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una lezione di Storia tra l’ostruzionismo dell’ateneo e l’irruzione di Casa Pound. Che fine ha fatto la cultura?
di Luca Romeo
Penso che quanto successo ieri, 12 febbraio 2013, all’Università di Verona sia una gravissima interruzione di democrazia e che l’ateneo veneto abbia confezionato una pessima figura agli occhi del mondo universitario nazionale e non solo.
Un incontro-lezione di Storia Contemporanea, è terminato con un irruzione violenta tra le pareti dell’edificio, un clima di tensione e paura e l’arrivo della polizia a circondare l’ateneo e permettere l’uscita alla relatrice e agli studenti che stavano seguendo il dibattito.
Andiamo con ordine.
Da circa un mese un collettivo studentesco interno all’università ha organizzato un incontro con la storica Alessandra Kersevan, dal titolo “Foibe: tra mito e realtà“. Un titolo di per sé provocatorio per quanto riguarda la vicenda che ha visto migliaia di italiani morire nelle fosse scavate nelle terre slave confinanti al Friuli, ma che va contestualizzato. Nessuna apologia dei crimini di Tito: la lezione storica ha portato alla luce alcuni dei fatti precedenti all’8 settembre 1943, giorno del secondo armistizio italiano durante la seconda guerra mondiale e – nella pratica – momento in cui l’Italia è passata da paese aggressore (della popolazione slava) a paese aggredito (dai partigiani slavi unitisi ai comunisti di Tito).
La sera precedente l’incontro – ripeto, organizzato da circa un mese – il rettore dell’ateneo decide di revocare il permesso dell’aula e di annullare l’incontro considerato “revisionista” e “negazionista”, trovando ampi consensi dai quotidiani locali L’arena e Il corriere del Veneto e il plauso del sindaco di Verona Tosi(Lega Nord).
Increduli, i ragazzi che hanno organizzato l’incontro, decidono di svolgere ugualmente la lezione. Io tra loro, puntuale alle 16, mi trovo tra i corridoi dell’ateneo a cercare di capire dove portare la storica Kersevan e dove assistere a questa lezione. Le aule, sono quasi tutte chiuse a chiave.
Piccola precisazione: il sottoscritto è a Verona da pochi mesi e non appartiene ad alcun collettivo studentesco, né a particolari partiti politici. La mia unica colpa, ieri pomeriggio, era quella di essere appassionato di Storia Contemporanea e di conoscere in modo parziale la vicenda delle foibe (in realtà, molto di quanto detto dalla storica sono notizie reperibili in diversi manuali in materia).
Già dal primo pomeriggio, il clima intorno all’ateneo è teso. Alcuni professori e un amministratore dell’università fanno di tutto per far desistere gli organizzatori dell’incontro, i quali sono decisi a permettere alla Kersevan di parlare. La storica, dal canto suo, non si china all’assurdità imposta dall’alto: che cosa può esserci di male in un dibattito sulla Storia? Tutt’al più si può ascoltare senza essere d’accordo e porre domande alla relatrice sulle questioni che si ritengono più spinose. Da amante della Storia Contemporanea, mi preparo all’incontro con questo spirito: prendere appunti, pormi dei dubbi e cercare di scioglierli facendo domande pertinenti alla professoressa improvvisata.
Il clima di tensione, però, si alimenta quando fuori dall’ateneo comincia un piccolo siparietto di alcuni esponenti di Casa Pound e Blocco Studentesco (gli studenti di estrema destra), i quali espongono uno striscione contro l’attività proposta in ateneo (compare la scritta “Non farti infoibare dall’ignoranza“) e una ‘mostra’ fotografica che presenta alcuni degli italiani maltrattati dai partigiani slavi dopo l’8 settembre 1943.
Inizialmente penso che ognuno sia libero di pensarla come meglio crede, che in fondo anche questi esponenti di estrema destra (che non sembravano studenti, ma persone di età maggiore) avessero il diritto di non voler partecipare all’incontro, in quanto strenui difensori di un patriottismo italiano che vede nelle foibe un simbolo di martirio. Poi però penso che l’incontro non si basa affatto su temi negazionisti, nessuno mette in discussione la vicenda delle foibe, ma che gli studenti – come me – appassionati di Storia Contemporanea, abbiano tutto il diritto di sapere per quale motivo gli slavi operarono con tanta ferocia sugli italiani e che cosa fosse successo prima di quell’armistizio. Ignoranza sarebbe non porsi queste domande: tutt’al più – come dicevo prima – si può non essere d’accordo. In fondo, è solo una lezione di storia.
