Sulla guerra
1) Domenico Moro
2) Tommaso Di Francesco
3) Giorgio Cremaschi
4) Sergey Lavrov
=== 1 ===
"Intervento dell'Italia in Libia, come con Giolitti il punto è sempre la spartizione". Intervento di Domenico Moro
01/03/2016 Autore: Domenico Moro
È notizia recente che gli Usa appoggiano la candidatura italiana alla guida della missione militare occidentale in Libia, che gli stati maggiori delle maggiori potenze europee e degli Usa stanno pianificando. Si tratta di un ulteriore e forse decisivo passo verso l'intervento militare, che Renzi e il ministro della difesa Pinotti prospettarono già sull'onda dell'attacco a Charlie Hebdo un anno fa. Si parla, da parte dell’Italia, di un impegno notevole, tra i mille e i tremila uomini.
Corre l'obbligo di evidenziare come sia stato proprio l'intervento militare occidentale contro Gheddafi a creare l'attuale situazione di instabilità non solo in Libia ma, a cascata, anche in Tunisia e nell’Africa Sub-sahariana. È sempre l’intervento militare occidentale a disgregare egli stati preesistenti e ad aprire la strada ai signori della guerra e alle formazioni jihadiste in Libia, come così come in Siria e prima ancora in Iraq, spesso sostenute direttamente da alleati degli occidentali come l’Arabia Saudita e il Qatar. Nel 2011 furono i francesi a iniziare i bombardamenti senza l’autorizzazione dell’Onu, con l’ambizione, eliminando Gheddafi, di soppiantare l’Italia e le sue multinazionali (Eni, Finmeccanica, ecc.) nel controllo economico della Libia. Il governo italiano, che aveva un trattato di alleanza con Gheddafi risalente al 2008 e che aveva accolto a Roma il leader libico in pompa magna appena pochi mesi prima, finì per partecipare ai bombardamenti francesi insieme a Gran Bretagna e Usa, con l’intenzione di non farsi estromettere dalla spartizione successiva. Nel portare l’Italia all’interno della coalizione contro Gheddafi fu decisivo il ruolo dell’allora capo dello Stato, Napolitano.
Inoltre, vale la pena di ricordare, a più di cento anni di distanza dall'invasione giolittiana della Libia e a 90 anni dalla riconquista fascista, che l'Italia, potenza coloniale, diede luogo in Libia a una repressione sanguinosa contro la popolazione civile con la costruzione di veri e propri campi di concentramento e l'uso dell'arma aerea. Oggi, dietro la solita scusa della stabilizzazione e della lotta al terrorismo islamico riemergono anche in Italia chiare tendenze neocolonialiste. Al centro c'è sempre la spartizione imperialista occidentale delle ricchezze energetiche e dei mercati di investimento del Nord Africa, che viene sollecitata e accentuata dalla crisi strutturale delle economie avanzate ed europee in particolare.
A pagare saranno soprattutto le popolazioni dell'area, come sempre. Ma anche la maggioranza degli italiani pagherà un prezzo. Infatti, in tempi di tagli alla spesa sociale, il finanziamento di un apparato militare sempre più oneroso e delle missioni militari sembra non incontrare alcuna difficoltà. È da rilevare soprattutto il potenziamento della flotta (due portaerei e navi da sbarco, compreso un incrociatore di grandi dimensioni in costruzione), coerente con una tendenza interventista oltremare ormai consolidata. Senza contare le questioni inerenti alla sicurezza dei militari impegnati – in un’area dove proliferano milizie armate incontrollabili - e soprattutto del territorio nazionale che un intervento di questo tipo pone. Inoltre, la presenza sul terreno di soldati europei e soprattutto della ex potenza coloniale italiana aggraverà le tensioni già esistenti fra la popolazione e tra le fazioni politiche presenti sul terreno, fornendo ulteriori argomenti alle correnti jihadiste che stanno cercando di egemonizzare il mondo arabo.
