Belgrado 1999, un calcio alla guerra
Il 7 aprile 1999, durante i bombardamenti Nato, a Belgrado si giocò un'amichevole contro la guerra tra Partizan e Aek Atene
La sveglia è all’alba. La squadra si raduna e insieme si va all’aeroporto di Atene-Eleftherios Venizelos. I sorrisi a favore di telecamera e gli sguardi solo all’apparenza distesi nascondono un’ingente carica di tensione. Alle porte per i giocatori dell’Aek Atene non c’è una partita di cartello, né un’importante sfida europea che deciderà la stagione dei gialloneri. Anzi, il campionato in Grecia è fermo per la Pasqua ortodossa, di solito un’occasione che i giocatori sfruttano per stare con le proprie famiglie, per staccare la spina per qualche giorno. Ma la posta in palio questa volta è troppo alta per restare a casa, e così, quando ai giocatori è stato chiesto di partire, nessuno si è tirato indietro. Insieme a loro si metteranno in viaggio anche i dirigenti del club e una folta rappresentanza del tifo organizzato, che ha deciso di seguire la squadra in una partita dall’immenso valore simbolico. Ci siamo. Belgrado, stiamo arrivando.
Non sarà un viaggio di piacere, e non sarà facile arrivare in Jugoslavia. Il volo da Atene atterrerà a Budapest, con il viaggio che proseguirà riscendendo in pullman verso sud, attraverso il confine che divide l’Ungheria dalla Vojvodina. È l’unico modo, il più sicuro, per entrare in Jugoslavia. Perchè oggi è il 7 aprile 1999, il quattordicesimo giorno da quando, lo scorso 24 marzo, la Nato ha iniziato i bombardamenti sull’intero territorio della Repubblica Federale di Jugoslavia. Neanche Novi Sad, che della Vojvodina è il centro principale, è stata risparmiata dalle bombe. Ed è strano, perchè la città, distante quasi 100 chilometri da Belgrado e circa 500 dal Kosovo, ha sempre mantenuto intatto il suo carattere multiculturale, terra di frontiera e confronto tra la comunità serba e quella ungherese. E poi, se vogliamo dirla tutta, è gestita da una delle amministrazioni locali più ostili all’establishment del presidente jugoslavo Slobodan Milosevic.
Quattro raid, ai quali presto ne seguiranno altri, in pochi giorni hanno devastato le principali infrastrutture della città che ha dato i natali a Vujadin Boskov, all’epoca allenatore del Perugia. È stato lo stesso Boskov, in un colloquio telefonico con Miodrag Lekic, l’ambasciatore jugolavo in Italia, a comunicare l’intenzione di continuare a giocare, manifestata dai giocatori jugoslavi impegnati in Serie A. Alla fine, l’idea di rifiutarsi di scendere in campo nei Paesi membri della Nato, avanzata tra gli altri da Savicevic – che da gennaio è tornato a giocare nella Stella Rossa – e Mihajlovic, non è stata ritenuta realistica. Sono professionisti legati al proprio club da regolare contratto. Giocheranno si, ma non perderanno occasione di manifestare il proprio dissenso verso questa guerra assurda.
Un bersaglio disegnato, una scritta, un’intervista che esplicitamente metta l’opinione pubblica a conoscenza di quanto siano illegali e immorali quelle bombe che dalla notte del 24 marzo cadono incessantemente sulla Jugoslavia. Affinché tutti possano avere anche solo la minima percezione di cosa significhi ritrovarsi a convivere con il terrore. Di cosa significhi avere la quotidianità violentata dagli urli delle sirene, dall’ansia, dalle corse nei rifugi o negli scantinati dei palazzi. Una volta, poi un’altra e un’altra ancora. Giorno dopo giorno.
Per questo l’Aek Atene ha deciso di sfidare l’embargo e recarsi a Belgrado per giocare un’amichevole contro il Partizan, il cui ricavato andrà per intero alle associazioni umanitarie jugoslave. Il tratto in pullman, l’ultima tappa del viaggio, non è privo di tensione. Il giorno prima la Nato ha scatenato uno dei bombardamenti più duri dall’inizio dell’aggressione militare, colpendo, nella notte tra il 5 e il 6 aprile il quartiere operaio della città di Aleksinac, mentre da poche ore è arrivata la notizia secondo cui l’Alleanza ha rifiutato il “cessate il fuoco” proposto da Belgrado.
Con uno stato d’animo difficilmente immaginabile, la carovana proveniente da Atene entra finalmente in città, accolta dagli edifici anneriti e dalle macerie del palazzo che ospita il Ministero degli Interni a Kneza Milosa, colpito nella notte tra il 2 e il 3 aprile, con le fiamme che si sono estese danneggiando anche il vicino ospedale psichiatrico “Laza Lazarevic” e l’unità di ostetricia e psicologia. Lo Stadion Partizan, quel giorno, è probabilmente l’unico luogo di Belgrado in cui regna una seppur superficiale ed effimera serenità. Le tribune sono piene, bandiere greche e jugoslave si mescolano con gli striscioni del Partizan e dell’Aek, unite da quei bersagli che ormai tutto il mondo ha imparato a conoscere.
Sono i simboli di un’opposizione internazionale alla guerra, gli stessi che atleti sparsi in tutto il mondo indossano ogni domenica sotto le magliette, gli stessi che la gente comune espone notte dopo notte, quando sceglie di aspettare sui ponti di Belgrado l’arrivo dei caccia bombardieri della Nato. Dai ponti allo stadio, la paura è forte, ma la voglia di contrastare la guerra lo è di più. Così il tabellone luminoso, inquadrato dalla tv jugoslava, ripete il messaggio a chiare lettere prima della partita, «Stop the war, stop the bombing», trovando l’eco da parte dello striscione che i giocatori di entrambe le squadre srotolano in campo.
La partita finisce 1-1, ma il risultato è di certo la parte meno interessante della giornata. È più importante sapere che la partita non termina al 90′, perchè a undici minuti dall’inizio della ripresa l’arbitrio fischia tre volte, permettendo ai tifosi di entrambe le squadre di correre in campo. Un’invasione, questa sì, pacifica, un abbraccio collettivo in quel valzer di bandiere che per un pomeriggio ha colorato Belgrado. Ma il momento scelto per interrompere la partita non è casuale, lo sanno tutti, in campo come sugli spalti.
Vorremmo far dipendere la decisione da una chiara scelta in favore della solidarietà, ma non è così. All’undicesimo della ripresa la partita viene interrotta per permettere agli ospiti di rimettersi in viaggio e lasciare la Jugoslavia con la luce del giorno. Perchè poi, appena la notte tornerà ad occupare il suo posto nel cielo, torneranno loro. I boati assordanti, le sirene e i loro canti di morte. Stasera su Belgrado tornerà la guerra.
A Milica Rakic