Memoria 2011 / 9

Memoria a Trieste

Recenti articoli dal periodico triestino La Nuova Alabarda - http://www.nuovaalabarda.org/ :
1) ALESSIO MIGNACCA
2) TORTURE A TREBICIANO, DICEMBRE 1942
3) L’AVVOCATO GIANNINI

Sull' "Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia", in cui operava la famigerata “banda Collotti", torniamo a raccomandare la lettura dei seguenti articoli:

Sul recente sopralluogo di ex detenuti e torturati a Via Cologna:

Memoria, Trieste Via Cologna 6: ritorno all'inferno (dicembre 2010)
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-memoria%3A_trieste_via_cologna_6%2C_ritorno_all%27inferno..php
Il sopralluogo nella sede di detenzione e tortura dell'Ispettorato Speciale di PS di via Cologna a Trieste (2 dicembre 2010)
http://www.nuovaalabarda.org/foto-gallery/galleria19_pagina1.php )

Più in generale sull'Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia di Trieste:

Note sull'Ispettorato Speciale di PS (Banda Collotti) (ottobre 2006)
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-note_sull%27ispettorato_speciale_di_ps_%28banda_collotti%29.php
oppure http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5259
L'Ispettore De Marco E La Pubblica Sicurezza Sul Confine Orientale (maggio 2006)
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-l%27ispettore_de_marco_e_la_pubblica_sicurezza_sul_confine_orientale.php
oppure http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/5259
Giornata della Memoria: il rastrellamento di Borst (gennaio 2009)
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-giornata_della_memoria_2009%3A_il_rastrellamento_di_bor%9At..php
oppure: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6291
La Storia Di Lojze Bratuž e Ljubka Šorli (gennaio 2009)
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-giornata_della_memoria_2009%3A_la_storia_di_lojze_bratu%9E_e_ljubka_%8Aorli..php
Metodi Repressivi dell'Ispettorato Speciale di PS (gennaio 2009)
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-giornata_della_memoria_2009%3A_metodi_repressivi_dell%27ispettorato_speciale_di_ps..php
L'ordine pubblico nella Venezia Giulia tra il 1942 ed il 1943 (gennaio 2009)
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-giornata_della_memoria_2009%3A_l%27ordine_pubblico_nella_venezia_giulia_tra_il_1942_ed_il_1943.php
L'Ispettorato Speciale di PS di Trieste Nella Sede di via Cologna (ottobre 2010)
http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-l%27ispettorato_speciale_di_ps_di_trieste_nella_sede_di_via_cologna..php

Galleria fotografica: 
"Villa Triste" e la Banda Collotti
http://www.nuovaalabarda.org/foto-gallery/galleria6_pagina1.php


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GIORNATA DELLA MEMORIA E GIORNO DEL RICORDO 2011: ALESSIO MIGNACCA.

