Da: comitatoantifasc_pr @ alice.it

Oggetto: relazione di Bortoletto alla contromanifestazione sulle foibe

Data: 08 agosto 2009 11:43:40 GMT+02:00



Relazione  di  Carlo Bortoletto  alla  manifestazione antifascista sulle foibe di Parma 10/2/2009


A nome dell’A.N.V.R.G., Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini, che ho l’onore di presiedere, un cordiale e sentito saluto a tutti voi presenti a questo convegno.
Ringrazio il Comitato Antifascista per il gradito invito che ho accettato molto volentieri, anche perché quando si tratta di antifascismo mi trovo in casa mia.
Vi chiederete forse come mai sono diventato antifascista a quasi 9 anni di età? Vi dirò che, nel lontano 1929, quando mio padre era uno dei massimi dirigenti del Partito Socialista nel VCO- Verbano, Cusio, Ossola, certamente in seguito ad una delazione ci fu una perquisizione in casa nostra dove trovarono del materiale, giornali, riviste, tessere, locandine ed altro che requisirono. Mio padre, tornando dal lavoro, corse in caserma - allora c’erano le guardie regie - e cosa successe è facile immaginarlo.
Fu arrestato e portato alle carceri di Pallanza (Verbania).
Per interessamento di personalità locali venne rilasciato dopo una settimana in condizioni pietose. Era stato picchiato e torturato ma lui non aveva aperto bocca. Le sue condizioni peggiorarono giorno per giorno e il 25 aprile 1929 morì: aveva 39 anni.
Scusate questo sfogo personale ma la figura e la memoria di mio padre mi hanno accompagnato, ed ancora oggi mi accompagnano, nella mia vita.
Prima di entrare nel vivo della mia testimonianza vi invito ad osservare con me un momento di silenzio in ricordo di tutti gli antifascisti di allora e dei caduti e scomparsi in questo lungo periodo trascorso.
L’associazione che io rappresento per vostra conoscenza è stata fondata da Giuseppe Garibaldi nel 1871 come società di Mutuo Soccorso fra garibaldini, ed i suoi aderenti confluirono, nel 1898, nella Società Reduci dalle Patrie Battaglie, e in tale società rimasero iscritti sino al 1924, epoca in cui, per volere di Ezio Garibaldi, nipote dell’eroe, si addivenne alla costituzione della Federazione Italiana Volontari Garibaldini, trasformatasi nel 1936 in Legione Garibaldina.
Caduto il Fascismo, nel 1943 alcuni volenterosi presero l’iniziativa di ricostituire il vecchio sodalizio dando vita, il 15 luglio 1944, alla ANVRG che nel 1946 accolse nelle sue fila noi reduci della Divisione Italiana Partigiana Garibaldi, ritenuti degni di continuarne gli ideali.
Anche se il nome di Garibaldi fu suggerito dal Comando Jugoslavo ciò torna a suo onore e a nostro orgoglio perché rappresenta il riconoscimento di un simbolo che non era solo italiano ma europeo e mondiale, e vorrei ancora evidenziare che la Divisione Garibaldi rimase sempre unita all’esercito italiano alle dipendenze tattiche ed operative dell’Esercito Popolare Liberatore Jugoslavo.
Appena fu possibile, furono ripresi e mantenuti i collegamenti con il Comando Supremo Italiano del sud perché gli uomini, volontariamente, così decisero con le loro stellette, con i loro gradi e con i copricapi dell’arma di loro competenza.
Questa fu e resta una peculiarità che noi reduci vantiamo e che dovrebbe essere tenuta ufficialmente in maggiore considerazione. Teatro principale delle nostre gesta fu la regione denominata Montenegro, una regione estremamente affascinante per le sue bellezze naturali ma terra quanto mai inospitale perché impervia, con scarse vie di comunicazione, articolata in una serie di massicci alpini di media e grande altezza ma aridi, mancanti di vegetazione, di natura carsica, selvaggia e priva di risorse. Nell’entroterra, modeste ricchezze naturali soprattutto agricole, ricca di contrasti per l’alternanza di territori relativamente fertili con zone dove l’acqua non esisteva se non per le precipitazioni atmosferiche. La vicenda della Jugoslavia ci fa spesso discutere perché i pareri si dividono ed emergono disparità di valutazione anche per i problemi, se così si possono chiamare, che toccano da vicino noi combattenti che abbiamo trascorso anni in quelle terre maturando poi la scelta partigiana.