In questo quadro appare, quindi, sempre più importante sostenere e sviluppare, nel modo più ampio possibile, le mobilitazioni per la pace e contro la guerra. Per farlo, però, è necessario andare oltre la condanna morale della guerra, pur necessaria e importante, facendo chiarezza sugli interessi economici in gioco e sulle responsabilità europee e italiane nel determinare la situazione in atto.
Corre l'obbligo di evidenziare come sia stato proprio l'intervento militare occidentale contro Gheddafi a creare l'attuale situazione di instabilità non solo in Libia ma, a cascata, anche in Tunisia e nell’Africa Sub-sahariana. È sempre l’intervento militare occidentale a disgregare egli stati preesistenti e ad aprire la strada ai signori della guerra e alle formazioni jihadiste in Libia, come così come in Siria e prima ancora in Iraq, spesso sostenute direttamente da alleati degli occidentali come l’Arabia Saudita e il Qatar. Nel 2011 furono i francesi a iniziare i bombardamenti senza l’autorizzazione dell’Onu, con l’ambizione, eliminando Gheddafi, di soppiantare l’Italia e le sue multinazionali (Eni, Finmeccanica, ecc.) nel controllo economico della Libia. Il governo italiano, che aveva un trattato di alleanza con Gheddafi risalente al 2008 e che aveva accolto a Roma il leader libico in pompa magna appena pochi mesi prima, finì per partecipare ai bombardamenti francesi insieme a Gran Bretagna e Usa, con l’intenzione di non farsi estromettere dalla spartizione successiva. Nel portare l’Italia all’interno della coalizione contro Gheddafi fu decisivo il ruolo dell’allora capo dello Stato, Napolitano.
Inoltre, vale la pena di ricordare, a più di cento anni di distanza dall'invasione giolittiana della Libia e a 90 anni dalla riconquista fascista, che l'Italia, potenza coloniale, diede luogo in Libia a una repressione sanguinosa contro la popolazione civile con la costruzione di veri e propri campi di concentramento e l'uso dell'arma aerea. Oggi, dietro la solita scusa della stabilizzazione e della lotta al terrorismo islamico riemergono anche in Italia chiare tendenze neocolonialiste. Al centro c'è sempre la spartizione imperialista occidentale delle ricchezze energetiche e dei mercati di investimento del Nord Africa, che viene sollecitata e accentuata dalla crisi strutturale delle economie avanzate ed europee in particolare.
A pagare saranno soprattutto le popolazioni dell'area, come sempre. Ma anche la maggioranza degli italiani pagherà un prezzo. Infatti, in tempi di tagli alla spesa sociale, il finanziamento di un apparato militare sempre più oneroso e delle missioni militari sembra non incontrare alcuna difficoltà. È da rilevare soprattutto il potenziamento della flotta (due portaerei e navi da sbarco, compreso un incrociatore di grandi dimensioni in costruzione), coerente con una tendenza interventista oltremare ormai consolidata. Senza contare le questioni inerenti alla sicurezza dei militari impegnati – in un’area dove proliferano milizie armate incontrollabili - e soprattutto del territorio nazionale che un intervento di questo tipo pone. Inoltre, la presenza sul terreno di soldati europei e soprattutto della ex potenza coloniale italiana aggraverà le tensioni già esistenti fra la popolazione e tra le fazioni politiche presenti sul terreno, fornendo ulteriori argomenti alle correnti jihadiste che stanno cercando di egemonizzare il mondo arabo.
In questo quadro appare, quindi, sempre più importante sostenere e sviluppare, nel modo più ampio possibile, le mobilitazioni per la pace e contro la guerra. Per farlo, però, è necessario andare oltre la condanna morale della guerra, pur necessaria e importante, facendo chiarezza sugli interessi economici in gioco e sulle responsabilità europee e italiane nel determinare la situazione in atto.
=== 2 ===
Sul precipizio
di Tommaso Di Francesco, su Il Manifesto del 2.3.2016
La guerra altro non è che seminagione d’odio. Nessuno dei conflitti proclamati dall’Occidente dal 1991 ad oggi — Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Libia, Siria — ha benché minimamente risolto i problemi sul campo, anzi li ha tragicamente aggravati.
