A proposito delle “rivoluzioni colorate”...


1) Sulle recenti elezioni presidenziali in Ucraina (Curzio Bettio)

2) La tecnica del “colpo di stato colorato” (John Laughland)



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Sulle recenti elezioni presidenziali in Ucraina

Elaborazione di Curzio Bettio sulle recenti elezioni presidenziali in Ucraina, esempio di come sull’esito finale di una consultazione elettorale possa incidere incombente la minaccia di una “rivoluzione colorata”, in questo caso della cosiddetta “Rivoluzione Arancione”


Domenica 7 febbraio  2010, in  Ucraina, Yulia Tymoshenko e Viktor Yanukovich si sono affrontati nelle elezioni presidenziali, ma la prospettiva di disordini post-elettorali minacciava qualsiasi ipotesi di veloce ritorno alla stabilità, secondo quanto prevedevano alcuni analisti.

Molti commentatori ritenevano possibile una vittoria di stretta misura di Yanukovich sulla Tymoshenko dopo un’aspra campagna elettorale, durante la quale ognuno dei due contendenti accusava l’altro di progettare brogli.

Se il margine di vittoria fosse risultato effettivamente ristretto, appariva per certo che lo sconfitto  avrebbe contestato i risultati.

La 49enne Tymoshenko minacciava di portare in piazza i suoi elettori e di ripetere la cosiddetta “Rivoluzione Arancione”, già avvenuta nel 2004 dopo la contestata vittoria di Yanukovich che, dopo essere stato dipinto come “il cattivo nel  2004” , attualmente si dimostrava gongolante all’idea di una possibile vittoria, ignorando di fatto la minaccia di proteste.

Comunque, un risultato elettorale chiaro sarebbe risultato decisivo, da un lato per una ripresa fruttuosa delle relazioni diplomatiche con  la Russia  compromesse dal 2004 dopo l’elezione di Viktor Yushchenko come presidente, data la sua posizione filo-occidentale, e d’altro canto per una accelerazione del processo di ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea.

Un ritorno alla stabilità, dopo cinque anni di dispute interne tra primo ministro e presidente, consentirebbe anche di fornire nuova fiducia agli investitori, fondamentale per l’economia dell’Ucraina duramente colpita dalla crisi globale.

Anche i 16,4 miliardi di dollari di prestito da parte del Fondo Monetario Internazionale dipendono dal risultato elettorale, dopo che l’ultima tranche del prestito è stato bloccata per il mancato rispetto, da parte ucraina, degli impegni sul bilancio.

Eventuali scontri post-elettorali provocherebbero solo ritardi.

“La possibilità, molto concreta, di una vittoria di stretta misura provocherebbe, quasi certamente, le contestazioni dello sconfitto, ritardando di fatto l’insediamento del nuovo presidente”, si legge in una nota del gruppo Eurasia.

Yanukovich è particolarmente popolare nell’est industriale e nel sud del paese, oltre ad avere il sostegno degli industriali e dei gruppi di interesse meridionali.

La Tymoshenko , invece, è molto forte nelle regioni occidentali e nel centro del paese, anche se molti commentatori dubitavano che questo potesse bastare a farle ottenere i voti necessari per battere il suo avversario.

Yanukovich, appena la sua vittoria al ballottaggio delle elezioni presidenziali gli è sembrata cosa fatta, ha promesso di “conquistare la fiducia di tutti gli Ucraini”, una volta al lavoro. 

Quindi, dalla regione delle miniere alla presidenza, ma dietro l’ascesa del candidato filorusso ci sarebbero gli oligarchi dell'industria.

Massiccio di corporatura, sbrigativo, autoritario, a volte un po’ ruvido, il cinquantanovenne Viktor Yanukovich è un perfetto “testimonial” dell’Est ucraino, collettivista e filorusso, ancora lontanissimo dall’Ovest ucraino che guarda all’Europa. 
Negli ultimi tempi ha cercato di ammorbidire la sua immagine di “uomo del Donetsk”, la regione mineraria dell’Ucraina, e ha perfezionato la lingua ucraina, che ancora pochi anni fa, abituato da sempre al russo, parlava decisamente male. 
Yanukovich aveva subito una brutta sconfitta nel 2004, quando la sua vittoria venne annullata a suon di manifestazioni e al nuovo voto per la presidenza la spuntò Viktor Yushchenko.

“Dagli errori si impara, ci si rafforza”, ha ripetuto negli ultimi giorni pre-ballottaggio, deciso a non permettere di nuovo agli “ex arancioni” di sbarrargli la strada verso la massima carica del Paese. L’appoggio russo durante la campagna elettorale è stato all’insegna della massima discrezione e per staccarsi di dosso l’etichetta di “filorusso” Yanukovich ha parlato molto di democrazia e di Europa. 
Questo candidato dell’Est ucraino, con un passato da metalmeccanico e poi da direttore di fabbrica, nel 1997 fu nominato governatore del Donetsk all’epoca della presa del potere economico e politico dei grandi oligarchi, quando diversi clan lottavano per il controllo delle industrie e delle miniere nella regione. Dietro la sua repentina ascesa ci sarebbe stato il potentissimo uomo d’affari locale Rinat Akhmetov, poi diventato l’uomo più ricco del Paese. 
Nella parte orientale dell’Ucraina, politica e industria sono difficilmente scindibili e qui Yanukovich è davvero a casa sua: nessuno gli contesta errori linguistici e neppure gli vengono rinfacciati i suoi trascorsi giovanili burrascosi.

La sua popolarità è sempre altissima e all’uscita dei seggi tutti confermavano, senza esitazione, il voto per il candidato filorusso. 
Messo fuori gioco dalla Rivoluzione arancione nel 2004, Yanukovich si è ripreso in fretta e già nel 2006 tornava primo ministro, sfruttando le divisioni nel campo filo-occidentale.

Ieri la resa dei conti, l’ultima battaglia con “gli arancioni”: il risultato sembra è ormai chiaro, il nuovo presidente ha raggiunto il 48,67% di preferenze, tre punti percentuale in più su Iulia Tymoshenko, che comunque non si dà per vinta e denuncia irregolarità nel voto.

La premier dichiara: “Serve un terzo turno”. Gli “arancioni” minacciano di tornare
in piazza. E a Kiev cresce la tensione.

