Unione Europea: integrazione o annessione?

di Andrea Catone

su Marxismo Oggi del 09/11/2009

La crisi svela il rapporto di dominio/dipendenza A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino le potenze capitalistiche occidentali sono riuscite ad annettersi vasti territori con una popolazione di 100 milioni di persone, integrate nelle sue istituzioni e nel mercato della UE. . Siamo di fronte non all’unificazione di paesi con pari dignità, ma ad un’espansione del nucleo forte della UE verso Est, una conquista e un’annessione compiuta con le armi del moderno imperialismo. Come la DDR nel 1990 non fu “unificata” con la Germania di Bonn, ma annessa ad essa in un rapporto dipendente e subordinato, per cui non vi fu alcuna nuova Costituzione alla base di un nuovo Stato, ma si mantenne la Legge fondamentale della RFT.

Nel marzo di quest’anno Olli Rehn, commissario europeo per l'allargamento, nella prefazione ad un opuscolo propagandistico redatto a cura della Direzione generale dell’allargamento, annunciava trionfalisticamente: 

“L'anno 2009 segna un doppio anniversario storico. In autunno, saranno già venti anni dalla caduta del muro di Berlino. Nel mese di maggio celebreremo il quinto anniversario dell'allargamento dell'Unione europea, che ha permesso di riunificare l'Europa dell'Est e l’Europa dell’Ovest. Per cinque anni, l'allargamento della UE ha dato benefici sia ai cittadini dei vecchi Stati membri che a quelli dei nuovi. Sul piano economico, l'allargamento ha offerto nuove opportunità per l'esportazione e gli investimenti, creando nuovi posti di lavoro per i cittadini dei vecchi Stati membri, migliorando al contempo le condizioni di vita nei nuovi Stati membri”[1][1].

L’opuscolo procede a suon di cifre esaltanti:

“Gli scambi commerciali tra i vecchi e i nuovi membri sono quasi triplicati in meno di 10 anni (da 175 miliardi di euro nel 1999 a circa 500 miliardi di euro nel 2007). L’aumento di cinque volte del commercio tra i nuovi Stati membri è ancora più eloquente (è passato da 15 a 77 miliardi di euro nello stesso periodo). È un fattore chiave che ha contribuito ad una forte crescita annuale dell'occupazione dell’1,5% nei nuovi Stati membri nel corso del periodo compreso tra la loro adesione nel 2004 e lo scoppio della crisi finanziaria.[…] L'integrazione in un mercato di più 100 milioni di consumatori con un crescente potere d'acquisto ha aumentato la domanda di beni di consumo prodotti nelle imprese dei vecchi Stati membri, contribuendo a mantenere e creare posti di lavoro a livello locale. Come ogni macchina venduta in Polonia da una società tedesca fornisce un beneficio per i cittadini tedeschi, ogni transazione effettuata da una banca olandese nei nuovi Stati membri apporta benefici per l'economia olandese nel suo insieme”[2][2].

A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino le potenze capitalistiche occidentali sono riuscite ad annettersi vasti territori con una popolazione di 100 milioni di persone, integrate nelle sue istituzioni e nel mercato della UE. E si prospetta a breve l’inclusione di altri paesi, in primis i “Balcani occidentali” (e cioè i piccoli stati prodotti dallo smembramento della martoriata Jugoslavia, e l’Albania[3][3]), oltre alla Turchia. Dunque, un bilancio entusiastico del “grande allargamento” della UE, che apre la strada ad ulteriori adesioni di paesi che bussano insistentemente alle sue porte quasi fossero quelle del paradiso.