Senza l’intervento in Iraq del 2003, ha confessato «scusandosi» lo stesso ex premier britannico Tony Blair, tanto caro al rottamatore Matteo Renzi, lo Stato islamico nemmeno esisterebbe. Gli «Amici della Siria», vale a dire tutto lo schieramento occidental-europeo più Arabia saudita e Turchia, hanno fatto l’impossibile per fare in tre anni in Siria quel che era riuscito in Libia, alimentando e finanziando milizie e riducendo il Paese ad un cumulo di macerie alla mercé di gruppi più o meno jihadisti e con così tanti errori commessi da permettere alla fine il coinvolgimento in armi e al tavolo negoziale perfino della Russia di Putin.
I rovesci in Libia tornano addirittura nelle elezioni statunitensi, con il New York Times che, con focus su Hillary Clinton [ http://www.nytimes.com/2016/02/28/us/politics/hillary-clinton-libya.html ], ricorda la posizione favorevole alla guerra di fronte ad un recalcitrante Obama. Senza dimenticare la tragedia americana dell’11 settembre 2012 a Bengasi.
Quando Chris Stevens, l’ex agente di collegamento con i jihadisti che abbatterono Gheddafi grazie ai raid della Nato, cadde in una trappola degli integralisti islamici già alleati e venne ucciso con tre uomini della Cia. Hillary Clinton, allora Segretario di Stato uscì di scena e venne dimissionato l’allora capo della Cia David Petraeus. Perché la guerra ci ritorna in casa. Avvitandosi nella spirale del terrorismo islamista.
Dalle «nostre» guerre fuggono milioni di esseri umani. Quando partirono i primi raid della Nato sulla Libia a fine marzo 2011, cominciò un esodo in massa di più di un milione e mezzo di persone, tante quelle di provenienza dall’Africa centrale che lavoravano in territorio libico, ne fu coinvolta la fragilissima e da poco conquistata democrazia in Tunisia. Quell’esodo, con quello da Iraq e Siria, prova disperatamente ogni giorno ad attraversare la barbarie dei muri della fortezza Europa.
Tutto questo è sotto la luce del sole. Come il fatto che l’alleato, il Sultano atlantico Erdogan, da noi ben pagato, preferisca massacrare i kurdi che combattono contro l’Isis piuttosto che tagliare gli affari e le retrovie con il Califfato.
Eppure siamo di nuovo in procinto di innescare un’altra guerra in Libia. Dopo che il capo del Pentagono Ashton Carter ha schierato l’Italia sostenendone la guida della coalizione contro l’Isis e per la sicurezza dei giacimenti petroliferi. Il ministro Gentiloni si dichiara «pronto». In altri tempi si sarebbe detto che un Paese dalle responsabilità coloniali non dovrebbe esser coinvolto. Adesso è motivo d’onore: siamo al neo-neocolonialismo.
Motiveremo questa avventura nel più ipocrita dei modi: sarà una «guerra agli scafisti». Sei mesi fa quando venne annunciata, Mister Pesc Mogherini mise le mani avanti ricordando, com’è facile immaginare, che ahimé ci sarebbero stati «effetti collaterali». Nasconderemo naturalmente il business e gli interessi strategici ed economici. Ormai siamo alla rincorsa della pacca sulle spalle Usa e delle forze speciali francesi, britanniche e americane già sul terreno.
L’Italia ha convocato nei giorni scorsi il suo Consiglio supremo di difesa e prepara l’impresa libica. Con un occhio all’Egitto sotto il tallone di Al Sisi, ora in ombra per l’assasinio di Giulio Regeni. C’è da temere che la giustizia sulla morte di Giulio Regeni venga ulteriormente ritardata e oltraggiata, e di nuovo silenziata la verità sul regime del Cairo, criminale quanto l’Isis. Perché l’Egitto — anche con i suoi silenzi? — resta fondamentale per la guerra in Libia: è la forza militare diretta o di supporto al generale Haftar, leader militare del governo e del parlamento di Tobruk che ancora ieri ha rimandato il suo assenso (che alla fine arriverà) ad un esecutivo libico «unitario». È una decisione formale utile solamente a richiedere l’intervento militare occidentale.