La filo occidentale ucraina Yulia Timoshenko ha dato mandato ai suoi avvocati di impugnare in tribunale i risultati del ballottaggio presidenziale, suggerendo l’ipotesi di un terzo turno.

Come accadde nel 2004, quando le proteste di piazza della rivoluzione arancione portarono all’annullamento per brogli della vittoria del leader filorusso, Viktor Yanukovich - vincitore dell’attuale ballottaggio - e al successo del presidente uscente, Viktor Yushenko.

Ma “la vera vittoria sembrerebbe quella della democrazia”, come ha sottolineato l’Osce.

Secondo l’Organizzazione per  la Sicurezza  e  la Cooperazione  Europea , infatti, le elezioni si sono svolte “in modo trasparente e onesto”, nonostante le reciproche accuse di brogli. Anzi, “hanno dato una dimostrazione impressionante di democrazia”, e quindi sono “una vittoria per tutti in Ucraina”, ha sentenziato il presidente dell’assemblea parlamentare dell’Osce Joao Soares, invitando chiaramente la perdente ad una “transizione pacifica e costruttiva del potere”.

Il Paese, che con la protesta di piazza aveva detronizzato il neo vincitore Yanukovich per supposte frodi di massa, cinque anni dopo è pronto ad accettarne il legittimo successo voltando le spalle ai litigiosi arancioni, a Viktor Yushenko, uscito umiliato al primo turno, e in parte anche ad un’Europa che sembra sempre più lontana e indifferente, interessata solo al transito del gas russo. 
Così un’Ucraina rassegnata si affida a Yanukovich e ai suoi agganci con la grande industria del sud-est russofono del Paese. Yanukovich ha già invitato la sua rivale a dimettersi e ha cominciato a corteggiare l’oligarca Serghiei Tighipko e l’ex presidente del parlamento Arseni Iatseniuk, entrambi usciti al primo turno. Il suo obiettivo dichiarato è creare una nuova maggioranza alla Rada, il parlamento ucraino, che deve riunirsi al più presto, per non dover essere costretto ad una conflittuale coabitazione con  la Timoshenko. 
Il  vero nodo del dopo elezioni è proprio questo. La premier non è tenuta per legge a dimettersi, se riesce a mantenere la sua fragile maggioranza. Ma non è escluso che molti deputati salgano sul carro del vincitore.

In caso contrario, Yanukovich sarebbe costretto ad indire elezioni anticipate, con almeno due rischi: una nuova battaglia con la coriacea Timoshenko e l’ingresso nella Rada di Tighipko, astro nascente della politica ucraina (13% al primo turno) e possibile futuro premier.

È in questo contesto politico che  la Yulia  deve giocarsi il suo spazio di manovra, non tanto nei tribunali e non più nelle piazze, dopo le valutazioni dell’Osce che l’hanno indotta a posticipare due volte una conferenza stampa nella sede del governo. 
Nella capitale, imbiancata da una nuova nevicata, non si sono colti segni di tensione e anche le diverse migliaia di militanti pro Yanukovich scesi in città per presidiare la commissione elettorale hanno un’aria festosa in piazza Maidan, già teatro della rivoluzione arancione.


Nel documento presentato di seguito si fa cenno alle minacce della Yulia Tymoshenko di portare in piazza i suoi elettori e di ripetere la cosiddetta “Rivoluzione Arancione”, già avvenuta nel 2004.


=== 2 ===

La technique du coup d’État coloré 
par John Laughland (4 Janvier 2010)
La technique des coups d’État colorés trouve son origine dans une abondante littérature du début du XXe siècle. Elle a été mise en application avec succès par les néo-conservateurs états-uniens pour « changer les régimes » de plusieurs États post-soviétiques. Elle a par contre échoué dans des univers culturels différents (Venezuela, Liban, Iran). John Laughland, qui couvrit certaines de ces opérations pour le Guardian, revient sur ce phénomène.
http://www.voltairenet.org/article163449.html

The Technique of a Coup d’État 
by John Laughland (5 January 2010)
The technique of a coup d’état, more recently also referred to as "coloured revolution", finds its origins in abundant literature dating back to the beginning of the 20th century. It was successfully applied by the U.S. neo-conservatives to set the stage for "regime change" in a number of former Soviet republics. However, the technique backfired when it was tried in a different cultural environment (Venezuela, Lebanon, Iran). John Laughland, who reported on some of these operations for the Guardian, sheds new light on this phenomenon.
http://www.voltairenet.org/article163453.html 


La tecnica di un colpo di stato, a cui  più di recente si fa riferimento anche con “rivoluzione colorata”, trova riscontro delle sue origini in una ricca letteratura che ci fa risalire agli inizi del XX secolo. È stata applicata con successo dai neo-conservatori statunitensi per preparare il terreno a “cambiamenti di regime” in una serie di repubbliche dell’ex Unione Sovietica. Comunque, la tecnica ha avuto un effetto contrario a quello desiderato quando è stata tentata in ambienti culturali diversi (Venezuela, Libano, Iran).        

John Laughland, che per il Guardian  ha prodotto articoli su alcune di queste operazioni, accende una nuova luce su questo fenomeno.

 

(Traduzione dal francese ed elaborazione a cura  di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

  

La tecnica del “colpo di stato colorato”

di John Laughland*

 

4 gennaio 2010

 

Nel corso di questi ultimi anni, tutta una serie di “rivoluzioni” è esplosa in differenti parti del mondo.

Georgia

Nel novembre 2003, il presidente Edouard Chevardnadze è stato rovesciato in seguito a manifestazioni e ad asserzioni non comprovate di elezioni presidenziali truccate.  

Ucraina

Nel novembre 2004, manifestazioni – la cosiddetta “Rivoluzione arancione” – hanno avuto inizio nel momento in cui venivano formulate accuse consimili di elezioni truccate. Il risultato è stato che il paese ha perso il suo antico ruolo geopolitico di ponte fra l’Est e l’Occidente ed è stato sospinto verso un’adesione alla NATO e all’Unione Europea. Considerato che  la Kievan Rus è stato il primo Stato russo e che l’Ucraina attualmente ha assunto una posizione contraria alla Russia, siamo in presenza di un avvenimento storico.