La stampa italiana ha scritto che era ovvio finisse in questo modo trattandosi di popoli costretti a vivere insieme da una unificazione imposta dall’esterno e mantenuta grazie a regimi illiberali. Questo forse può essere vero solo in minima parte, perché tra serbi e croati c’è un certo comune sentire testimoniato dall’unità della lingua, il serbo-croato, che si parla allo stesso modo pur scrivendosi con due alfabeti diversi, il latino per i croati ed il cirillico per i serbi, ed è proprio la costruzione di una lingua comune che dimostra come vi sia stato nei tempi un ricongiungimento reciproco ed uno sforzo di assimilazione; infatti Jugoslavia significa esattamente “Terra degli slavi del sud”, il che indica la presenza di più popoli.
Tra serbi e croati resta invece diversa la scelta religiosa: ortodossa per i primi, cattolica per i secondi, ma sempre all’interno della comune fede cristiana.
Ecco come dopo la morte di Tito è venuto meno l’unico elemento unitario dell’intero paese.
A qualcuno può aver dato fastidio la nostra alleanza di allora con i “comunisti” ma, considerando i fatti, la scelta fu giusta perché le forze partigiane erano le più affidabili e combattevano i nazifascisti, cosa che non facevano i cetnici e gli ustascia che erano le altre formazioni.
Gli ustascia, per chiarire, erano da sempre stati alleati dei tedeschi ed il loro capo era il famoso Ante Pavelich, fondatore dello stato indipendente di Croazia nel 1941.
A dimostrazione del fanatismo di quella gente voglio leggervi una invocazione blasfema pubblicata il 27 aprile 1941 dal giornale «Nedelia», diceva: «Dio che regge i destini della nazione governa i cuori dei re, ci ha dato Ante Pavelich ed ha spinto Adolfo Hitler capo di un popolo amico ed alleato ad impiegare le sue truppe per distruggere i nostri oppressori serbi e consentire di fondare uno stato indipendente di Croazia. Sia gloria a Dio! Vada la nostra gratitudine ad Adolfo Hitler e la nostra incondizionata lealtà ad Ante Pavelich nostro condottiero». No comment.
I cetnici, da Ceta, compagnia militare - cetnico significa guerrigliero, ribelle, un termine con radici lontane che si richiama alle lotte di liberazione sostenute dai serbi contro i turchi - un movimento facente capo a Mihailovich di ispirazione monarchica e filo inglese.
A sentire il governo jugoslavo in esilio il movimento cetnico sembrava dovesse rappresentare tutta la resistenza nel paese occupato.
La realtà era ben diversa perché i successi militari conseguiti dai partigiani jugoslavi misero subito in risalto l’opera del vero movimento di liberazione sostenuto dal consenso popolare e guidato da Tito. D’altra parte la conoscenza reale della situazione era così scarsa da far pensare che i due movimenti potessero gradualmente giungere ad una fusione, cosa che non avvenne mai.
Screditato agli occhi del popolo jugoslavo dalla sua politica sempre più equivoca, il movimento cominciò ad incontrare diffidenza anche presso gli alleati.
Verso la fine del 1941 l’Unione Sovietica chiese ufficialmente al governo britannico di cessare i rifornimenti, per cui i cetnici furono abbandonati al loro destino. Giurarono, e lo fecero, di lasciarsi crescere la barba - simbolo degli eroi - fino al ritorno della monarchia, che però non ritornò.
Di Mihailovich si sa che fu catturato nel marzo 1946, fu processato come criminale di guerra e fucilato il 17 luglio, aveva 53 anni.
