NEL NOVANTESIMO DELLA ‘REDENZIONE’.
In attesa di sorbirci le nauseanti manifestazioni di nazionalismo imperialista e guerrafondaio che spesso si verificano in taluni anniversari (cade quest’anno il “novantesimo” della “redenzione”, cioè della fine della Prima guerra mondiale), ed in relazione alla conferenza recentemente indetta dalla Federazione di Forza Nuova di Lucca “alla luce delle dichiarazioni di Fini e dei nuovi scenari politici che si sono aperti nella destra radicale” sul tema: “Fascismo: l’incarnazione del bene assoluto, la soluzione che salvò l’Italia”, abbiamo pensato di proporvi una chiave di lettura diversa dei prodromi e degli effetti della cosiddetta “Grande guerra”, con citazioni e stralci da un testo di Peter Tompkins (“Dalle carte segrete del duce”, Marco Tropea Editore 2001).
Quanto segue è tratto dal Capitolo 2, da pag. 23 a pag. 31.
< Dapprima anche Mussolini si era opposto decisamente all’entrata in guerra dell’Italia. Nel luglio del 1914, come direttore del quotidiano socialista Avanti!, scrisse in modo inequivocabilmente preciso “Se non vuole cadere in rovina, l’Italia può adottare solamente un atteggiamento di assoluta neutralità”.
Cinque giorni prima dell’apertura delle ostilità firmò un manifesto contro la guerra nel quale i socialisti minacciavano di boicottare il conflitto se l’Italia vi fosse rimasta coinvolta. Quando le ostilità iniziarono, dichiarò che la guerra serviva solamente ad aumentare il potere dell’esercito, dello stato e delle dinastie regnanti: istituzioni alle quali si opponeva.
Poche settimane più tardi “Se l’Italia dovesse rompere la neutralità appoggiando gli imperi centrali, tutti i proletari italiani avrebbero il dovere di sollevarsi in rivolta” >
A quel punto, narra Tompkins, Mussolini ed il socialista Pietro Nenni entrarono in azione svellendo tratti di rotaia per impedire il transito delle tradotte. Condotto in tribunale e condannato con l’accusa di istigazione a delinquere, Mussolini dichiarò durante il processo: “se mi assolverete mi farete un piacere. Se mi condannerete mi farete un onore”.
< A quel punto accadde qualcosa che fece cambiare idea a Mussolini (… ) un massone di nome Filippo Naldi direttore del quotidiano Il Resto del Carlino sostanzialmente finanziato dai ricchi proprietari terrieri della Romagna >, il quale, secondo un giornalista dell’Avanti, Eugenio Guarino < “chiese di parlare in privato con Mussolini. Poco dopo Mussolini abbandonò il suo classico abbigliamento da persona di sinistra con cappello floscio nero, cravatta lisa e abito sporco e cominciò a presentarsi con abiti di lusso all’ultima moda”.
Peggio ancora, lo stile polemico degli editoriali di Mussolini cambiò altrettanto radicalmente. In un sorprendente articolo di fondo che pubblicò senza consultare il comitato centrale del Partito socialista, Mussolini si rivelò favorevole all’intervento dell’Italia in guerra a fianco degli alleati dell’Intesa.
I socialisti si infuriarono e chiesero l’espulsione di Mussolini (…) davanti a un congresso dei suoi compagni Mussolini fu accolto da fischi e urla di “traditore! Lacchè! Chi ti paga ora?” >
Mussolini lasciò il partito e si stabilì in una piccola soffitta a Milano, dove iniziò a dirigere con grosso successo un proprio quotidiano, Il Popolo d’Italia.
< Riceveva i finanziamenti grazie agli sforzi del massone Pippo Naldi (…) Per alcuni mesi Naldi aveva ricevuto denaro dal governo francese per fare propaganda sul suo giornale in favore dell’ingresso in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa. A quel punto fece in modo che Mussolini bussasse alla stessa porta, anticipandogli una somma di denaro sufficiente a renderlo presentabile ai nuovi padroni. Chi fossero questi padroni lo rivelò alla fine R. F. Esposito, un massone del gruppo di palazzo Giustiniani, che dimostrò come Naldi non fosse spinto solo dalla massoneria francese, ma anche da un massone italiano in incognito, l’allora ministro degli Esteri marchese Antonio di San Giuliano. Esposito spiegò di essere stato presente a una riunione nel corso della quale Mussolini ebbe del denaro da un rappresentante dell’ambasciata francese a Roma, un certo dottor Boudin, alla presenza dei rappresentanti della massoneria italiana, gli ispettori generali Renzo Carbagni e Francesco Timpanato e il vice gran maestro Alberto Lapegna.