Seguendo il dibattito sui “crimini” dei partigiani, sugli arresti effettuati dalle autorità jugoslave nel maggio 1945 a Trieste, sugli “infoibamenti” e sulle cerimonie ufficiali che commemorano gli “infoibati” come “martiri” ed “uccisi solo perché italiani” o “perché si opponevano al disegno politico jugoslavo”, non si può fare a meno di pensare a tutti i membri dell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza per la Venezia Giulia, che vengono inseriti tra questi “martiri” perché sembra che siano stati fucilati a Lubiana. Tra essi l’agente dell’Ispettorato Alessio Mignacca del quale, dopo avere visto di quali azioni si era reso responsabile, certamente non giustifichiamo (parlando di storia non si dovrebbe fare del moralismo), però comprendiamo come possa essere stato condannato a morte da un Tribunale. 
Vediamo dunque il curriculum di Alessio Mignacca, così come appare dagli atti del processo contro Giuseppe Gueli, dirigente dell’Ispettorato ed altri funzionari della struttura (Carteggio processuale Gueli, in Archivio Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste, n. 914).
Iniziamo dalla vicenda di Umberta Giacomini (nata Francescani), che quando fu arrestata il 9/3/44 era incinta di quattro mesi. Il 15 marzo venne “interrogata” da Collotti, che la picchiò selvaggiamente assieme agli agenti Brugnerotto, Sica e Mignacca. Nel dibattimento svoltosi nel 1947 la donna “precisò che mentre Mignacca la colpì con un calcio e gli altri con verghe, il Brugnerotto la colpì solo (sic) con schiaffi”. A causa di questo abortì ed ebbe una forte emorragia, perciò fu trasportata all’ospedale. Successivamente Mignacca e Ribaudo vennero per riportarla all’Ispettorato, ma date le sue condizioni fisiche (non riusciva neanche a tenersi in piedi), come testimoniò lei stessa “soprassedettero dal tradurmi dal Collotti ed il Ribaudo mi disse pensate che abbiamo avuto pietà di voi perché eravate madre…”. 
Leggiamo ora una nota della Questura di Trieste datata 26/3/44.
“Alle ore 15 circa di oggi 26/3/44 l’ispettorato speciale di PS telefonava a questo ufficio informando che un agente della squadra del vice-commissario dott. Collotti, portatosi in via Giulia 176 per procedere ad una perquisizione domiciliare aveva ucciso un individuo che era stato fermato, durante un tentativo di fuga. Mi sono recato sul posto assieme al magistrato di servizio dott. Santonastaso ed abbiamo constatato che il cadavere giaceva in un cortile adiacente all’abitazione di via Giulia 176/1 dove era stata operata la perquisizione dalla squadra Collotti.
Il morto è stato identificato per mezzo di una carta di identità in suo possesso in Potocnik Francesco n. Fiume 1914. Il suddetto, all’atto della perquisizione si era dato alla fuga, rompendo il vetro di una finestra e buttandosi nel cortile sottostante, da dove rapidamente aveva cercato di dileguarsi. Sennonché era stato raggiunto da quattro colpi di pistola sparatigli dall’agente di PS Mignacca Alessio >.
A questa nota della Questura seguì una denuncia del procuratore di Stato aggiunto.
“Richiesta di autorizzazione a procedere contro l’agente di PS Mignacca Alessio. Perquisizione nell’abitazione di certa Vites in Cobau Luigia (v. Giulia 176) fermati la Cobau, Giuseppe Bevilacqua, Francesco Potocnik. Il Potocnik, rotto un vetro della finestra saltava dal I piano nel cortile interno e cercava di fuggire. Fatto segno a vari colpi di pistola da parte dell’agente Mignacca e raggiunto da un proiettile cadeva ucciso”.
Non sappiamo se la denuncia ebbe seguito. Un paio di settimane dopo (11/4/44) il Procuratore di Stato aggiunto scrisse all’Ispettorato Speciale di PS in questi termini.
“Oggetto: Caprini Roberto. Il nominato Caprini ha lamentato di essere stato fatto segno a percosse ed altre violenze alla persona che gli produssero ecchimosi varie, da parte di alcuni agenti di codesto ufficio i quali lo raccolsero dopo che egli si fu gettato dalla finestra nel corso del suo tentativo di fuga. Si prega di voler riferire…”. Ecco la risposta dell’Ispettore Generale di Polizia Giuseppe Gueli, dirigente l’Ispettorato (20/4/44).
“In relazione alla Vs. lettera dell’11 corrente si comunica che le affermazioni del Caprini sono prive di qualsiasi fondamento di verità. Il Caprini venne accompagnato a questo Ispettorato per essere interrogato circa una lettera dattilografata dal titolo “Lettera aperta del conte Sforza ex ministro degli Esteri al Re d’Italia”, trovata in possesso a certo Musitelli Mario che a sua volta confessò di averla avuta dal Caprini.
Nell’attesa appunto di essere interrogato su tale circostanza il Caprini tentava di darsi alla fuga saltando da una finestra al primo piano nel sottostante giardino ove veniva raccolto dalla guardia di PS Mignacca Alessio e dai pari grado Romano Gaetano, Sica Giuseppe e da altri prontamente accorsi che hanno provveduto a farlo ricoverare all’ospedale”.

gennaio 2011


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GIORNATA DELLA MEMORIA 2011: TORTURE A TREBICIANO, DICEMBRE 1942.