Un altro fatto per il quale fummo spesso ignorati è quello della camicia rossa che fa parte della divisa garibaldina in dotazione ai soci effettivi della nostra associazione, che ovviamente non ha riferimenti politici, camicia rossa che portiamo nelle manifestazioni con fazzoletto bianco al collo, la fascia azzurra alla cintura ed il copricapo di appartenenza al corpo, nel mio caso il cappello alpino.
Si narra che Garibaldi, nel suo peregrinare, capitò un giorno in un paese dove c’erano alcune case abbandonate che perlustrò.
In una di quelle stanze trovò numerose pezze di tela di colore rosso abbandonate dai beccai, i macellai di allora. Requisì tutto il materiale e con quello fece confezionare delle camicie per i suoi garibaldini, da qui l’origine della camicia rossa.
E dopo queste doverose premesse entro nel merito del mio intervento pregandovi di seguirmi a ritroso nel tempo per meglio aprire la dinamica della nostra epopea garibaldina perché su questa sarà accentrata la mia testimonianza.
Eravamo stati inviati a presidiare come dicevano in seguito alle lotte sanguinose che si erano scatenate nel territorio fin dal 1941, e già allora nacque il movimento partigiano di Tito.
Molti si chiederanno il come ed il perché. Ecco la risposta.
Nel marzo 1941 a Vienna i dirigenti jugoslavi di allora sottoscrissero un patto tripartito legando così il destino del loro popolo a quello della Germania e dell’Italia. La notizia del grave passo fece esplodere l’indignazione popolare; operai, contadini, soldati ed intellettuali organizzarono pubbliche assemblee, comizi e manifestazioni di piazza con le quali si chiedeva l’uscita dal tripartito. Fu così che il 27 marzo 1941 un gruppo di ufficiali rovesciò il governo, sciolse il consiglio, cacciò il reggente Paolo e mise sul trono Pietro II° dichiarandolo maggiorenne a diciott’anni e chiese la neutralità della Jugoslavia.
Inferocito da quella che considerava insubordinazione, Hitler rinviò di 5 settimane l’aggressione alla Russia e senza dichiarazione di guerra invase la Jugoslavia ordinando a Mussolini, alla Bulgaria e alla Ungheria di fare altrettanto, partendo dalle rispettive frontiere. Attaccata da tutte le parti, selvaggiamente bombardata dall’aviazione tedesca, la Jugoslavia potè resistere soli pochi giorni. Il re ed il governo fuggirono all’estero. Il 18 aprile 1941 l’esercito capitolò e gli invasori cominciarono tranquillamente a spartirsi i territori. Fu creato uno stato indipendente croato capeggiato da Ante Pavelich. La parte meridionale della Slovenia, la Dalmazia ed altre regioni costiere vennero occupate dalle truppe italiane che cercarono di appacificare con la repressione le popolazioni della costa adriatica.
L’unica forza politica capace di assumere l’iniziativa fu il partito socialcomunista jugoslavo che subito emerse nominando Tito responsabile del Comitato Militare Nazionale, che immediatamente stipulò un accordo di collaborazione con l’ala democratica del partito dei contadini serbi formando il Fronte di Liberazione Popolare della Jugoslavia.
Il 7 luglio 1941 si ebbero in Serbia i primi scontri tra reparti tedeschi e forze partigiane.
Il Movimento Partigiano attrasse a sé un gran numero di donne che impugnarono con orgoglio quelle armi prima riservate solo agli uomini.
Armate di mitra e di moschetto, addette alle infermerie o ai quadrupedi diedero innumerevoli prove di tenacia, di maturità e di valore talvolta superando gli uomini.
La lotta armata contro le truppe di occupazione ed i collaborazionisti si coniugò alla lotta politica contro forze conservatrici e monarchiche che continuavano a svolgere nel paese un ruolo negativo mantenendosi su posizioni di attendismo ed ostacolando lo sviluppo dell’azione anche quando tutte le energie popolari erano impegnate. 
Nostro territorio di operazione, come già dissi, fu principalmente il Montenegro e la storia incomincia nel 1942, quando laggiù fui dislocato con il Battaglione Intra del IV° Reggimento Alpini Divisione Taurinense.