Alle 16.30 circa, si trova finalmente un’aula nella quale seguire l’incontro. I professori e l’amministratore, per tutta risposta, cercano di ostacolarci in ogni modo. Ben tre volte viene tolta la corrente all’aula, in modo che la Kersevan non potesse proiettare le fotografie raccolte e costringendoci a seguire la lezione nel buio totale. Visto che alcuni studenti riescono in qualche modo a ripristinare la corrente (agganciando una prolunga all’elettricità fornita alla macchinette del caffè), qualcuno decide di far saltare la corrente dell’intero piano terra dell’edificio. Faccio presente che a questo piano c’è anche l’aula degli studenti diversamente abili, anch’essi rimasti senza luce e computer.
Trovo assurdo che un’università e un rettore ‘magnifico’ possano consentire tutto questo. In fondo, si tratta solo di una lezione di storia, senza apologie di macellai, senza scuse per nessuna atrocità, ma incentrata sull’esposizione di fatti spesso occultati, relativi all’occupazione italiana in Jugoslavia e Slovenia nei primi anni ’40.
Ma – non l’avrei mai detto – il peggio doveva ancora arrivare.
Quando l’interessante lezione è ormai al termine e quando ho già raccolto due pagine di appunti e ho pronte alcune domande che potessero sciogliere i miei dubbi, le parole della Kersevan vengono interrotte da un’irruzione degli esponenti di Casa Pound in università. Parte un fuggi fuggi generale, in aula la paura è tanta, tutti scappano verso il cortile interno. Molte ragazze perdono il controllo, alcune piangono, alcuni cadono nel tentativo di fuggire. Le porte dell’aula vengono sbarrate, purtroppo noi appassionati di Storia Contemporanea non siamo assolutamente portati allo scontro fisico e la paura di un aggressione è davvero forte.
A un certo punto, da un’altra uscita, gli esponenti di Casa Pound raggiungono il cortile dove ci eravamo rifugiati, scandendo slogan come “Tito boia! Tito boia!“. Questo mi fa pensare a come non avessero nemmeno idea sul tema del nostro dibattito. Nessuno, in quell’aula ha mai parlato di Tito come un santo, si cercava solo di approfondire le ragione dell’odio slavo nei confronti degli occupatori italiani.
Ci precipitiamo di nuovo dentro e stavolta sbarriamo anche le porte che danno al cortile. Regna il caos. Ci sentiamo topolini in trappola. Fortunatamente, qualcuno avverte la polizia che interviene disperdendo gli esponenti di estrema destra e ci permette di uscire per strada, scortando la storica Kersevan, che non solo ha dovuto subire il danno e la beffa di tenere una lezione universitaria al buio totale, ma che si è vista interrompere da un’irruzione che puzza di squadrismo fascista degno del Ventennio.
Avete capito come funziona l’università? Gli studenti appassionati di Storia non hanno i permessi di svolgere una pacifica lezione su temi assolutamente non negazionisti, ma di puro approfondimento. I rettori hanno la facoltà di proibire senza motivo tali incontri. I sindaci applaudono le decisioni. I funzionari dell’ateneo, anziché proteggere gli studenti, staccano loro la corrente elettrica. Agli esponenti di Casa Pound è permesso fare irruzione all’interno dell’università per ostacolare una lezione di storia.
I giornali locali stanno dalla parte dell’università, del sindaco – ça va sans dire – e di chi ha staccato l’elettricità e in definitiva dei contestatori di estrema destra.
Che cosa leggo ora sui giornali? Che verrà chiesta la revoca dello spazio autogestito dagli studenti dei collettivi, quelli che hanno organizzato l’incontro. Uno spazio di quattro metri per quattro di per sé insufficiente e per il quale esiste un contratto che non ha motivo di essere sciolto. Quale sarebbe il motivo? Avere organizzato un incontro culturale?
Stiamo freschi, questa è l’università italiana. Poi piangiamo se ci sono 50 mila iscritti in meno rispetto agli anni scorsi.
Cosa racconterò ai miei genitori? Loro mi dicevano: “Vai all’università e fregatene dei voti che prenderai, bada solo a imparare tutto quello che puoi, segui ogni corso possibile, partecipa ai convegni, ascolta tutte le campane e poniti sempre dei dubbi. In seguito fatti un’idea”.
Me ne sono fregato dei voti, sto cercando di imparare il più possibile, sto seguendo tutti i corsi che riesco e partecipando a ogni convegno che sembra interessante, ascoltando ogni campana disponibile e ponendomi innumerevoli dubbi.
Da ieri, un’idea me la sono fatta: l’università italiana, forse, non è pronta per ospitare studenti come me, che vogliono imparare. Che pessima figura. Quante assurdità, quante contraddizioni.