In una lettera inviata dal Capo della Polizia di Roma al Prefetto di Trieste in data 13/8/43 risulta che furono concessi alcuni premi a favore di militari dei Carabinieri “per la viva parte presa nello svolgimento della operazione di polizia che culminò con la cattura di numerosi ribelli e con la scoperta di una organizzazione comunista a fondo irredentista sloveno”. I militari che ricevettero questi premi (corrisposti dal Ministero dell’Interno) furono i marescialli Luigi Viro, Pietro Satta e Gaetano Losito; il brigadiere Arturo Vinci ed i carabinieri Alessandro Vedelago e Guido Girotti (risulta anche come Girotto, n.d.r.). L’operazione viene descritta in un’allegata relazione di servizio della Legione Carabinieri di Trieste, indirizzata alla Direzione Generale della PS a Roma, nella quale si chiedono “ricompense” per i carabinieri che avevano partecipato all’azione.
Secondo la relazione, nel paese di Trebiciano sul Carso triestino “fin dal mese di giugno 1942 si stava organizzando l’arruolamento di giovani partigiani”. Tra gli esponenti del movimento venivano identificati Ermanno Malalan e suo padre Giovanni, “il quale, subito fermato, dopo alcuni giorni di abili e laboriosi interrogatori, finì col fornire dei semplici indizi” che portarono all’identificazione di altri due “ribelli”, Antonio Sibelia e Giuseppe Udovich, quest’ultimo definito “pericoloso comunista” che si sarebbe “suicidato” il 15/1/43 “nel momento in cui stava per essere arrestato da alcuni agenti della locale Regia Questura”. 
Apriamo una breve parentesi per inquadrare Anton Šibelja “Stjenka”, operaio metallurgico originario di Tomaževica, membro del Partito comunista, che viene così descritto da Rudi Ursini-Ursič: “aveva, fin dagli inizi di luglio ‘41, subito dopo l’aggressione all’URSS, costituito sul Carso triestino un gruppo di sabotatori della ferrovia e dei piloni dell’alta tensione (…) guerrigliero nato, di stampo messicano inizio secolo” (in “Attraverso Trieste”, op. cit. p. 177). Invece Giuseppe Udovič, nome di battaglia “Nino”, era nato a Trieste nel rione di San Giovanni il 18/3/10; partigiano EPLJ, segretario cittadino del Fronte di Liberazione di Trieste, secondo i dati raccolti dall’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, rimase ucciso il 14/1/43 in uno scontro a fuoco con i carabinieri.
Proseguendo nella lettura del rapporto sopra citato, vediamo che l’attività del gruppo sarebbe stata finalizzata a “costituire nella zona di Trieste e dintorni cellule tendenti a sviluppare tra l’elemento slavo l’odio contro l’Italia ed il Regime; di svolgere propaganda comunista (…); ingaggiare elementi partigiani ed istigare i nostri soldati alla rivolta ed alla diserzione; raccogliere armi, munizioni, viveri ed indumenti per il rifornimento delle bande”, ed ebbe come “primo risultato” il fatto che un gruppo di dieci giovani di Trebiciano si allontanarono dalle proprie case il 6/12/42 per unirsi ai partigiani. La sera del 12 dicembre 1942 questi dieci giovani sarebbero incappati nella pattuglia formata dal carabiniere ausiliario Guido Girotto e dal fante Dino Denti; dopo un conflitto a fuoco, uno dei “ribelli”, Giuseppe Calzi, ferito da una bomba a mano lanciata da Girotto, veniva arrestato. “Dall’interrogatorio del ribelle, deceduto dopo poche ore” (sempre secondo i dati raccolti dall’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione Calzi, già Kalc prima di avere il nome “ridotto in forma italiana dal fascismo”, classe 1925, sarebbe deceduto il 13/12/42 all’Ospedale Civile di Trieste per ferite procurate da forze militari italiane), prosegue la relazione, “si ebbero vaghi indizi” e le indagini “rese oltremodo difficili a causa dell’omertà della popolazione della zona (quasi tutta di origine e sentimenti slavi e solidale con le bande dei ribelli”, grazie a “molteplici appiattamenti, pedinamenti e perquisizioni domiciliari a Trieste e periferia” alla fine portarono all’arresto di “tre altri ribelli armati di pistola e bombe a mano (…) furono inoltre arrestate altre 25 persone, tra le quali tre studentesse ed una scrittrice e maestra di canto”. Complessivamente, leggiamo, furono 47 le persone denunciate al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato per i reati di associazione sovversiva contro l’integrità dello Stato, assistenza ai partecipi delle bande armate e costituzione di bande armate.
L’operazione fu condotta dai Carabinieri della Compagnia Interna capitani Carmelo Capozza e Mario Romeo, dal sottotenente Federico De Feo (comandante la tenenza di via Hermet) che “ con slancio, fervore e spirito di sacrificio si prodigò in varie perquisizioni ed interrogatori”. I Carabinieri “si avvalsero inoltre dell’opera del nucleo corazzato antiribelli legionale al comando del tenente Morgera Vincenzo”; dei marescialli maggiori Luigi Viro (comandante della squadra investigativa antiribelli) e Pietro Satta (comandante la stazione dei Carabinieri di Opicina); del maresciallo d’alloggio Gaetano Losito. Nel documento ci sono anche altri nomi, ma sono cancellati con un tratto di penna. Diciamo qui che il tenente Morgera Vincenzo divenne, nel dopoguerra, un penalista piuttosto noto a Trieste e fu avvocato di parte civile, nell’immediato dopoguerra, di alcune vedove di “infoibati”.