Ci eravamo insediati in quell’ambiente tentando di capire la mentalità, gli umori, gli usi ed i costumi di quel popolo.
Nei nostri confronti la gente dimostrava rispetto e tolleranza in quanto capiva che eravamo militari e come tali subordinati agli ordini superiori.
Ci chiamavano i soldati della Regina Elena.
Purtroppo non tutti la pensavano allo stesso modo e gli scontri si verificavano fino ad assumere, talvolta caratteri di violenza con episodi indescrivibili da una parte e dall’altra, soprattutto vendette affettive, personali, che inasprivano sempre più gli animi oltre il limite della possibilità.
Morti, feriti, prigionieri, fucilazioni in un marasma di ordini e contrordini, di decisioni e ritrattazioni, con continui spostamenti e rastrellamenti che fiaccavano gli uomini fisicamente e moralmente.
Bisognerebbe condurre uno studio meticoloso e completo per capire il senso delle lotte interne, politiche, religiose e sociali (come sta avvenendo ancora oggi) che avevano luogo già a quel tempo.
Non esisteva un vero fronte e conseguentemente dovevamo correre a destra e a sinistra per sedare scontri che spesse volte nulla avevano di umano per la ferocia con la quale erano condotti.
I partigiani attaccavano le nostre autocolonne per rifornirsi di armi e di cibo, attaccavano addirittura nostri presidi ed i combattimenti si facevano sempre più frequenti con morti e feriti che aumentavano di giorno in giorno.
La tirannia del tempo e la dinamica stessa di quanto vorrei raccontare mi impediscono una dettagliata illustrazione, comunque ho dovuto fare queste premesse perché possiate seguirmi in quelli che saranno gli avvenimenti di poi. Tralascio anche fatti e prodezze per non far torto a vivi e morti pur considerandone l’importanza.
In parecchie occasioni era apparso evidente, come avevamo potuto constatare nelle truppe, specie alpine, che una componente del sentimento era chiaramente l’antifascismo, e la dimostrazione inequivocabile apparve quando via radio giunse la notizia del colpo di stato con la caduta del governo fascista di Mussolini.
Le dimostrazioni che ne seguirono furono le più realistiche a testimoniare che non esistevano rimpianti!
Nessuno certamente pensava al secondo evento che ci attendeva pur se le considerazioni erano indirizzate al futuro.
Le domande erano queste: “Come reagiranno i nostri alleati? Che posizioni avrebbero assunto? Saremmo rientrati in Italia? Avremmo concordato nuove alleanze?” La risposta a queste domande arrivò la sera del 8 settembre quando fummo informati che l’Italia aveva chiesto l’armistizio.
La prima reazione fu il caso.
Spari a destra e a sinistra, assembramenti ed indisciplinate reazioni, sbandamenti e incoerenti manifestazioni che per fortuna durarono poco.
E quando si riuscì a riprendere in mano la situazione e a calmare i bollenti spiriti riunimmo gli uomini per dir loro con chiarezza che il momento era quanto mai critico, e che sarebbe stato necessario tenere gli occhi ben aperti, in attesa di disposizioni atte a maggiormente chiarire la situazione. All’alba del giorno dopo, 9 settembre, sulla città di Niksic, dove eravamo accampati, sede del comando della nostra Divisione Taurinense agli ordini del Gen. Lorenzo Vivalda, aerei tedeschi effettuarono un lancio di manifestini indirizzati al popolo montenegrino con i quali evidenziavano il tradimento del Governo Badoglio e la stima per la popolazione invitandola ad unirsi alle forze germaniche per combattere il bolscevismo ed i venduti capitalisti d’America e Inghilterra.
Il finale diceva testualmente: «Viva il Montenegro libero, a morte i traditori italiani».
La risposta della popolazione fu quale si prevedeva. Vennero accentuate le manifestazioni di cordialità e simpatia nei nostri confronti specie quando si seppe, alle ore 8,15 del mattino, che la sesta batteria dell’Artiglieria Alpina del Gruppo Aosta aveva aperto il fuoco con i suoi 5 cannoni su una colona motorizzata tedesca, indirizzata verso Niksic, costringendola a fermarsi e a trattare, tutto questo senza attendere ordine alcuno.
