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L'antifascista, questo sconosciuto

di Franco Giustolisi

su Il Manifesto del 28/08/2008

Il fascismo è derubricato. Così scriveva su la Stampa il 28 marzo di
quest'anno Giovanni De Luna, docente di storia contemporanea
all'Università di Torino.
Per questo concetto ineccepibile lo storico prendeva a pretesto il
decreto del governo Prodi (un governo di centro-sinistra, badate)
risalente al 29 febbraio che toglieva all'Aned, l'associane degli ex
deportati, proprietaria del blocco 21 del lager di Auschwitz, il
diritto consolidato di allestire il padiglione italiano nel museo che
trasmette al mondo le atrocità del nazismo, socio in affari, in
politica e in criminalità col fascismo. Secondo De Luna, e non vedo
chi possa dargli torto, «se da un lato per decenni la memoria della
Resistenza, dell'antifascismo e della deportazione era così
straripante da annettersi anche quella della Shoah, oggi la situazione
si è capovolta proprio nel segno della Shoah. E a rischiare di sparire
dal discorso pubblico e dalla nostra memoria collettiva è proprio
l'antifascismo». Che è scomparso, finito, non esiste più. Le cause
sono tante, partiamo da quella famosa invettiva di Giancarlo Pajetta
rivolta agli eredi di Salò, «con voi abbiamo chiuso il 25 aprile», che
ebbe come conseguenza persino il rifiuto di Rinascita, casa editrice
di proprietà del Pci, di pubblicare il libro di Alessandro Natta,
futuro segretario del partito, L'altra resistenza in cui si
denunciavano senza veli fascismo e nazismo. Evitare le provocazioni è
un conto, giustamente per non riaprire vecchie polemiche, altra cosa è
cancellare al storia e la memoria.
Un'altra formidabile spinta nel senso indicato da De Luna, l'hanno
data e la danno gli ebrei, vittime certamente della più grande
tragedia della storia, ma accentratori e globalizzanti di quella loro
memoria che deve restare esclusiva e non ammette altro. Sintomatico
che proprio loro, prime vittime del fascismo, abbiano contribuito a
far scomparire l'antifascismo. Ricordo una vicenda che mi vide in un
certo senso protagonista. Si avvicinava un giorno della memoria, un 27
gennaio, non ricordo bene se del 2003 o dell'anno successivo. In
quello stesso periodo infuriava la battaglia (politica, ovviamente)
per arrivare a sapere chi, come, quando e perché aveva deciso di
seppellire nell'armadio della vergogna i fascicoli che narravano dei
massacri di decine e decine di migliaia di nostri concittadini a opera
dei nazifascisti. Pensavo e penso, pur con il massimo rispetto verso
la Shoah, che anche gli altri caduti trucidati in nome e per conto
delle dittature, dovessero avere spazio, voce, memoria. Brigai,
insistei, ruppi le scatole, come al mio solito, sinché, pur con l'Anpi
di Roma riluttante, don Abbondio Veltroni, allora sindaco di Roma, per
una volta tanto prese una decisione dandomi ragione. La manifestazione
si fece, e nel luogo più simbolico della città, l'aula Giulio Cesare
del comune. Feci in modo che partecipasse anche Furio Colombo, non in
quanto direttore de l'Unità, ma come proponente della legge sulla
memoria, che riguardava tutti, come lui stesso confermò, non solo gli
ebrei. E ci fu a dire la sua, l'ex presidente della Corte
costituzionale, Giuliano Vassalli, e Massimo Rendina, presidente
dell'Anpi romano, nonché lo stesso sindaco. E io, fanalino di coda,
che avevo preparato, e esposi, i crimini feroci, ancor più feroci
delle SS, dei repubblichini di Salò, come a Fivizzano, in Veneto, in
Toscana, i Emilia... Ebbene il giorno dopo cercai sui giornali, cercai