Il vantaggio, secondo l’opuscolo propagandistico, sarebbe reciproco, tanto per i vecchi membri che per i nuovi arrivati. Tuttavia, altre fonti ufficiali, della Banca centrale europea, del FMI, della Banca d’Italia, di fronte alla grande crisi capitalistica suonano una musica piuttosto diversa. Le “magnifiche sorti e progressive” dell’allargamento cedono il posto ad un paesaggio pesantemente in crisi, anche dopo i risultati meno negativi del secondo trimestre 2009:

“I principali Stati membri della UE che si trovano nell’Europa centrale e orientale, fatta eccezione per la Polonia, hanno registrato una contrazione significativa del PIL in termini reali nel primo trimestre. Il calo sul periodo precedente è stato pari al 2,5 per cento in Ungheria, 3,4 per cento nella Repubblica Ceca e 4,6 per cento in Romania. […] All’interno della UE, i paesi baltici hanno registrato la flessione maggiore dell’attività negli ultimi trimestri. Tali economie avevano accumulato, negli ultimi anni, ampi squilibri interni ed esterni. […] Negli ultimi trimestri, un netto aumento della disoccupazione a circa il 15 per cento ha contribuito a far scendere i consumi. […] In Bulgaria – che era stata finora meno colpita dalla crisi rispetto alle altre economie più piccole dell’Europa centrale e orientale – alcuni indicatori congiunturali (ad esempio delle vendite al dettaglio o del clima di fiducia delle imprese industriali) hanno continuato a deteriorarsi negli ultimi mesi”[4][4].

La crisi colpisce più pesantemente, anche se in modo differenziato da paese a paese, le economie dei cosiddetti “paesi emergenti europei”, rivelando altresì la fragilità dei relativamente alti tassi di crescita degli anni precedenti, che si convertono oggi in tassi negativi, con forte aumento della disoccupazione e il rischio di bancarotta.

Una delle cause – se non la principale – che si può rinvenire a chiare lettere nei freddi rapporti dei grandi centri della finanza internazionale, è nella dipendenza del sistema bancario e industriale dei nuovi membri della UE (e di quelli in procinto di diventare tali) dai grandi gruppi capitalistici dell’Occidente. “La maggior parte dei paesi emergenti europei sono altamente dipendenti dalle banche occidentali europee, che possiedono la maggior parte dei sistemi bancari in questi paesi” - scrive il rapporto del FMI di aprile 2009, paventando la possibilità di un effetto boomerang sulle grandi banche europee occidentali, fortemente esposte al rischio di insolvenza dei “paesi emergenti” debitori: “le case madri sono in gran parte concentrate in pochi paesi (Austria, Belgio, Germania, Italia e Svezia), e in alcuni casi, i crediti delle banche dell'Europa occidentale verso i paesi emergenti europei sono di grandi dimensioni rispetto al PIL del paese di origine (Austria, Belgio e Svezia)”[5][5]. Le banche creditrici hanno chiuso il rubinetto del credito, lasciando in panne i nuovi arrivati, con pesanti conseguenze su tutta la loro attività economica:

“I paesi emergenti europei sono stati colpiti molto duramente dalla diminuzione dei flussi internazionali lordi di capitale e dalla fuga di essi davanti al rischio. Molti di loro erano fortemente dipendenti dagli afflussi di capitali delle banche occidentali per sostenere l'espansione del credito locale. Gli impegni internazionali intraeuropei delle banche erano notevoli e, nei paesi emergenti d’Europa, molte banche erano tenute da imprese straniere in difficoltà. La situazione si è fortemente deteriorata nell’autunno 2008: c'è stato un aumento generalizzato dei margini sui titoli sovrani e le monete si sono rapidamente svalutate nei paesi con regimi di tasso di cambio flessibile. Il riflusso della domanda di importazione nei paesi avanzati, combinato con il crollo dei prezzi degli immobili, la penuria di credito e il deprezzamento delle valute in un contesto di marcata asimmetria dei bilanci, ha portato a pesantissimi aggiustamenti, addirittura, in alcuni paesi, a vere e proprie crisi. Di fronte al crollo delle esportazioni e della produzione e alla diminuzione delle entrate statali, molti paesi hanno ricevuto un aiuto dal FMI e da altre istituzioni finanziarie internazionali per finanziare la loro bilancia dei pagamenti”[6][6].

