  • La costruzione di una complessa macchina “civile” in grado di affiancare le truppe sui fronti di guerra, composta da O.N.G., associazionismo “embedded” e aziende “conctractor”.
  • La “messa a servizio” della ricerca pubblica e privata – Università, scuole di specializzazione, C.N.R., centri studi – in funzione delle esigenze di costante sviluppo tecnologico e di know how dell’esercito professionale e delle aziende di armi e tecnologia militare.
  • La parallela costituzione di una vera e propria holding delle aziende militari italiane sotto il comando di Finmeccanica, conglomerato a partecipazione e controllo pubblico (oltre il 37%).
  • Il rafforzamento della presenza militare diretta N.A.T.O., statunitense ed israeliana sui nostri territori, attraverso nuove basi ed accordi militari, collaborazioni scientifiche, esercitazioni congiunte.

 

L’insieme delle scelte schematicamente elencate si sono in questi anni ricomposte attraverso politiche concrete, in grado di dispiegarsi con maggior chiarezza sotto la guida del centro sinistra piuttosto che con gli esecutivi di centro destra, smaccatamente filo statunitensi ed incapaci sino ad ora, per la base sociale ed industriale che rappresentano, di far giocare alla “azienda Italia” un ruolo da protagonista nell’area eurasiatica e mediorientale.

 

Durante il precedente governo Berlusconi l’Italia (soprattutto nel settore militare e tecnologico) non andò oltre le commesse e i brevetti concessi dagli Stati Uniti.
Il centro sinistra ha tentato invece di dotare l’Italia di un complesso militare-industriale capace di integrarsi su scala europea e di competere nello scacchiere di riferimento (Balcani, Eurasia, Medio Oriente, Corno d’Africa), senza mai mettere in discussione le alleanze “strategiche” d’oltre Oceano.

 

D’Alema e il Leonte libanese

 

Il modello che meglio ha incarnato la filosofia politico/militare e diplomatica del centro sinistra nello scacchiere d’interesse dell’azienda Italia è rappresentato dell’operazione “Leonte”, attraverso la quale il Sud Libano è occupato da circa 15mila uomini, tra militari (quasi 10mila, di cui 2.500 italiani) e civili di venti Stati diversi.

 

Il ruolo da protagonista ritagliato dal Ministro degli Esteri D’Alema in quella particolare crisi internazionale ha permesso di creare uno spazio alla diplomazia italiana ed europea ( e quindi ai suoi eserciti ed industrie) precedentemente preclusi.
Una miscellanea di arte diplomatica, capacità colloquiale, uso del settore civile come cuscinetto nelle relazioni con le popolazioni. Gli strumenti concreti della dottrina militare del “portare la pace” piuttosto che “forzarla” ( peacekeeping versus peaceenforcing ).

 

Un guanto di velluto che nasconde il pugno d’acciaio sul territorio dell’occupato (Libano) piuttosto che quello dell’occupante (Israele), dell’appoggio incondizionato all’illegittimo governo Sinora contro lo schieramento di partiti e organizzazioni della Resistenza libanese, della protezione delle frontiere d’Israele e degli interessi delle aziende e ONG italiane, impegnate nella ricostruzione di un paese devastato dall’aviazione israeliana, armata con bombe provenienti direttamente dalle basi USA presenti in Italia, come quella di camp Darby, che in Israele ha due depositi classificati.

 

Una politica estera che convinse l’ex “sinistra radicale”, schierata (ancora oggi) al fianco dell’occupazione del Sud Libano. Lo schieramento di sinistra non fece, infatti, mancare il suo appoggio ad una scelta smaccatamente neo colonialista e filo israeliana, in Parlamento con il voto favorevole all’invio delle truppe, ad Assisi il 26 agosto 2006 con il vergognoso slogan “Forza ONU” portato alla marcia dalle associazioni della Tavola della Pace.

 

Il “Leonte” dalemiano dovrebbe essere ora sostituito dal “panzer” Frattini, ma come abbiamo potuto osservare “sul campo” i cambi di strategia nel paese dei cedri devono fare i conti con alcune variabili molto insidiose, prima fra tutte la forza della resistenza nazionale libanese.
Sulla situazione libanese torneremo avanti nel documento.