Antonio Malalan, Caterina Ciuk e Cristina Ferluga furono tra gli arrestati di Trebiciano; incarcerati ai “Gesuiti” il 13/12/42, rimasero prigionieri per circa tre mesi e successivamente dichiararono (nel corso dell’istruttoria al processo contro i dirigenti dell’Ispettorato speciale di PS, celebrato nel 1947) di avere assistito a sevizie nei confronti di alcune donne e di avere sentito i loro racconti di violenze anche di tipo sessuale. Caterina Ciuk, ad esempio, riferì il racconto di una donna che nella deposizione venne identificata come “signorina Mariza Maslo”: “Altre cose immorali sono successe delle quali per vergogna non volle parlarmi”. Questa “Mariza Maslo” si può con molta probabilità identificare in Maria Maslo, sorella del comandante partigiano Karlo Maslo, che fu arrestata il 2/10/42 nel corso di un’operazione svoltasi nel “vallone boscoso ad est di Prelose S. Egidio, provincia di Fiume”, dal Nucleo Mobile di Polizia Centrale dell’Ispettorato Speciale di PS, con elementi del Nucleo Mobile di Polizia di Senosecchia, che, leggiamo in un rapporto del 13/1/43 firmato dal dirigente dell’Ispettorato, l’Ispettore generale Giuseppe Gueli, “al comando del V. Commissario Domenico Miano, veniva a contatto con un numero imprecisato di ribelli, comandato dal Maslo Carlo”. I “ribelli” riuscirono a fuggire tranne Maria Maslo “che indossava abiti maschili” e che “veniva raggiunta dal cane di polizia Frik in consegna all’agente di PS Casagrande Giovanni (…) che – addentandola ad una gamba – riusciva ad immobilizzarla (…)”. Nel rapporto leggiamo anche che la donna, interrogata, “dichiarò di essere venuta sul posto assieme al commissario politico della banda Maslo (…) per avere notizie dei fratelli Carlo e Cristina, che non vedeva più da mesi, di non essersi trovata assieme ad altri e di non avere mai svolto, fino a quel momento attività comunista”. Naturalmente gli uomini di Gueli non le credettero e “successivamente, a seguito di molti ed abili interrogatori si è riusciti a sapere dalla Maslo i nomi delle varie persone che le hanno fornito vitto e alloggio”. 
Vista la deposizione della signora Ciuk, possiamo ben capire come si svolsero realmente i “molti ed abili interrogatori”, così come gli “abili e laboriosi interrogatori” cui fu sottoposto Giovanni (Ivan) Malalan, ci vengono descritti dal figlio Lucijan, che aveva 11 anni quando fu arrestato, assieme ai suoi due fratelli ed al padre. Ecco il suo racconto.
“Il maresciallo Viro era quello che dirigeva le torture. Fece torturare noi ragazzi davanti ai nostri genitori ed i nostri genitori davanti a noi. La mattina del 13 (dicembre, n.d.a.) un giovane carabiniere entrò nella stanza dove ci avevano trattenuto per la notte nella stazione; faceva freddo e quindi accese una stufa perché provò compassione per noi. Dopo un poco entrò Viro e si mise a gridare contro di lui, perché sprecava del legno per dei ribelli, dei banditi, mentre i soldati al fronte morivano di freddo; andò a prendere un mastello d’acqua e lo rovesciò sulla stufa, per spegnere il fuoco. Quasi ci fece soffocare con quel vapore, e poi ci lasciò al freddo. Ci picchiavano senza pietà, bastoni, schiaffi, manganelli. Un mio fratello, quattordicenne, non voleva confessare di avere aiutato i partigiani, lo picchiarono riducendolo ad una maschera di sangue, poi lo lasciarono vicino al muro e fecero entrare altri ragazzini della sua età, che vedendolo ridotto in quelle condizioni, si spaventarono e raccontarono tutto: chi di avere portato del cibo, chi delle armi e così via.
Però in questo elenco manca un nome: c’era anche un altro brigadiere che si chiamava Calligaris, o qualcosa di simile: era una belva, fu lui ad appendere per il collo mio fratello”. 
Specifichiamo che i fratelli Malalan erano quattro: il maggiore, Herman (Ermanno) Roman, che aveva iniziato la lotta assieme al gruppo di Anton Šibelja, cadde il 25/9/43 a diciannove anni, combattendo con la Kosovelova brigada presso Komen; un altro fratello, Milan, quindicenne, dopo l’arresto del dicembre 1942, fu incarcerato a Forlì in attesa di giudizio dal Tribunale Speciale, e dopo l’8 settembre 1943 consegnato ai tedeschi e deportato in Germania. Lucijan e il fratello Livio, di un anno maggiore, dopo l’8 settembre 1943 fuggirono con il padre Ivan (che era già da tempo collegato col Movimento di liberazione sloveno) e la madre Cristina, e divennero così effettivi nell’Esercito di liberazione jugoslavo, assieme al quale rientrarono a Trieste nei primi giorni di maggio 1945.
Torniamo ai responsabili degli arresti. Del maresciallo Viro, che viene indicato da Cristina Ferluga come torturatore della partigiana Majda Dekleva (nome di battaglia “Vera”; nell’autunno del ’44 entrò a fare parte del Comitato della Zveza Slovenske Mladine, Unione della gioventù slovena), leggiamo nel rapporto che “durante gli interrogatori degli arrestati dimostrò sagacia, intuito ed abilità non comuni” (forse anche qualcos’altro di “non comune”, possiamo commentare). Viro, Satta e Losito furono proposti per un premio in denaro di 500 lire, Vinci di 300.
L’operazione tutta (gli arresti ed anche le torture cui furono sottoposti gli arrestati), fu quindi ufficialmente opera non di agenti di PS ma di carabinieri: questo particolare avrà la sua importanza quando, nel corso del processo Gueli, si discuterà anche di questi crimini. Infatti la Corte Straordinaria d’Assise decise che essendo le violenze denunciate da Caterina Malalan state commesse dai Carabinieri di Opicina, non se ne poteva attribuire la responsabilità all’Ispettorato.
A questo punto sorge spontanea questa osservazione: perché non furono assunti come prove i verbali che noi abbiamo reperito negli archivi e che all’epoca dovevano trovarsi ancora agli atti in Prefettura, e che attestavano che l’operazione in cui fu arrestata Maria Maslo e quella di Trebiciano erano state organizzate dall’Ispettorato Speciale?