Il bollettino di ottobre 2009 della Banca d’Italia riassume così:

“La recessione sta proseguendo nella maggior parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale, che hanno risentito pesantemente della crisi a causa degli ampi disavanzi delle partite correnti e della loro dipendenza dai finanziamenti dall’estero. Il calo del PIL nel 2009 sarà particolarmente marcato nei paesi baltici, in Romania e in Bulgaria (con tassi di variazione compresi tra il -7 e il -19 per cento)”[7][7].

Non sono dei marxisti, ma i centri delle più importanti istituzioni finanziarie, quelle che disegnano i destini del mondo e di miliardi di esseri umani, a dichiarare a chiare lettere che nella sfera delle relazioni economiche della UE non vi è un rapporto paritario tra i suoi membri, ma di dipendenza dalle banche “occidentali”[8][8] dei nuovi arrivati dell’Europa centro-orientale, che facevano parte fino al 1989 del COMECON. Siamo di fronte, allora, non all’unificazione di paesi con pari dignità, ma ad un’espansione del nucleo forte della UE verso Est, una conquista e un’annessione compiuta con le armi del moderno imperialismo. Come la DDR nel 1990 non fu “unificata” con la Germania di Bonn, ma annessa ad essa in un rapporto dipendente e subordinato (per cui non vi fu alcuna nuova Costituzione alla base di un nuovo Stato, ma si mantenne la Legge fondamentale della RFT), così i paesi che nel 2004 e nel 2007 sono entrati a far parte della UE, e quelli dei “Balcani occidentali” di cui si prospetta l’ingresso tra qualche anno, si configurano alla stregua di una “colonia interna”: un mercato finalmente del tutto aperto agli investimenti di capitali, in primis del capitale bancario – che oggi controlla praticamente la vita economica di questi paesi – e del capitale industriale, per impiantare (in diversi casi delocalizzando dall’Occidente) produzioni a medio-basso contenuto tecnologico[9][9], impiegando una forza-lavoro acquistabile sotto costo e usufruendo di condizioni fiscali molto favorevoli; nonché un mercato di sbocco per le merci “occidentali”.

Il peso economico dei 27 paesi aderenti alla UE (di cui 16 adottano la moneta unica) presenta grandi differenze. Il paese più forte per PIL e popolazione è la Germania, con un PIL nel 2007 di 2.422,9 miliardi di euro, il 26,9% del PIL complessivo della UE (12.353 miliardi di €). Francia (21%), Italia (17,2%), Spagna (11,7%) costituiscono le economie più rilevanti dell’eurozona, mentre il Regno Unito (16,6%) è di gran lunga la principale economia della UE fuori area euro[10][10].

I nuovi arrivati tra il 2004 e il 2007 erano, salvo Malta e Cipro, economie di tipo socialista fino al 1989, che la grande borghesia “europeista”, con la sua politica di “allargamento”, ha avuto la capacità di trasformare, nel tempo storicamente piuttosto breve di un decennio, in “economie di mercato”, compatibili e integrabili nel capitalismo occidentale. Si è trattato però di un’integrazione subordinata e dipendente dal grande capitale finanziario europeo. Il peso complessivo dei nuovi arrivati dell’Europa centro-orientale è piuttosto ridotto: pur contando essi su una popolazione che supera il 20% di quella di tutti i paesi UE (102,2 milioni su 496 milioni), la percentuale del PIL dei 10 paesi ex socialisti sul totale del PIL della UE non supera il 7% e solo Polonia (col 2,5%), Repubblica ceca e Romania (entrambi con l’1%) superano l’1%.