 

Un altro tassello della diplomazia di guerra italiana: Il Kosovo

 

L’attivismo dalemiano di febbraio 2008 sul Kosovo, allo scopo di velocizzare i tempi di una “secessione pilotata” dalle pericolosissime conseguenze politiche e militari, nasconde anche in questo caso un orientamento dettato dal ruolo che l’Italia si è ritagliata nell’area balcanica, soprattutto in Albania.

 

Nella spartizione di territori e mercati in quella che è stata l’Europa “oltrecortina”, l’Italia ha progressivamente trasformato il paese delle aquile in un protettorato de facto.
Dall’inizio degli anni ’90 sino ad oggi, il sistema istituzionale albanese, l’esercito, le polizie, la pubblica amministrazione è stata ricostruita grazie ad un’accorta regia italiana.
In un contesto di disgregazione istituzionale, sociale ed economica, la debolissima struttura produttiva e commerciale albanese sono state facili prede dell’imprenditoria e delle speculazioni finanziarie. Basti ricordare il famoso scandalo delle “piramidi”, che a cavallo tra il 1996 ed il 1997 ridusse sul lastrico il 50% dei risparmiatori albanesi.

 

Una manodopera a bassissimo costo, un sistema di potere corrotto e permissivo, fanno dei territori albanesi terra di conquista ed affari per le piccole e medie imprese italiane, le quali esternalizzano produzioni altrimenti poco remunerative nel nostro paese.
La “grande Albania” che s’intravede dietro l’attuale secessione kosovara è quindi una proiezione del controllo italiano di un territorio ancora più vasto.
Il fatto che ciò avvenga in dispregio del diritto internazionale, contro gli accordi che a Kumanovo sancirono la fine dei bombardamenti NATO del 1999 poco importa ad una diplomazia determinata a ritagliarsi nicchie di potere nei territori sconvolti da guerre e occupazioni.
In questa area d’interesse probabilmente pochi saranno i segni di discontinuità tra il vecchio ed il nuovo esecutivo. Le filiere produttive direttamente coinvolte nello sfruttamento in Albania, Romania e paesi limitrofi sono in buona parte espressione diretta della “base sociale” del nuovo esecutivo: la PMI del Nord Est, un cooperativismo che prospera con le commesse militari (vedi CMC e CCC nel caso della base al Dal Molin), speculatori finanziari onnipresenti…..
 
Gioco di squadra sotto comando U.S.A.

 

Ad oggi la tabella di marcia del conflitto continua ad essere implacabilmente imposta dall’Amministrazione Bush e dal suo esercito, sia nei territori dilaniati da feroci occupazioni, sia nelle scelte interne ai vari paesi satelliti - come nel caso dell’Italia - costringendo talvolta i vassalli a scelte diplomatiche umilianti e ad investimenti apparentemente schizofrenici.

 

Ecco allora il consenso all’installazione di una nuova base U.S.A. all’aeroporto “Dal Molin” di Vicenza, la firma dell’accordo per l’assemblaggio dei bombardieri nucleari F35 mentre si investono miliardi per il concorrente europeo Eurofighter, la sottoscrizione dell’accordo per l’inserimento dell’Italia nel progetto USA di “scudo antimissilistico”, il coinvolgimento di sempre più forte di  uomini e mezzi per l’occupazione dell’Afghanistan, l’alleanza politico/militare strategica con Israele, proiezione geografica degli U.S.A. sui territori della Palestina storica, l’umiliante epilogo delle inchieste sul rapimento di Abu Omar e sull’omicidio di Nicola Calidari.

 

Esempi che evidenziano il limitato spazio di manovra per un paese come l’Italia, alla mercè dell’occupazione militare statunitense, esemplificata dalla presenza di 104 basi USA sparse su tutto il territorio nazionale, di servitù militari  N.A.T.O. e del nuovo esercito professionale italiano, che caratterizzano la nostra penisola come grande portaerei nel cuore del Mediterraneo

 

L’esecutivo Prodi ha partecipato al gioco di squadra della nuova spartizione coloniale in un ruolo di “attivismo subalterno”, senza mai fare un passo falso che mettesse in discussione o in difficoltà gli alleati strategici.
Una realpolitik che ha reso molto in termini di ruolo militare ( in questo momento al comando delle missioni in Libano, Afghanistan e nei Balcani sono posizionati generali e ammiragli italiani), di commesse ( l’Italia è la settima esportatrice di armi nel mondo ) e di proiezione delle industrie tricolori nell’area (ENI, Finmeccanica, imprese di costruzione, O.N.G. filogovernative).

