Gli fecero una spiata: i fascisti, di notte, sopra il tetto... Levarono un pezzo di tetto e buttarono giù le bombe a mano.Secondo Adelio Fiore (Fiore 2004 p.77) alcuni giovani prigionieri tedeschi erano apparsi innocui e dunque erano stati rilasciati dai partigiani, "ma purtroppo tornarono ben presto con i loro commilitoni e uccisero quattro partigiani in uno spietato attacco alla Romita nei pressi di Forcella (monte Cavallo), zona dove operava il battaglione 'Angelo Morlupo'" della Bgt. "Garibaldi".
i partigiani avevano urgente necessità di tirare il fiato. I responsabili della Brigata [Garibaldi] presero contatto con i comandi delle SS e dei fascisti di Perugia facendo loro capire che i partigiani erano stanchi della guerra e disposti ad accettare un dignitoso compromesso. Il Comando tedesco fece ponti d'oro (i fascisti si limitarono ad eseguire le disposizioni che da questo vennero impartite); fino al 24 maggio sarebbe stata sospesa ogni ostilità contro i partigiani che, entro tale termine, avrebbero dovuto consegnare le armi e rientrare nelle loro famiglie. A tutti era assicurata l'impunità. La proposta fu accettata e i responsabili dei vari battaglioni e distaccamenti furono muniti di lasciapassare tedeschi per potersi muovere liberamente ed indirizzare i loro uomini verso Scanzano [Foligno] dove era stato istituito un centro di raccolta per ospitare duemila (!) partigiani. La Brigata era composta di poche centinaia di uomini; la stima della loro forza fatta dai tedeschi non poteva che riempirli di soddisfazione.Nella Relazione ufficiale della Bgt. "Garibaldi" (Foligno 1944b) è spiegato che
La tregua fu, per la verità, rispettata da ambo le parti; il triste episodio della "Romita di Monte Cavallo" dove trovarono la morte quattro partigiani [...] quando i tedeschi attaccarono un raggruppamento di partigiani che si trovava in quella zona, fu probabilmente da attribuirsi a mancanza di notizie circa la tregua raggiunta. (Arcamone 1972, pp.278-279)
mentre un nostro battaglione attendeva nella zona di Forcella [sede per un periodo dello stesso Comando della Brigata] il risultato degli accordi che il nostro comando stava prendendo con i fascisti, una formazione tedesca partiva da Visso e iniziava nella zona suddetta un'azione di rastrellamento. Due dei nostri ufficiali che si trovavano sul posto insieme ad un capitano dell'esercito repubblicano, prendevano immediatamente contatto con il capo della formazione tedesca ed addivenivano ad un accordo, secondo il quale il rastrellamento doveva essere fermato. Mentre i tedeschi si accingevano a partire, una seconda formazione tedesca proveniente da Sellano [...] accompagnata da un certo Giuseppe, dello stesso paese [il delatore?], si avviava in località "Romita di Montecavallo" dove trovavasi un presidio di patrioti italiani e slavi. Protetti dalla nebbia, i tedeschi riuscivano, senza essere avvistati dalle sentinelle, a portarsi in posizione vantaggiosa di attacco e con improvvise scariche di fucileria e lancio di bombe a mano a sorprendere il presidio. I nostri reagivano decisamente e dopo breve, violentissimo combattimento, riuscivano col lancio di bombe a mano, ad aprirsi un varco. Perdite nemiche un morto, perdite dei patrioti quattro morti (Mascioli Alberto, Mascioli [recte: Meloni] Carlo, un ferrarese [Gaiani?] ed uno slavo), sette feriti (Lupini [recte: Lupidi] Alfio, Gatti Walter, Spinelli Mimmo, Binago Antonio, un paracadutista, ed i fratelli Milan e Boris [sic] Jovicevic [Jovićević]). I feriti, trasportati con il permesso delle autorità di allora all'ospedale civile di Belfiore [Foligno, in effetti adiacente a Scanzano... forse trattasi dello stesso luogo individuato in base agli accordi di tregua], venivano dopo qualche giorno ripresi da noi, che ritenevamo ormai terminato il periodo degli accordi. Trasportati in montagna venivano curati dall'infermiere della brigata.Nella versione della stessa relazione conservata in archivio (Foligno 1944) si legge di "uno slavo" caduto con altri tre morti italiani e i feriti Alfio Lupidi, "Jiovicevic Milan" e un Boris.