Ma non si tratta solo di essere parenti poveri. Il disegno di integrazione subalterna dell’area dell’Europa centro-orientale – integrazione che prevede anche la sottomissione completa dei Balcani (e per questo nel 1999 si muove guerra alla Serbia che ha avuto il torto di opporsi) e la prospettiva di annettersi anche il ghiotto boccone dell’Ucraina (magari attraverso “rivoluzioni colorate”) – viene da lontano. Pianificato nei centri studi di Nomisma e dell’Unione Banche Svizzere, era stato esplicitato a chiare lettere alla fine degli anni 80, già prima della “caduta del muro di Berlino”. De Benedetti e Giscard d’Estaing parlavano di “piano Marshall” finanziato dalla Comunità europea per i paesi dell’Est per trovare nuovi mercati pieni di potenzialità per i “nostri capitalisti”, mercati senza i quali il sistema industriale capitalista non avrebbe potuto crescere[11][11]. “È nel nostro interesse egoistico che ci sia un’evoluzione sociale, culturale, politica, economica della parte orientale del continente. Servirà al nostro stesso sviluppo”, dichiarava nell’ottobre 1989 l’allora ministro De Michelis[12][12].

È la Germania di Kohl il principale beneficiario e artefice dell’espansione ad Est. Essa impone l’incorporazione della DDR (con cui ancora il 22 dicembre 1989 la CEE cominciava un negoziato per un accordo commerciale!), che entra così automaticamente a far parte della CEE e della NATO. L’OSCE, organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa, alla conferenza di Parigi del 21 novembre 1990 proclama la fine della divisione dell’Europa. La carta di Parigi crea un “ufficio delle istituzioni democratiche” che supervisiona la messa in opera degli impegni presi dai nuovi regimi “pluralisti”. Il 22 giugno 1993 i capi di stato e di governo riuniti a Copenhagen decidono l’allargamento della UE agli stati dell’Europa centrale e orientale, fissando le condizioni generali delle future adesioni: istituzioni stabili, che garantiscano la “democrazia”, lo “stato di diritto”, “diritti dell’uomo” e rispetto delle minoranze nazionali; “economia di mercato” capace di affrontare la concorrenza in seno all’Unione; ripresa e applicazione dell’acquis comunitario e adesione agli obiettivi dell’unione politica ed economica. Il “patto di stabilità” in Europa, proposto dalla Francia e assunto dalla conferenza di Parigi del 26-27 maggio 1994, ha l’esplicito obiettivo di favorire l’adesione degli stati d’Europa centrale e orientale disposti a regolare i loro contenziosi bilaterali relativi a frontiere e minoranze[13][13].

Tra il 1991 e 1999, con una terapia lacrime e sangue, si fanno le privatizzazioni: in media la quota che il settore privato apporta al PIL è pari a quella degli altri paesi della UE, in Ungheria raggiunge addirittura il 90% Le ristrutturazioni nelle campagne riducono la popolazione agricola a meno del 10% della popolazione attiva. Il commercio estero viene completamente riorientato dopo la scomparsa della precedente divisione del lavoro nel campo socialista[14][14]. Il primo decennio di transizione dal sistema di economie di tipo socialista, basate su un settore prevalente e determinante di proprietà di stato e sulla pianificazione, ad economie di mercato fondate sulla proprietà privata e la deregolamentazione neoliberista, è contrassegnato dagli effetti pesantissimi delle “terapie shock” che, pur tra differenze e peculiarità dei singoli paesi dell’ex COMECON, sono adottate, seguendo le ricette di FMI &C. In modo più o meno violento, gran parte della popolazione è privata del sistema di garanzie sociali di cui godeva e costretta a trottare al comando dei nuovi signori dell’Ovest, che si impadroniscono delle industrie migliori o smantellano quelle locali, pur valide, per imporre voracemente le proprie merci sui nuovi mercati aperti grazie alle “rivoluzioni” del 1989 (nella zona est di Berlino già nel 1991 non si trova più la birra delle industrie dell’est, a Bucarest gli ottimi succhi di frutta locali sono ben presto rimpiazzati da Parmalat).