 

I popoli dei paesi occupati, i lavoratori italiani, le popolazioni che vivono vicine alle basi militari hanno pagato con la vita, il salario, la dignità e la libertà il costo delle politiche “multilateraliste” del centro sinistra.

 

La storica comunanza di vedute tra l’attuale amministrazione U.S.A. e gli esecutivi della destra berlusconiana potrebbe accentuare il ruolo interventista dell’esercito italiano nei vari fronti d’intervento. Ciò dipenderà più che dalla volontà soggettiva dei leader della destra dalle condizioni oggettive sul campo, come emerso con estrema chiarezza in Libano all’inizio del mese di maggio 2008
Forse l’esecutivo berlusconiano ci risparmierà solo la nauseabonda coltre di ipocrisie, doppiezze, trasformazioni semantiche ed ideologiche alle quali ci aveva abituato il centro sinistra.
Le parole potrebbero riavvicinarsi al loro senso reale e il termine “guerra” potrebbe tornare ad essere usato per descrivere gli avvenimenti in corso.
Conoscendo però il pragmatismo criminogeno di questa destra reazionaria e forcaiola, le certezze su queste ipotesi di modifica sostanziale e formale di approccio alla politica estera del paese andrà verificata passo passo.

 

Di certo c’è solo il contesto ed il ruolo nel quale l’Italia è inserita. Un ruolo di prima linea nei conflitti bellici, odierni e futuri.

 

Le politiche di guerra, corda al collo della sinistra di governo.

 

Eviteremo di elencare le scelte di guerra ed antipopolari sottoscritte e sostenute durante tutta la legislatura dai partiti della cosiddetta “sinistra radicale”. Durante i 20 mesi di governo Prodi ce ne siamo occupati concretamente giorno per giorno, attraverso denunce puntuali, mobilitazioni, campagne di massa e manifestazioni.

 

Ci risparmieremo anche giudizi di merito su una classe politica cresciuta all’interno dei movimenti altermondialisti, particolarmente forti nel nostro paese per la particolare congiuntura politica internazionale ed interna precedente all’avvento del primo  governo Prodi.

 

Il miglior giudizio su questo ceto politico lo hanno dato le urne il 13 e 14 aprile scorso, fotografando in maniera impietosa, come già Piazza del Popolo il 9 giugno 2007, il fallimento totale di un percorso attraverso il quale si sono aperte le porte ad una destra reazionaria, legittimata a procedere su una strada bellicista già tracciata, come detto, dai precedenti governi di centro sinistra.

 

Vorremmo invece focalizzare l’attenzione - per sommi capi -  sulle cause politiche che a nostro modo di vedere hanno spinto un intero ceto politico a adeguarsi così “radicalmente” ai dettami di un governo tra i più militaristi della storia repubblicana.
Ci cimentiamo in questa sintetica analisi non per puro esercizio speculativo, ma per quella che riteniamo un’impellente esigenza del movimento contro la guerra, imposta dal precipitare della crisi politica di questi giorni.

 

Nei venti mesi di governo Prodi i gruppi dirigenti dei partiti della cosiddetta “sinistra radicale” hanno messo in pratica, dall’interno delle famose “stanze dei bottoni”, una linea politica che viene da lontano, maturata in anni di rapporti ambigui con i movimenti, di pratiche eminentemente istituzionali, di profonde revisioni nei propri riferimenti storici, teorici ed ideali.

 

Il quadro di insieme che emerge dal concreto esercizio del potere è quello di un ceto politico che ha assunto strategicamente l’orizzonte della gestione dello “stato di cose presenti”, in una fase storica nella quale i margini per politiche di condizionamento esercitate “dall’alto” sono evidentemente esauriti.