Una compagnia di partigiani del battaglione "Tito", al comando di Boris Mečikukić, si trovava a passare su una cima del Monte Cavallo [...] videro dei rifugi nell'unica chiesetta presente; i partigiani, stanchi, si misero a dormire, mentre Boris con il suo commissario Melloni [recte: Meloni] preparava piani per azioni future contro i nemici. Il loro colloquio venne interrotto da un grido di spavento della sentinella: "I tedeschi!". I partigiani vennero sorpresi sotto le coperte nella chiesa fredda e già erano assediati da ogni parte. Sulla porta della chiesa apparve un ufficiale tedesco: "Arrendetevi!" gridò, sicuro di prenderli prigionieri senza combattimenti.Il Boris ferito non era dunque un "fratello" di Milan Jovićević, bensì Borislav “Boro” Mečikukić, ex internato a Pissignano e comandante della formazione; il quale racconterà dettagliatamente l'episodio nel 1974 a un giornalista della rivista degli italiani di Jugoslavia Panorama:
Boris, Meloni e Matić subito impugnarono le armi automatiche, ma purtroppo le bombe lanciate nello stesso momento uccisero il commissario e lo jugoslavo Matić. Il comandante Boris, ferito gravemente, fece un balzo su un lato e con il fucile mitragliatore fece partire una raffica verso la porta. Fra i 45 partigiani, 38 erano jugoslavi [sic], per tutta la notte rimasero [erano rimasti?] svegli e verso l'alba arrivarono [erano arrivati?] a questa chiesa. Erano stanchi ed affaticati sotto lo zaino, tiravano a stento il fiato. Non si capiva cosa stesse succedendo, il che alla maggiorparte di loro procurava confusione. Venivano colpiti da bombe o da proiettili, si trovavano in un cerchio strettissimo. Benché feriti, i partigiani uscirono dal tetto della chiesa [che infatti è addossata sul retro al terreno in salita; i buchi nel tetto sono evidentemente dovuti alle bombe] e con perizia si batterono coi tedeschi. Prima di andar via, i tedeschi gettarono dentro alcune bombe, ma (...) dovettero fuggire perché avevano un buon numero di morti e feriti. Dei partigiani ne rimasero feriti diciotto e due compagni [oltre ai due già menzionati] persero la vita.
Il comandante Boris, gravemente ferito, incominciò a perdere forza e lo trasportarono fino al villaggio di Riofreddo, con l'italiano ferito (...) e Ilija Vujičić.
Boro porta tutt'oggi in corpo una vera manciata di ferro, tra proiettili e schegge, disseminati un po' dappertutto ed il fatto che sia vivo lo deve ad una serie di circostanze che hanno addirittura dell'incredibile. [...] Cominciò anche a tenere un diario che poi perse in un conflitto, nella chiesetta di Romita, dal quale uscì vivo quasi inspiegabilmente. [...] «Io ero stato nominato vicecomandante della brigata [recte: battaglione "Angelo Morlupo"], comandante era Franco Lupidi e comandante della divisione [recte: brigata "Garibaldi" di Foligno] il tenente Cantarelli. Ciò durò poco. La colpa fu di Radio Londra, la quale annunciò che i tedeschi e i fascisti preparavano una grande offensiva contro i partigiani e che pertanto avremmo fatto bene a trovare rifugio a piccoli gruppi nelle varie case coloniche o comunque rimanere nascosti fino a che il pericolo non fosse cessato. Noi Jugoslavi riuscimmo a raggiungere la zona di Macerata, passando attraverso il territorio controllato dal nemico. Gli italiani che si muovevano in formazioni più massicce furono facile bersaglio dei tedeschi che decimarono le loro file.Si tratta di una grotta presso Pantaneto. E' Felice Cecoli, padre del futuro Sindaco del paese, Pietro, a portare latte di capra e ad indirizzare il medico alla grotta (Cecoli 2016).