gennaio 2011


Tra Ufficio Zone di Confine, Porzus, e Pasquinelli: l'avvocato Giannini di Trieste

MEMORIA: L’AVVOCATO GIANNINI DI TRIESTE.

In questi giorni dedicati alla memoria (dei crimini del nazifascismo) e del ricordo (delle “foibe” e dell’esodo dall’Istria) cade anche un altro anniversario, quello dell’eccidio di Porzûs, quando un gruppo di partigiani “bianchi” della Divisione Osoppo fu ucciso da partigiani della Garibaldi, comandati da Mario Toffanin “Giacca”. La vicenda, tuttora controversa nonostante (o, forse, anche per) il complicato iter giuridico svoltosi nel dopoguerra, mostra ancora tanti punti oscuri ed è impossibile parlarne in queste poche righe (vi rimandiamo per questo a due studi, “Porzûs, Dialoghi sopra un processo da rifare, di A. Kersevan, Kappa Vu 1995 e “Porzûs: la Resistenza lacerata”, di D. Franceschini, IRSML FVG 1996): diciamo soltanto che alle malghe di Porzûs si trovava, assieme agli osovani comandati da Francesco De Gregori “Bolla”, una donna denunciata come spia da Radio Londra (Elda Turchetto, che fu tra gli uccisi), e che si era diffusa la notizia che l’Osoppo aveva avuto dei contatti con la Decima Mas in funzione anticomunista ed antijugoslava. 
Tralasciando le possibili interpretazioni della vicenda vorremmo invece in questa sede parlare del ruolo avuto dall’avvocato di parte civile al processo iniziato a Lucca nel 1951, il triestino Luigi Giannini.
L’avvocato Giannini, medaglia d’argento al valore militare (ma non siamo riusciti a trovare le motivazioni di questa onorificenza), padre di Enrico Giannini (militare della “Legnano” rientrato a Trieste nel maggio 1945 ed arrestato dalle autorità jugoslave, poi scomparso in prigionia), aveva assunto, nel 1947, la difesa di Maria Pasquinelli. Ricordiamo chi era Maria Pasquinelli, ex insegnante di mistica fascista, che si recò come crocerossina in Africa e lì sì travestì da uomo per combattere con l’esercito italiano (e per questo motivo fu espulsa dalla CRI); dopo l’8 settembre si era recata in Istria e in Dalmazia, dove aveva condotto delle ricerche sulle “foibe” per conto della Decima Mas e successivamente aveva fatto da collegamento tra la Decima e la Osoppo (abbiamo trovato in rete questo riferimento al lavoro di Pasquinelli, ma il link non è più disponibile: “tentò verso la fine del 44 e gli inizi del 45, su mandato del comandante Borghese, di trovare un accordo fra la X Mas e la Brigata partigiana Osoppo in funzione anti slava, per preservare le popolazioni civili giuliane e dalmate dalle stragi delle bande titine”). Coincidenza: Maria Pasquinelli aveva avuto una parte negli eventi che portarono alla tragedia di Porzûs, del cui processo si occupò in seguito lo stesso avvocato che assunse la sua difesa quando l’ex maestra, dopo la firma del Trattato di pace del 1947, andò a Pola ed uccise a bruciapelo l’ufficiale britannico Robin de Winton, padre di famiglia, motivando il suo gesto criminale con queste parole:
“Mi ribello, con il proposito fermo, di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi, i quali, alla conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d\'Italia”.
L’avvocato Luigi Giannini, dunque, difese Maria Pasquinelli, ed esordì davanti alla Corte alleata con queste parole:
“Prima di ogni altra cosa, signor presidente, io mi considero un italiano che difende un’italiana”.