 

Le guerre di aggressione, l’occupazione militare dei luoghi di produzione strategici, la fine sostanziale di ogni trattato internazionale che regola i rapporti tra Stati,  sono oggi prassi comune ed elemento centrale del confronto tra potenze economiche, imponendo per ricaduta particolari regole all’economia, al mercato, alle politiche estere ed interne di tutti gli Stati.
L’analisi di questa drammatica congiuntura storica che l’umanità è costretta a vivere - a causa di un sistema economico profondamente iniquo, irrazionale e fallimentare - è stata e continua ad essere argomento di confronto all’interno del movimento no global,  dibattito un tempo assiduamente frequentato da chi, divenuto poi deputato o senatore, ha contribuito attivamente alla realizzazione di queste politiche di guerra.
Non è l’analisi o la presa di coscienza della realtà che ha diviso i movimenti da questa rappresentanza politica, ma  precise scelte di campo ed una prassi politica conseguente.

 

La presenza di queste rappresentanze politiche - direttamente o attraverso le strutture socio/culturali di riferimento - nel sottobosco della gestione delle missioni militari all’estero e nella cogestione delle politiche territoriali di un paese sempre più militarizzato come l’Italia - sono gli esempi concreti di una compromissione che va ben oltre la compartecipazione ad un governo.
Indicativi di questa complicità “dal basso” sono i silenzi-assensi delle amministrazioni locali di centro sinistra verso le servitù militari, basi della morte, accordi tecnologici o commerciali con paesi come Israele (da Aviano a Camp Darby, da Ghedi alle regioni Lazio, Toscana, Emilia-Romagna, Puglia etc.)

 

La partecipazione della “sinistra” al governo Prodi non è stata il frutto di una sequela di errori ma, lo ripetiamo, l’assunzione di un orizzonte strategico di compatibilità con l’esistente, che rischia - nonostante l’impressionante debacle elettorale – di continuare ad interagire nelle dinamiche politiche nazionali.

 

Le “grandi manovre” in atto per tentare di riciclare pezzi del ceto politico espulso dal gioco politico parlano chiaro. Una considerevole parte della società italiana non è più rappresentata in Parlamento e il sistema tenta di compensare questo pericoloso vuoto riproponendo “leader affidabili”, utili per continuare l’opera di “normalizzazione” in un paese nel quale storicamente si sono espressi alti livelli di conflittualità sociale, culturale e politica.

 

La posta in gioco di questo passaggio è molto alta, non tanto per la poco interessante sorte di ex deputati e senatori, ma per la tenuta di un movimento che in questi anni è riuscito a scrollarsi di dosso il ricatto del “governo amico”.

 

Passaggio di testimone in una staffetta di guerra

 

I primi passi del governo Berlusconi, sfrondati dalla retorica tronfia e muscolare di un esecutivo di chiara marca reazionaria, evidenziano da una parte debolezza e cautela nelle prime mosse di politica estera, ma soprattutto rendono tangibile la logica bipartisan con la quale saranno trattate alcune partite fondamentali per l’economia di guerra imbastita dal precedente governo Prodi .
In quest’ambito il punto di incontro politico/economico tra il vecchio ed il nuovo esecutivo s’intravede nel ruolo giocato da Finmeccanica.
Oltre ad assumere la funzione di camera di compensazione clientelare, con la recente assunzione nell’azienda a partecipazione statale di decine di parenti ed amici dei trombati dalle urne elettorali - rigorosamente bipartisan -, il 12 maggio scorso la holding tricolore ha rafforzato in maniera formidabile la sua posizione nel mercato internazionale delle armi, acquisendo il 100% della statunitense Drs Technologies.
Con 3,4 miliardi di euro, Finmeccanica si è comprata il diritto di entrare nel mercato della “difesa” di Washington, equivalente a più del 50% del mercato di armi nel mondo.

 

L’operazione, come evidenzia Sergio Finardi in un articolo uscito su “Il Manifesto” lo scorso 16 maggio, ha ovviamente una diretta implicazione politica.
Scrive Finardi “…Con l'acquisizione di DRS (il cui direttivo rimarrà solidamente in mano all'attuale management statunitense), Finmeccanica e i suoi dirigenti entrano nel circolo dell'apparato «securitario» statunitense che - attraverso le limitazioni di legge all'influenza di gruppi stranieri sulla produzione bellica statunitense nonché attraverso i meccanismi con cui si regolano i vari gradi di accesso dei dirigenti dell'industria bellica a informazioni segrete o sensibili - producono una reale sudditanza alle scelte strategiche delle Amministrazioni Usa e al loro apparato di intelligence. Le politiche produttive, di esportazione, e di alleanze di Finmeccanica saranno costantemente vagliate alla luce dei loro possibili contrasti con quelle scelte strategiche (ed eventualmente influenzate), mentre nello stesso tempo sarà creato un oggettivo e forte interesse da parte di uno dei maggiori gruppi industriali bellici europei a sostenerle onde non compromettere la «magica» permanenza sul mercato statunitense.
 