Che vergogna.
Date: 31 gennaio 2013 15:35
Oggetto: [15-O Trieste] Il giorno del Ricordo e la nota del MIUR
IN DIFESA DI IVAN MOTIKA, ACCUSATO DI ESSERE UN INFOIBATORE
Claudia Cernigoi
Febbraio 2013
INTRODUZIONE.
Nell’operazione in atto da diversi anni della riscrittura della storia a scopo politico, nella fattispecie nella parte
che concerne la rivalutazione del fascismo operata passando attraverso la criminalizzazione della lotta partigiana, un ruolo di rilievo è ricoperto dalla propaganda costruita intorno alle inchieste per i cosiddetti “crimini delle foibe”.
Nonostante la propaganda sulla “questione foibe” parli di “migliaia di infoibati sol perché italiani”, alla fine la
Magistratura è arrivata ad individuare un numero ristretto di morti che (senza voler mancare di rispetto a chi è stato ucciso), se inseriti nel giusto contesto storico e politico, finiscono col rappresentare una parte molto limitata delle vittime complessive di quell’enorme massacro che fu la seconda guerra mondiale. Quindi un’analisi di queste risultanze processuali dovrebbe porre fine alla canea che da decenni contamina la storia politica delle nostre terre.
Eppure, nonostante si sia più volte dimostrato che gli “infoibati” non furono migliaia, che gli uccisi furono o
persone compromesse col regime fascista e collaborazionisti dei nazisti, oppure vittime di vendette personali che non possono essere imputate al movimento partigiano o all’esercito di liberazione jugoslavo, nonostante questo, dicevamo, la propaganda e la mistificazione continuano.
Tipico in questo contesto il modo di fare disinformazione piuttosto che informazione da parte di molta stampa: titoloni in grassetto ed articoli a tutta pagina nei momenti in cui venivano indicati i nomi dei possibili indagati, dipinti come “feroci infoibatori”, “boia” e via di seguito; mentre nel momento in cui le risultanze processuali sancivano le archiviazioni o le assoluzioni, gli stessi periodici si limitavano a darne notizia in trafiletti di poche righe.
Così è accaduto anche per il cosiddetto “processo per le foibe”, che ha visto un imputato (il fiumano Oskar
Piškulić) processato e prosciolto dall’accusa di tre omicidi commessi nel maggio ‘45 a Fiume (e che nulla avevano quindi a che fare con la questione delle “foibe” istriane), mentre la posizione dell’altra imputata per gli stessi reati, Avjanka Margitić, deceduta prima dell’inizio del dibattimento è stata archiviata per “morte del reo”. La stessa archiviazione è stata fatta per Ivan Motika, che era stato indicato quale responsabile degli “infoibamenti” dell’Istria del 1943, anch’egli morto prima dell’inizio del processo. Ma, mentre la questione di Fiume è stata alla fine in un certo qual senso chiarita in sede giudiziaria (e ad essa andrebbe dedicato uno studio a parte, data la complessità della vicenda), nessuna chiarificazione è stata fatta per quanto concerne le accuse rivolte ad Ivan Motika, morto con la nomea dell’“infoibatore” a causa della campagna stampa condotta sui giornali, nonostante contro di lui non vi fossero, come intendiamo dimostrare in queste pagine, elementi sufficienti per provarne la colpevolezza. Dato che Motika non ha avuto giustizia in vita, lo scopo di questa pubblicazione è di cercare di rendere giustizia quantomeno alla sua memoria, valutando da una parte le testimonianze presentate contro di lui in istruttoria e producendo d’altra parte quali elementi a suo discarico altre testimonianze e documenti storici che abbiamo raccolto. ...