Nel 1999, nel decimo anniversario della “caduta del Muro”, tutti gli indici dei paesi dell’est segnalavano che a 10 anni di distanza dal rovesciamento del socialismo le condizioni economiche della popolazione e dei paesi erano peggiori che nel 1989. Non c’era un solo indicatore fondamentale, in nessuno dei paesi che avevano avviato la “transizione dal socialismo al capitalismo”, che mostrasse un segno più rispetto alla situazione pre 1989, salvo il tasso di disoccupazione. “Ogni paese senza eccezione […] ha accompagnato la propria trasformazione con una profonda e in molti casi prolungata recessione (Kornai parla appunto di transformational recession), del 20% del PIL in Polonia, il paese meno colpito, del 40% nella media dell’ex Unione Sovietica, con punte del 65%, ad esempio in Georgia e Armenia […] non solo la recessione c’è stata veramente, ma è stata peggiore di quella mondiale del 1929”, scriveva Nuti, paragonando il passaggio all’“economia di mercato” alla “peste nera di cinque secoli fa, con la differenza che “la peste riduceva non solo la produzione ma anche la popolazione, e pertanto non riduceva il reddito e il consumo pro capite come è successo nella transizione” [15][15].

Perché si potesse attuare questa “terapia shock”, che avrebbe potuto prevedibilmente innescare forti tensioni sociali e crisi politiche nei nuovi gruppi di potere, occorreva uno stretto controllo politico e militare su questi paesi. L’integrazione di queste economie nella UE è preceduta dall’integrazione politico-militare di esse nella NATO, che deve avvenire con le buone o con le cattive. Chi resiste troppo è bombardato (aggressione e distruzione militare della RFJ nella primavera 1999). Si stabilisce così un condominio concorrenziale sui paesi ex socialisti tra gli USA, che hanno una prevaricante forza militare, e i paesi del nucleo forte europeo, in primis la Germania, in asse (non paritario) con la Francia e in concorrenza col Regno Unito, stretto alleato degli USA e per molti aspetti sua “quinta colonna” nella UE.

La conquista e assimilazione dei paesi ex socialisti dell’Europa centro-orientale e balcanica è un classico modello di politica imperialista e di “divisione del lavoro” tra potenze imperialiste: penetrazione economica e penetrazione militare si combinano in un’azione congiunta, e al contempo concorrenziale, tra le aree valutarie del dollaro e dell’euro. All’indomani della caduta del muro di Berlino, il presidente americano George Bush, nel suo intervento al summit Nato di Bruxelles il 4 dicembre 1989, afferma a chiare lettere che gli USA sarebbero rimasti una potenza europea. La strategia dell’allargamento ad Est della NATO si delinea al vertice di Londra del luglio ’90, quando viene accolta nella NATO la nuova Germania unificata e si consolida nei vertici di Roma (novembre 1991) e di Oslo (giugno 1992), quando la NATO si mette a disposizione per eventuali azioni di “pacificazione” richieste dal consiglio di sicurezza dell’ONU o dalla CSCE, fino al vertice di Bruxelles (gennaio 1994), in cui si sancisce la politica di allargamento a tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale, compresi i pezzi della Jugoslavia in via di smembramento, martoriato laboratorio insanguinato in cui si attizzano odi etnici, si armano forze separatiste, in modo da creare il casus belli che giustifichi la “mediazione” e l’intervento militare americano, dalle krajne serbe in Croazia, alla Bosnia – primo banco di prova degli interventi NATO fuori area -, alla Macedonia, all’Albania, al Kosovo[16][16].

Il processo di integrazione subordinata delle economie ex socialiste in transizione nella UE viene straordinariamente accelerato proprio a partire dalla guerra contro la Serbia del 1999, a mano a mano che gli USA, imponendo la loro supremazia militare, mostravano di poter essere gli unici a volere e poter intervenire militarmente in Europa.Tra il 1999 e il 2004 – anno del più grande allargamento della storia della Comunità europea – si gioca la grande partita tra imperialismi franco-tedesco-europeo e statunitense. La politica USA è particolarmente aggressiva in questa fase e punta, con accordi militari separati con i paesi dell’est candidati all’ingresso nella UE, a creare una “nuova Europa” filoamericana, contrapposta alla “vecchia Europa” franco-tedesca. Lo scontro nel condominio imperialista europeo diviene evidente, con un vero e proprio tentativo di spaccare l’Europa, tra il 2002 e il 2003, quando USA e Inghilterra aggrediscono l’Iraq, ma senza il consenso dei paesi europei del nocciolo duro franco-tedesco, che riesce, grazie alla tenace azione del ministro degli esteri francese de Villepin, anche ad evitare un pronunciamento favorevole del Consiglio di sicurezza dell’ONU, isolando gli USA.