e non trovai niente tranne la Shoah. E che a nessuno salti in mente di
pensare o dire che fu per disattenzione, disinformazione,
trascuratezza dei giornalisti. Ci sarà anche un po' di questi
elementi, ma i miei colleghi, si può dire tutti o quasi, in cui quel
quasi va cercato con il lanternino, di destra o di sinistra, annusano
l'odore del potere da qualsiasi distanza e si adeguano immediatamente.
Mettersi contro la lobby ebraica? Scherziamo. Alludere agli eredi di
Salò che sedevano in Parlamento e che avevano fatto e avrebbero fatto
ancora, come oggi, parte del governo? Rischerziamo?
Alberto Asor Rosa su queste stesse pagine ha parlato di un ritorno del
fascismo (e ne aveva già scritto nel 2000), trovando un'eco non
trascurabile sino a Famiglia Cristiana, di cui tutto si può dire
tranne che sia comunista o cattocomunista.
Non si pensi a un revival di camicie nere o di teschi con la scritta
dux, ormai appannaggio di infime minoranze, però accolte sempre a
braccia aperte dalla destra. No, c'è stata la mitizzata svolta di
Fiuggi nella quale un Fini, cui non si può negare intelligenza e
lungimiranza, annusando l'aria del berlusconismo in arrivo, ha
liquidato certe esteriorità. Esteriorità, ripeto, perché l'anima
rimane sempre quella: impronte digitali, militari in prima linea,
dagli addosso al diverso... L'ultima è venuta dal neo sindaco che
vuole una piazza, una strada, un parco, un qualcosa, insomma, in
ricordo di Giorgio Almirante. La patria della resistenza che generò la
Costituzione che vieta e condanna ancora il regime fascista, vuole
onorare il repubblichino Giorgio Almirante, persecutore dei
partigiani. Ma no, non esageriamo, hanno ribattuto in tanti, non
esageriamo nel senso che poi Almirante non è quel mostro di cui si
parla. E al coro, come tocco finale, si è aggiunto anche quel Luciano
Violante che per arrivare alla Corte costituzionale, pensa che Parigi
non vale solo una messa, bensì mille. Fu lui a farmi dire dal suo
portavoce, Claudio Ligas, che le vicende dell'armadio della vergogna
non meritavano alcun approfondimento perché «si tratta di vicende di
oltre cinquant'anni fa». E di vicende che si cerca ancor oggi di
coprire con ogni velo possibile. Lo ha fatto proprio in questi giorni,
in occasione della ricorrenza della strage di Stazzema, il presidente
della Camera, Gianfranco Fini, autore della svolta di Fiuggi, che io
definisco solo di facciata, quando ha parlato di un massacro
«nazista». Il «fascista» è scomparso, mentre la commissione
parlamentare d'inchiesta che lui stesso alla fine votò, in cambio
forse di qualcosa con il centro-sinistra, probabilmente il consenso
alla giornata del ricordo per istriani e dalmati l'11 febbraio, fu
esplicitamente instaurata per far luce sulle stragi «nazifasciste».
Siamo di fronte a una serie di voltafaccia, di commedia degli
equivoci, di inganni palesi e altri meno, senza precedenti. Altrimenti
non ci si può spiegare come un ministro di An, Mirko Tremaglia, venne
portato al governo e giurò sulla Costituzione che condanna il
fascismo, che lui ex repubblichino, esalta. Né ci si può spiegare come
il futuro intoccabile presidente del Consiglio, che aveva già
presieduto nel passato, abbia osato pubblicamente e televisivamente,
alla vigilia delle elezioni, porre sullo stesso piano fascismo e
comunismo, anzi con alcuni punti a vantaggio del primo. E i
giornalisti, a sentire a bocca aperta, come se avessero davanti il
creatore del nuovo Vangelo. Ehh, che volete farci, si ricade sempre
sul nodo vero, quello dell'informazione serva e deficiente.