Tuttavia, come affermava George Bush, “voi siete sia con noi che contro di noi”. Benché l’Ucraina abbia inviato un contingente di truppe in Iraq, evidentemente è stata considerata ancora troppo amica di Mosca.

Libano

Poco dopo le dichiarazioni da parte degli Stati Uniti e dell’ONU che le truppe siriane dovevano ritirarsi dal Libano, e successivamente all’assassinio di Rafik Hariri, le manifestazioni di Beirut sono state presentate come la “Rivoluzione dei Cedri”. Un’enorme contro-manifestazione di Hezbollah, il più importante partito filo-siriano, passava sotto silenzio nello stesso momento in cui la televisione mostrava senza fine la folla anti-siriana.

Esempio particolarmente eclatante di malafede orwelliana,  la BBC  spiegava ai telespettatori che “Hezbollah, il più grande partito politico del Libano, è fino a questo momento la sola voce dissidente che sostiene la permanenza dei Siriani nel Libano.”

Com’è possibile che la maggioranza popolare possa essere una “voce dissidente”? [1]

Kirgizistan

Dopo le “rivoluzioni georgiana ed ucraina”, numerosi sono coloro che predicevano che l’ondata di “rivoluzioni” si sarebbe abbattuta sulle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. E questo è quello che è avvenuto.

I commentatori sono sembrati divisi sulla questione di sapere quale colore attribuire all’insurrezione di Bichkek: rivoluzione “dei limoni” o dei “tulipani”? Non sono riusciti a mettersi d’accordo.

Ma erano sicuramente d’accordo su un punto: queste rivoluzioni sono “fredde”, anche se sono violente. Infatti, il presidente del paese, Askar Akaïev, è stato rovesciato il 24 marzo 2005 e i contestatori hanno preso d’assalto il palazzo presidenziale e lo hanno saccheggiato.  

Uzbekistan

Quando ribelli armati si impadronirono di edifici governativi, liberarono dei prigionieri e presero ostaggi nella notte fra il 12 e il 13 maggio 2005 nella città uzbeka di Andijan (situata nella valle di Ferghana dove i torbidi si erano innescati parimenti per il vicino Kirgizistan), la polizia e l’esercito accerchiarono i ribelli e ne risultò uno stallo che procedette per lungo tempo. Vennero condotti negoziati con i ribelli, i quali non cessavano mai di rincarare le loro rivendicazioni.  

Quando le forze governative li attaccarono, i combattimenti produssero qualcosa come 160 morti, di cui 30 fra le forze di polizia e dell’esercito.

Nondimeno, i media occidentali immediatamente presentarono in maniera distorta questi scontri violenti, pretendendo che le forze governative avessero aperto il fuoco su dei contestatari disarmati, sul “popolo”.

Questo mito, che si ripete senza posa, della rivolta popolare contro un governo dittatoriale è accettato a destra come a sinistra dello schieramento politico. 

Una volta, il mito della rivoluzione era manifestamente riservato alla sinistra, ma quando il putsch violento ha avuto luogo nel Kirgizistan, il Times si è tanto entusiasmato a proposito delle scene di Bichkek, che ricordavano all’articolista i film di Eisenstein sulla rivoluzione bolscevica; il Daily Telegraph esaltava la “presa del potere da parte del popolo” e il Financial Times faceva ricorso ad una metafora maoista ben conosciuta quando vantava la “lunga marcia del Kirgizistan verso la libertà”.  

Una delle idee chiave che stanno alla base di questo mito è naturalmente quella che il “popolo” appoggia questi avvenimenti e che questi ultimi sono spontanei. In realtà, sicuramente, queste sono operazioni ben concertate, spesso messe in scena tramite i mezzi di comunicazione, e, di abitudine, create e controllate da reti transnazionali di organizzazioni non governative, che sono strumenti del potere dell’Occidente.  

 

La letteratura sui colpi di Stato

Il mito della rivoluzione popolare spontanea perde la sua pregnanza in considerazione della vasta letteratura sui colpi di Stato e sulle principali tattiche utilizzate per provocarli.

Ben inteso, è stato Lenin a sviluppare la struttura organizzativa dedicata al rovesciamento di un regime, struttura che attualmente ci è nota sotto il nome di partito politico.

Lenin differisce da Marx per il fatto che non pensava che il cambiamento storico avvenisse come risultato di forze anonime ineluttabili. Lenin pensava che era necessario provocare il cambiamento.   

Ma è stato probabilmente Curzio Malaparte che per primo, nel suo Tecnica del colpo di Stato, ha dato una forma celebre a queste idee [2].

Pubblicato nel 1931, questo libro presenta il ribaltamento di regime come una procedura tecnica. Malaparte era in disaccordo con coloro che pensavano che i cambiamenti di regime avvenivano spontaneamente.

Egli inizia il suo libro riportando una discussione fra diplomatici a Varsavia nella primavera del 1920.

La Polonia  era stata invasa dall’armata rossa di Trotskij, (comunque  la Polonia  aveva invaso l’Unione Sovietica occupando  Kiev nell’aprile 1920), e i bolscevichi erano alle porte di Varsavia.

La discussione aveva luogo fra il ministro della Gran Bretagna, Sir Horace Rumbold, e il Nunzio papale, Monsignor Ambrogio Damiano Achille Ratti (che due anni più tardi sarebbe divenuto Papa con il nome di Pio XI).

L’Inglese affermava che la situazione politica interna alla Polonia era così caotica che era inevitabile una rivoluzione e che il corpo diplomatico doveva abbandonare la capitale e rifugiarsi a Poznan. Il Nunzio non era d’accordo, insistendo sul fatto che una rivoluzione era senza dubbio possibile in un paese civilizzato come l’Inghilterra, l’Olanda o  la Svizzera  e non in un paese in preda all’anarchia. Naturalmente, l’Inglese era sconvolto all’idea che una rivoluzione potesse scoppiare in Inghilterra. “Mai!” sbottò.

I fatti gli hanno dato torto, visto che in Polonia non è scoppiata alcuna rivoluzione e questo, secondo Malaparte, perché le forze rivoluzionarie non erano sufficientemente ben organizzate.  Questo aneddoto permette a Malaparte di accostarsi alle differenze tra Lenin e Trotskij, due esperti in colpo di Stato. Egli sottolinea come il futuro Papa avesse ragione e che era sbagliato affermare essere necessarie certe condizioni perché avvenga la rivoluzione.  