E questo atto mi pare suoni a conferma di quanto ho voluto anticipare in merito allo spirito delle truppe alpine.
Tentennarono i comandi superiori e divamparono le polemiche sui differenti punti di vista e sulle diverse valutazioni della situazione, ma va ricordato che subito emerse in conseguenza lo stato d’animo e la fermezza dei soldati che furono unanimi nella volontà di non cedere le armi ad alcuno.
Continuando nella mia testimonianza voglio ricordare l’illusoria speranza di un pronto intervento delle forze alleate nei Balcani che tenne  impaniate le decisioni, per cui le truppe tedesche ebbero la possibilità di occupare i punti chiave dell’unica breve via per rientrare, la via del mare.
E sarebbe il caso di parlare anche del sig. Vittorio Emanuele III°, nonchè di un certo maresciallo Badoglio, ma già l’ho fatto al famoso Convegno di Palazzo Ottolenghi in Asti e non voglio ripetermi.
Furono fatti dei tentativi per raggiungere la zona di Cattaro ma non fu possibile per l’intervento dell’aviazione tedesca e l’arrivo di rinforzi con artiglieria e mortai.
Nella notte tra il 18/19 settembre ripiegammo verso l’interno, rinunciando alla via del mare e constatammo che a noi si erano aggregati: bersaglieri, carabinieri, marinai, autieri, genieri, e finanzieri di stanza nella zona di Niksic, volontariamente decisi a seguirci in quella che sarebbe stata la lotta partigiana.
Nel frattempo un’altra unità, la Divisione Fanteria Venezia, al comando del Gen. Gianbattista Oxilia, stava dibattendo l’intricata matassa nella zona di Berane, a contatto con i Cetnici nazionalisti, che chiedevano collaborazione nel tentativo di schiacciare il movimento partigiano di Tito, e questa tergiversazione assicurò, in quel frangente, l’integrità e la compattezza dei reparti indipendenti.
Nei giorni seguenti scoccò la scintilla di una possibile intesa con le forze partigiane che si concluse con un accordo, franco chiaro e leale, nel giro di poco tempo.
Il 2 dicembre 1943 con la fusione delle due Divisioni Taurinense e Venezia, si costituì la Divisione Italiana Partigiana Garibaldi, forte di circa 20000 uomini, alle dipendenze operative dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo ed al comando del gen. Gb. Oxilia.
Il rapporto fra quadri e militari come ho già accennato, ma voglio ribadire perché su questo argomento furono fatte e scritte affermazioni errate, rimase del tutto inalterato e la disciplina non ebbe mutamenti di sorta.
Ambientarsi nella nuova tattica e nella diversa strategia della guerriglia non fu cosa facile.
Eravamo cresciuti alla scuola militare nostra che considerava la ritirata un disonore ed invece dovemmo imparare a nostre spese un nuovo sistema di combattere fatto di attacchi improvvisi e veloci, operazioni di sganciamento che richiedevano: prontezza di riflessi, temperamento, sangue freddo e gambe buone.
Col tempo stabilimmo con i compagni jugoslavi dei vincoli quasi fraterni consacrati dal sangue versato in comune combattendo una lotta aspra e durissima. Affrontammo il tremendo inverno senza soste, laceri, scalzi, privi di indumenti adeguati, di conforto morale e materiale, in lotta continua non solo con il nemico ma anche con le insidie della natura ed il pericolo delle epidemie, sfidando la potenza bellica nazi-fascista. E voglio sottolineare questo stato di cose riportando un brano che ho stralciato da un libro di Stefano Gestro, uff. garibaldino della Div. Venezia, intitolato «L’armata stracciona».
Scrive l’autore: «Ad un certo punto un alpino si rivolge al suo comandante raccomandandosi in modo particolare perché gli fosse trovato un paio di scarpe sapendo degli avvenuti aereolanci. Aveva i piedi avvolti in una pelle di pecora e, per dimostrare quanto la cosa fosse per lui necessaria ed indispensabile, premette un piede sul suolo innevato; tutta la neve attorno si colorò di rosso del sangue che usciva dal piede piagato». Penso sia inopportuno fare dei commenti.