Perché la Libia resta spaccata almeno in tre parti, con Tripoli guidata da forze islamiste che temono che un intervento occidentale diventi un sostegno alle forze dello Stato islamico posizionate a Sabratha, Derna, Sirte, già impegnate nella propaganda anti-italiana prendendo senza vergogna in mano la bandiera e le gesta di Omar Al Muktar, l’eroe della resistenza al colonialismo fascista italiano.
Mancano pochi giorni al precipizio. Chi ha a cuore l’articolo 11 della Costituzione, chi è contro la guerra, una delle ragioni per ricostruire e legittimare lo spazio della sinistra, alzi adesso la voce.
Senza l’intervento in Iraq del 2003, ha confessato «scusandosi» lo stesso ex premier britannico Tony Blair, tanto caro al rottamatore Matteo Renzi, lo Stato islamico nemmeno esisterebbe. Gli «Amici della Siria», vale a dire tutto lo schieramento occidental-europeo più Arabia saudita e Turchia, hanno fatto l’impossibile per fare in tre anni in Siria quel che era riuscito in Libia, alimentando e finanziando milizie e riducendo il Paese ad un cumulo di macerie alla mercé di gruppi più o meno jihadisti e con così tanti errori commessi da permettere alla fine il coinvolgimento in armi e al tavolo negoziale perfino della Russia di Putin.
I rovesci in Libia tornano addirittura nelle elezioni statunitensi, con il New York Times che, con focus su Hillary Clinton [ http://www.nytimes.com/2016/02/28/us/politics/hillary-clinton-libya.html ], ricorda la posizione favorevole alla guerra di fronte ad un recalcitrante Obama. Senza dimenticare la tragedia americana dell’11 settembre 2012 a Bengasi.
Quando Chris Stevens, l’ex agente di collegamento con i jihadisti che abbatterono Gheddafi grazie ai raid della Nato, cadde in una trappola degli integralisti islamici già alleati e venne ucciso con tre uomini della Cia. Hillary Clinton, allora Segretario di Stato uscì di scena e venne dimissionato l’allora capo della Cia David Petraeus. Perché la guerra ci ritorna in casa. Avvitandosi nella spirale del terrorismo islamista.
Dalle «nostre» guerre fuggono milioni di esseri umani. Quando partirono i primi raid della Nato sulla Libia a fine marzo 2011, cominciò un esodo in massa di più di un milione e mezzo di persone, tante quelle di provenienza dall’Africa centrale che lavoravano in territorio libico, ne fu coinvolta la fragilissima e da poco conquistata democrazia in Tunisia. Quell’esodo, con quello da Iraq e Siria, prova disperatamente ogni giorno ad attraversare la barbarie dei muri della fortezza Europa.
Tutto questo è sotto la luce del sole. Come il fatto che l’alleato, il Sultano atlantico Erdogan, da noi ben pagato, preferisca massacrare i kurdi che combattono contro l’Isis piuttosto che tagliare gli affari e le retrovie con il Califfato.
Eppure siamo di nuovo in procinto di innescare un’altra guerra in Libia. Dopo che il capo del Pentagono Ashton Carter ha schierato l’Italia sostenendone la guida della coalizione contro l’Isis e per la sicurezza dei giacimenti petroliferi. Il ministro Gentiloni si dichiara «pronto». In altri tempi si sarebbe detto che un Paese dalle responsabilità coloniali non dovrebbe esser coinvolto. Adesso è motivo d’onore: siamo al neo-neocolonialismo.