Tra l’aggressione della NATO alla RFJ nel 1999 e quella anglo-americana all’Iraq nel 2003 si giocano anche i rapporti di forza all’interno dello scacchiere europeo. All’interventismo militare degli USA, il nucleo forte della UE risponde rilanciando l’integrazione accelerata dell’est, sfidando anche il rischio di ritrovarsi in casa delle “quinte colonne”. A tappe forzate, per realizzare la più grande operazione di conquista “consensuale” di territori e popolazioni dopo la seconda guerra mondiale, si impone ai parlamenti dei paesi candidati di trasporre nelle legislazioni nazionali, prima dell’adesione, ben 470 regolamenti comunitari, adottando oltre 100 leggi all’anno (su libera circolazione dei beni, mercati pubblici, assicurazioni, proprietà intellettuale, creando o riformando le strutture amministrative chiamate ad applicare le misure comunitarie, in particolare quelle giudiziarie). Il 13 dicembre 2003 a Copenhagen il Consiglio europeo dichiara chiusi i negoziati con i 10 paesi candidati, che entreranno il 1.5. 2004 nella UE (Bulgaria e Romania nel 2007)[17][17].

Tra i paesi ex socialisti entrati nell’Unione l’Ungheria mostra di aver subito i maggiori contraccolpi non solo della crisi finanziaria in corso, ma del modello di transizione ad un capitalismo dipendente. Essa negli anni ’90 ha rincorso più degli altri la politica di privatizzazioni e di conformazione delle proprie istituzioni giuridiche ed economiche a quelle richieste da un’organizzazione capitalistica della società ((diritto di proprietà, assicurazione degli investimenti, diritto fallimentare, diritto della concorrenza) in base agli standard europei. Ha visto perciò un afflusso massiccio di investimenti. «Fino alla metà degli anni 1990, grazie a questa politica di "profilo istituzionale", questo paese - popolato solo da 10 milioni di persone - assorbiva la metà degli investimenti diretti esteri (da UE e USA) per un’area economica che contava tuttavia quasi 100 milioni di abitanti. Prosperità artificiale e temporanea che ora si esaurisce: se Budapest continua a ospitare le sedi regionali di grandi imprese internazionali, la stragrande maggioranza del paese attraversa una crisi profonda. Gran parte dell'economia nazionale è nelle mani di stranieri che desiderano ora raccogliere i frutti dei loro investimenti originari»[18][18]. Il 70% degli istituti ungheresi è di proprietà di grandi gruppi europei[19][19], tra cui Unicredit, KBC e Intesa Sanpaolo.

La tempesta finanziaria che scuote il mondo nel settembre 2008 trova un’Ungheria dove è già pesantemente in crisi il modello di capitalismo dipendente. La grande crisi sembra assestarle il colpo di grazia: a ottobre 2008 è a rischio di bancarotta e devono correre in suo soccorso ai primi di novembre la BCE (per la prima volta con un intervento in un paese fuori dell’eurozona, con un prestito di 6,5 miliardi di euro),il FMI (€ 12,5 mld.) e la Banca mondiale (€ 1 mld.). Ma il problema rimane, come denuncia Gergely Romsics, ricercatore presso l’Istituto ungherese per gli Affari Internazionali, “l’eccessiva dipendenza dell’Ungheria dagli investimenti e dal capitale straniero nella rincorsa al modello di sviluppo occidentale”[20][20]. Ma se quello dell’Ungheria e dei paesi baltici, infeudati al capitale scandinavo, può essere un caso limite, la questione generale che la crisi svela chiaramente è, come scrivono a chiare lettere anche i reportage giornalistici che : “i sistemi economici dei paesi dell'Europa dell'est presentano una dipendenza eccessiva rispetto agli investimenti privati stranieri che ora, a causa della crisi finanziaria, stanno progressivamente svanendo”. E svaniscono anche le illusioni alimentate dalla dolce maschera dell’Europa.