Nel novembre del 1914 Mussolini si recò segretamente in Svizzera riportandone altre centomila lire per il suo giornale più la promessa di diecimila lire mensili per tenerlo in vita. La grossa somma gli fu consegnata dal signor C. Dumas, segretario del ministro francese per la Propaganda di guerra, Jules Guesde; le somme successive da un intermediario, Ugo Clerici.
(…) L’accordo del 1914 permise a Mussolini di vomitare un editoriale dopo l’altro, denunciando le atrocità commesse dagli imperi centrali e attaccando i socialisti per la loro insistenza sulla neutralità italiana.
Si scoprì allora che Naldi non rappresentava solo gli interessi francesi, ma anche gli industriali e i fabbricanti italiani di armi, munizioni ed equipaggiamenti militari. Questi ultimi erano pronti a guadagnare milioni dall’entrata in guerra dell’Italia contro la Germania e l’Austria-Ungheria. Il coinvolgimento della massoneria nel traffico d’armi sarebbe diventato un fatto normale, durato fino ai nostri giorni.
Nel gennaio 1915 Mussolini (…) diede voce con il suo giornale a un’organizzazione di nazionalisti italiani bellicosi noti come Fasci di azione rivoluzionaria, spingendo i suoi lettori a rivoltarsi contro il governo e persino a sparare letteralmente alla schiena ai parlamentari pacifisti per obbligare l’Italia a entrare in guerra contro la Germania (…) “Noi vogliamo la guerra. E se voi, Sire, che in base all’art. 5 della Costituzione potete chiamare i soldati al fronte, non lo farete, perderete la vostra corona” >.
Così nell’aprile 1915 Vittorio Emanuele convocò il primo ministro Antonio Salandra per dirgli che l’Italia voleva la guerra contro gli imperi centrali, ed alle proteste di Salandra
< si produsse il primo dei colpi di stato illegali del re. Incapace di ottenere l’appoggio del Parlamento, i cui membri erano quasi unanimemente contrari all’entrata in guerra dell’Italia, il massone Vittorio Emanuele obbligò il massone Salandra a restare in carica e nel maggio del 1915, di fronte all’aperto rifiuto del Parlamento, trascinò illegalmente il paese in guerra contro l’impero austroungarico.
Una volta compiuto il passo, gli italiani furono costretti, indipendentemente dalle classi di appartenenza e dalle convinzioni politiche, a compiere il proprio dovere in silenzio, in nome del patriottismo. L’alternativa era la prigione o il plotone di esecuzione >
Anche Mussolini fu richiamato alle armi, restò al fronte parecchi mesi ma non partecipò a combattimenti; fu congedato dopo essere stato investito dall’esplosione di una granata che gli provocò diverse ferite, soprattutto ai glutei.
Nel suo testo Tompkins inserisce a questo punto alcune prese di posizione del socialista Giacomo Matteotti (poi massacrato dagli scherani del Fascio nel 1924).
(Matteotti) < dichiarò che la guerra degradava gli uomini e la vita, distruggeva il sistema democratico e portava alla dittatura. Anche la prospettiva di una vittoria (…) non significava altro per i socialisti che la conquista di territori altrui da parte di un governo reazionario. (…) predisse che la guerra avrebbe corrotto i giovani con la violenza, la noia, l’imboscamento, le razzie, le requisizioni, la demagogia, il disprezzo per il lavoro e un atteggiamento di svilimento della vita >.
Matteotti aveva già espresso le proprie valutazioni contrarie alla guerra nel 1911, quando l’Italia aveva iniziato la propria avventura coloniale.
< L’inizio di una piccola guerra, opportunamente lontana dalla patria, avrebbe determinato buoni profitti garantendo un mercato per il continuo spreco di prodotti bellici. (…) un tale sistema portava invariabilmente a un’espansione dell’establishment militare, che a sua volta chiedeva maggiori stanziamenti (…) il risultato era un circolo vizioso nel quale i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri più poveri. I poveri non erano solo costretti a combattere in guerra, ma anche a finanziare la propria stessa carneficina. La Grande Guerra (…) sarebbe stata peggiore. Con la scusa dell’emergenza bellica non c’erano limiti all’orario di lavoro, le ferie erano abolite, donne e bambini erano obbligati a lavorare come schiavi per ore interminabili e con paghe inferiori a quelle degli uomini; gli scioperi erano proibiti. Il cambiamento o l’abbandono di un lavoro, anche nel caso dei bambini, era considerato diserzione (…) punibile con due anni di carcere. L’insubordinazione era punibile con 24 anni di confino. Nel frattempo i profitti dei grandi industriali e degli imprenditori medi salivano alle stelle.