Motiveremo questa avventura nel più ipocrita dei modi: sarà una «guerra agli scafisti». Sei mesi fa quando venne annunciata, Mister Pesc Mogherini mise le mani avanti ricordando, com’è facile immaginare, che ahimé ci sarebbero stati «effetti collaterali». Nasconderemo naturalmente il business e gli interessi strategici ed economici. Ormai siamo alla rincorsa della pacca sulle spalle Usa e delle forze speciali francesi, britanniche e americane già sul terreno.
L’Italia ha convocato nei giorni scorsi il suo Consiglio supremo di difesa e prepara l’impresa libica. Con un occhio all’Egitto sotto il tallone di Al Sisi, ora in ombra per l’assasinio di Giulio Regeni. C’è da temere che la giustizia sulla morte di Giulio Regeni venga ulteriormente ritardata e oltraggiata, e di nuovo silenziata la verità sul regime del Cairo, criminale quanto l’Isis. Perché l’Egitto — anche con i suoi silenzi? — resta fondamentale per la guerra in Libia: è la forza militare diretta o di supporto al generale Haftar, leader militare del governo e del parlamento di Tobruk che ancora ieri ha rimandato il suo assenso (che alla fine arriverà) ad un esecutivo libico «unitario». È una decisione formale utile solamente a richiedere l’intervento militare occidentale.
Perché la Libia resta spaccata almeno in tre parti, con Tripoli guidata da forze islamiste che temono che un intervento occidentale diventi un sostegno alle forze dello Stato islamico posizionate a Sabratha, Derna, Sirte, già impegnate nella propaganda anti-italiana prendendo senza vergogna in mano la bandiera e le gesta di Omar Al Muktar, l’eroe della resistenza al colonialismo fascista italiano.
Mancano pochi giorni al precipizio. Chi ha a cuore l’articolo 11 della Costituzione, chi è contro la guerra, una delle ragioni per ricostruire e legittimare lo spazio della sinistra, alzi adesso la voce.
=== 3 ===
Renzi e Mattarella ci precipitano nella guerra. violando ancora la Costituzione
di Giorgio Cremaschi, 3 Marzo 2016
Senza neanche un discorso dal balcone che annunci l'ora delle decisioni irrevocabili, Renzi ci ha fatto precipitare nella guerra di Libia.
Questa mattina i giornali annunciano che le truppe scelte sono pronte per partire, magari saranno già partite. Siamo già in guerra, senza neanche un dibattito ed un voto del parlamento, nel più totale disprezzo dell'Articolo 11 della Costituzione, che il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica violano sapendo di violare.
Le due più alte autorità delle stato e del governo sono colpevoli di atti gravissimi contro le nostre istituzioni e contro gli interessi e la stessa sicurezza del popolo italiano.
Questa mattina i giornali annunciano che le truppe scelte sono pronte per partire, magari saranno già partite. Siamo già in guerra, senza neanche un dibattito ed un voto del parlamento, nel più totale disprezzo dell'Articolo 11 della Costituzione, che il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica violano sapendo di violare.
Le due più alte autorità delle stato e del governo sono colpevoli di atti gravissimi contro le nostre istituzioni e contro gli interessi e la stessa sicurezza del popolo italiano.
La guerra in Libia avviene con accordo tra potenze senza alcun aggancio di principio, anche ipocrita, al diritto internazionale.
La guerra in Libia prosegue e aggrava tutte le passate violazioni costituzionali delle nostre missioni militari all'estero, è la più grave e la più sfacciata di tutte.
La guerra di Libia è un'avventura ancora più folle e catastrofica di quella del 2011, che oggi tutti riconoscono essere stato un disastro.
Che mostruosità scatenerà ora questa nuova impresa condotta nel nome della guerra al terrorismo e che invece produrrà ancora più terrorismo? Già ora sentiamo parlare di partite a porte a chiuse per i prossimi europei di calcio a Parigi. Ci vuole la violazione del sacro rito del pallone per farci accorgere che si sta violando tutto? E soprattutto per farci capire che rischiamo per questa guerra di pagare costi altissimi, che rischiamo gli atti guerra in casa nostra.