(questo articolo uscirà sul prossimo numero di Marxismo Oggi)

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[1] Cfr. Bon à savoir à propos de - L’ELARGISSEMENT DE L’UE, Luxembourg, Office des publications officielles des Communautés européennes, marzo 2009, p. 1. Corsivo mio, A.C. La brochure è reperibile anche in http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/publication/screen_mythfacts_a5_fr.pdf.

[2] Ivi, pp. 2-3. Corsivo mio, A.C.

[3] Cfr. ivi, pp. 11-12.

[4] Cfr. BCE, Bollettino mensile, Settembre 2009, traduzione e pubblicazione a cura della Banca d’Italia, pp. 12-13, http://www.bancaditalia.it/eurosistema/comest/pubBCE/mb/2009/settembre/bce_0909. Il corsivo è mio, A.C.

[5] International Monetary Fund, 2009, Global Financial Stability Report: Responding to the Financial Crisis and Measuring Systemic Risks (Washington, April), p. 9. https://www.imf.org/external/pubs/ft/gfsr/2009/01/pdf/text.pdf

[6]FONDS MONÉTAIRE INTERNATIONAL RAPPORT ANNUEL 2009, Washington, p. 19, http://www.imf.org/external/french/pubs/ft/ar/2009/pdf/ar09_fra.pdf. Il corsivo è mio, A.C.

[7] Banca d’Italia, Bollettino Economico n. 58, Ottobre 2009, p. 18, http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/bollec/2009/bolleco58 . Il corsivo è mio, A.C.

[8] Il rapporto annuale del FMI – forse meno preoccupato della retorica europeista della BCE – riprende, non sappiamo quanto inconsapevolmente, la nozione di “Occidente” in termini non geografici, ma economico-politici, quando questa nozione indicava un sistema politico-sociale e di valori contrapposto all’URSS e ai paesi socialisti. Cfr. il già citato RAPPORT ANNUEL, p. 19.

[9] Cfr. B. Landais, A. Monville, P. Yaghlekdjan, L’idéologie européenne, Ed. Aden, Bruxelles, 2008, pp. 211-213.

[10] Per questi dati e i seguenti, cfr. European Central Bank, Statistics Pocket Book, April 2009, pp. 39 sgg. 

[11] Cfr. W. Goldkron in L’Espresso, 17 aprile 1988.

[12] Cfr. intervista all’Unità del 23.10.1989.

[13] Cfr. C. Zorgbibe, « Le «grand élargissement» de 2004, in Histoire de l’Union européenne, Albin Michel, Parigi, 2005, pp. 261 267.

[14] Ivi.

[15] Cfr. D. M. Nuti, “1989-1999: la grande trasformazione dell’Europa centrorientale”, in Europa/Europe, numero 4/1999. L’evidenziazione in corsivo è mia, A.C. Nuti cita qui il saggio di “un autore al di sopra di ogni sospetto, Bob Mundell” nel volume a cura di M. Skreb e M. Blejer, Macroeconomic stabilisation in transiton economies, Cambridge 1998.

[16] Si veda La Nato nei Balcani, Editori Riuniti, Roma, 1999, in particolare Sara Flounders: “La tragedia della Bosnia: il ruolo sconosciuto del Pentagono” e Gregory Elich: “L’invasione della Krajna serba”.

[17] Cfr. C. Zorgbibe, op. cit.

[18] Cfr. L’idéologie européenne, op. cit., p. 214.

[19] Felice Di Leo, Ungheria: prospettive dopo la crisi finanziaria e il maxi-prestito della BCE, in http://www.equilibri.net/articolo/10579/Weekly_Analyses_-_38_2008).

[20] Cfr. Fernando Navarro Sordo, L’Ungheria e la crisi: il cuore isolato dell’Europa, in http://www.cafebabel.fr/article/29718/budepest-ungheria-crisi-economica-vita-notturna.html.