La Grande Guerra avrebbe portato all’industria italiana profitti del 200-400 %. La Fiat, che produceva automobili, carri armati, ambulanze e motori d’aereo avrebbe aumentato il capitale da 25 a 100 milioni di lire, la Edison, che produceva energia idroelettrica in sostituzione del carbone di difficile reperibilità avrebbe aumentato il capitale da 24 a 180 milioni; la Montecatini (prodotti chimici ed esplosivi) da 30 a 200 milioni, le officine Ansaldo, che costruirono diecimila cannoni in trenta fabbriche con settantamila operai accrebbero il capitale da 100 a 500 milioni di lire. Anche alle banche andò bene: tanto che lo stato fu costretto a pagare un inusitato interesse del 6% in luogo del solito 2-3%.
Per nulla turbati dalla contraddizione in termini di patriottismo, gli industriali continuavano ad esigere i massimi prezzi possibili per i loro prodotti mentre il governo, obbligato a condurre una guerra, non aveva alternativa e doveva accettarli, trasferendo i costi sulla popolazione. Per aumentare i profitti gli industriali giunsero perfino a vendere materiale bellico al nemico, tramite paesi neutrali (…).
Per pagare le spese di guerra il governo fece ricorso all’inflazione inondando il paese con il quadruplo della cartamoneta in circolazione prima (…) i prezzi balzarono a otto volte il loro livello prebellico. Tutto ciò, come sottolineava Matteotti, faceva ricadere sulle spalle dei poveri il 90% degli oneri di guerra >.
Nel frattempo la corruzione avanzava:
< (…) la dolce vita degli speculatori, le cui colossali fortune accumulate in fretta venivano in parte dissipate in un’allegra vita notturna. I soldati erano indignati per l’incredibile sistema di corruzione con il quale gli speculatori e gli “imboscati” ottenevano vantaggi e si proteggevano l’un l’altro . (…)
Durante l’ultimo anno di guerra perfino i politici avvertirono la tensione tra la popolazione >, quindi iniziarono a fare promesse ai soldati che sarebbero stati smobilitati a breve: riforme agrarie e sociali, ricambio ai vertici politici ed amministrativi, promesse che ben sapevano di non poter mantenere.
Alla fine della guerra la crisi si presentò nella sua pienezza: mentre lo stato di emergenza del periodo bellico aveva permesso di tenere sotto controllo i lavoratori per impedire loro di intaccare i privilegi delle classi industriali, in tempo di pace ciò non era più possibile. Quando sopraggiunse la crisi economica, causata dal fatto che le società industriali arricchitesi con la produzione di materiale bellico si trovavano ora senza mercato, inoltre gli industriali che si erano arricchiti nel corso del conflitto, < invece di fare rientrare i profitti che (…) avevano sottratto e portato all’estero, chiedevano sovvenzioni statali, il che significava altre tasse per i poveri. Tutto ciò nel bel mezzo di una crisi di disoccupazione dovuta non solo ai licenziamenti ma anche alle centinaia di migliaia di reduci che inondavano il mercato del lavoro.
Come aveva previsto Matteotti, la guerra non aveva fatto altro che impoverire la nazione: a parte i 500.000 morti, aveva ridotto il reddito medio e quello complessivo reale degli italiani. (…) i potenti tentarono di salvare la faccia scaricando le accuse sugli Alleati “che avevano derubato l’Italia dei frutti della vittoria” >.
Nel frattempo il Paese doveva anche fare i conti con tutti quei reduci che, dopo anni di guerra non si sentivano più in grado di tornare alla vita civile, vuoi perché convinti di avere conquistato uno status sociale superiore a quello che avevano prima e non volevano tornare indietro, vuoi perché la situazione economica era cambiata e spesso era materialmente impossibile per il reduce riavere il lavoro che faceva prima.
Fu in questa situazione di scontento, di tensione, di difficoltà materiale alla sopravvivenza, che molti decisero di scaricare il loro astio non contro chi li aveva messi in quella situazione (lo stato, gli industriali, gli interventisti che avevano voluto la guerra); ad esempio la teoria della “vittoria mutilata” servì a spingere molti reduci, avvelenati da anni di propaganda nazionalista e di culto della violenza e del sangue, a riunirsi in associazioni di rivendicazione nazionalista: tutti fattori che contribuirono all’avvento del fascismo.
Sono anche questi fatti che andrebbero ricordati nel 90° anniversario dalla fine del primo conflitto mondiale, al di là della retorica militarista e nazionalista.
ottobre 2008