continua a leggere e scarica in pdf IN DIFESA DI IVAN MOTIKA: http://www.diecifebbraio.info/wp-content/uploads/2013/02/IN-DIFESA-DI-IVAN-MOTIKA..pdf
UN “INFOIBATO” IN MENO, UN PARTIGIANO TRUCIDATO DAI NAZIFASCISTI IN PIÙ
Antonio Ruffini è nato a Termoli, in Molise, il 16 aprile 1921. Figlio di Donato, ferroviere, e di Concettina Mucci, nel 1927 rimane orfano del padre, morto in un incidente sul lavoro. La madre rimane sola con tre figli, Antonio, Cleofino e Maria. Antonio è il maggiore e nel 1928 viene accolto presso il Convitto nazionale di Veroli, dove rimane per 12 anni, fino al conseguimento del diploma magistrale (maestro elementare) nell’estate del 1940. Subito dopo si iscrive all’Istituto Universitario Orientale di Napoli, ma già nel febbraio del 1941 viene richiamato alle armi. Pur avversando la guerra Antonio non può che rispondere alla chiamata e viene spedito in zona di guerra con il 31° reggimento fanteria. In settembre viene ammesso al corso ufficiali di complemento a L’Aquila. Nell’aprile del 1942 viene nominato sottotenente di complemento e il 16 aprile giunge al XVI deposito G.a.f. (Guardia alla Frontiera) di Tolmezzo. Nel maggio dell’anno seguente viene trasferito al 153° regg. Fanteria mobilitato a Trieste, che opera in territorio dichiarato in stato di guerra (nella zona tra Divača (Divaccia), Sežana (Sesana), Ilirska Bistrica (Villa del Nevoso) e Pula (Pola)).Nel giugno del 1943 viene trasferito al 53° regg. della divisione »Sforzesca«, in ricostruzione a Trieste dopo le gravissime perdite subite in Russia. Il 31 marzo 1943 la famiglia riceve la sua ultima cartolina, poi arriva l’8 settembre. Antonio, come centinaia di migliaia di soldati del Regio Esercito, si »sbanda«. Nel suo stato di servizio l’ultima annotazione è del 21 febbraio 1947: »Disperso a Capodistria (Istria) durante lo sbandamento nel marzo 1944«.
Ma perchè quel riferimento a Capodistria e al marzo del 1944? Si tratta del risultato delle ricerche che la madre di Antonio, rimasta sola con la figlia minore Maria (il figlio più giovane, Cleofino, è infatti caduto come armiere della torpediniera “Ciclone” della Regia Marina nell’agosto 1942 venendo insignito della medaglia d’argento al VM), inizia appena le è possibile farlo, all’indomani della liberazione di Termoli (3 ottobre 1943), per sapere che fine avesse fatto il suo figlio maggiore. Nel corso delle sue ricerche la signora Concettina entra in corrispondenza con un certo Carlo Nobile di Capodistria. Il Nobile è una persona importante a Capodistria: possidente, è uno dei maggiorenti della città ed è stato l’ultimo sindaco – socialista – liberamente eletto di Capodistria prima del fascismo. Il 27 luglio 1945 il Nobile manda una cartolina alla vedova Ruffini, in cui scrive tra l’altro: »… Le ripeto che Suo figlio, il 23 marzo 1944, verso le ore 21 fu costretto a lasciare casa mia assieme a Renato Castiglione di Napoli e Arturo Russo di Taranto da una pattuglia di partigiani che li invitarono seco loro. In quel medesimo periodo i partigiani fecero partire anche parecchi giovani del luogo. D’accordo con i partigiani i tre promisero di scriverci a un indirizzo convenuto. Nulla più ricevemmo, né allora né poi. Da informazioni qui attinte sembra che i tre sono stati fatti passare in Friuli con i garibaldini italiani, ma nulla purtroppo abbiamo potuto sapere di positivo. Può anche essere che durante il tragitto siano stati fatti prigionieri dai tedeschi e in quel caso – come nell’altro che siano rimasti con i partigiani in luoghi remoti – le notizie, e loro fatti potrebbero giungere di giorno in giorno. Ciò appunto fervidamente auguro a Lei, Distinta Signora, e a noi tutti….«.
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Inviato: martedì 12 febbraio 2013 17:51
A: lettere@...
Oggetto: FOIBE..ALCUNE RIFLESSIONI ...SULLA REALTA' E SULLA PROPAGANDA.
Resistenza al confine orientale e questione “foibe”: ricerca storica o disinformazione strategica?
Nella ricerca storica sulla questione delle “foibe” il primo periodo storico da esaminare è quello dell’immediato dopo 8 settembre 1943, quando, in seguito all’armistizio firmato con gli Alleati, i militari italiani furono abbandonati dai vertici dell’esercito e si trovarono allo sbando. In questo stato di vacanza del potere alcune zone dell’Istria passarono per breve tempo sotto il controllo delle formazioni partigiane; vi furono arresti di persone, in genere compromesse con il regime fascista, ed anche esecuzioni sommarie causate da vendette personali. Le vittime di questo periodo furono circa 300; i corpi di 200 di queste vittime furono riesumati da svariate “foibe”, ma su questi recuperi torneremo più avanti.
Consideriamo ora invece che per riprendere il controllo del territorio i nazifascisti causarono, tra fine settembre ed i primi di ottobre, migliaia di vittime nel territorio istriano: il fatto è che di questi morti non si parla mai, come se non esistessero, nonostante siano almeno dieci volte più numerosi degli “infoibati” nel periodo immediatamente precedente.