Va da sè che pezzi della politica estera italiana (semmai ce ne fosse bisogno) diverranno più sensibili alle pressioni statunitensi, per dirla con un eufemismo, in particolare in relazione al Medio Oriente e all'Afghanistan e in relazione alla costruzione di un'autonoma macchina bellica europea centrata sull'asse franco-tedesco. In altre parole, l'Italia si avvicina maggiormente alla funzione di cavallo di troia statunitense svolta da sempre dalla Gran Bretagna in Europa e si allontana da Parigi e Bonn….. Sarebbe interessante sapere…. quanto ha pesato sulla fattibilità dell'accordo l'azione del precedente governo Berlusconi, del governo Prodi (durante il quale a Finmeccanica è stato concesso di fare dei passi sulla partecipazione al sistema di «difesa» anti-missilistica strategica statunitense, la cosiddetta Strategic Defense Initiative), e di membri del board dei direttori di Finmeccanica come l'ex consigliere di politica internazionale di Prodi, Filippo Andreatta (figlio del più famoso Beniamino), e Giovanni Castellaneta, attuale ambasciatore italiano a Washington”.

 

L’acquisto della statunitense Drs Technologies da parte di Finmeccanica è descritto dalla stampa specializzata (Il Sole 24 ore) come un atto di fiducia del colosso statunitense verso il fido Berlusconi, tornato alle redini di comando.
A differenza di questa lettura, noi vediamo in questa colossale operazione economica la risultante di un lungo processo di “fidelizzazione” di tutto il panorama politico italiano ai voleri dell’imperialismo statunitense.
Come dire, diamo a Prodi quel che è di Prodi.

 

La falsa partenza di Frattini in Libano

 

L’operazione Leonte in Libano rimane al momento legata alla strategia dalemiana.

 

Le esternazioni dell’attuale Ministro della Difesa Franco Frattini sulle regole d’ingaggio delle forze UNIFIL hanno contribuito a determinare le condizioni dell’ultima fiammata di guerra nel paese dei cedri.
I precari equilibri sui quali si regge la tregua d’armi in Libano hanno subito un forte scossa a causa delle dichiarazioni del nuovo governo italiano, attualmente al comando del dispositivo multinazionale di stanza in Sud Libano.
Il governo filo occidentale Sinora ha tentato immediatamente di formalizzare sul campo l’ipotetico mutamento di rapporti di forza, varando provvedimenti atti allo smantellamento dell’autonomo sistema di comunicazioni di Hezbollah.

 

Di fronte alla forza dell’offensiva della Resistenza il governo illegittimo di Fuad Sinora è tornato sui suoi passi, seguito in poche ore dai neo ministri della difesa e degli esteri italiani.

 

Il recente accordo di Doha per l’elezione del Presidente della Repubblica libanese è la risultante di una nuova vittoria sul campo della Resistenza libanese. I “signori della guerra” d’Occidente ed i loro alleati locali dovranno cercare altre vie per scardinare questo punto di tenuta contro il progetto del “Grande Medio Oriente”.

 

Gli eventi che si sono susseguiti a Beirut e in altre zone del Libano dimostrano ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l’importanza strategica della Resistenza popolare nella lotta contro la volontà di guerra dell’asse filo occidentale nell’area.

 

I mass media italiani, sempre servili e benevoli con chi governa, hanno messo in sordina lo smacco con il quale la politica estera del governo Berlusconi ha iniziato il suo cammino.

 

Frattini però non demorde, ed all’ultimo Consiglio dei Ministri di Napoli rilancia sulle regole d’ingaggio dei soldati italiani in Afghanistan, dando anche in questa zona di conflitto un chiaro segnale di disponibilità alle pressanti e reiterate richieste statunitensi per un maggiore impegno nei combattimenti.