Per Malaparte, come per Trotskij, è possibile provocare un cambiamento di regime non importa in quale paese, anche nelle democrazie stabili dell’Europa occidentale, a condizione che vi sia un gruppo di uomini sufficientemente determinati ad effettuarlo.

 

Fabbricare il consenso

Questo ci porta a fare riferimento ad altri testi relativi alla manipolazione mediatica.

Lo stesso Malaparte non affronta questo aspetto, che però a) risulta decisamente importante e b) costituisce un elemento della procedura tecnica utilizzata per i cambiamenti di regime, anche al giorno d’oggi.   

A dire il vero, il controllo dei media durante un capovolgimento di regime è così importante che una delle caratteristiche di queste rivoluzioni consiste nella costruzione di una realtà virtuale. Il controllo di questa realtà è esso stesso uno strumento di potere, tanto che al momento dei colpi di Stato classici nelle “repubbliche delle banane”, la prima cosa di cui si impadronivano i rivoluzionari era la radio.

Attualmente, le persone provano ancora una forte ripugnanza ad accettare l’idea che gli avvenimenti politici siano deliberatamente manipolati.

Questa stessa ripugnanza è un prodotto dell’ideologia dell’informazione, che lusinga la vanità delle persone e le induce a credere di avere accesso ad una somma considerevole di informazioni.

In effetti, l’apparente diversificazione di informazioni derivate dai media moderni nasconde una estrema povertà delle fonti originali, nella stessa maniera in cui una strada piena zeppa di ristoranti su una spiaggia della Grecia può nascondere la realtà di un’unica cucina nel retrostante.

Le informazioni sugli avvenimenti importanti provengono spesso da un’unica fonte, quasi sempre da un’agenzia di stampa, e anche coloro deputati alla diffusione delle informazioni, come  la BBC , si accontentano di riciclare le informazioni ricevute da queste agenzie, comunque presentandole come farina del loro sacco.

I corrispondenti della BBC spesso stanno nelle loro camere di albergo quando spediscono i loro dispacci, leggendo per gli studi di Londra le informazioni che sono state loro trasmesse da colleghi in Inghilterra, che a loro volta le hanno ricevute da agenzie di stampa. 

Un secondo fattore che spiega la ripugnanza a credere alla manipolazione dei media è legato al sentimento di onniscienza che la nostra epoca di mezzi di comunicazione di massa ama assecondare: criticare le informazioni della stampa è come dire alle persone che sono credulone, e questo messaggio non è gradevole da ricevere.

La manipolazione mediatica ha molteplici aspetti. Uno dei più importanti è l’iconografia politica. Questa è uno strumento molto importante utilizzato per difendere la legittimità dei regimi che hanno preso il potere attraverso una rivoluzione. Basti pensare ad avvenimenti emblematici, come la presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, l’assalto al Palazzo d’Inverno durante la rivoluzione dell’ottobre 1917, o la marcia su Roma di Mussolini del 1922, per rendersi conto che certi avvenimenti possono essere elevati al rango di fonti pressoché eterne di legittimità. 

Ciononostante, l’importanza della costruzione politica di immagini va ben al di là dell’invenzione di un emblema specifico per ciascuna rivoluzione. Essa implica un controllo molto più rigoroso dei mezzi di informazione e generalmente questo controllo deve essere esercitato su un lungo periodo, non solamente al momento del cambiamento di regime.

Risulta veramente essenziale che la linea del partito venga ripetuta ad nauseam.

Un aspetto della cultura mediatica di questo periodo, che numerosi dissidenti denunciano alla leggera, è che le opinioni degli oppositori possono venire espresse ed anche pubblicate, ma questo avviene precisamente perché, non rappresentando solo che gocce d’acqua in un oceano, queste non rappresentano mai una minaccia per la marea propagandistica. 

 

Willi Münzenberg

Uno dei maestri moderni del controllo dei mezzi di comunicazione è stato il comunista tedesco, da cui Goebbels ha appreso il suo mestiere, Willi Münzenberg.

Münzenberg non è stato solamente l’inventore della manipolazione, ma anche il primo ad avere messo a punto l’arte di creare una rete di giornalisti formatori di opinioni, per diffondere le idee funzionali alle necessità del Partito comunista tedesco e dell’Unione Sovietica. Con ciò, fece una fortuna edificando un vasto impero mediatico.

Münzenberg  è stato coinvolto nel progetto comunista fin dall’inizio. Apparteneva al circolo ristretto dei compagni di Lenin a Zurigo e nel 1917 accompagnò il futuro capo della rivoluzione bolscevica dalla stazione centrale di Zurigo alla stazione di Finlandia a San Pietroburgo in un treno piombato, con l’aiuto delle autorità imperiali germaniche.

Lenin richiese a Münzenberg di combattere la pubblicità deleteria suscitata dalla situazione di emergenza spaventosa del 1921, che sconvolgeva lo Stato sovietico di recente instaurato, per cui 25 milioni di contadini della regione del Volga rischiavano di morire di fame.

Münzenberg, che allora era rientrato a Berlino, dove in seguito veniva eletto come deputato comunista al Reichstag, fu incaricato di creare una organizzazione di soccorso operaio, il  Foreign Committee for the Organisation of Worker Relief for the Hungry in Soviet Russia – Comitato Estero per l’organizzazione del Soccorso Operaio contro la fame nella Russia Sovietica, il cui obiettivo era quello di far credere che i soccorsi umanitari provenivano da fonti diverse dalla Herbert Hoover’s American Relief Administration – Amministrazione di Herbert Hoover del Soccorso Americano.

Lenin temeva non solamente che Hoover utilizzasse il suo progetto umanitario per inviare spie nell’URSS, (cosa che effettivamente avvenne), ma ugualmente – fattore forse più importante – che il primo Stato comunista al mondo non dovesse soffrire fatalmente della pubblicità negativa dovuta al fatto che l’America capitalista gli veniva in aiuto a qualche anno dalla Rivoluzione.

Münzenberg, dopo avere ottenuto un grande successo nella raccolta di fondi e cibo per le vittime della carestia russa, rivolse la sua attenzione verso attività di propaganda più generali.  