I tedeschi si accorsero ben presto che eravamo riusciti a fargliela in barba e ci invitarono a negoziare. Il comando del fronte tedesco, che aveva già molti grattacapi nell'arginare l'avanzata degli Alleati, tentò di assicurarsi almeno le retrovie così che un giorno ci giunse una lettera pressappoco del seguente contenuto: '1. Riconosciamo il vostro status di combattenti per i vostri ideali. 2. Accettiamo di rispettare la vostra presenza in un raggio di 100 chilometri, dove potrete stare al sicuro e potrete anche tenervi le armi a patto di non partecipare alle azioni dei partigiani italiani ai nostri danni.' E così via di questo tenore. Naturalmente ignorammo quel loro messaggio. I tedeschi ritentarono nuovamente, meravigliandosi di non aver ricevuto alcuna risposta dal nostro comando.
Fu allora che ci ritirammo sul monte Cavallo, elevando a sede una chiesetta abbandonata, quella di Romita. Le nostre forze a quel tempo erano esigue: 29 montenegrini, un dalmata e sette italiani. Pensavamo di essere al sicuro in quel posto ma per ogni buon conto ponemmo delle sentinelle nei punti strategici. Io stavo male.
Non ho mai saputo come i tedeschi riuscirono a scoprire le nostre tracce, sta di fatto che piombarono in 400 sui nostri avamposti liquidandoli senza sparare un solo colpo.
Io cercavo di rimettermi in forze e mi ero coricato su un letto di ferro che doveva essere servito da giaciglio ai frati. D'un tratto udii un grido; era una nostra sentinella: «l tedeschi!» Saltai dal letto e in quello stesso istante un ufficiale nazista seguito da diversi soldati spalancava la porta della cella. Sentii l'ordine di deporre le armi che avremmo avuto salva la vita. Mi guardai attorno: alla mia destra un italiano, un barbiere e alla sinistra Dušan Matić, il dalmata. Sparai sull'ufficiale, ma quello non cadde. Allora presero a crepitare i mitra. I miei due compagni caddero in un lago di sangue e anch'io sentii il caldo del ferro che mi attraversava la carne; poi mi gettai da un lato. Una cella di monastero è piccola, non c'era dove scappare: udii anche l'esplosione di due bombe a mano. Un vero inferno di fuoco; mi sentii ancora colpito con gli abiti a brandelli ma con la sensazione di essere vivo. La confusione era enorme. Sparando mi trovai all'altezza dell'altare maggiore della chiesa dove i miei si erano trincerati. Raffiche di mitra e bombe a mano facevano un rumore infernale. Delle bombe vennero lanciate dai tedeschi anche dal tetto della chiesa, ma colpivano la spessa pietra dell'altare che ci faceva egregiamente da scudo. Ricordo che uno dei nostri gettò una bomba verso la finestra senza accorgersi che era protetta da una fitta inferiata, così che questa ci ricadde quasi addosso, ma per fortuna non esplose ... ».
Boro tutto sanguinante continuava a dare ordini ai sopravvissuti che organizzavano una difesa: ma erano una trentina contro circa 400 tedeschi. Ha veramente dell'inverosimile che degli uomini siano riusciti a passare attraverso quell'inferno di fuoco, eppure Ilija Vujičić, Vojo Ivanović e Mujo Petanović narrarono in seguito nei particolari quella straordinaria battaglia e descrissero l'eroismo di Boro Mečikukić, anche se lui dirà in seguito che tutto il merito spetta agli altri e che senza di essi non sarebbe mai riuscito ad uscire vivo dalla terribile mischia.
«Chiedo tre bombe - dice Boro - afferro un mitra e tra le raffiche e le esplosioni delle bombe mi faccio strada tra i tedeschi gridando ai miei: «Chi è in grado di farcela mi segua e sparate!»