 

In termini generali, la memoria delle operazioni belliche gestite dal precedente governo Berlusconi testimoniano come sul campo, al di là di dichiarazioni roboanti, i compiti assegnati alle forze armate italiane siano sempre stati di “basso profilo”, di affiancamento e copertura alle operazioni belliche principali, di stabilizzazione di aree geografiche preferibilmente dove, come nel caso di Nassirija, sono collocati industrie o giacimenti di interesse italiano (ENI).
Vedremo nelle prossime settimane e mesi quali saranno gli sviluppi e le reali dimensioni di questo riorientamento “offensivo” delle truppe tricolori.

 

La guerra interna

 

La devastante campagna sulla “sicurezza” con la quale il governo Berlusconi ha iniziato il suo mandato affonda le radici in una regressione societaria profonda ed inquietante, prodotto di una serie di fattori economici, sociali, politici e culturali molto complessi, trasformatisi in ottimale terreno di coltura di una destra reazionaria e razzista.
Gravissime, a nostro modo di vedere, le responsabilità del ceto politico erede della storia dell’ex sinistra istituzionale, che ha progressivamente coadiuvato, introiettato e poi gestito direttamente il paese e le città attraverso politiche razziste, discriminatorie e xenofobe.
Esempi non mancano, e nessuno dei partiti che componevano l’ex governo Prodi è rimasto immune da queste degenerazioni.
Non è compito di questo documento analizzare il contesto storico – politico e l’ambiente socio/culturale che ha reso possibile il ritorno al governo del paese di un esecutivo dai tratti marcatamente reazionari.

 

Vogliamo invece evidenziare come questa regressione societaria veicoli perfettamente la militarizzazione dei territori.
Non c’è bisogno di analisi erudite per dimostrarlo, basta osservare l’attuale drammatica concatenazione di avvenimenti, ricordando quali e quanti strumenti sono stati messi progressivamente a disposizione dei vari Ministri degli Interni e della Difesa.
Anche in questo caso la logica della “staffetta” ha funzionato perfettamente, consegnando senza soluzione di continuità sempre maggiori mezzi coercitivi e meccanismi di militarizzazione della società ai governi.
Un mix micidiale di strumenti repressivi, utili per prevenire ed affrontare potenziali insorgenze sociali, determinate da una crisi economica che si preannuncia lunga e devastante.

 

Come dimenticare la trasformazione dell’esercito di leva in professionale, con la possibilità per i nostrani “Rambo” di accedere per linee preferenziali ad attività civili nei ministeri, nelle forze di polizia e nella pubblica amministrazione?
Come dimenticare la trasformazione dell’Arma dei Carabinieri in quinta forza armata dell’esercito?
Migliaia di carabinieri e soldati  di ventura addestrati nell’arte della guerra in Somalia, nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, pronti ad intervenire oggi nelle strade delle nostre città, come già programmato nell’ultimo Consiglio dei Ministri per risolvere “manu militari” la vicenda dei rifiuti a Napoli ed in Campania.

 

Altro strumento concreto di militarizzazione dei territori è lo sviluppo dell’industria di guerra.
La proliferazione ed il finanziamento di aziende, centri studi universitari, sistemi di produzione avanzati legati alla filiera bellica aumenta il numero di lavoratori direttamente ed indirettamente legati a sistemi produttivi garantiti solo dal permanere di focolai di guerra.
Cosa significhi questo in termini concreti lo hanno sperimentato negli anni ’60 del secolo scorso i pacifisti statunitensi, perseguiti non solo dalle forze dell’ordine , ma anche da importanti settori di classe operaia dipendenti dal sistema militare – industriale.
In termini ridotti, anche nel nostro paese già facciamo i conti con questa contraddizione, sia nelle battaglie per la riconversione delle fabbriche di armi, sia quando chiediamo la chiusura delle basi militari straniere. Il ricatto del lavoro è un’arma formidabile con la quale dover fare i conti, innanzi tutto con le maestranze, ma anche con le popolazioni locali.

 

Dietro i freddi numeri delle ultime due Leggi Finanziarie si nascondevano queste “armi di militarizzazione di massa”, a disposizione oggi della destra berlusconiana.
 