Da subito iniziò l’uso strumentale delle foibe per nascondere i crimini commessi dai nazifascisti: si misero in evidenza esclusivamente le violenze operate dai partigiani tacendo della feroce repressione nazifascista. Esempio di questa manovra è la pubblicazione di un libello dal titolo “Ecco il conto!”, pubblicato sia in lingua italiana che in lingua croata, contenente alcune foto di esumazioni di salme e basato fondamentalmente su slogan anticomunisti. Si volle in tal modo creare un clima di terrore nella popolazione allo scopo di isolare il movimento partigiano, che veniva descritto come feroce e pericoloso per tutti i civili, e che lo scopo del potere era proprio quello di difendere la popolazione dalle violenze dei partigiani.
Per comprendere come iniziò la propaganda nazifascista : < I servizi della X Mas assieme a quelli nazisti organizzarono la riesumazione propagandistica degli uccisi, con ampio uso di foto raccapriccianti dei cadaveri semidecomposti e dei riconoscimenti da parte dei parenti. Le prime pubblicazioni organiche di propaganda sulle foibe sono due: “Ecco il conto!” edita dal Comando tedesco già nel 1943, ed “Elenco degli Italiani Istriani trucidati dagli slavo-comunisti durante il periodo del predominio partigiano in Istria. Settembre-ottobre 1943” redatto nel 1944 per incarico del Comandante Junio Valerio Borghese, capo della X Mas e dell’on. Luigi Bilucaglia, Federale dei Fasci Repubblicani dell’Istria, da Maria Pasquinelli con l’ausilio di Luigi Papo ed altri ufficiali dei servizi della X Mas >.
Un altro documento che dovrebbe servire a mettere fine alla querelle sul numero degli infoibati nel periodo in questione è una nota inviata al capitano Miani dal federale dell’Istria Bilucaglia, nell’aprile 1945, che accompagnava 500 pratiche relative a risarcimenti destinati a parenti di persone uccise dai partigiani dall’8/9/43 fino allora. È quindi una stessa fonte ufficiale fascista a dichiarare che, ad aprile 1945, gli “infoibati” in Istria non erano stati più di 500, comprendendo in questo numero anche gli uccisi per fatti di guerra nei 18 mesi successivi al breve periodo di potere popolare nella zona di Pisino.
II fase: dopo il maggio 1945: le foibe come “contraltare” ai crimini di guerra italiani.
La propaganda sugli infoibamenti e sui crimini che sarebbero stati commessi dai liberatori ricominciò dopo la fine della guerra. In tutta Italia (come del resto negli altri paesi d’Europa che furono occupati dai nazifascisti) si verificarono delle rese dei conti contro chi aveva collaborato con il nemico invasore, però (pur in presenza di operazioni come la corposa produzione letteraria sui “crimini dei liberatori”, della quale Giampaolo Pansa è uno dei capiscuola) la propaganda oggi sembra concentrarsi per la maggior parte sugli avvenimenti del confine orientale.
III fase, anni ’90, grandi manovre.
All’inizio degli anni ‘90, dopo il crollo del muro di Berlino e l’asserita “fine del comunismo”, con il contemporaneo sfascio della Jugoslavia, anche la pubblicistica sulle foibe ha conquistato nuova linfa.
Fondamentale in questa operazione il ruolo del pordenonese Marco Pirina, che negli anni ‘60 e ‘70 era stato un attivista di estrema destra (quale rappresentante del Fronte Delta fu coinvolto nelle indagini sul tentato golpe Borghese, e poi prosciolto), che iniziò una serie di pubblicazioni sulle vicende del confine orientale, finalizzate a dimostrare la “barbarie” dei partigiani, la violenza dei “vincitori”, ma usando a questo scopo metodi poco ortodossi, come il moltiplicare la quantità di “infoibati” inserendo negli elenchi delle “vittime dei titini” anche moltissimi nominativi di persone che non erano state uccise dai partigiani.
Il dato è che solo una minima parte di coloro che morirono per mano partigiana durante e dopo la guerra furono effettivamente uccisi nelle foibe, mentre la maggior parte di coloro che persero la vita nel dopoguerra morirono nei campi di prigionia o dopo condanna a morte. Ma accettare a livello storicistico una tale definizione, che nell’immaginario collettivo ha sempre richiamato l’immagine di una morte terribile, significa soltanto voler perpetuare una generalizzazione mistificante che non fa certo un buon servizio alla realtà storica.
Punto finale, 2010: “colpire la memoria, riscrivere la storia”.
Sostanzialmente in tal modo viene lasciato ai propagandisti come Pirina di entrare nel merito concreto della questione (cioè i
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