Subito dopo lo svolgimento del processo Pasquinelli troviamo il nome dell’avvocato Giannini in una relazione “riservata”, datata 10/6/47 ed indirizzata dall’Ufficio staccato di Venezia al Prefetto Micali, responsabile per la Venezia Giulia del neo costituito provvisorio Ufficio per le Zone di Confine. Questo Ufficio, ricordiamo, aveva come scopo la “difesa dell’italianità” sia nell’Alto Adige, sia nella Venezia Giulia. Prendiamo alcuni stralci da questa relazione (che si trova citata nella sentenza ordinanza del Giudice Istruttore Carlo Mastelloni di Venezia n. 387/87 AGI “Argo 16”, p. 1.791), che tratta della necessità di trovare una persona adatta a gestire la situazione triestina, dove “è necessario che tutti gli italiani siano cementati in un sol blocco da opporre a quello slavo-comunista, compatto ed unitario, e trarre così quella forza di resistenza tanto necessaria al sostegno ed alla difesa dell\'Italianità della Venezia Giulia”, dove per arrivare a questa coesione non sono considerati adatti i partiti (che “dividono anziché unire i cittadini”) ma piuttosto la Lega Nazionale, che però dovrebbe avere come coordinatore un “fiduciario del governo”, con i requisiti “della popolarità, della conoscenza perfetta della situazione politica, della non appartenenza ai partiti politici, dell’unanime stima e fiducia della popolazione”. Questa persona, che “dovrebbe rappresentare la longa manus del governo, avere ampi poteri, indirizzare la vita politica nella lotta a sostegno dell’italianità della Venezia Giulia”, viene identificato nella persona dell’avvocato “Luigi Giannini, antifascista, colonnello dell\'esercito italiano al seguito delle forze alleate, professionista di alto valore, di vasta preparazione politica, carattere energico, unanimamente stimato e particolarmente popolare quale difensore della Pasquinelli”.
Se poi l’avvocato Giannini abbia rappresentato la longa manus del Governo italiano nella Venezia Giulia (in un momento in cui, ricordiamo, la Venezia Giulia era amministrata da un Governo militare alleato) non siamo riusciti a ricostruire dai dati in nostro possesso, quindi teniamo in sospeso la questione e facciamo un salto in avanti, all’epoca dell’istruttoria per il processo Porzûs.
Riprendiamo in mano la sentenza ordinanza di cui sopra, riportando una breve valutazione del magistrato (p. 1.807) sul comportamento dell’Ufficio Zone di Confine relativamente allo svolgimento dell’istruttoria per i fatti di Porzûs.
< Si trattò dunque di una necessità politica coerente al clima proprio del periodo degli anni dal 1950 al 1952: occorreva ribadire che l’episodio, anche se avvenuto durante la lotta di Liberazione, era da ricondurre esclusivamente alle minacce comuniste di occupazione di parte del territorio nazionale, quanto mai attuali nella Venezia Giulia ove ancora non si era intravista alcuna possibile e soddisfacente soluzione della questione di Trieste.
Si trattò anche di un’ingerenza criptica che passò attraverso i rituali schemi della sovrapposizione dell’Esecutivo al potere Giudiziario, prono alle direttive ricevute (…) >.
Successivamente troviamo inserite nella sentenza alcune comunicazioni intercorse nel 1951 tra il prefetto Innocenti (capo dell’Ufficio Zone di Confine) e l’onorevole friulano Carron “scelto come il canale attraverso cui la Presidenza del Consiglio gestiva anche il lato pratico di alcuni aspetti non trascurabili del processo affidandogli le sovvenzioni finanziarie dirette ad integrare, per così dire, le spese sostenute per le trasferte dai testi e dalle parti lese ritenute insufficienti”. Questo il testo della Nota n° 200/432 del 20/1/51: 
< “Egregio Onorevole, (Carron) l’Avv. Giannini mi informa da Trieste che l’affare “Porzûs” ha subito una battuta d’arresto, che non prelude a nulla di buono per i nostri interessi. 
Egli mi ha soggiunto, inoltre, che Lei avrebbe dovuto presentare alla Giustizia un appunto in proposito: ma fino a ieri, secondo quanto mi ha confermato il Cons. Olivieri Sangiacomo – Capo Gabinetto della Giustizia – nulla sarebbe giunto a quel Ministero. 
Poiché la questione riveste un carattere di particolare urgenza, Le sarò assai grato se vorrà cortesemente farmi conoscere se e quali passi Ella abbia inteso compiere al riguardo…”.