Il Movimento contro la guerra nella nuova fase politica

 

Il movimento contro la guerra espressosi sino ad oggi è stato il prodotto di un lungo processo di chiarificazione. In questi anni una soggettività plurale, radicata sui territori, nelle lotte contro le basi militari e militarizzazione della vita sociale, nella resistenza contro politiche che hanno decurtato immense risorse dalle tasche dei lavoratori a favore delle imprese belliche, è riuscita ad esprimersi attraverso una pratica indipendente dalle compatibilità di sistema e dei governi, mettendo ripetutamente in crisi il precedente esecutivo di centro sinistra.

 

La forza di questo movimento ha agito direttamente nello scenario politico nazionale, determinando prima  la “crisi” di governo del febbraio 2007 in seguito alla grande manifestazione contro la base di Vicenza.
Successivamente, la manifestazione del 9 giugno 2007 contro Bush e le politiche militariste del governo Prodi.
Giornata storica per il movimento, nella quale 150.000 NoWar ridicolizzarono i  200 burocrati della  “sinistra radicale”, ritrovatisi in Piazza del Popolo con l’obiettivo, clamorosamente mancato, di  “coprire a sinistra” l’esecutivo Prodi. Un segnale arrogantemente ignorato da un ceto politico che solo 10 mesi dopo sarà spazzato via dal Parlamento.
Così scriveva la Rete nazionale Disarmiamoli! all’indomani del 9 giugno 2007
“…Dopo un anno di subalternità alle politiche del nucleo duro del governo, il tentativo di “copertura a sinistra” ha prodotto un disastro, misurabile con il vuoto di Piazza del Popolo, che se abbinato alla debacle elettorale alle ultime amministrative danno la dimensione di una vera catastrofe.

Un intero ceto politico si ritrova solo, abbarbicato alle proprie poltrone ed ai propri indecenti stipendi, ma completamente isolato dalle piazze, dalle aspettative tradite di milioni di ex “elettori”. Come abbiamo detto ripetutamente in questi mesi: il re è nudo, e tutti lo hanno potuto vedere nell’impietosa rappresentazione di quella piazza vuota.

I 150.000 scesi in piazza contro Bush e le politiche militariste del governo Prodi esprimono - questo è il dato di novità assoluta - una soggettività plurale indipendente da politiche estere con connotati chiaramente bipartisan....”

Oggi assistiamo, come abbiamo in parte descritto in queste note, alla raccolta dei “dividendi di guerra” da parte di uno tra i più reazionari governi nell’alveo dei cosiddetti paesi del “mondo libero”. Una responsabilità storica, che ricade direttamente sia su quel sia rimane del ceto politico coagulatosi all’interno del PD che sui “nuovi extraparlamentari”.

 

Le scosse di assestamento del dopo terremoto elettorale, a ben vedere, rischiano di essere ancora più devastanti dell’epifenomeno centrale. Sono sotto gli occhi di tutti piccole e grandi manovre, più o meno indecenti, finalizzate a far rientrare dalla finestra un ceto politico espulso dalla porta della storia politica di questo paese.
Coadiuvare in qualsiasi forma queste manovre significherebbe contribuire a mettere una zavorra mortale nelle ali dei movimenti.

 

Coloro i quali hanno lasciato completamente vuoto un potenziale spazio di rappresentanza istituzionale per i movimenti, le lotte e le aspirazioni di un mondo libero dal bellicismo e dall’aggressività militarista, si devono assumere in pieno la responsabilità di questa catastrofe, facendosi definitivamente da parte.
Niente di più e niente di meno. 

 

Il Movimento contro la guerra, così come altre istanze di movimento impegnate nei vari ambiti di lotta, devono oggi più di ieri ricomporre un quadro d’insieme delle grandi energie espressesi in questi anni, con l’obiettivo di proiettarle in avanti.

 

Abbiamo di fronte nuovi e gravosi compiti d’organizzazione della resistenza contro la prevedibile ondata di bellicismo interventista.
Con il nuovo esecutivo cambieranno le forme attraverso le quali la cosiddetta “proiezione di potenza” dell’azienda Italia si esprimerà nelle varie aree d’influenza, dai Balcani al Medio Oriente, dal corno d’Africa all’Afghanistan.
Venuto meno il progetto multipolare a baricentro europeo del centrosinistra, l’esecutivo Berlusconi volgerà di nuovo la barra della proiezione estera italiana verso politiche smaccatamente filo atlantiste.

 

(Message over 64 KB, truncated)