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Il fascismo derubricato

Il governo restaura il Memorial di Auschwitz lo affida agli ebrei e
così dimentica i deportati politici

di Giovanni De Luna

su La Stampa del 28/03/2008

Per quanto sia entrato solo di sfuggita nella campagna elettorale, il
rapporto con la nostra storia novecentesca resta un nervo scoperto del
dibattito politico e culturale. Il 29 febbraio 2008, con la
conversione in legge del «decreto mille proroghe», la Presidenza del
Consiglio ha stanziato 900 mila euro (nel 2008) per il restauro del
blocco 21 del campo di prigionia di Auschwitz. I lettori della Stampa
sanno di cosa si tratta perché ne abbiamo riferito il 21 gennaio
scorso. Ad allestire il padiglione italiano del Museo di Auschwitz
(inaugurato nel 1980) furono chiamati Primo Levi per i testi, Luigi
Nono per la colonna sonora, Ludovico di Belgioioso per l’architettura,
Mario Samonà per l’affresco che decora le pareti. Si tratta quindi di
un monumento di grande valore artistico.

Il problema è capire oggi se quella rappresentazione della storia
della deportazione sia ancora in grado di trasmettere conoscenza
storica, se i criteri validi negli anni ‘70, quando l’opera fu
concepita, possano resistere validamente alle rotture e alle
discontinuità del post-Novecento. Una cosa è un’opera d’arte, un’altra
è la sua ricezione nel tempo, che cambia così come cambiano gli
sguardi delle generazioni e i significati che le si attribuiscono.

Il Memorial italiano fu allora fortemente voluto dall’Aned,
l’associazione degli ex deportati politici; ed è oggi fieramente
difeso nella sua integrità dalla stessa Aned che ha reagito con
asprezza alle critiche di chi - come me - ritiene del tutto inadeguata
quella forma di allestimento espositivo. In una lettera aperta, il suo
presidente, l’avvocato Gianfranco Maris, critica con toni allarmanti
l’iniziativa della Presidenza del Consiglio («un attacco alla
democrazia»), esprimendo il timore che si tratti del tentativo di
sostituire «una memoria civile della deportazione politica e della
lotta antifascista della resistenza» con «una memoria tematica e
didattica sul genocidio ebraico».

È un fatto che quel provvedimento ha modificato i termini di un
confronto che fin qui si era svolto su un terreno storiografico e
culturale. L’Aned, che pure resta la proprietaria del blocco 21, non
solo non è stata coinvolta nell’elaborazione, ma non viene neanche
invitata a far parte della Commissione che deve avviare il restauro
del padiglione. Il progetto del governo sembra invece rivolgersi
direttamente a organizzazioni ebraiche come il CDEC e l’UCEI,
lasciando affiorare un conflitto di memoria che ha già coinvolto molti
paesi europei, specialmente la Francia. Se da un lato, per decenni la
memoria della Resistenza, dell’antifascismo e della deportazione
politica era così straripante da annettersi anche quella della Shoah,
oggi la situazione si è capovolta e nel segno della Shoah a rischiare
di sparire dal discorso pubblico e dalla nostra memoria collettiva è
proprio l’antifascismo.

Quella che si definisce memoria collettiva non è affatto il risultato
di un ricordo ma di un patto per cui ci si accorda su ciò che è
importante trasmettere alle generazioni future. I confini storici e
culturali che circoscrivono questo patto sono fluidi, dinamici,
cambiano a seconda delle fasi che scandiscono il corso politico degli
eventi; in Italia, quelli su cui si fondava la memoria della Shoah, ad
esempio, all’inizio erano circoscritti ai sopravvissuti e alle loro
famiglie: poi si sono estesi fino ad abbracciare per intero lo
schieramento politico di sinistra. Anzi, negli anni Settanta, la
memoria della Shoah poteva essere considerata un elemento costitutivo
dell’identità della sinistra, uno di quegli ambiti in cui era
possibile distinguerla senza esitazioni dalla «destra». Oggi quei
confini sono amplissimi e hanno inglobato, anche Gianfranco Fini e il
suo partito. Con effetti paradossali. Per prendere le distanze dal
fascismo basta condannare l’infamia delle leggi razziali del 1938,
quasi che quelle leggi esaurissero per intero la dimensione
totalitaria del regime e possano oggi costituire un ottimo pretesto
per chi vuole dimenticare che il fascismo prima uccise la libertà e la
democrazia e poi perseguitò gli ebrei.

Una memoria collettiva diventa ufficiale quando a stabilire i confini
del patto su cui si fonda interviene la sanzione dello Stato, quando,
cioè, la Memoria si incontra con la Politica. Oggi la Shoah rischia di
essere imbalsamata in una elefantiaca dimensione istituzionale: le
celebrazioni per la «giornata della memoria», gli sforzi per
diffondere nella scuole una specifica «didattica della Shoah»,
l’intervento della Presidenza del Consiglio su un «luogo» come il
Memorial, adombrano una monumentalizzazione che avrebbe effetti
devastanti proprio sui delicati meccanismi della trasmissione della
memoria alle nuove generazioni: una storia sovraccarica di
«ufficialità» favorisce più l’oblio che il ricordo.