Innalzò un vasto impero mediatico, conosciuto sotto il nome di “Trust Münzenberg”, che possedeva due quotidiani a larga diffusione in Germania, una rivista settimanale di massa e aveva interessi in altre pubblicazioni nel mondo.

Si mise in luce in modo particolare nel mobilitare l’opinione pubblica mondiale contro l’America  in occasione del processo a carico di Sacco e Vanzetti (i due immigrati italiani anarchici condannati a morte innocenti per omicidio nel Massachusetts nel 1921) e nel contrastare l’idea propagandata dai nazisti secondo cui l’incendio del Parlamento tedesco, il Reichstag, nel 1933, fosse opera di un complotto comunista. Ricordiamo che i nazisti presero come pretesto questo incendio per procedere ad arresti e ad esecuzioni in massa di comunisti. (Attualmente si pensa che il fuoco sia stato appiccato in realtà a titolo individuale dall’uomo che fu immediatamente arrestato nell’edificio, un piromane di nome Martinus van der Lubbe).

Münzenberg riuscì a convincere una parte importante dell’opinione pubblica attraverso una menzogna opposta a quella dei nazisti, vale a dire che quelli che avevano dato fuoco erano gli stessi nazisti che cercavano un pretesto per sbarazzarsi dei loro principali avversari.

Il fatto più importante per la nostra epoca è che Münzenberg comprese bene come sia importante influenzare i facitori di opinioni.

Egli prendeva essenzialmente come obiettivo gli intellettuali, partendo dall’idea che erano i più facili da influenzare in ragione della loro grande vanità. In modo particolare, aveva contatti con un gran numero di personalità del mondo letterario degli anni Trenta. Münzenberg ne incoraggiò molti a sostenere i Repubblicani durante la guerra civile spagnola e a fare di questa lotta una causa celebre dell’antifascismo comunista.

Attualmente, la tattica di Münzenberg riveste una grande importanza nella manipolazione dell’opinione pubblica in favore del Nuovo Ordine Mondiale.

Più che mai, “esperti” fanno la loro comparsa sui nostri piccoli schermi per delucidarci sugli avvenimenti e costoro sono sempre veicoli della linea ufficiale di qualche partito o fazione. Essi vengono tenuti sotto controllo con modalità differenti, generalmente con il denaro o con lusinghe. 

 

Psicologia della manipolazione dell’opinione pubblica  

Esiste tutta una serie di opere che puntano il dito su un aspetto un po’ differente dalla tecnica specifica messa a punto da Münzenberg. Si tratta delle modalità con cui si inducono le persone ad agire collettivamente, ricorrendo a stimoli di natura psicologica. 

Potrebbe essere che il primo teorico importante in questa materia sia stato il nipote di Freud, Edward Bernays, che scriveva nella sua opera Propaganda, apparsa nel 1928, come fosse del tutto naturale e giustificato che i governi plasmassero la pubblica opinione per fini politici [3].

Il primo capitolo porta il titolo rivelatore seguente: “Organizzare il caos”.

Per Bernays, la manipolazione consapevole ed intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse è un elemento importante delle società democratiche.

Coloro che manipolano i meccanismi segreti della società costituiscono un governo invisibile, che rappresenta il potere effettivo. Noi siamo eterodiretti, i nostri pensieri sono condizionati, i nostri gusti sono costruiti ad arte, le nostre idee sono suggerite essenzialmente da uomini di cui noi non abbiamo mai inteso parlare. È la conseguenza logica della maniera in cui la nostra società democratica è strutturata.

Un grande numero di esseri umani devono cooperare per potere vivere insieme in una società che funzioni bene. In quasi tutti gli atti della nostra vita quotidiana, che si tratti della sfera politica, di affari, dei nostri comportamenti sociali o delle nostre concezioni etiche, noi siamo dominati da un numero relativamente ridotto di persone che conoscono i processi mentali e le caratteristiche sociali delle masse. Sono queste persone che controllano la pubblica opinione.

Per Bernays, molto spesso questi membri del governo invisibile non conoscono essi stessi chi sono gli altri membri. La propaganda è il solo mezzo per impedire all’opinione pubblica di sprofondare nel caos.  

Bernays ha continuato a lavorare su questo argomento dopo la guerra  e nel  1947 ha  pubblicato The Engineering of Consent – La costruzione del consenso [4], titolo al quale Edward Herman e Noam Chomsky hanno fatto riferimento quando hanno pubblicato nel 1988 la loro opera importantissima La fabrique du consentement  [5].

Il rapporto con Freud è decisivo in quanto, come andremo ad esaminare, la psicologia è uno strumento capitale per influenzare l’opinione pubblica.

Secondo due degli autori che hanno collaborato a La fabrique du consentement, Doris E. Fleischmann e Howard Walden Cutler, ogni leader politico deve fare appello alle emozioni umane primarie al fine di manipolare le opinioni.

L’istinto di conservazione, l’ambizione, l’orgoglio, la bramosia, l’amore per la famiglia e per i bambini, il patriottismo, lo spirito di imitazione, il desiderio di comando, il gusto dell’azione, così come altri bisogni, sono le materie brute psicologiche che ciascun leader deve prendere in considerazione nei suoi tentativi per conquistare l’opinione pubblica alle sue idee.

Per mantenere la fiducia nei leader, la maggior parte delle persone hanno necessità di essere sicuri che tutto quello in cui credono sia corrispondente al vero.  

Questo era quello che Münzenberg aveva ben compreso: il bisogno fondamentale degli uomini di credere in ciò che essi vogliono credere. Thomas Mann faceva allusione a questo fenomeno quando attribuiva l’ascesa di Hitler al desiderio collettivo del popolo tedesco di credere ad un “racconto di fate” che dissimulava la squallida realtà.

Su questo argomento, meritano di essere citate altre opere che non trattano per ragioni temporali della propaganda elettronica moderna ma che si rivolgono piuttosto verso la psicologia delle masse. Pensiamo ai classici come la Psychologie des foules – Psicologia delle masse di Gustave Le Bon (1895) [6]Masse und Macht – Massa e potere d’Elias Canetti (1960) [7]Le viol des foules par la propagande politique – Lo stupro delle folle da parte della propaganda politica di Serge Tchakhotine (1939) [8].