25 anni fa con le bombe sull'Iraq gli USA, la NATO, l'Italia iniziavano la guerra al terrorismo. Dopo un quarto di secolo ci siamo portati il conflitto alle porte di casa. Perché le guerra è terrorismo che alimenta terrorismo. La guerra è una discesa grado dopo grado verso la catastrofe globale, come annuncia l'installazione di nuove bombe nucleari a Ghedi e ad Aviano.
Renzi e Mattarella ci trascinano in guerra con la solita infingarda furbizia mista a servilismo delle peggiori classi dirigenti italiane. Il governo USA ci ha investito del comando dell'impresa, i due ne sono fieri e sperano di ottenere guadagni di prestigio, potere, affari con poca spesa. Noi pagheremo il conto.
Come nei peggiori momenti della storia del nostro paese, l'Italia è trascinata in guerra mentre un'opinione pubblica anestetizzata e ingannata assiste passiva all'arroganza del potere guerrafondaio.
Contrastare, boicottare, sabotare la guerra e la NATO è oggi il nostro primo dovere democratico e costituzionale.
La guerra in Libia prosegue e aggrava tutte le passate violazioni costituzionali delle nostre missioni militari all'estero, è la più grave e la più sfacciata di tutte.
La guerra di Libia è un'avventura ancora più folle e catastrofica di quella del 2011, che oggi tutti riconoscono essere stato un disastro.
Che mostruosità scatenerà ora questa nuova impresa condotta nel nome della guerra al terrorismo e che invece produrrà ancora più terrorismo? Già ora sentiamo parlare di partite a porte a chiuse per i prossimi europei di calcio a Parigi. Ci vuole la violazione del sacro rito del pallone per farci accorgere che si sta violando tutto? E soprattutto per farci capire che rischiamo per questa guerra di pagare costi altissimi, che rischiamo gli atti guerra in casa nostra.
25 anni fa con le bombe sull'Iraq gli USA, la NATO, l'Italia iniziavano la guerra al terrorismo. Dopo un quarto di secolo ci siamo portati il conflitto alle porte di casa. Perché le guerra è terrorismo che alimenta terrorismo. La guerra è una discesa grado dopo grado verso la catastrofe globale, come annuncia l'installazione di nuove bombe nucleari a Ghedi e ad Aviano.
Renzi e Mattarella ci trascinano in guerra con la solita infingarda furbizia mista a servilismo delle peggiori classi dirigenti italiane. Il governo USA ci ha investito del comando dell'impresa, i due ne sono fieri e sperano di ottenere guadagni di prestigio, potere, affari con poca spesa. Noi pagheremo il conto.
Come nei peggiori momenti della storia del nostro paese, l'Italia è trascinata in guerra mentre un'opinione pubblica anestetizzata e ingannata assiste passiva all'arroganza del potere guerrafondaio.
Contrastare, boicottare, sabotare la guerra e la NATO è oggi il nostro primo dovere democratico e costituzionale.
=== 4 ===
Lavrov: Le accuse contro la Russia crollano al ricordo della Jugoslavia, dell'Iraq e della Libia
RT, 03/03/2016
Il Ministro degli Esteri russo ha ricordato che l'unica via per ottenere soluzioni ai problemi globali è quella pacifica.
"Si sta mettendo in atto una vasta gamma di metodi di pressione, sanzioni economiche o addirittura un intervento militare," ha scritto il capo della diplomazia russa in un suo articolo "Prospettive storiche della politica estera russa" per la rivista" La Russia nella politica globale'.
"Loro stanno conducendo guerre di informazione su larga scala. Hanno costruito cambiamenti di regime in maniera incostituzionale attraverso le 'rivoluzioni colorate' che si rivelano essere devastante per i popoli che subiscono gli effetti", ha scritto il diplomatico russo.
Egli ha sottolineato a questo proposito che la posizione della Russia "si basa su evoluzioni che preferiscono apportare modifiche in modi e con velocità che corrispondono alle tradizioni ed al livello di sviluppo di ogni società".