Annesso al telex è stato rinvenuto un altrettanto eloquente manoscritto ove sono fissati alcuni concetti , da qualificarsi vere e proprie direttive, che prontamente riceveranno attuazione: con buona pace del principio di indipendenza della magistratura appena sancito nella carta Costituzionale: 
“Alla cassazione: pendenti ricorsi imputati (processo Porzûs…) intesi a ottenere:
1) revoca dei mandati di cattura in quanto i reati contestati sarebbero stati commessi per i fini politici considerati ai decreti,
2) il rinvio, la nuova istruttoria, la successiva eventuale unione dei giudizi sarebbe irrituale.
Convocare il P.G. di Venezia (quivi, però, è l’Avv. Gen. Tissà che si occupa del processo) e ordinargli che proceda subito contro coloro per cui abbiamo presentato denuncia.
Meglio se fosse incaricato di promuovere l’azione penale il procuratore di Udine (Franz), perché costoro si trovano sul luogo e conoscono i fatti” >.
Successivamente troviamo citato un 
< telex a firma del Prefetto INNOCENTI, che reca il “n° 200/2126/4.124” e datato “18 aprile 1950 ”, inviato all’Avvocato GIANNINI di Trieste rivela come il dirigente l’Ufficio Zone di Confine conoscesse in anticipo ciò che la Cassazione avrebbe deciso: l’assegnazione alla sede di Venezia della trattazione del processo di primo grado all’esito di un ricorso avviato dai difensori della Garibaldi per legittima suspicione in relazione al radicamento della causa a Udine.
Vi è un ulteriore manoscritto , attribuibile - vista la grafia - sicuramente all’avvocato GIANNINI , che evidenzia come il legale abbia chiesto un attivazione del Governo per un intervento presso il Ministero di Grazia e Giustizia i cui organi avrebbero dovuto convocare il Presidente della Corte di Appello ed eventualmente il Procuratore Generale per rappresentare ad essi “ciò che è giusto e necessario fare”:
Un ulteriore intervento finanziario della Presidenza, finalizzato al deposito nel processo di documenti comprovanti la responsabilità dei “Capi Garibaldini” nell’eccidio - documenti tenuti dall’Avv. GIANNINI di Trieste - viene richiesto da Don Aurelio DE LUCA (fondatore della Div. Osoppo) all’Ufficio Zone di Confine. In tal senso il Prefetto INNOCENTI, in data 17 gennaio 1951, stila un Appunto “per l’On. Sottosegretario di Stato” chiedendo l’autorizzazione per un ulteriore impegno finanziario della Presidenza del Consiglio a favore dell’Avvocato GIANNINI :
“Oggetto: processo Porzûs. (Richiesta di Don Aurelio De Luca)
In via riservata ma da fonte attendibilissima (procuratore Repubblica Udine) la Osoppo Friuli è stata avvertita che fra pochi giorni l’istruttoria per il processo Porzûs sarà chiusa.
Non essendosi presentati ancora i documenti definitivi comprovanti le responsabilità dei capi Garibaldini arrestati un mese fà questi verranno rilasciati a piede libero perchè assolti in istruttoria.
La documentazione comprovante la responsabilità degli stessi è nelle mani dell’Avv. Giannini di Trieste, il quale per altro non intende interessarsi ulteriormente del processo se non ha una assicurazione che verrà retribuito per l’opera prestata.
È necessario quindi che l’Avv. venga assicurato immediatamente che non mancheranno i mezzi per la ripresa del processo.
Si fa presente a V.E. che per tale questione la Presidenza ha già erogato la somma di L. 3.500.000, che tramite l’On. Carron sono già stati spesi nella prima fase del processo già svoltosi nel gennaio sc.a. a Brescia.
Per le immediate esigenze di cui sopra viene richiesto un contributo di almeno un milione e mezzo.
Roma, 17 gennaio 1951”.
In calce all’Appunto si rileva la decretazione dell’autorizzazione alla spesa da parte del Sottosegretario >. 