Tutte queste opere fanno abbondante riferimento alla psicologia e all’antropologia. Non bisogna dimenticare l’opera grandiosa dell’antropologo  René Girard, i cui scritti sulla logica dell’imitazione (mimesis) e sulle azioni violente collettive sono eccellenti strumenti per comprendere perché l’opinione pubblica può tanto facilmente essere indotta a sostenere la guerra e altre forme di violenza politica.

 

Tecnica della formazione dell’opinione pubblica

Dopo la guerra, numerosissime tecniche messe a punto dal comunista Münzenberg furono adottate dagli Stati Uniti, come dimostrato in modo magnifico dall’eccellente lavoro di Frances Stonor Saunders, Qui mène la danse ?  La CIA  et  la Guerre  froide culturelle – Chi conduce la danza?  La CIA  e  la Guerra  fredda culturale [9].

Saunders spiega in maniera estremamente dettagliata come, all’inizio della Guerra fredda, gli Statunitensi e i Britannici dettero inizio ad una importante operazione clandestina destinata a finanziare intellettuali anti-comunisti. [10].

L’elemento fondamentale è che essi concentrarono la loro attenzione su alcune personalità della sinistra, soprattutto su trotskisti che non avevano mai smesso di sostenere l’Unione Sovietica, se non nel 1939 quando Stalin firmò il Patto di non-aggressione con Hitler, e che avevano spesso collaborato in precedenza con Münzenberg.

Un gran numero di queste persone, che si situavano al punto di congiunzione fra il comunismo e  la CIA  all’inizio della Guerra fredda, sono divenuti dei neo-conservatori di primo piano, in particolare Irving Kristol, James Burnham, Sidney Hook e Lionel Trilling [11].

Le origini di sinistra, per meglio dire trotskiste, del neo-conservatorismo sono conosciute, anche se continuo ad essere sorpreso da nuovi particolari che vado scoprendo, ad esempio che Lionel e Diana Trilling sono stati sposati da un rabbino che considerava Felix Dzerjinski, fondatore della polizia segreta bolscevica, la Čeka ( antenata del KGB), il controaltare comunista della polizia politica di Himmler, come un modello di eroismo.

Queste origini di sinistra mantengono una relazione particolare con le operazioni clandestine evocate da Saunders, visto che l’obiettivo della CIA era precisamente quello di influenzare gli oppositori di sinistra al comunismo, vale a dire i trotskisti. Molto semplicemente, l’idea della CIA era che gli anti-comunisti di destra non avevano alcun bisogno di essere influenzati ed ancor meno di venire pagati.

Stonor Saunders cita Michael Warner quando scrive:

“Per  la CIA  la strategia di sostenere la sinistra anti-comunista doveva diventare il fondamento teorico delle operazioni politiche della CIA contro il comunismo nel corso dei due decenni successivi.”

Questa strategia veniva descritta in The Vital Center : The Politics of Freedom di Arthur Schlesinger (1949) [12], opera che costituisce una delle pietre angolari di quello che più tardi divenne il movimento neo-conservatore.

Stonor Saunders scrive:

“L’obiettivo di sostenere gruppi di sinistra, non era né di distruggere né di dominare questi gruppi, ma piuttosto di mantenere con loro una discreta prossimità e di dirigere il loro pensiero, di procurare loro un modo per liberarsi dalle inibizioni inconscie e, al limite, di opporsi alle loro azioni nel caso in cui fossero diventati eccessivamente... radicali.”  

Le modalità attraverso cui questa influenza di sinistra fece sentire i propri effetti furono molteplici e variegate.

Gli Stati Uniti erano decisi a fornire di se stessi un’immagine progressista, che contrastasse con quella di una Unione Sovietica “reazionaria”. In altre parole, volevano mettere in attuazione le stesse cose che facevano i Sovietici.

Ad esempio, negli ambienti musicali statunitensi, Nicolas Nabokov (il cugino dell’autore di Lolita) era uno dei principali esponenti del Congresso per la libertà della Cultura.

Nel 1954,  la CIA  aveva finanziato un festival della musica a Roma nel corso del quale l’amore “autoritario” di Stalin per compositori russi come Rimski-Korsakov e Tchaïkovski veniva “contrato” dalla musica moderna non ortodossa ispirata dal dodecafonismo di Schoenberg. Per Nabokov, promuovere una musica che eliminava in modo eclatante le gerarchie naturali, era lanciare un chiaro messaggio politico.

Un altro progressista, il pittore Jackson Pollock, ex comunista, fu allo stesso modo sostenuto dalla CIA. I suoi “imbrattamenti” venivano considerati rappresentare l’ideologia americana di “libertà” opposta all’autoritarismo della pittura del realismo socialista.

(Questa alleanza con i comunisti aveva preceduto  la Guerra  fredda: il pittore di affreschi messicano comunista Diego Rivera venne patrocinato da Abby Aldrich Rockefeller ma la loro collaborazione ebbe bruscamente termine quando Rivera si rifiutò di ritirare un ritratto di Lenin da una scena di massa dipinta sui muri del Rockefeller Center nel 1933.)

Questa commistione fra la cultura e la politica venne incoraggiata apertamente da un organismo della CIA che portava un nome molto orwelliano, l’Ufficio di Strategia Psicologica, PSB.  

Nel 1956, questa organizzazione sostenne una tournée europea della Metropolitan Opera (Met), che aveva lo scopo politico di incoraggiare il multiculturalismo.

L’organizzatore, Junkie Fleischmann, affermava:

“Noi, negli Stati Uniti, siamo un melting-pot e con questo dimostriamo che i popoli possono intendersi indipendentemente dalla razza, dal colore della pelle o dalla loro confessione.

Utilizzando il termine melting-pot, o una qualsiasi altra espressione, noi potremo presentare il Met come un esempio per cui gli Europei immigrati negli Stati Uniti hanno potuto intendersi, e, di conseguenza, suggerire che una specie di Federazione europea è sicuramente possibile.”

Sia detto per inciso, questo è esattamente l’argomento utilizzato da Ben Wattenberg che, nella sua opera The First Universal Nation, sostiene che gli Stati Uniti possiedono un diritto particolare all’egemonia mondiale in quanto inglobano tutte le nazioni e razze del pianeta.