Dapprima la manovra non riuscì, poi ricordo che mi trovai lanciato in discesa verso una valle: avevo rotto il cerchio dei tedeschi, altri miei compagni riuscirono a fare altrettanto da altre posizioni. Corro quanto posso con addosso soltanto brandelli di vestiario che mano a mano getto via così che ad un certo punto mi trovo totalmente nudo: i colpi ricevuti mi avevano letteralmente spogliato, ma ho sempre l'arma in mano. E' freddo e piove. Cerco un sito asciutto. D'un tratto sento dei lamenti, mi avvicino e scorgo un partigiano italiano, certo Edo che giace a terra ferito, poi dei passi nella boscaglia e improvvisamente mi si fa davanti Ilija Vujičić.
«Sei vivo?» - esclama, non credendo ai suoi occhi. Si toglie il cappotto che ha addosso e mi copre. Riusciamo a far perdere le nostre tracce. Arriviamo da un medico che fa del suo meglio per tamponare le mie ferite, poi mi nascondono in un mulino.
Arrivano altri partigiani che hanno avuto sentore della battaglia e sanno che anche i tedeschi si interessano della fine che avevo fatto. Poi Vlado Vujović e Gojko Davidović mi sistemano in una grotta ben riparata, alla quale può accedere il medico, che ordina che devo assolutamente essere trasportato al caldo in qualche casa.» (Dujović 1974b)
«Viene trovata la casa e un letto asciutto. Finalmente posso contare le ferite: sono molte, veramente tante e la più dolorosa quella nella spina dorsale. Eppure sopravvivo e mi avvio alla guarigione. E così anche oggi porto sempre in me quei pezzi di ferro e di acciaio. Li ho ancora e li avrò fintanto che vivrò ...» (Dujović 1974b)[...] «Se ne stanno lì dove sono, buoni buoni, anche se fanno soffrire, ma guai toccarli.» «E ce ne sono molti?» «Direi una ventina. Ai raggi si vedono bene. Ce n'è di tutti i tipi. Ma il peggiore di tutti è quello piantato nella spina dorsale, tra due vertebre ... Bisogna lasciarli dormire in pace ... » (Dujović 1974a). “Boro” Mečikukić è morto nel suo Montenegro, molto anziano, appena nel 2011.
La salita al Monte dalla località di Collattoni è una facile escursione della durata di circa due ore, tuttavia la breve deviazione per la Romita può sfuggire facilmente poiché in loco non è apposta alcuna segnaletica. L'antico Eremo è effettivamente in avanzato stato di distruzione. Tutti gli ambienti sono privi di copertura e in gran parte ricoperti di detriti; l'antica chiesa non è accessibile a causa della porta sprangata, mentre in una delle sale dove devono aver dormito i partigiani, nei pressi di un camino, giace a terra la lapide in frantumi ma ricomposta. Dopo averle restituito sommariamente la leggibilità, abbiamo effettuato alcune riprese audiovisive.Nel dicembre 2015 il Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia ONLUS e l'A.N.P.I. Sezione di Foligno (PG), sulla scorta della documentazione reperita e qui presentata e dei risultati della escursione effettuata in loco, hanno presentato una formale proposta di intervento al Comune di Monte Cavallo (MC) finalizzata (a) al ripristino della lapide e sua ricollocazione in posizione evidente al centro dell'abitato di Monte Cavallo (b) alla apposizione di segnaletica sul sentiero e presso la Romita, che consenta la visita consapevole da parte degli amanti del territorio e della sua storia e di tutti gli antifascisti interessati a sconfiggere l'oblio.
6 settembre 2015: La lapide viene resa nuovamente leggibile – DETTAGLIO |
6 settembre 2015: Andrea Martocchia e Pietro Benedetti ritratti nell'ambiente ove è depositata la lapide |
6 settembre 2015: Pietro Benedetti e Andrea Martocchia di fronte ai ruderi della Romita di Monte Cavallo |
31 maggio 2016: nuova visita ai ruderi della Romita di Monte Cavallo |
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settembre 2023
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