In sintesi, se abbiamo capito bene, l’avvocato Giannini sarebbe stato in possesso di documentazione tale da incriminare gli accusati dell’eccidio di Porzûs, ma per consegnarla agli inquirenti avrebbe chiesto “un contributo di almeno un milione e mezzo” di lire dell’epoca: contributo che gli fu prontamente versato dalla Presidenza del Consiglio, che finanziava l’Ufficio Zone di Confine (ricordiamo che il sottosegretario che si occupava di questo Ufficio era l’allora giovane Giulio Andreotti, all’inizio della sua carriera politica). 
A noi, persone di mentalità ristretta ed antiquata, un tale comportamento appare vagamente anomalo, dato che siamo del parere che un legale incaricato di seguire un’istruttoria dovrebbe, trovandosi in mano documentazione necessaria alle indagini, consegnarle senz’altro agli inquirenti, e non richiedere “contributi” economici.
Abbiamo comunque ritenuto utile rendere nota questa documentazione nei giorni in cui, nel corso delle cerimonie in ricordo dell’eccidio, abbiamo sentito chiedere che l’intera zona delle malghe venga dichiarata monumento nazionale e paragonare (dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi, curiosamente la stessa carica che aveva ricoperto Andreotti all’epoca del processo) i “nostri militari impegnati in Afghanistan” ai partigiani della Osoppo, morti per “valori universali”.