L’identica idea è stata espressa da Newt Gingrich e da altri neoconservatori.

Fra gli altri temi proposti, alcuni sono al centro dell’ideologia neo-conservatrice di oggi. Il primo fra questi corrisponde all’opinione autenticamente liberale di un universalismo morale e politico. Questo ha costituito il nucleo della filosofia della politica estera di George W. Bush. In numerose occasioni Bush ha dichiarato che i valori politici sono i medesimi nel mondo intero ed ha utilizzato questa affermazione per giustificare l’intervento militare in favore della “democrazia”. 

Agli inizi degli anni Cinquanta, Raymond Allen, direttore dell’Ufficio di Strategia Psicologica (l’Ufficio di Strategia Psicologica fu immediatamente designato unicamente attraverso le sue iniziali PSB, senza dubbio allo scopo di tenere nascosto quello che veniva direttamente espresso dal nome intero) era già pervenuto alla seguente conclusione: 

“I principi e gli ideali contenuti nella Dichiarazione di Indipendenza e nella Costituzione sono destinati ad essere esportati e costituiscono il patrimonio degli uomini in tutto il mondo. Noi dovremo orientarci verso i bisogni fondamentali dell’umanità che, io credo, siano gli stessi per l’agricoltore del Texas come per quello del Pendjab.”

 

Certamente, sarebbe falso attribuire la diffusione delle idee unicamente alla manipolazione clandestina. Le idee si iscrivono in vasti movimenti culturali, le cui fonti originali sono molteplici. Ma è fuori dubbio che il dominio di queste idee può essere considerevolmente facilitato mediante operazioni clandestine, particolarmente in quanto i membri delle società dell’informazione di massa sono straordinariamente influenzabili. Non solamente essi credono a ciò che leggono sui giornali, ma immaginano di essere arrivati in modo autonomo alle conclusioni. Di conseguenza, l’astuzia per manipolare l’opinione pubblica consiste nell’applicare quello che è stato teorizzato da Bernays, introdotto e messo in pratica da Münzenberg ed elevato al rango di grande arte dalla CIA.  

Secondo l’agente della CIA Donald Jameson, rispetto ai comportamenti che l’Agenzia desidera suscitare mediante le sue attività, è evidente che  la CIA  desidera formare delle persone intimamente persuase che tutto quello che il governo mette in esecuzione sia giusto. Altrimenti detto, quello che  la CIA  e altre agenzie hanno messo in esecuzione in questo periodo è stato di adottare la strategia che bisogna associare al marxista italiano Antonio Gramsci, che affermava che l’“egemonia culturale” era essenziale per la rivoluzione socialista.

 

Disinformazione

Sulle tecniche di disinformazione esiste una quantità enorme di testi.  

Ho già fatto menzione sul fatto importante, formulato da Tchakhotine, che il ruolo dei giornalisti e dei media è fondamentale per assicurarsi che la propaganda avvenga in modo costante.

Tchakhotine scrive che la propaganda non dovrebbe interrompersi mai, formulando così una delle regole fondamentali della disinformazione moderna, vale a dire che il messaggio, per passare, deve essere ripetutamente reiterato. 

Prima di tutto, Tchakhotine afferma che le campagne di propaganda devono essere dirette in modo centralizzato e ben organizzate, cosa che è divenuta prassi nel tempo della “comunicazione” politica moderna. Per esempio, i membri laburisti del Parlamento Britannico non possono comunicare con i media senza l’autorizzazione del Direttore per le Comunicazioni, al numero 10 di Downing Street.

Sefton Delmer era allo stesso tempo un teorico e un esperto esecutore della black propaganda (propaganda sporca, disinformazione). Aveva creato una falsa stazione radio che, durante  la Seconda Guerra  mondiale, trasmetteva dalla Gran Bretagna verso  la Germania  e diffondeva il mito che esistevano dei buoni patrioti tedeschi che si opponevano ad Hitler. [N.d.tr.: Gustav Siegfried Eins. Questo era il nome della stazione radio che fingendo di essere tedesca, riusciva a seminare tra i suoi ascoltatori (tedeschi) l’idea di una Germania non così monolitica come l’avrebbe voluta il Führer.] Si sosteneva la finzione che si trattasse in realtà di una stazione tedesca clandestina che trasmetteva utilizzando frequenze vicine a quelle delle stazioni ufficiali. Questo genere di “black propaganda”  fa ancora parte dell’arsenale della “comunicazione” governativa statunitense.

Il New York Times ha rivelato che il governo emetteva dei bollettini informativi favorevoli alla sua politica, che venivano quindi diffusi nei programmi ordinari e presentati come produzioni delle stesse catene radiofoniche e televisive. 

Esistono numerosi altri autori che hanno trattato questo argomento e di alcuni di loro ho già parlato nella mia rubrica All News Is Lies – Tutte le notizie sono falsità, ma forse l’opera che corrisponde al meglio al dibattito attuale è quella di Roger Mucchielli, La Subversion , pubblicata in francese nel 1971, che dimostra come la disinformazione, una volta ritenuta tattica ausiliaria durante la guerra, sia divenuta la tattica predominante [13].

Secondo Mucchielli, la strategia si è sviluppata al punto tale che l’obiettivo attualmente è quello di conquistare un paese senza assolutamente attaccarlo fisicamente, in particolare facendo ricorso ad agenti interni che condizionano l’opinione pubblica.

Essenzialmente, si tratta dell’idea proposta e posta in discussione da Robert Kaplan nel suo saggio pubblicato in The Atlantic Monthly nel luglio/agosto 2003 e intitolato “Supremacy by Stealth – Supremazia assunta furtivamente”  [14].

Robert Kaplan, uno dei più sinistri teorici del Nuovo Ordine Mondiale e dell’Impero USamericano, difende esplicitamente l’utilizzazione illegale ed immorale della forza per permettere agli Stati Uniti di controllare il mondo intero.

Il suo saggio tratta del ricorso alle operazioni segrete, alla forza delle armi, a sporchi inganni, alla disinformazione, alle influenze clandestine, alla costruzione dell’opinione pubblica, perfino agli assassini politici, tutti mezzi che rivelano un’“etica pagana” destinati ad assicurare il predominio statunitense.