Un’altra circostanza penso meriti di essere segnalata: dopo furiosi combattimenti avvenuti in una zona, reparti nostri ritornati sul posto potevano constatare, nella pietosa incombenza di riesumare delle salme, che più di 50 morti risultavano colpiti alla nuca, mai noi mai, e dico mai, nel periodo della guerra partigiana passammo per le armi feriti tedeschi.
Il nuovo organico della Divisione formatosi in Brigate creò file di uomini esuberanti, che furono assegnati ai battaglioni lavoratori, alle dipendenze di un comando retrovie la cui denominazione non era certo pertinente data la natura e la caratteristica della guerra partigiana che non conosceva retrovie.
Verso la fine del gennaio 1944, la I^ e III^ Brigata nostra furono destinate a compiere una speciale missione in Bosnia. La III^ Brigata comandata dal Maggiore degli Alpini, Spirito Reineri, per i continui attacchi di tedeschi, Cetnici ed Ustascia, e falcidiata dal tifo esantematico, perdette 600 uomini e si sacrificò poi interamente in un ultimo combattimento. Di essa rimasero soltanto 60 superstiti che poterono unirsi ad un reparto jugoslavo.
Anche la II^ Brigata affrontò dure vicissitudini ma potè reputarsi più fortunata in quanto 240 dei suoi combattenti su 600 rientrarono alla base.
Col tempo affrontammo anche problemi di carattere politico con l’inserimento di commissari a fianco di comandanti di reparto, i corsi antifascisti e le scuole di educazione politica, alle quali parteciparono nostri graduati e sottufficiali scelti nelle varie brigate.
Resistemmo 18 lunghi mesi ad ogni sorta di fatica e sacrifici pagando un pesante scotto di morti, feriti, dispersi e prigionieri.
Di 20000 uomini, 400 circa furono i morti accertati, più di 7000 i dispersi, 2500 i rimpatriati per ferite e malattie, moltissimi, circa 4500, i rientrati dai campi di concentramento, ed in 3800 tornammo in patria via mare nel marzo del 1945.
Chi non ha vissuto quegli avvenimenti non potrà mai rendersi conto di ciò che è avvenuto, in quanto tutto può sembrare inverosimile ed al di sopra di ogni umana possibilità, purtroppo si tratta invece di una cruda, eroica e sovrumana realtà volontariamente scelta ed intensamente sofferta.
So di essermi dilungato; mi sono lasciato trasportare dall’onda dei ricordi e vi chiedo scusa ma ho dovuto farlo perché le gloriose gesta della Div. Ital. Part. Garibaldi devono essere conosciute, divulgate ed inserite nella storia, la storia che hanno scritto col sangue i nostri 9000 caduti.
Una parte, una buona parte delle nuove generazioni non riesce a rendersi pienamente conto dei valori ideali della Resistenza perché ignora il passato dittatoriale fascista ed il prezzo pagato dalle generazioni di allora e dalle nostre per la conquista della libertà. Per questo è più che mai necessario insistere per rendere operante e fattivo l’obbligo di insegnare, in tutte le scuole, di ogni ordine e grado, la storia del Secondo Risorgimento.
Di fronte alla realtà di un’Europa unita è tempo di dare uno sbocco concreto e pratico ad un futuro sul quale è doveroso concentrare tutta la forza e l’influenza necessaria per la continuazione dei nostri ideali.
Comunque per concludere è a voi giovani che mi rivolgo per dirvi che furono gli uomini della Resistenza con le stellette o senza, all’estero o in patria a presentare al mondo l’Italia che risorgeva dalle macerie del fascismo. Non dimenticatelo mai e non dimenticate che i valori della Resistenza, specie con i tempi che corrono, possono ancora far ritrovare una unità d’azione, al servizio della collettività. Questo lo scopo per cui noi vogliamo sopravvivere. E con questa speranza mi congedo ringraziandovi per avermi ascoltato.

                                                                                                               Carlo Bortoletto