Ha rimarcato che le accuse di "revisionismo" contro la Russia dalla macchina della propaganda occidentale, secondo il quale "avrebbe cercato di distruggere il sistema internazionale esistente."
"Come se fossimo quelli che hanno bombardato la Jugoslavia nel 1999 in violazione della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione di Helsinki, come se fosse stata la Russia a deridere gli standard internazionali per invadere l'Iraq nel 2003 o che abbia manipolato una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Nazioni Unite per rovesciare con la forza Muammar Gheddafi in Libia nel 2011. E questi non sono gli unici esempi", ha sottolineato Lavrov.
"La Russia non sta combattendo nessuno, ma risolve i problemi sulla base dell'uguaglianza"
Secondo il ministro, una soluzione duratura ai problemi globali oggi è possibile solo attraverso la cooperazione sincera dei paesi leader, nell'interesse di obiettivi comuni, tenendo conto del mondo policromo, della sua diversità culturale e degli interessi dei componenti di base della comunità internazionale.
"Come dimostrato nella pratica, quando questi criteri sono attuati i risultati concreti essenziali vengono raggiunti", ha spiegato Lavrov.
Come esempio ha citato il coordinamento delle condizioni per la cessazione delle ostilità in Siria, accordo sul nucleare con l'Iran, l'eliminazione degli arsenali chimici in Siria, e lo sviluppo dei parametri di base per un accordo globale sul clima.
"Questo indica la necessità di ripristinare la cultura del consenso, sostegno del lavoro diplomatico, che pur essendo difficile o faticoso rimane l'unico modo per garantire mezzi pacifici e le soluzioni reciprocamente accettabili ai problemi", ha ribadito Lavrov.
"Questi approcci sono condivisi dalla maggior parte dei paesi, tra cui la Cina e gli altri membri del BRICS, SCO, i nostri amici dell 'Unione economica eurasiatica, l'Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva e la Comunità degli Stati indipendenti", ha aggiunto.
"In altre parole, la Russia non sta combattendo nessuno, ma risolve i problemi sulla base di uguaglianza e di rispetto reciproco, l'unica base affidabile per sanare le relazioni internazionali a lungo termine", ha proseguito il ministro russo.
Secondo Lavrov, il modo migliore per assicurare che essi prendano in considerazione gli interessi dei popoli del continente è quello di creare uno spazio economico e umanitario comune dall'Atlantico al Pacifico, che per l'Unione economica eurasiatica di recente formazione è un elemento integrante tra l'Europa e il bacino del Pacifico.
"Come dimostrato nella pratica, quando questi criteri sono attuati i risultati concreti essenziali vengono raggiunti", ha spiegato Lavrov.
Come esempio ha citato il coordinamento delle condizioni per la cessazione delle ostilità in Siria, accordo sul nucleare con l'Iran, l'eliminazione degli arsenali chimici in Siria, e lo sviluppo dei parametri di base per un accordo globale sul clima.
"Questo indica la necessità di ripristinare la cultura del consenso, sostegno del lavoro diplomatico, che pur essendo difficile o faticoso rimane l'unico modo per garantire mezzi pacifici e le soluzioni reciprocamente accettabili ai problemi", ha ribadito Lavrov.
"Questi approcci sono condivisi dalla maggior parte dei paesi, tra cui la Cina e gli altri membri del BRICS, SCO, i nostri amici dell 'Unione economica eurasiatica, l'Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva e la Comunità degli Stati indipendenti", ha aggiunto.
"In altre parole, la Russia non sta combattendo nessuno, ma risolve i problemi sulla base di uguaglianza e di rispetto reciproco, l'unica base affidabile per sanare le relazioni internazionali a lungo termine", ha proseguito il ministro russo.
Secondo Lavrov, il modo migliore per assicurare che essi prendano in considerazione gli interessi dei popoli del continente è quello di creare uno spazio economico e umanitario comune dall'Atlantico al Pacifico, che per l'Unione economica eurasiatica di recente formazione è un elemento integrante tra l'Europa e il bacino del Pacifico.