Un altro punto da sottolineare a proposito di Mucchielli è che è stato uno dei primi teorici a propugnare il ricorso a false organizzazioni non governative ONG, o “organizzazioni di facciata”, per provocare un cambiamento politico interno di un altro paese. 

Come Malaparte e Trotskij, Mucchielli aveva capito che non erano le circostanze “oggettive” che procuravano il successo o il fallimento di una rivoluzione, ma la percezione di queste circostanze creata ad arte dalla disinformazione.

Inoltre, Mucchielli aveva compreso che le rivoluzioni storiche, che venivano invariabilmente presentate come il prodotto di movimenti di massa, in realtà erano frutto dell’azione di un gruppo assolutamente ristretto di cospiratori molto ben organizzati.   

Come Trotskij, Mucchielli insisteva sul fatto che la maggioranza silenziosa doveva essere completamente esclusa dai meccanismi del cambiamento politico, precisamente perché i colpi di Stato sono opera di un ristretto numero di individui e non della massa. 

L’opinione pubblica costituisce il “forum” dove si pratica la sovversione e Mucchielli descrive i differenti modi di utilizzare i mezzi di comunicazione di massa per creare una psicosi collettiva. Secondo lui, i fattori psicologici sono estremamente importanti a questo riguardo, in modo particolare nella ricerca di strategie importanti, come la demoralizzazione di una società. L’avversario deve essere indotto a perdere fiducia nella giustezza e nella fondatezza della sua causa e tutti gli sforzi devono essere prodotti per convincerlo che il suo avversario è invincibile. 

 

Ruolo dei militari

Prima di affrontare questo punto, richiamiamo alla mente ancora una questione di ordine storico: il ruolo dei militari nella conduzione di operazioni segrete e nell’influenza esercitata sui mutamenti politici. Si tratta di una questione di cui alcuni analisti contemporanei ammettono tranquillamente la valenza attuale: Kaplan approva il fatto che l’esercito degli Stati Uniti venga utilizzato per “promuovere la democrazia”.

Si compiace di sottolineare come un colpo di telefono di un generale USamericano sia spesso un mezzo migliore per incoraggiare un cambiamento politico in un paese del Terzo Mondo piuttosto che una esortazione dell’ambasciatore degli Stati Uniti. 

Kaplan cita un ufficiale addetto alle Operazioni Speciali dell’Esercito:

“Chiunque sia il presidente del Kenya, è sempre lo stesso gruppo di...giovanotti a dirigere le forze speciali e le guardie del corpo del presidente. Noi li abbiamo addestrati. Questo è quello che si dice influenza diplomatica!”

L’aspetto storico dell’argomento è stato di recente studiato da un accademico universitario svizzero, Daniele Ganser, in un suo libro Les Armées secrètes de l’OTAN [15].

Ganser comincia col menzionare il fatto che il 3 agosto 1990, Giulio Andreotti, allora Primo ministro, ammetteva l’esistenza di un’organizzazione armata segreta nel suo paese, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, conosciuta con il nome di Gladio, che era stata creata dalla CIA e dal MI6, e che era coordinata da una sezione poco ortodossa della NATO.   

Inoltre, Andreotti confermava una delle vociferazioni più persistenti nell’Italia del dopo-guerra.

Tantissime persone, fra cui magistrati inquirenti, avevano l’opinione che Gladio non facesse parte solamente di una rete di organizzazioni armate segrete create dagli Stati Uniti in Europa occidentale per combattere un’eventuale occupazione sovietica, ma che queste reti si erano adoperate per influenzare il risultato delle elezioni, addirittura stringendo sinistre alleanze con organizzazioni terroristiche. L’Italia era un bersaglio particolare, in quanto il suo Partito comunista era decisamente potente. 

All’inizio, questo gruppo armato segreto era stato messo in piedi con lo scopo di prepararsi ad affrontare l’eventualità di una invasione, ma sembra che abbia effettuato ben presto operazioni segrete miranti ad influenzare gli stessi processi politici, pur in assenza di invasioni.

Esistono numerose prove dell’ingerenza massicciamente invasiva degli Stati Uniti, soprattutto nelle elezioni italiane, in modo da impedire al Partito comunista l’accesso al potere. Per questa ragione molti miliardi di dollari erano stati offerti ai democratici cristiani.

Ganser continua nel sostenere che esistono le prove che alcune cellule della Gladio hanno organizzato attentati terroristici con lo scopo di fare accusare i comunisti e di indurre la popolazione spaventata a reclamare poteri speciali per lo Stato destinati a “proteggerla” dal terrorismo.

Ganser interpella l’individuo accusato di avere posizionato una delle bombe, Vincenzo Vinciguerra, che ha ben spiegato la natura della rete di cui era un semplice soldato.

Gladio faceva parte di una strategia mirante a “destabilizzare, al fine di stabilizzare”.

Le vittime degli attentati erano civili, donne, bambini, innocenti, sconosciuti, assolutamente estranei al gioco politico. La ragione era molto semplice: si trattava di forzare il popolo italiano a rivolgersi verso lo Stato per esigere una maggiore sicurezza. Questa era la logica politica che permeava tutti i massacri, di cui gli autori sono rimasti impuniti, dato che lo Stato non poteva dichiararsi colpevole di quello che era avvenuto.

Esiste un rapporto evidente con le teorie del complotto a proposito dell’11 settembre.

Ganser presenta tutta una serie di prove secondo cui si è agito là come con Gladio in Italia e le sue argomentazioni lasciano pensare che potrebbe essere avvenuta un’alleanza con dei gruppi estremisti, come in Italia ci si era affidati a gruppi dell’estrema sinistra come le Brigate Rosse.    Dopo tutto, quando Aldo Moro fu rapito – e in seguito assassinato – egli si era recato in Parlamento per presentare un programma di coalizione fra democristiani, socialisti e comunisti, fatto che gli Stati Uniti erano assolutamente decisi a contrastare.

 

I tattici della rivoluzione del nostro tempo

Le opere storiche che ho citato ci aiutano a capire quello che sta avvenendo ai nostri giorni. I miei colleghi e il sottoscritto, del British Helsinki Human Rights Group, abbiamo potuto constatare che anche attualmente vengono utilizzate le stesse tenich

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